Wynton Marsalis vince il Praemium Imperiale 2023

Celmins per la pittura, Eliasson per la scultura, Kéré per l’architettura, Marsalis per la musica, Wilson per il teatro/cinema – Al Rural Studio e alla Harlem School of the Arts la Borsa di Studio per Giovani Artisti


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(La Japan Art Association ha annunciato i vincitori della trentaquattresima edizione del Praemium Imperiale: Vija Celmins (USA) per la pittura, Olafur Eliasson (Islanda/Danimarca) per la scultura, Diébédo Francis Kéré (Burkina Faso/Germania) per l’architettura, Wynton Marsalis (USA) per la musica, Robert Wilson (USA) per il teatro/cinema.
Gli artisti sono premiati per i risultati conseguiti, per l’influenza da essi esercitata sul mondo dell’arte a livello internazionale e per il contributo dato alla comunità mondiale con la loro attività.
Ciascuno dei vincitori riceverà un premio di 15 milioni di yen (circa 96.000 euro), un diploma e una medaglia. Quest’ultima sarà conferita dal Patrono onorario della Japan Art Association, il Principe Hitachi, durante la cerimonia di premiazione che si terrà a Tokyo il prossimo 18 ottobre.


Musicista dai molti talenti, Wynton Marsalis nato a New Orleans, Louisiana il 18 ottobre 1961, è universalmente apprezzato per le sue eccezionali doti di trombettista ed è stato premiato per le sue composizioni essendo un punto di riferimento per l’educazione musicale. Amante della musica in tutte le sue forme, la sua fama è legata in particolare al suo rapporto con il jazz, che considera la più grande forma d’arte originale d’America, alla pari con la musica classica occidentale.
Wynton è cresciuto in una famiglia ricca di talento musicale. Suo padre Ellis era un pianista jazz, nonché direttore del programma di jazz del New Orleans Center for the Creative Arts (NOCCA). Il fratello maggiore, Branford, è un celebre sassofonista, mentre i due fratelli più giovani, Delfeayo e Jason, sono affermati, rispettivamente, come trombonista e come percussionista. Marsalis ha frequentato il NOCCA durante le scuole superiori e ha studiato musica classica e jazz, suonando regolarmente con numerose jazz band a New Orleans, nonché con orchestre di musica classica ed ensemble.

Photo by JIM LO SCALZO/EPA-EFE

Marsalis si è anche distinto come compositore. I suoi lavori, in ambito jazz e classico, fanno di lui un autore capace di spaziare in modo eccezionale. Le composizioni Think of One e Haydn, Hummel, L. Mozart: Trumpet Concertos gli sono valse nel 1983 i Grammy Awards per la musica jazz e per la musica classica. Divenne così il primo musicista a essere premiato in entrambe le categorie nello stesso anno. Nel 1997 si aggiudicò il Premio Pulitzer con la composizione Blood on the Fields, un oratorio jazz che racconta la storia della schiavitù. In questo capolavoro Marsalis ci mostra il profondo legame che unisce la musica all’esperienza umana rappresentata.
Insieme a un gruppo di persone altrettanto appassionate, nel 1996 Marsalis ha fondato il Jazz at Lincoln Center come parte costitutiva del Lincoln Center, una istituzione di pari livello rispetto alla Filarmonica di New York, al New York City Ballet e al Metropolitan Opera. Attuale direttore generale e artistico del Jazz at Lincoln Center, nonché direttore della Jazz at Lincoln Center Orchestra, direttore di Jazz Studies alla Juilliard School e presidente della Louis Armstrong Educational Foundation, Marsalis rimane uno strenuo difensore dell’importanza della musica e in particolare della musica jazz. Egli ritiene che educare alla musica e interpretarla siano i due pilastri di questa missione.
Come trombettista che ha saputo dimostrare doti tecniche impeccabili, capacità di improvvisazione e una profonda conoscenza della tradizione jazz, Winton Marsalis ha svolto un ruolo importante nel superamento degli stereotipi “musica jazz per i neri” e “musica classica per i bianchi”. Come compositore, docente e promotore della musica jazz, è inoltre apprezzato per l’influenza significativa che ha esercitato sul mondo musicale.
Il Praemium Imperiale è il più importante premio d’arte esistente e viene assegnato in cinque discipline: pittura, scultura, architettura, musica, teatro/cinema. Esso conferisce un riconoscimento internazionale in campo artistico pari a quello dei Premi Nobel in campo scientifico.
I vincitori del 2023 andranno ad aggiungersi ai 170 artisti già insigniti del premio, tra i quali Claudio Abbado, Gae Aulenti, Ingmar Bergman, Luciano Berio, Cecco Bonanotte, Leonard Bernstein, Peter Brook, Anthony Caro, Enrico Castellani, Christo e Jeanne-Claude, Federico Fellini, Dietrich Fischer-Dieskau, Norman Foster, Frank Gehry, Jean-Luc Godard, David Hockney, Willem de Kooning, Akira Kurosawa, Wolfgang Laib, Sophia Loren, Umberto Mastroianni, Mario Merz, Issey Miyake, Riccardo Muti, Giulio Paolini, Giuseppe Penone, Dominique Perrault, Oscar Peterson, Renzo Piano, Michelangelo Pistoletto, Maya Plisetskaya, Maurizio Pollini, Arnaldo Pomodoro, Robert Rauschenberg, Mstislav Rostropovich, Ravi Shankar, Mitsuko Uchida, Giuliano Vangi.
La Japan Art Association è la più antica fondazione culturale del Giappone. Costituita nel 1887, organizza mostre d’arte e gestisce l’Ueno Royal Museum, situato nel Parco di Ueno a Tokyo.
La carica di Patrono onorario della Japan Art Association è sempre stata ricoperta da membri della Casa Imperiale, a partire dal Principe Arisugawa. Dal 1987, Patrono onorario è il Principe Hitachi, fratello minore dell’Imperatore emerito Akihito.
Nel 1988, per celebrare il centenario della Japan Art Association, fu istituito il Praemium Imperiale.
Il premio fu dedicato al Principe Nobuhito Takamatsu (1905-1987), Patrono onorario dell’associazione per 58 anni, sino alla sua scomparsa nel 1987. Fratello minore dell’Imperatore Hirohito, di cui non condivideva la politica militare, il Principe Takamatsu era profondamente convinto che il Giappone dovesse promuovere la pace nel mondo attraverso le arti. Questa sua convinzione è ancora oggi il motivo ispiratore del Praemium Imperiale.
Appositi Comitati presieduti dai Consiglieri internazionali presentano annualmente liste di candidati nelle cinque categorie.
Tra i Consiglieri internazionali figurano statisti ed esponenti di spicco del mondo imprenditoriale, finanziario e culturale: Lamberto Dini (ex-primo ministro italiano), Christopher Patten (cancelliere dell’Università di Oxford), Klaus-Dieter Lehmann (ex-presidente del Goethe-Institut), Jean-Pierre Raffarin (ex-primo ministro francese) e Hillary Rodham Clinton (ex-segretario di Stato degli Stati Uniti d’America).
I Comitati di selezione della Japan Art Association valutano le candidature e per ogni categoria selezionano un vincitore, che riceve l’approvazione finale dal consiglio di amministrazione dell’Associazione.
La prima cerimonia di premiazione ebbe luogo nel 1989. Da allora, ogni anno nel mese di ottobre si tiene al Meiji Memorial Hall di Tokyo una solenne cerimonia, alla presenza del Principe e della Principessa Hitachi e con tutti i vincitori. A causa della pandemia di covid-19 l’assegnazione del 32° Praemium Imperiale del 2020 è stata posticipata al 2021, in singole cerimonie tenutesi nelle sedi delle Ambasciate del Giappone dei Paesi di ciascun premiato. Nel 2022 si è ritornati alla cerimonia di premiazione a Tokyo.
La Borsa di Studio del Praemium Imperiale 2023 per Giovani Artisti è stata assegnata a Rural Studio (USA) e Harlem School of the Arts (USA).
L’annuncio e il conferimento della Borsa hanno avuto luogo il 12 settembre a New York, in una conferenza stampa presieduta dal Consigliere internazionale americano, l’ex-segretario di Stato Hillary Rodham Clinton. Ognuna delle due organizzazioni ha ricevuto un diploma e un contributo di 2,5 milioni di yen (circa 16.000 euro).
La Borsa è stata istituita nel 1997 per sostenere e incoraggiare i giovani artisti, in linea con gli obiettivi delle attività della Japan Art Association. Sono eligibili giovani promettenti artisti o organizzazioni che contribuiscano attivamente allo sviluppo dei giovani talenti. Gli artisti devono essere professionisti o in formazione. A rotazione ciascun Consigliere internazionale, consultandosi con il proprio comitato, seleziona il destinatario della borsa di studio e lo comunica alla Japan Art Association, che lo approva.
Il premio – un diploma e un contributo di 5 milioni di yen (circa 32.000 euro) che viene suddiviso tra i vincitori qualora ve ne sia più di uno – è conferito contestualmente all’annuncio del Praemium Imperiale nel Paese del Consigliere cui spetta la segnalazione. Quest’anno la scelta è stata fatta dal Consigliere internazionale americano Hillary Rodham Clinton.

(Redazione)

Per la canzone è imprescindibile la collaborazione tra cantautore e musicista: intervista con Trebbi e Petretti di Schola Romana

I lettori di “A proposito di jazz” sanno bene come alle volte amiamo invadere, pacificamente, territori altrui occupandoci di musiche che poco o nulla hanno a che vedere con il jazz. Oggi lo facciamo segnalandovi un album di grande interesse. Stiamo parlando di “diecidecimi” un concept album realizzato da Schola Romana e dedicato alla Capitale. Per farlo ne parliamo con Davide Trebbi e Edoardo Petretti responsabili primari del progetto

-Che cos’è la Schola Romana? Quali i suoi obiettivi?
“Schola Romana – risponde Davide Trebbi – è un progetto musicale, collettivo, che nasce nel 2012 e che viene presentato lo stesso anno con due concerti al Teatro Trastevere di Roma. Ha lo scopo di comporre nuova musica in vernacolo romanesco e, quando possibile, di fare anche un’operazione di recupero del passato, vale a dire anche della musica che è stata creata a Roma negli ultimi 100, 150 anni. Così, quando andiamo a prendere una canzone come “Nina si voi dormite” del 1901 composta da Romolo Leonardi e Amerigo Marino o “Barcarolo romano” scritto da Romolo Balzani e Pio Pizzicaria nel 1926 le riattualizziamo a modo nostro… ma arriviamo fino agli anni ’70 ad esempio con Stefano Rosso o Antonello Venditti che cantava in romanesco. Inoltre ci sono pezzi più “moderni” come “A Cristo” ballata politica e ironica che suona come un nostro omaggio all’autore Antonello Venditti e “Stazione Termini” di Franco Cerri cantata all’epoca in Rai da Bruno Martino; a ciò si aggiungano parecchi original tra cui, tanto per citare qualche titolo, “L’albero”, ispirato dall’attuale conflitto in Ucraina”.

-Qual è l’obiettivo finale della vostra azione?
“Cercare di fare uscire la canzone romana dallo stereotipo dello stornello, dell’osteria caciarona magari con troppo vino regalato, buttato lì così e dare una giusta dignità ad un dialetto che in Italia è molto apprezzato e che avuto molti illustri autori a partire dal Belli fino a giungere a Pascarelli e Trilussa. Ho citato Pascarella perché da lui abbiamo tratto profonda ispirazione come in “Interno 5” ispirata proprio alla prosa dello scrittore che ci porta in una casa, in un condominio come tanti, caratterizzato da umanità diverse e differenti sensibilità artistiche”.

-Parliamo del disco e questa volta mi rivolgo a Lei, Edoardo Petretti. Ho letto che Lei si interessa anche di jazz però, mi scusi, ma nel disco in oggetto di jazz ne ho sentito pochino. E’ una scelta voluta o cos’altro?
“È una scelta voluta perché a mio avviso non sempre il jazz al servizio della canzone è efficace. Per me il jazz è anche un approccio quindi cercare quello che il jazz insegna anche in altri generi musicali, cercare la sorpresa, cercare di costruire dei momenti che evadano dalla tonalità inziale e che poi ritornino alla tonalità iniziale. In alcune composizioni jazz c’è una concezione quasi rapsodica, quindi il continuo trasformarsi dell’armonia di impianto: ecco queste sono alcune mie riflessioni che io lego al mio ruolo, tornando al disco, di arrangiatore e coautore di alcuni brani. La funzione di un arrangiatore è quella di far sì che esista un equilibrio costante tra parole e musica e nel nostro caso il problema è più delicato in quanto il suono delle parole appartiene ad un suono dialettale. Prendiamo un esempio: “Stazione Termini”. E’ un brano di Franco Cerri che ho scoperto da poco e che contiene tutti gli elementi che noi cercavamo e cioè troviamo Roma, c’è il jazz, e c’è la canzone d’autore”.

-Sempre con riferimento all’album, ho trovato un elemento inconsueto ma per me positivo: la brevità. Vi eravate posti questo obiettivo sin dall’inizio o è venuto lavorando?
“Sicuramente – risponde ancora Petretti – è un obiettivo che si è concretizzato lavorando, anche se, pensando al disco precedente, è anche una sorta di attitudine del nostro lavorare insieme. È anche un mio personalissimo approccio nel senso che dal disco al concerto amo offrire un pensiero chiaro cercando di eliminare tutto ciò che può non servire ed è un lavoro molto difficile. In ogni caso ci tengo a dire che non è un’esigenza di carattere commerciale”.

Parlando proprio del mondo della canzone italiana io sono molto critico nel senso che molti di questi “campioni” che nell’arco di brevissimo tempo compaiono e poi scompaiono, hanno una carriera così breve perché o cantano male o non sanno per nulla cantare, ma in compenso si ergono a maître à penser. E il paragone con ciò che accade in Inghilterra o negli States è davvero impietoso. Qual è la vostra opinione al riguardo?
Potremmo partire – risponde Trebbi – dal lato politico e sociale del problema e al riguardo ti potrei dire che innanzitutto mancano gli investimenti soprattutto da parte dell’industria. Ora se da un lato mancano gli investimenti dell’industria, e dall’altro crollano gli investimenti sulla cultura tutta, ovviamente non puoi che scimmiottare. Se tu svuoti un Paese dall’interno a livello culturale, poi scimmiotti chi all’estero è davvero in grado di produrre qualcosa di nuovo e originale. C’è da aggiungere che la crisi è di carattere globale, non solo economico, e quindi si avverte a tutti i livelli. Per esempio: a noi piacerebbe moltissimo fare i concerti pomeridiani, della giusta durata, un’ora e un quarto, un’ora e mezza, bis e appalusi inclusi …”

-A chi lo dice…
“Ecco all’estero la musica ha un suo spazio per cui non c‘è bisogno di dire alle 21 per poi cominciare alle 22,30. Tutto ciò secondo me è anche il frutto della crisi economica. A ciò si aggiunga un ulteriore elemento: in Italia i grandi non aiutano alcuno; altrove, specialmente in Inghilterra, i grandi tirano fuori dei “piccoli” ma di grandissimo talento che lanciano sulle scene senza gelosia alcuna, anzi…Qui da noi questo non accade…complimenti tanti, ma fatti pochi”.

-In tale quadro, che ruolo gioca la critica musicale nel nostro Paese?
“Quando si parla di questo problema – risponde Trebbi – a me viene sempre in mente Bertoncelli per l’ormai famosa diatriba con Guccini sul brano “L’Avvelenata”. Il discorso è pericoloso ma non so davvero risponderti in modo costruttivo. Come al solito se mancano gli investimenti si svuota tutto e non esce alcunché di veramente interessante”.

-Torniamo al disco. Quali sono le maggiori differenze rispetto al precedente album?
“Innanzitutto – è Petretti che parla – questo è il primo vero risultato prodotto dalla collaborazione tra me e Trebbi. Una cosa è sentire un disco concepito e prodotto da due cantautori, altra cosa è un album concepito e prodotto da un cantautore e un musicista”.

-Pardon, ma perché questa differenza tra cantautore e musicista?
“Ci sono semplicemente delle caratteristiche differenti: si tratta sostanzialmente di un approccio diverso alla struttura formale di un disco, anche se nella canzone le due figure sono assolutamente indispensabili. Dal punto di vista compositivo sento una scrittura più matura, dei rischi maggiori anche se nel disco precedente c’erano anche degli intermezzi musicali di cui mi sono occupato, però la sensazione che ho ascoltando “diecidecimi” è che ci sia un connubio più completo tra musica e parola”.

-Mi incuriosisce molto questa indispensabilità tra le due figure: potrebbe spiegarsi più compiutamente? Forse vuol dire che accanto ai grandi cantautori ci sono sempre stati grandi musicisti?
“Io penso assolutamente di sì…sono pronto ad essere smentito, però la grande musica che ha fatto la storia nel nostro Paese è scaturita da questa comunione e per allacciarmi a quanto si diceva prima mancano dei musicisti formati, dei musicisti esperti che siano in grado di affiancare un artista nel momento della scrittura di canzoni. Penso a Sting, a Peter Gabriel e ritengo che senza quei musicisti che hanno orbitato attorno a questi grandi artisti forse non avremmo oggi i capolavori che tutti ammiriamo”.

-Ma non pensate che, venendo in Italia, il grandissimo Lucio Dalla potesse racchiudere ambedue le figure?
“Sicuramente sì – ci dice Petretti – ma è un unicum”.
“Io mi permetto di contraddirti – interviene Trebbi – ma in maniera molto soft affermando che molto più completo era Fossati”.

-Il disco sta ottenendo un ottimo successo come si dice di pubblico e di critica. Adesso dove andiamo?
“Siccome scrivere in romanesco è facile come per un italiano scrivere in inglese, – aggiunge Trebbi – a me piacerebbe molto portare Schola Romana a Napoli, Palermo, Bari e vedere se a livello nazionale si può portare non solo il dialetto ma quello che noi raccontiamo”
“A me – aggiunge Petretti – piacerebbe portarlo fuori dall’Italia anche se mi rendo conto che è molto più difficile”.

E con questo auspicio si chiude la nostra conversazione con l’invito ad ascoltare l’album in oggetto: ne vale la pena.

Gerlando Gatto

Danilo Blaiotta: c’è bisogno di un jazz “politico”

Tra i tanti dischi che mi arrivano, ce n’è stato uno che mi ha particolarmente colpito per la materia trattata e per come la musica fosse assolutamente pertinente con le enunciazioni dell’artista. Sto parlando di “Planetariat” inciso dal pianista e compositore Danilo Blaiotta che i lettori di “A proposito di jazz” conoscono già come raffinato commentatore avendo egli stesso scritto alcuni articoli che hanno trovato unanimi consensi.
L’album è stato registrato per Filibusta Records da un gruppo comprendente Eleonora Tosto voce recitante e voci, Achille Succi sax alto e clarinetto basso, Stefano Carbonelli chitarra e voci ed Evita Polidoro alla batteria.
Spinto dalla curiosità di capire meglio le motivazioni di Blaiotta, gli ho chiesto un’intervista e ciò che leggerete qui di seguito ne è il risultato.

– Innanzitutto un complimento nel senso che veramente di rado la musica che si ascolta nel disco corrisponde alle reali intenzioni del musicista. Nel suo caso invece la coerenza tra musica e titoli è perfetta: ascoltando il disco si immagina immediatamente ciò che voleva esprimere. Una musica “politica” nell’accezione più alta del termine.
“Sì, ha ragione. Si tratta di un disco “politico” anche se io amerei definirlo meglio un disco “sociale”. Ho avuto una frequentazione molto gratificante con il poeta della controcultura americana -nonché uno dei massimi esponenti dell’era post-beat generation- Jack Hirschman, scomparso circa un anno fa, il quale ha avuto un forte impatto non solo emotivo, estetico ma anche di carattere politico e sociale sul mio modo di vedere la realtà. In effetti l’ho conosciuto da piccolo, grazie alle frequentazioni della mia famiglia, mio padre in particolare, poeta e pittore. Alla sua scomparsa ho messo insieme due cose: il dolore per la sua perdita e le mie impressioni sull’attualità”.

– A suo avviso è riproponibile una sorta di “jazz politico” come quello che abbiamo registrato negli anni ’70 con i molteplici equivoci che si è portato appresso?
“A mio avviso è molto più importante oggi piuttosto che negli anni Settanta. In quegli anni si era appena usciti dal boom economico e nel mondo si registrava un certo tasso di eguaglianza che oggi ce lo sogniamo. Quindi, ripeto, oggi è molto più importante la presenza di un jazz politico o comunque di forme d’arte che vanno verso il sociale; il problema è che oggi queste denunce si fanno sempre meno. Forse si ha paura, intendiamoci più che lecitamente, di farle. Non a caso, ascoltando questo mio disco, in molti hanno sottolineato il coraggio di aver voluto parlare di certi argomenti. Probabilmente se ne sente il bisogno ma non si trova lo spazio”.

– Lei lo spazio l’ha trovato; allora perché non lo trovano anche gli altri?
“Intendiamoci: certo che si può fare; il problema è che magari non ci si vuole esporre a certi giudizi che potrebbero nuocere alla diffusione delle idee, in questo caso trasmesse attraverso la musica. A ciò si aggiunga un certo assenteismo dai problemi di carattere sociale come conseguenza di un appiattimento culturale che ci condanna a poca riflessione”.

– Ma lei non pensa che una denuncia del genere proveniente dall’ambiente del jazz italiano , non proprio esemplare, possa risultare poco credibile?
“In che senso?”

– Io credo che una denuncia di tal fatta debba provenire da chi ha tutte le carte in regola per poterla fare; ecco a mio avviso il mondo del jazz italiano tutte queste carte in regola non le ha…
“Lei cerca di farmi dire delle cose che forse è meglio che io non dica. Il jazz italiano, come tutto ciò che accade nella nostra società negli ultimi anni, si è un po’ arreso dinnanzi allo spirito critico, si è forse imborghesito…se possiamo utilizzare questa espressione. Adesso faccio un parallelismo con la musica classica: sia in questa sia nel jazz il pubblico va lentamente scomparendo come effetto di una certa auto-ghettizzazione. Nella classica il pubblico ha di media 70-80, nel jazz magari ne ha 60 ma proseguendo di questo passo le conseguenze sono facilmente immaginabili. C’è poi un altro fattore: tutto sta diventando molto accademico; anche i jazzisti della mia generazione devono quasi difendere un fortino piuttosto che trasmettere una denuncia. La difesa del fortino produce l’implosione delle idee mentre bisognerebbe capire come entrare nella società contemporanea, certo non solo con le denunce.”

– Tutto giusto; ma una domandina semplice semplice: come se ne esce?
“Ovviamente non è una risposta facile; innanzitutto bisogna uscirne vivi fisicamente e intellettualmente. E poi bisogna uscirne politicamente, ma se non c’è cultura non c’è politica. I momenti di massima proliferazione culturale coincidevano con i periodi in cui anche l’economia andava molto bene; le due cose sono collegate. Molto spesso si associa la proliferazione culturale al denaro ma perché non provare a fare l’inverso, cioè servirsi della cultura come volano per migliorare la situazione economica di tutti. Ecco, questa è la sfida che ci attende anche perché altrimenti non credo ne usciamo, tanto per tornare alla domanda”.

– Dopo che ci siamo sfogati sul piano sociale, parliamo di musica tornando al disco. A me pare che ogni brano abbia una sua ben individuabile specificità. E’ così?
“Assolutamente sì. Intanto sono molto felice di aver suonato con questo quintetto nuovo di zecca, dopo aver prodotto in piano trio – con Jacopo Ferrazza al contrabbasso e Valerio Vantaggio alla batteria– due dischi di stampo acustico. Questo è un disco che trascende dalle precedenti esperienze anzitutto dal punto di vista timbrico: ho composto i brani partendo dall’elettronica, affidandomi totalmente all’espressività di tale strumentazione per la scrittura, cosa mai avvenuta prima per quanto mi riguarda. E poi sono lietissimo di aver collaborato con musicisti straordinari: anzitutto la grandissima attrice e cantante Eleonora Tosto, mia partner in tante produzioni sia musicali che teatrali, e poi Stefano Carbonelli (chitarra e voci) e Achille Succi (sax alto e clarinetto basso) quest’ultimo al mio fianco in svariati progetti già dal 2011. Infine c’è Evita Polidoro che è una scoperta incredibile, una batterista straordinaria non a caso molto richiesta anche da stelle di primaria grandezza come D.D. Bridgewater e Enrico Rava. Tornando alla domanda, inizio con il far notare l’acrostico che fuoriesce dalle prime lettere degli undici brani – “Human Rights” – palese omaggio ai diritti umani. Quasi tutti i brani contengono i versi del poeta Jack Hirschman citato prima. Il mio è dunque anche un omaggio, oltre che alla sua arte, alle sue battaglie contro il capitalismo sfrenato e senza regole”.

– E per quanto concerne i singoli brani?
Il disco si apre con “Human Being” che è una sorta di ouverture; successivamente la voce di Hirschman introduce “Under Attack. Gaza” evidentemente inerente ai bombardamenti nella striscia di Gaza, seguito da “Mama Africa. Multinationals’ Hands of Blood” un omaggio all’Africa da sempre depredata dalle multinazionali. Con “A Street of Walls” ho voluto rivolgere una critica al sistema capitalistico mentre con “Nasty Angry Tyrannical Order” ho rinominato la NATO con riferimento a quel ventennio di aggressioni in Iraq e Afganistan che ha prodotto i guasti che tutti conosciamo, più di un milione di morti.  Il sesto brano è una bellissima poesia di Jack, “The Homeland Arcane” da cui ho tratto “Real Earth” , dedicato all’inquinamento ambientale, probabilmente il problema più grave e urgente del nostro pianeta; a seguire una critica all’imperialismo, “Imperialism. Unequal Feelings” (feeling diseguali). “Gino’s Eyes” è un omaggio a Gino Strada, agli occhi di questo straordinario uomo che negli ultimi tempi vedevo particolarmente stanco e sfiduciato, forse perché provato da ennesime guerre. Di certo erano anche occhi dolci: tutti gli uomini buoni hanno uno sguardo che esprime tenerezza e ciò spiega perché il brano è composto in forma di ballad. “Hiddens. A Mediterranean Requiem” vuole invece ricordare i troppi morti annegati nelle acque del Mediterraneo; poi con “Troika’s Madness. For Hellas” c’è una violenta critica a ciò che è successo nel 2015 quando la famigerata Troika sostanzialmente rovinò la Grecia e portò alla disperazione migliaia di persone…la Grecia è fondamentale per l’Europa, per l’Italia, senza di essa non ci saremmo stati tutti noi e non a caso per scrivere questo pezzo ho utilizzato la scala misolidia antica, inventata – a quanto si tramanda – dalla poetessa Saffo, che corrisponde alla moderna scala frigia nel jazz. C’è da sottolineare che ad ogni brano si accompagna una poesia di Hirschman dedicata all’argomento in oggetto. L’album chiude con “Stop!” che vuole essere un appello a far sì che non accada più tutto questo”.

– Qual è il brano cui è più affezionato?
“Cerco di capirlo io stesso ma non è facile. Non so decidermi. Quando scrivo i miei album li strutturo come fossero parte di una suite, anche se questa volta ciò non appare così chiaramente come ad esempio nel precedente. E’ comunque difficile scegliere un brano specifico all’interno di un contenitore in cui si susseguono diverse situazioni”.

– La produzione è…
“Di Filibusta Records, che mi segue fin dal primo album a mio nome. Spesso oggi si parla piuttosto male delle case discografiche. C’è da dire, però, che nella melma ci sono sì i musicisti ma anche le case discografiche in quanto sui diritti d’autore non è che si guadagni chissà quanto. Siamo tutti nella stessa barca: basti pensare che i produttori nel jazz fanno tutti un altro mestiere. Comunque qualcosa da migliorare ci sarebbe, ad esempio in SIAE: non capisco perché il diritto di autore debba essere ricompensato sulla base degli ascolti e non su un auspicabile livellamento. Secondo me l’apice di questa rovina è stato il principio dell’uno uguale uno perché se tutto è generato dal mercato siamo davvero alla fine”.

– Ancora con riferimento al disco, anche la copertina è particolarmente indovinata, del tutto pertinente con la musica.
“Sì, la copertina è molto bella: è di Aurora Parrella, una giovane pittrice e restauratrice molto brava, un olio su tela che le ho commissionato io stesso. Poi ci sono le foto di Laura Barba e voglio ringraziare molto Enrico Furzi del Recording Studio La Strada e il suo assistente Francesco Bennati, perché abbiamo fatto un lavoro egregio: questo disco non è stato semplice da registrare”.

Gerlando Gatto

Grande jazz al Festival di Palermo: il SJF in programma dal 23 giugno al 2 luglio

Cari amici, il team di “A Proposito di Jazz” è lieto di comunicarvi una nuova iniziativa che speriamo possa risultare di vostro interesse, la nostra inchiesta su: il Jazz in Sicilia.
L’Isola presenta, in effetti, molti aspetti paradossali ma ce n’è uno che riguarda da vicino il nostro microcosmo. Non c’è dubbio alcuno che la Sicilia sia una delle più belle terre da visitare: un clima splendido, una cucina tradizionale di grande spessore, bellezze storiche, artistiche e naturalistiche su cui non è necessario spendere ulteriori parole. A fronte di tutto ciò, la situazione lavorativa è drammatica… e non da oggi. Il nostro direttore appartiene a quella categoria di chi, alla fine degli anni ’60, fu costretto a stabilirsi a Roma per trovare soddisfacenti condizioni di lavoro.
Dal punto di vista jazzistico, oggi come ieri, la Sicilia è terra fertile di talenti: sono davvero tantissimi i jazzisti siciliani che si sono fatti onore anche al di là delle Alpi. Eppure, nonostante le difficili condizioni lavorative cui prima si faceva riferimento, molti artisti, anche dopo esperienze vissute altrove, hanno preferito ritornare alla terra d’origine per stabilirvisi definitivamente.
Ecco questa inchiesta tende a scoprire quali sono “i segreti” che hanno così fortemente condizionato moltissimi musicisti… ma anche a darvi conto di ciò che di importante accade nell’Isola. Il tutto ovviamente senza alcuna pretesa di esaustività.
Ci pare quindi opportuno iniziare questa avventura presentando la terza edizione del Sicilia Jazz Festival che si terrà a Palermo dal 23 giugno al 2 luglio.
Seguirà una vasta serie di ritratti, recensioni discografiche, interviste che abbiamo condotto su larga scala avvicinando molti musicisti che abitano in Sicilia senza però trascurare quanti, e sono una minoranza, hanno fatto una scelta diversa.
Buona lettura! (Marina Tuni, redazione APdJ)
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Si svolgerà a Palermo dal 23 giugno al 2 luglio la terza edizione del Sicilia Jazz Festival, promosso ed organizzato dalla Regione Siciliana – Assessorato al Turismo, Sport e Spettacolo, frutto della collaborazione con il Comune e l’Università degli Studi di Palermo, la Fondazione the Brass Group e i Conservatori di Musica siciliani
La manifestazione sembra avere tutte le carte in regola per bissare il successo degli anni scorsi; in effetti, come abbiamo spesso sottolineato specie in questi ultimi tempi, un Festival Jazz a nostro avviso si giustifica solo se in strettissima relazione con il territorio nel cui ambito insiste. Insomma non solo musica ma anche valorizzazione di tutto ciò che il territorio stesso rappresenta, quindi spazio ai talenti locali, forti richiami alle tradizioni culturali, alle testimonianze archeologiche, ai prodotti della terra e via discorrendo.
Ecco, il festival siciliano risponde appieno a questo tipo di peculiarità: per quanto concerne i talenti locali saranno presenti anche quest’anno con numerose esibizioni i dipartimenti jazz dei conservatori “Vincenzo Bellini” di Catania, “Arcangelo Corelli” di Messina, “Alessandro Scarlatti” di Palermo, “Antonio Scontrino” di Trapani, e “Arturo Toscanini” di Ribera al cui interno spiccano come special guest i nomi di Paolo Damiani e Nicky Nicolai.

Per quanto riguarda le location, anche questa terza edizione del Sicilia Jazz Festival vuole rivolgersi alla valorizzazione di luoghi particolarmente significativi per riscoprirli nella loro pienezza storica e culturale in quanto la musica è un linguaggio universale, da tutti compreso senza limiti di età e di genere, senza limiti di appartenenza e di razza. Prova ne sia l’altra importante novità di quest’anno costituita dal fatto che verranno realizzati alcuni spettacoli a Palazzo Butera, per valorizzare ancora di più le bellezze storiche e monumentali della Sicilia.
Ma tutto ciò non avrebbe senso compiuto se non fosse accompagnato da un programma musicale di sicuro livello.
Anche da questo punto di vista, il Festival non ha alcunché da invidiare ad altre situazioni grazie alla scelta oculata degli organizzatori che hanno previsto per il capoluogo siciliano un cast davvero eccellente. Ma la bontà del Festival non si gioca solo sui grandi nomi, dal momento che saranno proposti più di 100 concerti, di cui 10 produzioni orchestrali originali in scena in alcuni siti del centro storico di Palermo quali Palazzo Butera, Palazzo Chiaramonte Steri, il Complesso Monumentale Santa Maria dello Spasimo, il Real Teatro Santa Cecilia e il Teatro di Verdura di Villa Castelnuovo. Sono previste altresì 4 prime assolute di produzioni inedite appositamente commissionate.
Ma vediamo, seppure a grandi linee, cosa ci propone il SJF con specifico riferimento alle “stelle” di primaria grandezza: apertura venerdì 23 giugno allo Steri con Marcus Miller, fuori abbonamento; seguiranno, tutti al Teatro di Verdura, i concerti di Diane Schurr il 24 giugno; Bob Mintzer il 25 giugno; Gregory Porter il 26 giugno; Anastacia il 27 giugno; Al McKay – Earth Wind & Fire Experience il 28 giugno; Judith Hill il 29 giugno; Dave Holland il 30 giugno; Manuel Agnelli il 1 luglio; The Manhattan Transfer il 2 luglio.
Tutti questi concerti saranno accompagnati dall’Orchestra Jazz Siciliana diretta, volta per volta, da Carolina Bubbico, Giuseppe Vasapolli, Dave Holland, Bob Mintzer, Domenico Riina, Antonino Pedone, Gianna Fratta e Vito Giordano.
Nel corso della conferenza stampa di presentazione, sono stati presentati anche alcuni dati a significare l’importanza della manifestazione. In particolare da segnalare un incremento del 104% per gli abbonamenti realizzati con ben 955 del 2023 al 3 maggio ; ed ancora le entrate di botteghino (dati SIAE) di € 88.802,00 il primo anno, € 147.643,22 con un incremento del 66,26% il secondo anno e € 129.741,00 al 3 maggio scorso per il terzo anno; il numero complessivo degli eventi è stato di 56 nel 2021, 100 nel 2022 con un incremento del 78.57% e 107 nel 2023 con un incremento del +7 % rispetto all’anno precedente; il numero di giornate lavorative dei musicisti residenti è di 693 nel 2021, 1.118 nel 2022 con un incremento del 61.33 % e 1.365 nel 2023 con un incremento del 22.09 %; non si deve trascurare anche il numero di prime esecuzioni assolute con un incremento nel 2023 del 33,33%.
Insomma ci sono tutte le premesse affinché anche l’edizione di quest’anno sia un grande successo.

Gerlando Gatto

AHMAD JAMAL: il pianismo di un anticonformista visionario

“Ahmadiyya” era chiamata la comunità islamica a cui, nel 1951,  il giovane Frederick Russell Jones affida la sua vita spirituale. Mirza Ghulam Ahmad, suo fondatore nell’India di fine ‘800, venne allontanato dall’Islam ufficiale e divenne quindi un eretico. Fino ad oggi, Ahmadiyya non appartiene alla stragrande percentuale dell’Islam sunnita. Jones si affida al profeta Ahmad e dalla sua conversione diviene Ahmad Jamal.
Parto da qui, per delineare i tratti più evidenti del profilo di uno dei più grandi pianisti della storia del jazz, scomparso il 16 aprile scorso ad Ashley Falls, Massachusetts.
La storia con la quale ho principiato vi racconta subito di un anticonformista per vocazione, una mina vagante in un periodo nel quale la musica jazz seguiva percorsi quasi obbligati: gli anni del bop, quelli del cool, l’hard-bop. Ahmad Jamal era però tutto e niente. Era un’altra storia.

Il pianista solista di jazz si accompagnava, nell’era post-bop, con la classica ritmica contrabbasso/batteria. La prima formazione di un Jamal poco più che ventenne si avvale invece di contrabbasso e chitarra – Ray Crawford e Eddie Calhoun – come i trio di Nat King Cole e Art Tatum. I pianisti di allora inseguivano le funambolerie bop di Bud Powell e Wynton Kelly. Jamal crea spazi, usa l’armonia come fraseggio, cambia le carte in tavola.
Miles Davis lo ascoltò a Chicago nei primi ’50, ne rimase estasiato e ne divenne amico e supporter, tanto da affermare che Jamal fosse un vero e proprio riferimento per la sua musica. Viene naturale chiedersi allora come mai preferisce nelle sue formazioni pianisti come Horace Silver prima, Red Garland e Bill Evans poi.
Nel 1958 la carriera di Jamal esplose letteralmente, dopo la registrazione per la Argo dell’album live “At the Pershing / But not for me” in trio con Israel Crosby e Vernel Fournier. Il disco vendette quasi 50 mila copie in pochi mesi, rimase in classifica Billboard per 107 settimane e, negli anni ’90, venne calcolato che l’album arrivò a superare il milione di copie vendute. Si ricorda in particolare la sua celebre versione dello standard “Poinciana” di Nat Simon; tanto divenne nota, che molti ancora oggi pensano che sia una composizione dello stesso Jamal.
Curioso, aperto alle contaminazioni ma sempre a servizio dell’arte (la sua e specialmente il suo pianismo sono riconoscibilissimi sin dalle prime note); nei successivi decenni Jamal si avvicina anche al funky, alla musica latina e incide anche alcune perle in piano solo. Il mood però è sempre quello: devozione all’ascolto dell’intero gruppo, grandi dinamiche, gusto infinito per le scelte armoniche, timbriche e ritmiche.
Pensando agli anni ’80 e soprattutto ai gloriosi anni ’90 (decennio in cui la musica di Jamal subì una nuova ondata di successo), voglio consigliarvi due album che hanno stregato la mia adolescenza: “Live at Midem 1981” con il vibrafonista Gary Burton e lo stupendo “I remember Duke, Hoagy and Strayhorn” del 1994 con Ephriam Wolfolk al contrabbasso e Arti Dixson alla batteria.

Danilo Blaiotta

Con questo articolo, “A proposito di Jazz” saluta l’ingresso tra i suoi collaboratori di un grande pianista: Danilo Blaiotta. Di lui ci eravamo già occupati recensendo i suoi due album “Departures” e  “The White Nights Suite”; da poco è uscito il terzo eccellente CD, “Platenariat”, su ci soffermeremo quanto prima con una approfondita intervista allo stesso Blaiotta. Per il momento siamo lietissimi di salutarlo come collaboratore con questo interessante ricordo di Ahmad Jamal, accompagnato anche da un raro spezzone video, girato nel 1998 durante il concerto che l’artista tenne a Udin&Jazz, al Teatro Nuovo Giovanni da Udine, con una speciale testimonianza…

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“Jamal venne a Udin&Jazz nel 1998, in un nuovissimo Teatro Nuovo, e ci regalò eleganza, carisma, interculturalità nella sua massima espressione. Pochi come lui hanno saputo legare armonie e suoni delle origini africane con le più contemporanee letture occidentali. Non era certo un personaggio semplice con cui interloquire; il suo linguaggio espressivo era quasi esclusivamente la sua straordinaria musica”. (Giancarlo Velliscig, direttore artistico Udin&Jazz)

Ahmad Jamal, piano / Othello Molineaux, steel drums / James Cammack, double bass / Idris Muhammad, drums
Udin&Jazz– VIII edizione
Udine, 2 giugno 1998 / Teatro Nuovo Giovanni da Udine (Riprese d’archivio/Archive footage)

In mostra le splendide foto di Silvia Lelli e Roberto Masotti

Chi abita in Italia ed ama il jazz non può non aver incontrato, almeno una volta nella vita, le straordinarie foto di Silvia Lelli e Roberto Masotti la coppia, – nella vita e nel lavoro – di fotografi ravennati di nascita e milanesi d’adozione, che ha saputo raccontare il mondo delle performing arts e della musica attraverso la sensibilità del loro sguardo.

Silvia Lelli e Roberto Masotti

Purtroppo Masotti ci ha lasciati nell’aprile dello scorso anno all’età di 75 anni, dopo una malattia che l’aveva colpito più di un anno fa, ma il suo ricordo è ben presente nel mondo del jazz.

Benissimo ha fatto, quindi, l’Associazione Tempi Moderni a organizzare la mostra SGUARDI che fino al 4 giugno abiterà le stanze e i saloni di Palazzo Fruscione (Salerno). Curata da Silvia Lelli la mostra SGUARDI racchiude le opere frutto di oltre 40 anni di carriera della stessa Lelli e di Roberto Masotti. Si tratta di una produzione davvero estesa e di eccezionale livello tanto da essere dichiarata dal Ministero dei Beni Culturali, nel 2018, “bene di interesse storico”.

La mostra si suddivide in tre sezioni: Musiche/Kontakthof-Kontrapunkt/Nucleus che a Palazzo Fruscione saranno declinate nei tre piani.

Musiche (fotografie di Lelli e Masotti). In questa sezione si scava nell’archivio di Lelli e Masotti che, come scriveva Domenico Piraina, direttore di Palazzo Reale di Milano che nel 2019 ospitò la grande mostra, è una miniera inesauribile di conoscenza e di memoria che consente di ricostruire e rivivere quasi mezzo secolo di storia del teatro, della musica, della danza, di performing arts, di vedere “all’opera” migliaia di personalità, di avere una visione puntuale anche dei cambiamenti sociali e culturali che si sono verificati. Una sezione composta da 109 fotografie e un’installazione video dal titolo Musiche Revisited.

Kontakthof- Kontrapunkt (fotografie di Silvia Lelli). La sezione è composta da 20 opere fotografiche e ripercorre la storia di 3 rappresentazioni in 30 anni, del celebre lavoro dedicato alla complessità dei rapporti uomo-donna della coreografa e regista tedesca Pina Bausch. Leonetta Bentivoglio, così descrive il lavoro della Lelli: Le foto che rappresentano il frutto del viaggio di Silvia attraverso i tre “Kontakthof”, definite da una beltà essenziale e vigorosa, mai affettata o patinata, ci danno un’ottica in più sulla sostanza di quella specie di monumento al teatrodanza che è lo spettacolo di Pina nato nel ‘78. Lo sguardo della fotografa non si limita a registrare l’attimo, ma ce lo fa vedere tramite il filtro di una sensibilità per così dire “aggiuntiva”.

Nucleus (fotografie di Roberto Masotti). La sezione è un omaggio al lavoro di Roberto Masotti e al suo rapporto di lungo corso, professionale e umano, con il cantautore catanese Franco Battiato, scomparso nel maggio 2021. L’esposizione è una anteprima internazionale e si compone di 16 scatti, che, come scrive Carlo Maria Cella, sono un viaggio nel tempo, dai primi anni 70, in cui Battiato si forma e si afferma nel mondo della musica, fino al 1997 dei grandi concerti, in cui i fan di quasi tre generazioni, comprese alcune nemmeno nate quando certe canzoni erano state scritte, lo innalzano nel cielo delle stelle fisse.

Unitamente all’esposizione per il settimo anno ritornano i Racconti del Contemporaneo: ASCOLTI. Parole/Note/Suoni/Visioni. L’idea, nel solco del format consolidato delle ultime sei edizioni, è quella di promuovere, all’interno di Palazzo Fruscione, eventi gratuiti di approfondimento della tematica generale affrontata nella mostra di quest’anno. Il calendario della VII Rassegna dei Racconti del Contemporaneo prevede talk, concerti ed incontri musicali e il consueto ciclo di cinema d’essai, con presentazioni d’autore, della domenica pomeriggio. Ad aprire quest’ultima sezione la proiezione (domenica 16 aprile – ore 19) la storica pellicola di Herzog, “Fitzcarraldo”. Ma le Visioni domenicali a Palazzo Fruscione prevedono anche la proiezione de “Il Concerto”; “Pina”; “Birdman”; “La sera della prima”; “Il cigno nero”; “New York, New York”.

Tra i vari appuntamenti, da segnalare infine che, nella giornata del 24 aprile dedicata al primo anniversario dalla scomparsa di Roberto Masotti, si esibiranno il sassofonista Roberto Ottaviano, il violoncellista, esperto di sonorizzazione ambientale, Walter Prati e il Carla Marciano Quartet. Infine per la sezione Note il giornalista e critico musicale, Riccardo Bertoncelli ha immaginato cinque appuntamenti legati a cinque dischi storici in perfetto dialogo con le fotografie di Roberto Masotti. Dagli Area a Keith Jarrett passando per Battiato, John Cage e Philip Glass.

Gerlando Gatto