Gatto alla Casa del Jazz: secondo ciclo di incontri per “L’altra metà del Jazz”

Com’era facilmente prevedibile, visto l’ottimo risultato del primo ciclo, il nostro direttore Gerlando Gatto il 13 febbraio torna alla Casa del Jazz di Roma con “L’altra metà del Jazz”, cinque ulteriori serate da lui ideate e condotte.   Il format è sempre lo stesso: ogni martedì sera interviste a due musiciste jazz, una che ha raggiunto un livello di fama ormai consolidato e un astro nascente ancora non così conosciuto.
Scopo di questo ciclo, come dichiarato dallo stesso Gatto, è quello di dare, da una parte un contributo, per quanto minimo, all’abbattimento delle barriere di genere all’interno del sistema jazzistico, e dall’altra di offrire un trampolino di lancio ad alcune giovani musiciste talentuose, ma non ancora note al grande pubblico.
E veniamo al calendario di questo secondo ciclo.

Martedì 13 febbraio Cinzia Gizzi e Noemi Nuti
Cinzia Gizzi pianista, compositrice, arrangiatrice, ha iniziato lo studio del pianoforte classico all’età di otto anni. Si avvicina al jazz durante gli anni di università, quando si trasferisce da Pescara, sua città natia, a Roma. Qui suona per lungo tempo nei jazz club avendo l’opportunità di accompagnare moltissimi musicisti italiani e americani. Nell’anno accademico 1995-96 ricopre la cattedra di “Jazz” presso il Conservatorio di Reggio Calabria.
Noemi Nuti. Nata e cresciuta a New York fino all’età di otto anni, inizia il suo viaggio musicale da bambina studiando l’arpa celtica in Italia per poi conseguire una laurea in arpa classica presso la Brunel University a Londra.  Nel 2012 si diploma con un master in jazz al “Trinity College of Music” di Londra. Il suo album di debutto “Nice to Meet You” (2015) è stato prodotto dal trombettista Quentin Collins. (ingresso 5€ online su ticketone)

Martedì 20 febbraio Susanna Stivali e Chiara Viola

Susanna Stivali. Studia pianoforte, canto classico e jazz, perfezionandosi con Bob Stoloff e Murk Murphy; si specializza presso il Berklee College of Music di Boston. Affianca ad una intensa attività concertistica, quella di docente di canto jazz presso alcuni Conservatori. Particolarmente interessata alle collaborazioni con musicisti della nuova scena brasiliana.
Chiara Viola. Nata a Roma, si avvicina alla musica dopo aver visto “Sister Act”. Così studia dapprima chitarra classica e poi canto jazz al Conservatorio di Santa Cecilia. Nel 2019 la prima realizzazione discografica, dopo di che si trasferisce a Parigi dove attualmente vive e lavora. (ingresso 5€ online su ticketone)

Martedì 27 febbraio  Sara Jane Ceccarelli e Veronica Parrilla

Sara Jane Ceccarelli. Italo canadese nasce a Gubbio ma vive a Roma. A 3 anni comincia a studiare pianoforte classico; a 16 anni canta e si diploma al Corso Jazz del Conservatorio Santa Cecilia. Si esibisce con il fratello chitarrista Paolo. Nel 2012 inizia il suo percorso di studio e interpretazione di musica proveniente dalle culture più diverse: canta nelle lingue originali (più di dieci) ampliando così il suo straordinario repertorio.
Veronica Parrilla. Nasce a Cirò Marina e consegue il diploma accademico di I Livello in Canto Jazz presso il Conservatorio “F. Torrefranca” di Vibo Valentia e il diploma accademico di II Livello in Canto Jazz presso il Conservatorio “A. Corelli” di Messina. Attualmente prosegue il triennio accademico in Pianoforte Jazz e il triennio accademico in canto Pop/Rock. (ingresso 5€ online su ticketone)

Martedì 5 marzo Greta Panettieri e Elena Paparusso

Greta Panettieri. Vocalist e scrittrice. La sua storia musicale parte da giovanissima, con lo studio del violino e del pianoforte al Conservatorio di Perugia; quindi, la vita a New York documentata anche dal libro a fumetti “Viaggio in Jazz”, dove le doti vocali di Greta vengono notate dalla Universal/DECCA che pubblica il suo primo disco “The Edge of Everything”. Seguono il tour europeo come opening di Joe Jackson, le collaborazioni con grandi della musica mondiale, il ritorno in Italia dove continua a mietere successi.
Elena Paparusso. Cantante e compositrice, nel 2015 ha terminato il Biennio di specializzazione in Jazz con il massimo dei voti e lode, presso il Conservatorio Santa Cecilia di Roma. “Anatomy Of The Sun” è il suo ultimo lavoro discografico prodotto per la Parco della Musica Records. (ingresso 5€ online su ticketone)

Martedì 12 marzo Cinzia Tedesco e Laura Sciocchetti

Cinzia Tedesco. Artista pugliese, riesce con il suo stile a superare le barriere tra i generi musicali. Cantante, compositrice, interprete di musical, rappresenta appieno l’artista completa, la cui cifra musicale si situa tra il jazz ed il soul. Numerosi i riconoscimenti all’Italia e all’estero così come le produzioni discografiche tutte di eccellente livello.
Laura Sciocchetti. Nata a Roma, inizia da adolescente lo studio di canto, chitarra e pianoforte, coltivando nel contempo la passione per il teatro. Studia il linguaggio Jazz con Elisabetta Antonini e successivamente si perfeziona al Conservatorio S. Cecilia di Roma, dove si laurea cum Laude in canto. Nel 2020 esce il suo primo disco di composizioni originali dal titolo “Characters”, per Filibusta Records. (ingresso 5€ online su ticketone)

(MT – Redazione)

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Lun – Ven 9:00 – 21:00 / Sab 9:00 – 17:30
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I nostri cd: un anno di jazz

Tutto si può dire dell’anno che si chiude, a livello di dischi jazz, tranne che sia stato monocorde e monotono.  La varietà delle proposte ha infatti caratterizzato il 2023 in modo significativo grazie a lavori spesso di bradisistica vitalità. Le recensioni che seguono ne rappresentano una possibile campionatura fra le tante proposte meritevoli. Le affidiamo alla lettura per una riflessione su quanto espresso e sui destini possibili del jazz e della musica nell’anno che verrà.

Federica Michisanti Quartet, “Afternoons”, Parco della Musica Records.
Il quartetto di Federica Michisanti featuring il clarinettista Louis Sclavis, il violoncellista Vincent Courtois e il batterista Michele Rabbia si cimenta nell’album Afternoons edito da Parco della Musica Records. Si tratta di una formazione cameristica che “illustra” musicalmente dei pomeriggi qualunque, quelli in cui il “presto” ed il “sostenuto” del ritmo mattutino cedono il passo al “moderato” e al “lento” tardopomeridiano. La musica della Michisanti si snoda in sette composizioni che la compositrice-contrabbassista romana ha definito mostrando di aver ancor più affinato la scrittura ora arricchita dalle cromie percussive che accompagnano la sottile trama arco-fiato. Il brano introduttivo “Two” espone un groove d’avanguardia che in “Sufi Loft” si mitiga in atmosfere soffuse, armonizzanti, che paiono richiamare sfondi bergmaniani. Il successivo “Not” ha strutture più decise specie quelle ritmiche di caffeinici frattali jazz. Tenero è il “Nocturne” con la libertà ispirata dal fascino delle tenebre e dai sogni, altrettanto dicasi per “Spot” contenuto nella stessa traccia. “Be4 PM” alterna momenti melodici a surplaces dialogici, un doppio registro che si rileva nella stessa “Floating”, in  conclusione. L’approccio colto-europeo non deriva solo dalla anagrafe artistica della formazione ma è il portato di un vissuto musicale comune del 4et che conduce a superare moduli interpretativi fin troppo rodati per sondare nuovi orizzonti espressivi. In definitiva un album davvero degno d’attenzione come dimostrano i prestigiosi riconoscimenti ottenuti proprio n questo periodo.

Adriano Clemente, “The Coltrane Suite and Other Impressions”, Dodicilune Records
In piena era jazzistica d.C. (dopo Coltrane) esce un album destinato, c’è da giurarci, a rimanere nel tempo. Vi si rievoca, del grande sassofonista neroamericano, lo Spirito fattosi Suono, la Mistica divenuta Suite. E’ il multistrumentista leccese Adriano Clemente a presentarlo con The Coltrane Suite and Other Impressions, per i tipi di Dodicilune. Giganteggia, già nel primo dei due cd, la performance del saxtenorista David Murray assieme a The Akashmani Ensemble. E furoreggia alla batteria il galvanizzante Hamid Drake, in veste di riguardevole ospite di… riguardo. Personaggio complesso da affrontare, Trane. Ma Clemente è dotto ed edotto in materia per come già fatto con Mingus con la medesima label nel 2016. Già a partire da “Mother Africa” (inizio di una tracklist con 25 sue composizioni) ne compenetra  pathos e l’alfabeto sin nella prima parte del lavoro, tirando fuori, nella seconda, Impressioni nelle quali si confermano imprescindibili i membri della Akashmani, Guidolotti e Sorrentino (sax), Pirone (tr.ne), Carucci e Buccella(pf), Pierotti e Scandroglio(cb), Aiello (cong.), Lanzini (cello), Makarovic (tr.). E naturalmente svetta il direttore Clemente con i suoi dieci e passa strumenti da maneggiare a seconda della situazione musicale.

Christian Pabst, “The Palm Tree Line”, Jazz Sick Records.
Musica di dove crescono le palme. E’ il pianista tedesco Christian Pabst a compilare una sua personale playlist dedicata a suoni di quei sud da cui è da sempre affascinato nell’album The Palm Tree Line (Jazz Sick). L’attacco è “Mambo” di Bernstein, da “West Side Story”, in un’esecuzione nervosa ed al tempo stesso seducente, con il Rhodes ad accentuare un certo suo modo di sincopare e “contratemporeggiare”. Il seguente “Amarcord” nell’alternare swing a beguine schiarisce, e non di poco, la nebbia felliniana impressa sul brano restituendogli luce solare. Nel terzo pezzo, all’ottimo combo che vede Francesco Pierotti al basso e Lorenzo Brilli a batteria e percussioni, interviene al canto Ilaria Forciniti ad intonare “Amara terra mia”, di Modugno, e con lei l’altro ospite Federico Gili, con la fisarmonica a coprire gli interstizi lasciati aperti dalla voce e a ritagliarsi, così come il pianoforte, un chorus per una impro breve quanto vibrante. Proseguiamo nel raccontare, in pillole, il disco, dando conto di “Un’ora sola ti vorrei” resa con delicato lirismo condiviso nel solo del contrabbasso di verve classicheggiante. Strano accostamento subito dopo quello dell’ “Alhambra” di Lecuona e, a marca Bongusto-Trovajoli di “‘O cielo ce manna ste cose”, a riprova di quanto possano essere vicine Granada e Napoli, accomunabili dalla musica oltre che dalla macchia mediterranea che arriva dalla Campania all’Andalusia. Alla fine, appena eseguita una tenera “Dèjame Llorardi Oteo, Pabst offre un proprio acquerello sulla tastiera del “Tramonto”, per due minuti di tratteggio, andante per sensazioni sonore, del crepuscolo del sole che si addormenta.

Claudio Giambruno, “Overseas”, Via Veneto Jazz
Swing, bebop, modale, jazz samba e tutto quanto ne è seguito con i relativi adeguamenti di  grammatica, sintassi, vocabolario alle successive tendenze stilistiche. Claudio Giambruno è  sassofonista che li ha conformate coniugandole alla propria sensibilità latina in Overseas (Via Veneto Jazz-Millesuoni). Nell’album parte innescando una marcia neohardbop alquanto light – e non è un ossimoro – essendo ciò dovuto alle due fonti “over seas” che avvicinano Mediterraneo ad Atlantico e Pacifico per addolcirsi poi in ballad ed evergreen come “ ‘Na voce ‘na chitarra e ‘o poco e ‘luna”. Nella traversata gli sono accanto il pianista Andrea Rea, il contrabbassista Dario Rosciglione e il batterista Amedeo Ariano, band di cui Seamus Blake ha elogiato il repertorio dalla modalità “thrilling and soulfull”, emozionante e pieno d’anima, declinata in nove fra standards ed originals.   In questi ultimi si denota anche una netta autorialità di Giambruno, jazzista che non rinnega la tradizione semmai se ne serve come spioncino per scrutare nel futuro.

Two Things of Gold, A.Ma Records
Un duo, quello formato dalla vocalist Francesca Sortino e dal produttore dj romano nonché figlio della vocalist Diego Lombardo, che nell’album Two Things of Gold (A.Ma), perfeziona un originale confronto, su basi elettroniche, fra jazz e house – funk – soul in un lavoro inciso su ideale supporto di l. P. .  Ne scaturiscono 14 tracce delle quali tre squisitamente jazzistiche – “Con Alma” di Gillespie, “Malachi” di Hill e “Where Flamingos Fly” successo di Gil Evans – con decollo da una piattaforma di musica internazionale per planare su lidi sonori e canori dinamici spazianti da toni duri a timbriche calate su linee melodiche più morbide nei passaggi di climax.  Della Sortino è da rimarcare il desiderio di cimentarsi “atipicamente” rispetto a certe aspettative che vorrebbero le voci femminili jazz impegnarsi nella riproposizione dei capisaldi della materia o al massimo nell’esecuzione di originals che a quella tradizione si ispirano. L’affiancarsi a un giovane musicista come Lombardo dalle visioni innovative e rampanti risulta vincente. Da segnalare nella produzione gli ospiti Roberto Rossi, Alessandro Maiorino, Alberto Parmegiani, Mauro Beggio, Pierpaolo Bisogno.

Minimal Klezmer, “Öt Minusz Kettò”,  Caligola Records
Album n. 3 (campeggia la sottrazione 5-2 all’interno della cover) per i Minimal Klezmer, al secolo Francesco Socal (cl.sax), Roberto Durante (keys, pf, acc.), Enrico Milani (cello), Pietro Pontini (v. viola) con Matteo Minotto al basson e percussioni. Il collettivo nato a Londra nel 2011 presenta Öt Minusz Kettò. prodotto unitamente a Caligola Records e presentato da Martin Tesnone. La musica ivi contenuta si rifà alla tradizione ebraica e dei paesi dell’Est (Romania, Russia, Anatolia , Grecia) nonché gitana. Ed in effetti i tredici brani, di cui quattro traditional, hanno in comune uno spirito yiddish errante che li porta a di/vagare fino al jazz. E’ questo elemento di fusione (non diciamo contaminazione) che caratterizza alquanto il gruppo e ne arricchisce il sound di componenti, come l’improvvisazione, che ci impediscono di catalogare il lavoro come etnomusicale sic et simpliciter . Ciò anche se la loro è a  pieno titolo musica klezmer, genere musicale diffusosi anche grazie ad un duraturo revival, così pimpante di strumenti, scoppiettante di note che sprizzano melodia da tutti i pori, fra introversa meditazione e scena estroversa.

Remedio, “Semillas”, Gutenberg Music.
Un “Real book” ispanomericano non potrebbe che annoverare, ab initio, miti iconici come il pajador argentino Atahualpa Yupanqui e la cantatrice cilena Violeta Parra. Hanno provato a inciderne una versione aggiornata i Remedio – Laura Vigilante (v.), David Beltran Soto Chero (chit. cuatro charango), Alberto Zuanon (cb), ospite Sergio Marchesini alla fisa – includendovi  brani dello spagnolo Carlos Cano (Maria la portuguesa), della messicana Natalia Lafourcade (Hasta la raiz), di Manuel Raygada Ballesteros (Mechita), peruviano come Ramòn Ayala (El cosec hero), degli argentini Facundo Cabral (No soy de aqui ni soy de allà) e Natalia Doco (Respira), della statunitense Llhasa de Sela (El desierto), della band uruguagia Onda Vaga (Mambeado, Tataralì), del colombiano Gentil Montana (Porro). L’album Semillas che risulta dalla selezione, un lavoro “accalorato” anche dalla presa diretta della registrazione effettuata live al Piccolo Teatro Tom Benetollo di Padova, offre, della terra dei nostri cugini d’America, un “canto para una semilla” anzi semillas lanciate a mano aperta su quel terreno fertile da cui i musicisti hanno raccolto straordinari frutti liric-musicali.  P.S. Di Yupanqui è eseguita “Luna tucumana”. Della Parra “La jardinera”.

Gloria Trapani / Alessandro Del Signore, “InControVoce”, Filibusta Records
Ci sono voci il cui canto abbisogna di un tappeto orchestrale su cui guizzare. E ci sono ugole che, al contrario, si esaltano quando l’ambiente sonoro che le circonda è essenziale, secco, minimale. E’ il caso di Gloria Trapani che, nell’album InControVoce edito da Filibusta, si lascia accompagnare da basso e contrabbasso da Alessandro Del Signore in “clusters” di brani latini  (“Vocè E Linda”, “Mais Clara Mais Crua”), standard di jazz classico e moderno (“Summertime”, “Nature Boy”, “In Walked Bud”),  hits pop e caraibici (“Humane Nature”, “Redemption Song”).  Fra un vocalizzo ed un altro emerge l’attitudine della voce ad elasticizzarsi smorzando, misurando altisonanza ed estensione e nel contempo lavorando di cesello su melismi e fioriture nonché sulla felpatura di timbro e smalto  vocale. Del Signore si rivela dal canto suo jazzista a proprio agio nel ruolo, attento a non infrangere il “muro” del suono nel senso di non spaccare mai con tocchi eccessivi o fuori posto la magia costruita dal duo sul preesistente silenzio.

Pietro Ciancaglini, “Consecutio”, GleAm Records
Si va bene ma la consecutio temporum? Eccolo lì il tallone d’Achille di tanti che scrivono usando male i verbi. In musica, a voler fare un parallelo, la mancata concordanza fra principali e subordinate ha mietuto diverse vittime. Meno male che anche nel jazz ci sono maestri del coordinare  secondo conseguenzialità logico-lineare un discorso musicale “corretto”. Sono, queste, delle considerazioni applicabili al nuovo album del bassista e contrabbassista Pietro Ciancaglini dal titolo Consecutio. Il lavoro, edito GleAM Records, con dieci sue composizioni, è un esempio di come il jazz debba saper coniugare le frasi che “pronuncia”. In tale operazione l’uso del basso elettrico da parte del musicista romano, al posto del contrabbasso, orienta l’approccio stilistico verso raffinate prospettive elettriche di fusion(e) fra hard bop e contemporary senza lasciarsi peraltro stregare da ammiccamenti mainstream. Il risultato più che apprezzabile è anche merito del pianista-tastierista  Pietro Lussu, del batterista Armando Sciommeri e della vocalist Chiara Orlando. Le improvvisazioni, peraltro ben presenti, sono coerenti al tutto, e così le linee melodiche sono installate su armonizzazioni ricche e raffinate. E soprattutto “conseguenti”.

Haiku, Sun Village Records
Haiku, la forma poetica giapponese adottata da Rilke, Eluard e da poeti ermetisti, è anche il gruppo di jazz-funk italiano che licenzia l’ album omonimo per Sun Village Records. Trattasi di un 5et ben assortito, che annovera Federico ‘Privi” Privitera a tromba e piano elettrico, Andrea Salvato a flauto e sinth, Costanza “Skalli” Bortolotti alla chitarra, Vyasa Basili al basso e Alessandro Della Lunga alla batteria, capace di invenzioni che vanno dirette all’ orecchio dunque  nient’affatto ermetiche. Il riferimento al format nipponico al riguardo andrebbe visto come tendenza alla sintesi, alla enunciazione breve non logorroica neanche nelle impro. Certo è che le otto tracce per una mezz’ora di musica del disco si sviluppano vischiosamente, col flauto che “inalbera” pindaricamente le note più alte, le tastiere lì a “strattonare” la sezione ritmica, la tromba pronta ad acute proiezioni liriche, la chitarra protesa ad imbellettare di riverberamenti il tutto.

Nicole Johänntgen, “Labirinth”, Selmabid Records.
Gran bell’album Labirinth della sassofonista Nicole Johänntgen edito da Selmabird Records (Suisa)! Peraltro adatto a più palati musicali compresi quelli che adorano il funky e comunque i generi che abbiano una propulsione perloquale. Affidata in questo caso alla tuba di Jon Hansen ed alle percussioni di David Stauffacher, caricati del compito di dare adeguato sostegno ritmico a dieci brani. Vi svettano, come fra le montagne, gli alto e soprano della leader dalla bella voce blues ascoltabile in “Canyon wind”, il tutto arricchito dall’ospite Victor Hege al sousaphone in “Simplicity Curiosity” e “Straight Blues Baby Straight”. Nel labirinto della jazzista non è difficile muoversi, basta tenere stretto il filo d’Arianna disteso dal sax per essere condotti nel suo mondo dorato, un inno alla gioia del fare musica da proporre Coram populo affinché altri possano a loro volta appropriarsene.

 

Gaetano Duca, “Bugiardi”, Abeat Records
Lounge? No! Semmai è uno smooth dai sapori funk-fusion il jazz che propone il chitarrista Gaetano Duca nell’album Bugiardi (Abeat Records).
Un tocco, il suo, che apparirebbe bensoniano se non fosse per il fraseggio personale della propria “longa manus” esecutiva.
Il jazz “musica bugiarda”, lo diceva un suo vecchio maestro. Ma qui il riferimento si allarga all’epoca in cui viviamo, in cui si coltivano disvalori e illusorietà.
Dunque il titolo del disco va visto come un incipit, un’introduzione a… Anche perché siamo sinceri, le sue 11 “bugie” musicali sono vero jazz, E i Bugiardi, gli altrettanti brani numerati scaletta, non mentono sullo stato di salute di tale genere musicale, che è florido, nonostante tutto, e ne rappresentano una possibile cartina di tornasole. Se si considera poi la componente “etnea” insieme alla napoletanità acquisita dal leader siculo il mix appare “vulcanico”. Il risultato è merito anche dei Friends di Duca: Dario Paolo Picone (k.), Gaetano Diodato (b.), Mario Nasello (cb), Vittorio Riva e Santino Montesano (v.), Nico Roccamo (dr), EnzoTamburello (sax), Filippo/Piscitello (t.), Tonino Piscitello (t.ne).

Amedeo Furfaro

Danilo Rea – La Grande Opera in Jazz: il progetto perfetto del “jazzista imperfetto”

A maggio di quest’anno ho avuto l’onore di intervistare il grande pianista ed improvvisatore Danilo Rea, esibitosi al Festival dell’Acqua di Staranzano (Go). In quell’occasione, durante la cena prima del concerto, ebbi modo di dialogare a lungo con Danilo e tra le cose che mi disse mi raccontò del progetto che aveva presentato in anteprima mondiale al Teatro Antico di Taormina: “La Grande Opera in Jazz”; Danilo ne parlò in termini così appassionati che, una volta giunta a casa, andai a cercare immagini e notizie del progetto innamorandomene all’istante!
Nei giorni scorsi, di ritorno da Roma, scopro che il progetto è nel cartellone musicale, curato da Simone D’Eusanio, del Teatro Comunale “Marlena Bonezzi” della mia città, il 1° dicembre. Potevo perderlo? Naturalmente no! Cercherò quindi di contagiarvi emotivamente, sperando di riuscire a condividere l’emozione che io ho provato in modo diretto in una forma istintuale di empatia «scintilla che fa scaturire l’interesse umano per gli altri», sentenziava lo psicologo Martin Hoffman, generata dalle mie parole.
Credo non sia necessario dirvi chi è Danilo Rea, pianista romano, maestro dell’improvvisazione, tra i maggiori esponenti del jazz italiano e internazionale, dotato di una straordinaria padronanza della tecnica e dell’armonia del pianoforte classico e jazz; se volete saperne di più vi rimando all’intervista sopra accennata (http://www.online-jazz.net/?s=danilo+rea ).

Danilo non è nuovo ad esperimenti di contaminazione con le arie d’opera, vedi “Lirico” (Egea Records, 2003), del resto stiamo parlando di un artista mai domo, capace di abbattere recinzioni e confini tra generi musicali per creare qualcosa di unico, congiungendo mondi all’apparenza lontani.
Ed unico è stato anche il concerto monfalconese: unico e probabilmente irripetibile, visto che Danilo, improvvisatore totale, inserisce in ogni sua performance citazioni sempre diverse, seguendo ispirazioni hic et nunc, dove nulla è preventivamente programmato, dove il suo estro creativo e la sua profonda conoscenza musicale gli consentono di vagabondare seguendo un corpus narrativo nel quale trovano spazio il jazz, la musica d’autore italiana e internazionale e, come in questo caso, le arie d’opera.
Unico dogma imprescindibile è il rispetto che Danilo ha nei confronti della melodia, che egli forgia aprendo inedite prospettive di ascolto.
Quindi, non chiedetegli mai una scaletta perché lui odia averne, Danilo è uno che ama inventare storie sempre nuove, uno che traduce in musica il suo lessico emotivo condividendolo generosamente con il suo pubblico.
Ritornando alla Grande Opera In Jazz, sul palco del Comunale, dove fa bella mostra di sé un meraviglioso gran coda Fazioli, si alternano note, voci e immagini che raccontano la storia del melodramma italiano. È Danilo stesso ad azionare un dispositivo che fa partire, sullo schermo alle sue spalle, il materiale visivo e sonoro; al di là del certosino lavoro di ricerca delle incisioni originali d’epoca, con le voci ripulite dalla parte strumentale, una citazione speciale va alla pittrice Rossella Fumasoni, che firma delicati e coloratissimi dipinti di volti e di corpi dove danzano, in movimenti evocativi di leggerezza e sospensione, petali, rose, farfalle, foglie, colibrì, di grande fascino.
Non si percepisce alcun distacco spazio-temporale tra le voci dei grandi cantanti lirici del passato e il pianoforte di Danilo Rea, che duetta con estrema naturalezza con Maria Callas (inarrivabili le sue interpretazioni di Casta Diva, la cavatina dalla Norma, preghiera elevata alla luna…) con Elisabeth Schwarzkopf (soprano tedesco dotata di una timbrica cristallina e di un’innata eleganza espressiva) con i grandi Mario Del Monaco, Enrico Caruso, Tito Schipa, Beniamino Gigli, Giacomo Lauri-Volpi e ancora con Maria Caniglia, Amelita Galli-Curci, Nazzareno De Angelis… nelle arie delle Opere più conosciute: Norma, Turandot, Traviata, L’Elisir d’Amore, Cavalleria Rusticana, Madama Butterfly, Tosca.

Ciò che stupisce maggiormente è il modo in cui Danilo riesce a raccordare, con una semplicità che disarma chi lo ascolta, i temi principali delle arie ad infinite citazioni… ed ecco, ad esempio, che Lucevan  le stelle si trasforma in Les Feuilles Mortes e questa è solo una delle interazioni che il pianista romano crea nel corso dello spettacolo, così tante che è impossibile ricordarle tutte… cito My Favorite Things di Coltrane, la Barcarola di Offenbach, Bésame Mucho della Velázquez Torres e America di Leonard Bernstein con Libiamo ne’ lieti calici dalla Traviata di Verdi e poi le dolcissime Over the Rainbow che si mescola con Maria di Bernstein.
Il pianismo di Danilo è fluido e circolare – e talvolta lo sono anche i suoi movimenti mentre suona, quando le sue braccia disegnano orbite e le sue mani traiettorie imprevedibili – ed egli s’impossessa di ogni spazio abitabile del suo strumento, intercettando ogni minima sfumatura che un suono può contenere. Ed è così che in una fredda sera d’inizio dicembre, rapita da cotanta bellezza, dalla voce di Enrico Caruso e dalle architetture improvvisative di questo “jazzista imperfetto”, che trascendono qualsivoglia teoria musicale, negli occhi miei spuntò Una Furtiva Lagrima, mentre sullo schermo scorrono le immagini di una ballerina en pointe che danza con grazia, di vortici di foglie che si lasciano trasportare dal vento verso l’inesorabilità del loro destino autunnale, di due innamorati che si tengono per mano, scambiandosi tenerezze al crepuscolo. Omnia vincit amor et nos cedamus amori.

Danilo Rea – ph Luigi Ceccon

A completare il repertorio proposto nel corso della serata, oltre alla già citata Callas, Rea accompagna Mario Del Monaco in Nessun dorma, la Schwarzkopf in Addio al passato e in O mio babbino caro, l’Ave Maria cantata da Tito Schipa e poi Amelita Galli-Curci in Un bel dì vedremo dalla Madama Butterfly di Puccini, Giacomo Lauri Volpi in Di quella pira (con immagini di streghe al rogo…), Beniamino Gigli in E lucevan le stelle, e Nazzareno De Angelis in Dal tuo stellato soglio dal Mosè in Egitto di Rossini (sullo schermo appare anche il maestoso e furioso Mosè michelangiolesco che, come vorrebbe la leggenda, pare sia stato preso a martellate dallo stesso – altrettanto irascibile – scultore, piccato per non aver ricevuto risposta alla sua domanda «Perché non parli?», per quanto gli sembrava vivo e perfetto!).
In conclusione di serata, ritroviamo ancora Enrico Caruso in Tu ca nun chiagne e ‘O sole mio, brano che Rea interpreta magistralmente con passione ed enfasi, accennando nel finale alcune note di Nessun dorma. Splendide le immagini d’epoca di Napoli e New York, le città di Caruso e comunque curata nel dettaglio tutta la narrazione grafica e visual, compresi i suggestivi scorci di Roma, la città di Danilo.
Se pensate che il pubblico monfalconese lo abbia lasciato andar via dopo la superba esecuzione di ‘O Sole mio vi sbagliate di grosso.
Una selva di applausi ha convinto il nostro musicista a sedersi nuovamente al piano per regalarci ancora qualche scampolo della sua visione musicale, fatta di scomposizioni e ricomposizioni, di arrangiamenti e riarrangiamenti, di modellamenti e rimodellamenti, di demolizioni e ricostruzioni à sa manière, che ci hanno restituito un medley di brani di De André (La canzone dell’amore perduto e La Canzone di Marinella), di Tenco (Un giorno dopo l’altro), del suo sodale e compagno di tante avventure Gino Paoli (Sapore di Sale) e di Bindi (Il nostro concerto), in una concatenazione di sbalorditive improvvisazioni, a cavallo tra virtuosismo e lirismo, che gli hanno fatto meritatamente guadagnare l’appellativo di “grande poeta” tra i musicisti di jazz, oltre ad essere spesso accostato all’immenso Keith Jarrett… e scusate se è poco!

Marina Tuni ©

A Proposito di Jazz ringrazia l’Ufficio Teatro del Comune di Monfalcone e la fotografa Katia Bonaventura per le immagini

Casa del Jazz: grande successo per l’eroina dell’improvvisazione: Marilena Paradisi / Convince l’eclettismo di Erika Petti

Il penultimo appuntamento della serie “L’altra metà del Jazz” si è tenuto lunedì 20 novembre in concomitanza con la partita di qualificazioni della Nazionale contro l’Ucraina, evento che però non ha impedito alla sala di gremirsi di interessati e attenti spettatori.
Calcisticamente parlando, il primo tempo della serata ha visto protagonista la cantante Marilena Paradisi, accompagnata dal pianista cosentino Carlo Manna, di cui non ha mancato più volte (a ragione! N.d.A) di tessere le lodi.
Analizzando le ospiti di questi incontri, Marilena può essere considerata una figura atipica sotto alcuni aspetti: innanzitutto la sua formazione di musicista jazz, avvenuta più tardi rispetto a molte altre artiste, dal momento che lei aveva intrapreso la carriera di ballerina di danza contemporanea; poi, a seguito di un viaggio a New York e all’ascolto di numerosi dischi di musica jazz, primo tra tutti Ballads di John Coltrane, arriva il colpo di fulmine e l’innamoramento verso questo genere. Una volta rientrata a Roma, prende per cinque anni lezioni di canto dalla cantante lirica Fausta Coppetti Corti: «l’unica capace di tirarmi fuori la voce!» – dichiara Marilena.
Altro aspetto di discontinuità rispetto alle ospiti precedenti è l’aver preferito iniziare la serata cantando e non già rispondendo alle domande di Gatto, perché cantare, dice, le dà energia, quell’energia creativa che in qualche modo temeva di disperdere se prima avesse dovuto parlare.
La serata, dopo i saluti del direttore della Casa del Jazz, Luciano Linzi e l’introduzione di Gerlando Gatto, inizia con la Paradisi, accompagnata al piano dall’ottimo Carlo Manna (una vera scoperta!), che intona la dolcissima ballad di McCoy Tyner You Taught My Heart to Sing declinata in riverberi di scat e vocalese.
C’è da dire che, al di là di questo inizio classico, la principale cifra stilistica della Paradisi è l’aver improntato gran parte della sua opera musicale sulla sperimentazione e sulla pura improvvisazione; in particolare Marilena ha raccontato della sua esperienza con la soprano nipponica (dalla timbrica eccezionale) Michiko Hirayama, icona del canto contemporaneo (nota anche per il suo stretto legame artistico con Giacinto Scelsi) e della registrazione congiunta del disco Prelude for Voice and Silence (2011): quasi un’ora di pura improvvisazione vocale e di geniali “silenzi sonori”,  in cui, dato curioso, la Hirayama, alora ottantottenne, avrebbe dovuto partecipare solo a due tracce delle 34 registrate e delle 22 selezionate mentre in realtà è presente in otto.
Alla domanda del critico su quali siano stati i suoi riferimenti jazzistici, Paradisi non ha esitazione alcuna ad indicare Chet Baker, nella sua veste di cantante e non solo come trombettista, che collega ad Hellen Merril, due voci bianche caratterizzate dallo stesso minimalismo vocale. Di Chet, Marilena dice: «suona la voce come la tromba…».
La cantante ha poi illustrato la registrazione del disco The Cave (2013), realizzato in collaborazione con il percussionista Ivan Macera. Registrato all’interno del Teatro Il Cantiere di Roma, il disco è ispirato ad un articolo del musicologo Iégor Reznikoff che disquisiva sulla correlazione tra le pitture rupestri presenti nelle caverne preistoriche e la risonanza sonora; l’intenzione dell’album è appunto quella di trasportare l’ascoltatore in un’immaginaria caverna paleolitica dove ogni suono viene microfonato e amplificato. Un accenno anche al suo disco di improvvisazione testuale inciso con la  pianista Stefania Tallini (peraltro ospite della prossima e ultima serata di mercoledì 29 novembre, N.d.A. – info qui). Paradisi spiega che improvvisare parole è un esercizio di “scavo” e definisce il suo metodo come piccoli momenti poetici, assimilabili a haiku giapponesi.
Infine, ricorda con particolare affetto la sua collaborazione con Eliot Zigmund, batterista di Bill Evans, nata da una mail mandata da Marilena al musicista americano, dalla quale la vocalist non si sarebbe mai aspettata una risposta, tantomeno positiva,  e da cui, dopo un lavoro di organizzazione da parte della cantante durato circa quattro mesi, ha avuto origine il disco I’ll Never Be The Same (2002): di Zigmund ricorda soprattutto la generosità e il rispetto per le tradizioni che il batterista le ha saputo tramandare.
Dopo la citata You Taught my Heart to Sing, Marilena Paradisi è passata a Passion Dance sempre di Tyner e ad una stupefacente versione di Lawns – un omaggio alla grande Carla Bley – venuta a mancare recentemente – in una versione con l’arrangiamento vocale composto dalla stessa Paradisi, per finire con Would You Believe di Cy Coleman, brano reso famoso da Carmen McRae.

Nel secondo tempo della bella serata, al contrario degli attaccanti azzurri, la cantante e chitarrista molisana Erika Petti non ha mancato l’occasione avuta per presentarsi! L’intervista inizia parlando della sua formazione musicale e del fatto di essere cresciuta in una famiglia di musicisti: il padre è un trombettista, il fratello un fisarmonicista e la sorella pianista. Erika studia chitarra classica al conservatorio ma in realtà,  per un periodo, la sua carriera musicale passa in secondo piano in favore dei suoi studi universitari e della sua laurea in lettere: la Petti ci confessa infatti che se non avesse scelto la musica probabilmente avrebbe studiato filologia medioevale. Così non è andata, per nostra fortuna, ed Erika intraprende un percorso di studi biennale con la cantante e didatta di grande valore Carla Marcotulli.

In merito alla sua musica, descrive il suo genere come un jazz contaminato da influenze derivanti da vari stilemi come il pop, la bossa nova, il samba e la canzone italiana, primo tra tutti Pino Daniele, del quale la musicista apprezza la vis compositiva in primis e le lunghe linee melodiche. A onor del vero, Erika cita tra i suoi riferimenti musicali, come esempi di contaminazione, anche gli Earth, Wind&Fire… e come darle torto?  Queste caratteristiche appaiono evidenti nel suo album Sophisticated uscito proprio in questi giorni, un omaggio a grandi compositori quali Duke Ellington, Michel Legrand e Burt Bacharach, scomparso a febbraio di quest’anno. Parlando di queste commistioni, Erika enuncia quello che inconsapevolmente è diventato il filo rosso che collega tutte le musiciste invitate a queste serate, ovvero un unico tipo di distinzione tra buona e scarsa musica, senza discriminazione tra generi.
Inoltre, parlando dell’annoso tema delle difficoltà incontrate da una jazzista donna in un ambiente prevalentemente maschile, Erika racconta di aver incontrato alcuni ostacoli: tra questi l’impossibilità di suonare nella banda del suo paese natale in quanto donna, la sorpresa, da parte di alcuni, nel notare che la persona dietro ad un’abile esecuzione sia una donna e il fatto che in certi ambienti si sia ritrovata a dover citare uomini per qualificare un determinato ambiente di provenienza. E su questo postulato, la vostra redattrice rabbrividisce sdegnata… perché anche basta!
Infine, alla domanda postale da Gatto sullo stato della musica pop attuale in Italia, lei risponde invitando il pubblico a riflettere su come l’industria discografica possa influire pesantemente, per mere esigenze del mercato musicale, a conformare l’opera dei musicisti, a volte stravolgendola per adeguarla senza remore ai trend del momento…
I brani eseguiti dalla Petti, sono stati: Close To You di Bacharach in versione chitarra e voce e, nel celeberrimo riff finale, cantata anche dal pubblico in sala, e due pezzi di sua composizione, suonati insieme al pianista Pietro Caroleo: Amar y Vivir, con testo del poeta e cantante venezuelano José Carlos Morgana (accompagnandosi anche alla chitarra) ed E Tornerai, stavolta solo piano e voce.

Marina Tuni

ℹ️ INFO UTILI:
Casa del Jazz – Viale di Porta Ardeatina 55 – Roma
tel. 0680241281 –
La biglietteria è aperta al pubblico nei giorni di spettacolo dalle ore 19:00 fino a 40 minuti dopo l’inizio degli eventi

IL FALSETTO, DAL CANTO PRIMITIVO AL JAZZ

Il falsetto nelle etno-musiche
Rock o barocco? Gospel o nenia hawaiana?  E le musiche primitive dove le mettiamo in tema di falsetto? Alan Lomax ricorda, a proposito di voce umana, che ”in tutte le età dell’uomo, nel peregrinare attraverso il pianeta, nei vari stili di vita, età, avventure, ogni adattamento ha trovato eco nel guscio di conchiglia dello stile canoro” (Cantometrics, Univ. California, 1978). Ancor prima Roberto Leydi aveva specificato che “la musica africana è forse la più varia, la più ricca, la più imprevedibile del mondo. Il cantante (…) sa usare la sua voce in ogni timbro e in ogni possibilità espressiva; sa passare dai toni più gravi al falsetto” (Musica popolare e musica primitiva, ERI, 1959). Dal “canto” suo Curt Sachs ha descritto i Maori in Nuova Zelanda che “eseguono i canti di guerra rapidamente, in un falsetto sferzante, microtonico, che sembra quasi un pigolio eccitato” (Le sorgenti della musica, Bollati Boringhieri, 1962). E tracce di falsetto sono state rilevate presso i nativi americani e in altri contesti, ad esempio fra le genti del Caucaso così come nel teatro tradizionale cinese.

Questa tecnica vocale , oltre al canto in senso stretto, può investire il linguaggio in senso lato. Dal racconto di André Schaeffner: “trovandoci per la prima volta in Africa, in Camerun, i miei compagni di missione ed io fummo ricevuti da uno di quei piccoli sovrani negri che spesso non sono altro che la triste caricatura dei grandi imperatori africani dei secoli passati. Il principe si rivolse a noi con una strana voce in falsetto che ci fece pensare si trattasse di un evirato. In seguito avemmo la sorpresa di udirlo rivolgersi agli uomini del suo seguito con voce assolutamente normale. Egli ricorreva alla voce in falsetto soltanto nell’esercizio solenne delle sue funzioni regali” (cit., La musica africana dal deserto all’equatore, RaiTv, 1955). In La musica entre los pueblos primitivos, saggio tradotto apparso nel “Boletin Latino-americano de musica” a Montevideo nel 1941, il compositore Henry Cowell intravedeva l’importanza sociale della musica per l’uomo primitivo che “impara a interpretarla seriamente, come una necessità di vita”.  Schaeffner, pioniere della critica jazz francese con Goffin e Panassié (cfr. L. Cugny, Di una ricezione del jazz in Francia, HAL Open Science, Rivista di studi sul Jazz e sulle Musiche Audiotattili, 2019) esplicita con vari esempi il contrasto fra voce naturale ed artificiosa, fra parlato profano e parlata rituale, quest’ultima legata ad una specifica funzione sociale e politica.
Allargando lo spettro visuale, sono vari i casi possibili nel campo delle musiche popolari, dallo yodel alpino al country yodel del West America, dallo huapango dei mariachi messicani e dei gruppi tipici huastechi centroamericani interpreti di petenera (sottogenere del flamenco) agli holler afroamericani, dalle musiche vocali di alcune tribù pigmoidi fino ai “canti a distesa” del giuglianese.
Per restare all’Italia, Giovanna Marini accenna a varianti vocali non “naturali” nella musica contadina in cui “la voce si permette degli spessori timbrici delle note roche di corda che nessuna voce impostata classicamente farebbe“ (Improvvisazione ed uso della voce, “I Giorni Cantati”, 2/3, 1981).  Dopo la doverosa premessa antropomusicale su una tale “tecnica di canto che, sfruttando un naturale fenomeno di impiego parziale delle corde vocali, consente la produzione di suoni più alti rispetto all’estensione naturale del soggetto cantante in voce piena” (Della Seta, Breve Lessico Musicale, Carocci, 2009) eccoci a tratteggiare, del falsetto maschile, un sintetico resoconto storico, non tecnico, che prende le mosse dalla nascita del melodramma dischiudendo l’excursus a più aree musicali.

Tra Farinelli e Moreschi
Nel cinquecento la terra è più ricca di un continente, l’America. Intanto, al di qua del Nuovo Mondo, in Europa, lettere scienze ed arti registrano uno sviluppo tumultuoso. Nell’Italia del Rinascimento anche la musica fiorisce rigogliosa. Poi, nel Seicento, la monodia accompagnata subentra alla polifonia con la trasformazione di assetto della musica vocale da cui ha origine il melodramma. A Firenze, nell’erudita Camerata de’ Bardi, figura fra i propugnatori del “recitar cantando” Giulio Caccini, convinto che il linguaggio musicale debba constare di “favella, ritmo, suono”. Il valente musicista è contrario al falsettismo, cioè a quel tipo di canto artatamente mutato in timbro e altezza. Le voci “artificiali” di soprano o contralto intonate dai falsettisti sono da lui ritenute stridule. Nelle sue prefazioni “’l’intonazione delle parole era discussa nella relazione del loro contenuto” (A. Della Corte, La critica musicale e i critici, Utet, 1961) nel presupposto che “la grazia del cantare sia parte proveniente dalla natura e non dall’arte” (V. Giustiniani, Discorso sopra la musica, 1628). Va da sé che “nell’opera italiana il canto delle arie era un compito da musicisti virtuosi; ad esempio i famosi castrati, la cui carriera era lanciata da particolari arie che ne costituivano l’epitome” (R. Strohm, Aria e recitativo. Dalle origini all’Ottocento, Enc. Musica Einaudi/Il Sole 24 Ore, 2006, I).  Nello Stato pontificio, la proibizione alle donne di esibirsi in scena, decretata da un editto del 1588, aveva aperto ampi spazi ai castrati. Questi ultimi, presenti già nei lavori del Monteverdi, possedevano una vocalità in “perfetto equilibrio fra lo sfoggio virtuosistico nell’improvvisazione e la sostanza profondamente espressiva della linea melodica” (P. Mioli, La musica nella storia, Calderini). Non c’era un unico registro espressivo e il vocalismo degli evirati era più acuto rispetto a quello “naturale” dei camerati fiorentini. E voce bianca, impiegata essenzialmente in parti femminili, era quella del famoso Farinelli, al secolo Carlo Broschi (Andria 1705 – Bologna 1782), a cui è dedicata la biografia di Cappelletto ed il film di Corbiau del 1994 con Stefano Dionisi. “Farinello”, allievo del Porpora e amico del Metastasio e di Domenico Scarlatti, soleva suscitare “stupore per il modo spavaldo con il quale gareggiava perfino con gli strumenti in passaggi virtuosistici. A Londra, circondato dal fanatismo degli ammiratori, fece registrare entusiasmi e commozione da lasciare interdetti sulla veridicità dei resoconti” (Storia dell’opera, UTET, III). Broschi ebbe successo anche a Vienna, Parigi e alla corte di Madrid quale “musico terapeuta” del malinconico re Filippo V sin dal 1737. Nell’arco di una permanenza ultraventennale vi fondò, nel 1750, una scuola di “bel canto” italiano sotto l’egida di Ferdinando VI.  Dunque “la voglia di strabiliare, il divismo, la follia delle passioni e delle rivalità furono esaltate dall’irruzione dei castrati sui palcoscenici d’opera. La loro storia incominciò alla fine del Cinquecento e durò fino all’Ottocento, fu penosa e gloriosa, esaltante e sconcertante” (L. Arruga, Il teatro d’opera italiano, Feltrinelli). Finchè appunto nell’800 nasce “l’età del tenore, in cui non sono più le voci acute dei soprani e dei castrati a primeggiare nelle rappresentazioni teatrali bensì quelle dei tenori (A. Petroni, Gilbert Deprez e i “disumani entusiasmi” per la voce tenorile, framentirivista.it, 16/12/22) e il tenore romantico subentra al contraltista evirato. Ed è grazie alle registrazioni effettuate fra il 1902 e il 1903 direttamente dalla voce del falsettista Alessandro Moreschi (Montecompatri, 1858-Roma 1922) che sono stati ricavati una decina di dischi. Moreschi, definito l’Angelo di Roma, cantore presso la Cappella Sistina dal 1883 al 1913, fra gli ultimi cantanti evirati con Domenico Mustafà (cfr. Il segreto della “quarta voce” di Mustafà, Emma Calvè ed Enrico Caruso, belcantoitaliano, blogspotcom,1/5/2020) e il Sebastianelli, si esibì, nel 1900, al Pantheon, ai funerali di re Umberto I, traghettando di fatto il falsettismo nel Novecento, secolo che avrebbe peraltro registrato l’abbandono della pratica dell’evirazione, usanza barbara e atroce, frutto di fondamentalismo moralistico, praticata su persone divenute macchine per cantare mutilate nel corpo e nella mente “immolate sull’altare dell’arte a prezzo della drammatica perdita di identità” (La riproduzione sonora, www.amedeofurfaro.it). La loro eredità canora, quella non chirurgicamente modificata, sarebbe stata raccolta dai controtenori con in repertorio, ancora oggi, musiche di Porpora, Purcell, Haendel, Bach…  Da sottolineare che nel primo Ottocento era comparso il falsettone (talora “rinforzato”), tecnica di emissione di note molto acute o sovracute adoperata da vari tenori in alcune partiture liriche di Rossini, Donizetti, Bellini (Credeasi, misera da “I Puritani”). Pagine su cui si sarebbero cimentate grandi ugole (ad es. YouTube Luciano Pavarotti sings A High E flat (!!) in Falsetto).

Poliedrico Novecento!
Nel Novecento si “sventaglia” un uso poliedrico del falsetto in più ambiti musicali. Intanto il belcanto lirico, culla ideale per le voci “finte”, consegna agli annali della discografia incisioni di un Enrico Caruso solito durante le prove cantare “le note acute in un falsetto del tipo usato dai cantori sinagogali” (Rosa Ponselle & James A. Drake, “Ponselle. A singer’s life”, Doubleday, 1982) e andrebbe ricordato al riguardo Nicolai Gedda per il suo tipico effetto alla Braham, il grande tenore ottocentesco di origine ebraica. Torniamo all’America, al continente della cui scoperta si era accennato scrivendo del Cinquecento, ma con un salto di oltre quattro secoli (anche se andrebbe quantomeno approfondito il capitolo ottocentesco della musica corale), per ritrovarvi la tecnica della voce “feigned” in nuovi “lidi” stilistici come il blues. E’ del 1928 l’incisione di “Canned Heat Blues” di Tommy Johnson. Attorno ai 40s compaiono i primi gruppi di doo-wop proprio mentre formazioni come The Mills Brothers inseriscono il falsetto fra le pratiche vocali adoperabili. Detta tendenza vocale si estende nella seconda metà dei ’50 quando è il doo-wop dei Platters, con la voce solista di Tony Williams proveniente dal gospel, a dilagare. In area popular, oltre a menzionare il falsetto “eerie” di  John Jacob Niles, decano dei folksingers, va ricordato che il successo dei Tokens, “The lion sleeps tonight,” del ’61, era una cover del sudafricano di etnia zulu Solomon Linda (Mbube, 1939).  Fra i falsetti più personali emerge quello di Jimmy Jones con la hit “Handy Man” mentre nel vicino Messico si impone Miguel Aceves Mejia, “The Golden Falsetto”.  E’ c’è in parallelo anche in Europa da segnalare il falsetto gipsy del romeno Dona Dumitru Siminica (cfr. Tom Huizenga, A suave rumanians sing the falsetto song, npr.org, 10/10/06).  Fra le grandi personalità in U.S.A. eccelle Curtis Mayfield, esponente di r&b, soul, funk, la cui carriera inizia nel’58 con gli Impressions. Divenuto celebre nei ’70, grazie alla colonna sonora del film SuperFly, del genere cinematografico della blaxploitation che ha come target iniziale il pubblico di colore, Mayfield simboleggia col suo album “Superfly” la rivalsa della coscienza politica neroamericana dell’epoca. Il suo modo di cantare è connotato dall’uso preponderante del falsetto. (cfr. riccardofacchi.wordpress.com, Il falsetto “impegnato” di Curtis Mayfield, 21//17).  Essendo tante le citazioni possibili al riguardo, è il caso di rinviare la lettura a qualche classifica presente in rete. Ad esempio, the topten.com, Top Ten Male Singers with Best Falsetto con Barry Gibb (Bee Gees), Prince, Jeff Buckley nelle prime postazioni ed a seguire artisti come Dimash Kudaibergen, Matt Bellamy (Muse), Justin Timberlake, Chris Martin (Coldplay), Michael Jackson, Brian Wilson (Beach Boys), Thom Yorke  (Radiohead). Si prosegue con The Weeknd, Smokey Robinson, Roger Taylor, Frankie Valli (The Four Seasons), Freddie  Mercury, Morten Harket (a-ha), King Diamond, Andy Gibb, Philip Bailey (Earth, Wind & Fire), Adam Levine, Bobby Debarge, Paul McCartney, Brendon Urie, John Lennon, Eddie Kendricks quest’ultimo di area soul, dopo la sequenza di rock heavy alternative e pop sia melodico che “spinto”. Il trend dunque si rafforza nei ‘60/70 laddove negli 80s dance e disco si affiancano con prepotenza al rock e ai suoi fratelli, con importanti diramazioni in direzione black music. Seguiranno picchi e sbalzi decrescenti “a ondate”, senza uscite di scena.  Da visionare al riguardo su Listcaboodle.com la Playlist di The Best Falsetto Songs utile da consultare per verificare la collocazione temporale dei vari successi. Ecco, appresso, i primi cinque hits quivi riportati:
Night Fever (Bee Gees, 1977)
After the Gold Rush (Neil Young, 1970)
Got To Give It Up (Marvin Gaye, 1977)
Let’s Work (Prince, 1981)
Only The Lonely (Roy Orbison, 1961)
Seguono vari brani, spalmati su più anni (“September” di Earth Wind & Fire del 1978 –“ Don’t Worry Baby”, dei Beach Boys del 1964 ,”Emotional Rescue” dei  Rolling del 1980 – “Don’t Stop ‘Til You Get Enough” di Michael Jackson  del 1979 – “Just My Imagination” dei Temptations del 1971, “ Tracks of My Tears” di The Miracles, 1965 ), di fine secolo  (“High And Dry” dei Radiohead del 1995) fino al più recenti “I’m Not The Only One” di Sam Smith del 2014 e “Redbone” di Gambino del 2016.  Come si vede si tratta di selezioni che coprono un arco temporale di mezzo secolo da integrare con artisti come Silvester, Police, Judas Priest, Deep Purple, AC/DC,  Kiss, Ted Neeley (Jesus Christ Superstar), Darkness …fino ai giorni nostri con Bruno Mars, Mika e il vintage soul di Aaron Frazer quindi i Maroon Five, Justin Bieber, Pharrell Williams,  i sudcoreani BTS …
L’Italia ha qualcosa da dire al riguardo a partire dalla tradizione. Non disdegnavano gorgheggi o svolazzi “falsettati” Enrico Caruso (e si era a inizio 900) e Gill; quindi, nella seconda metà del secolo, voila Luciano Tajoli, Claudio Villa, Sergio Bruni, seguiti più avanti dal pop melodico di Flavio Paulin dei Cugini di Campagna e dal rock progressivo dei New Trolls, contemporanei dei Pooh (cfr. Massimo De Vincenzo, Storia del Falsetto. Dai castrati all’heavy metal, Youtube.com).
Discorso a parte meriterebbe Alan Sorrenti così come il semifalsetto di Mango e taluni interventi vocali dello stesso Battisti, senza parlare di Antonella Ruggiero per il semplice motivo che ci si sta occupando del falsetto maschile. Il quale anche in ambito classico ha continuato ad avere proseliti fino ad oggi, vedansi ad esempio il controtenore italiano Raffaele Pe sulla scia di Alfred Deller, David Daniels, Philippe Jaroussky, Jakub Jòzef Orlinski,  il russo Vitas … (cfr. sull’argomento Alessandro Mormile, Controtenori, Zecchini Ed.).

La magnifica “ossessione”
Su “eartworm” quella del falsetto è definita una “obsession” per molti vocalist mentre su djrobblog.com si produce una playlist di The Best Falsetto Singers “A Men Only” Club aggiornata al 2015 su cui ritroviamo interessanti presenze Motown (Robinson), soul (Russell Thompkins) e comunque con propaggini nella musica neroamericana come nel caso di David Peaston ma sempre con prevalenza del pop e rock.   Fatto è che se sul web artisti tipo Sam Smith, dal falsetto preponderante, viaggiano nel brano surricordato a colpi di un miliardo e mezzo di visualizzazioni, allora la cosa andrebbe in qualche modo attenzionata. Si è detto che il falsetto rincorre la leggiadria del canto infantile e la leggerezza di quello femminile ma forse ciò è riduttivo alla luce della sua diffusione. Intanto molti musicisti che lo possiedono accarezzano in fondo il sogno di una voce in grado di passeggiare sugli 88 tasti del pianoforte. E c’è pure Ligeti che ne ha scoperto il lato noir in “Le Grand Macabre” (1974) agli antipodi rispetto alla briosa teatralità settecentesca del musical “Falsettos” (1992), di William Finn e James Lapine, costituito dai due atti unici “March of the Falsettos” e “Falsettosland”.
A proposito di jazz soffermiamoci ora su un altro esperto della “voce di testa” cioè Bobby McFerrin, alla ribalta mondiale per “Don’t Worry. Be Happy” ma jazzista a tutto tondo. Le sue capriole vocali riescono a coniugare Bach e avanguardia a tribalismi africani con straordinaria naturalezza. Un simbolo vivente di come la musica jazz possa muoversi in libertà senza frontiere nel tempo o nello spazio. Ed ecco, in conclusione, una Playlist, del tutto soggettiva, con i “magnifici sette” jazzmen da noi preferiti fra coloro che vantano  attrezzi vocali  falsettofoni, con uso magari episodico, per un range più “espanso”. Nel jazz non è configurabile una categoria settoriale di vocalist “falsettisti” ma il falsetto od anche il “similfalsetto” (Scott) può far parte del bagaglio da cui trarre spunto nelle interpretazioni e improvvisazioni.  I nomi seguenti rappresentano solo una (opinabile) delle scelte possibili, potenzialmente tante specie ove si faccia un’affacciata al soul e dintorni:
Bobby McFerrin
Mark Murphy
Kurt Elling
David Peaston
Alan Harris
Thomas Allen
Jimmy Scott
Si è affidata al jazz la chiusura di questa storia parziale del registro vocale più “ambiguo” che, partendo da etno-musica e lirica, ha attraversato do- wop, mainstream, disco, funk, dance-pop, R&B e hip hop (la suddivisione riprende quella di The Male Falsetto, cult-sounds.com). La pubblichiamo con il fondato dubbio che se oggi Farinelli rinascesse sarebbe ancora una superstar!

Amedeo Furfaro- Franco Sorrenti

Wynton Marsalis vince il Praemium Imperiale 2023

Celmins per la pittura, Eliasson per la scultura, Kéré per l’architettura, Marsalis per la musica, Wilson per il teatro/cinema – Al Rural Studio e alla Harlem School of the Arts la Borsa di Studio per Giovani Artisti


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(La Japan Art Association ha annunciato i vincitori della trentaquattresima edizione del Praemium Imperiale: Vija Celmins (USA) per la pittura, Olafur Eliasson (Islanda/Danimarca) per la scultura, Diébédo Francis Kéré (Burkina Faso/Germania) per l’architettura, Wynton Marsalis (USA) per la musica, Robert Wilson (USA) per il teatro/cinema.
Gli artisti sono premiati per i risultati conseguiti, per l’influenza da essi esercitata sul mondo dell’arte a livello internazionale e per il contributo dato alla comunità mondiale con la loro attività.
Ciascuno dei vincitori riceverà un premio di 15 milioni di yen (circa 96.000 euro), un diploma e una medaglia. Quest’ultima sarà conferita dal Patrono onorario della Japan Art Association, il Principe Hitachi, durante la cerimonia di premiazione che si terrà a Tokyo il prossimo 18 ottobre.


Musicista dai molti talenti, Wynton Marsalis nato a New Orleans, Louisiana il 18 ottobre 1961, è universalmente apprezzato per le sue eccezionali doti di trombettista ed è stato premiato per le sue composizioni essendo un punto di riferimento per l’educazione musicale. Amante della musica in tutte le sue forme, la sua fama è legata in particolare al suo rapporto con il jazz, che considera la più grande forma d’arte originale d’America, alla pari con la musica classica occidentale.
Wynton è cresciuto in una famiglia ricca di talento musicale. Suo padre Ellis era un pianista jazz, nonché direttore del programma di jazz del New Orleans Center for the Creative Arts (NOCCA). Il fratello maggiore, Branford, è un celebre sassofonista, mentre i due fratelli più giovani, Delfeayo e Jason, sono affermati, rispettivamente, come trombonista e come percussionista. Marsalis ha frequentato il NOCCA durante le scuole superiori e ha studiato musica classica e jazz, suonando regolarmente con numerose jazz band a New Orleans, nonché con orchestre di musica classica ed ensemble.

Photo by JIM LO SCALZO/EPA-EFE

Marsalis si è anche distinto come compositore. I suoi lavori, in ambito jazz e classico, fanno di lui un autore capace di spaziare in modo eccezionale. Le composizioni Think of One e Haydn, Hummel, L. Mozart: Trumpet Concertos gli sono valse nel 1983 i Grammy Awards per la musica jazz e per la musica classica. Divenne così il primo musicista a essere premiato in entrambe le categorie nello stesso anno. Nel 1997 si aggiudicò il Premio Pulitzer con la composizione Blood on the Fields, un oratorio jazz che racconta la storia della schiavitù. In questo capolavoro Marsalis ci mostra il profondo legame che unisce la musica all’esperienza umana rappresentata.
Insieme a un gruppo di persone altrettanto appassionate, nel 1996 Marsalis ha fondato il Jazz at Lincoln Center come parte costitutiva del Lincoln Center, una istituzione di pari livello rispetto alla Filarmonica di New York, al New York City Ballet e al Metropolitan Opera. Attuale direttore generale e artistico del Jazz at Lincoln Center, nonché direttore della Jazz at Lincoln Center Orchestra, direttore di Jazz Studies alla Juilliard School e presidente della Louis Armstrong Educational Foundation, Marsalis rimane uno strenuo difensore dell’importanza della musica e in particolare della musica jazz. Egli ritiene che educare alla musica e interpretarla siano i due pilastri di questa missione.
Come trombettista che ha saputo dimostrare doti tecniche impeccabili, capacità di improvvisazione e una profonda conoscenza della tradizione jazz, Winton Marsalis ha svolto un ruolo importante nel superamento degli stereotipi “musica jazz per i neri” e “musica classica per i bianchi”. Come compositore, docente e promotore della musica jazz, è inoltre apprezzato per l’influenza significativa che ha esercitato sul mondo musicale.
Il Praemium Imperiale è il più importante premio d’arte esistente e viene assegnato in cinque discipline: pittura, scultura, architettura, musica, teatro/cinema. Esso conferisce un riconoscimento internazionale in campo artistico pari a quello dei Premi Nobel in campo scientifico.
I vincitori del 2023 andranno ad aggiungersi ai 170 artisti già insigniti del premio, tra i quali Claudio Abbado, Gae Aulenti, Ingmar Bergman, Luciano Berio, Cecco Bonanotte, Leonard Bernstein, Peter Brook, Anthony Caro, Enrico Castellani, Christo e Jeanne-Claude, Federico Fellini, Dietrich Fischer-Dieskau, Norman Foster, Frank Gehry, Jean-Luc Godard, David Hockney, Willem de Kooning, Akira Kurosawa, Wolfgang Laib, Sophia Loren, Umberto Mastroianni, Mario Merz, Issey Miyake, Riccardo Muti, Giulio Paolini, Giuseppe Penone, Dominique Perrault, Oscar Peterson, Renzo Piano, Michelangelo Pistoletto, Maya Plisetskaya, Maurizio Pollini, Arnaldo Pomodoro, Robert Rauschenberg, Mstislav Rostropovich, Ravi Shankar, Mitsuko Uchida, Giuliano Vangi.
La Japan Art Association è la più antica fondazione culturale del Giappone. Costituita nel 1887, organizza mostre d’arte e gestisce l’Ueno Royal Museum, situato nel Parco di Ueno a Tokyo.
La carica di Patrono onorario della Japan Art Association è sempre stata ricoperta da membri della Casa Imperiale, a partire dal Principe Arisugawa. Dal 1987, Patrono onorario è il Principe Hitachi, fratello minore dell’Imperatore emerito Akihito.
Nel 1988, per celebrare il centenario della Japan Art Association, fu istituito il Praemium Imperiale.
Il premio fu dedicato al Principe Nobuhito Takamatsu (1905-1987), Patrono onorario dell’associazione per 58 anni, sino alla sua scomparsa nel 1987. Fratello minore dell’Imperatore Hirohito, di cui non condivideva la politica militare, il Principe Takamatsu era profondamente convinto che il Giappone dovesse promuovere la pace nel mondo attraverso le arti. Questa sua convinzione è ancora oggi il motivo ispiratore del Praemium Imperiale.
Appositi Comitati presieduti dai Consiglieri internazionali presentano annualmente liste di candidati nelle cinque categorie.
Tra i Consiglieri internazionali figurano statisti ed esponenti di spicco del mondo imprenditoriale, finanziario e culturale: Lamberto Dini (ex-primo ministro italiano), Christopher Patten (cancelliere dell’Università di Oxford), Klaus-Dieter Lehmann (ex-presidente del Goethe-Institut), Jean-Pierre Raffarin (ex-primo ministro francese) e Hillary Rodham Clinton (ex-segretario di Stato degli Stati Uniti d’America).
I Comitati di selezione della Japan Art Association valutano le candidature e per ogni categoria selezionano un vincitore, che riceve l’approvazione finale dal consiglio di amministrazione dell’Associazione.
La prima cerimonia di premiazione ebbe luogo nel 1989. Da allora, ogni anno nel mese di ottobre si tiene al Meiji Memorial Hall di Tokyo una solenne cerimonia, alla presenza del Principe e della Principessa Hitachi e con tutti i vincitori. A causa della pandemia di covid-19 l’assegnazione del 32° Praemium Imperiale del 2020 è stata posticipata al 2021, in singole cerimonie tenutesi nelle sedi delle Ambasciate del Giappone dei Paesi di ciascun premiato. Nel 2022 si è ritornati alla cerimonia di premiazione a Tokyo.
La Borsa di Studio del Praemium Imperiale 2023 per Giovani Artisti è stata assegnata a Rural Studio (USA) e Harlem School of the Arts (USA).
L’annuncio e il conferimento della Borsa hanno avuto luogo il 12 settembre a New York, in una conferenza stampa presieduta dal Consigliere internazionale americano, l’ex-segretario di Stato Hillary Rodham Clinton. Ognuna delle due organizzazioni ha ricevuto un diploma e un contributo di 2,5 milioni di yen (circa 16.000 euro).
La Borsa è stata istituita nel 1997 per sostenere e incoraggiare i giovani artisti, in linea con gli obiettivi delle attività della Japan Art Association. Sono eligibili giovani promettenti artisti o organizzazioni che contribuiscano attivamente allo sviluppo dei giovani talenti. Gli artisti devono essere professionisti o in formazione. A rotazione ciascun Consigliere internazionale, consultandosi con il proprio comitato, seleziona il destinatario della borsa di studio e lo comunica alla Japan Art Association, che lo approva.
Il premio – un diploma e un contributo di 5 milioni di yen (circa 32.000 euro) che viene suddiviso tra i vincitori qualora ve ne sia più di uno – è conferito contestualmente all’annuncio del Praemium Imperiale nel Paese del Consigliere cui spetta la segnalazione. Quest’anno la scelta è stata fatta dal Consigliere internazionale americano Hillary Rodham Clinton.

(Redazione)