I nostri CD. Italiani in primo piano… ma tanta buona musica anche dall’estero

Stefano Bagnoli We Kids Trio – “Dalì” – Tuk 036

Dopo il progetto dedicato ad Arthur Rimbaud, Stefano Bagnoli si cimenta con un altro concept album esaminando la figura di Salvador Dalì. Accanto al celebre e celebrato batterista, Giuseppe Vitale al pianoforte e Stefano Zambon al contrabbasso, due giovani talenti, rispettivamente di 19 e 20 anni, solidamente ancorati al jazz tradizionale ma nello stesso tempo capaci di misurarsi con successo su terreni più moderni e attuali. L’album consta di 14 composizioni originali a firma del leader e rappresenta una sorta di punto di svolta nella poetica di Bagnoli. In effetti è lo stesso batterista ad affermare che il suo We Kids Trio “sino ad oggi volutamente legato a quella tradizione jazzistica alla quale sono profondamente e visceralmente devoto, viceversa in questo nuovo lavoro lascia spazio alla creatività sonora più ampia e sperimentale”. Di qui una musica aperta, senza confini, a tratti irriverente come la pittura di Dalì, in cui pagina scritta e improvvisazione convivono, in cui la ricerca melodica pur nella sua onnipresenza sconfina spesso nell’imprevisto senza che ciò arrechi un minimo problema all’omogeneità dell’album globalmente inteso. In un tale contesto, certo non banale, Vitale e Zambon evidenziano tutta la loro bravura e sotto la regia del leader dimostrano di sapersi egregiamente districare nel puzzle così ben congegnato e disegnato da Stefano Bagnoli. Un’ultima considerazione perfettamente in linea con l’argomento trattato: la copertina è opera del grafico e illustratore Oscar Diodoro, le cui opere sono state esposte a Roma, Milano, Treviso, Verona, Los Angeles, Parigi e Pechino.

Cuneman – “Tension And Relief” – UR

Questo è il secondo capitolo del progetto posto in essere da Cuneman, un gruppo che si sta facendo conoscere in tutta Italia. Nel 2018 venne pubblicato il loro primo lavoro dal titolo “Cuneman” sempre per l’etichetta milanese UR Records; per “Tension And Relief” all’originaria formazione (Fabio Della Cuna sax tenore e composizione, Jorge Ro tromba e flicorno, Giuseppe Lubatti contrabbasso, Luca Di Battista batteria) si aggiungono Francesco Di Giulio trombone e in otto pezzi il prezioso sousaphone di Mauro Ottolini. Ciò detto resta da sottolineare come la cifra stilistica sia rimasta coerentemente la stessa, vale a dire la costante ricerca di un perfetto equilibrio tra composizione e improvvisazione; il tutto basato sull’interplay che deve necessariamente caratterizzare l’operato di jazzisti di tal fatta. E il risultato è notevole: il gruppo si muove su coordinate ben precise, mettendo in luce qualità sia dei singoli sia del collettivo. E, a mio avviso, i momenti più significativi e convincenti dell’album si hanno quando i sei si muovono contemporaneamente a disegnare un quadro tutt’altro che banale, reso ancora più complesso dalla mancanza di uno strumento armonico. Un’ultima notazione che evidenzia ancor più la valenza dell’album e del gruppo: il repertorio è declinato attraverso undici composizioni tutte scritte da Fabio Della Cuna, il quale passa con estrema disinvoltura e competenza da riferimenti classici, per la precisione a Poulenc nella title track, al jazz più canonico come l’esplicito omaggio a Lee Konitz “Self Conscious-Lee”, fino ad inclinazioni più moderniste come nel caso di “War and Violence” in ambedue le sue parti.

Francesco Fratini – “The Best Of All Possible Worlds” – VVJ 132

Il trombettista Francesco Fratini è il leader di un quartetto completato da Domenico Sanna piano, Luca Fattorini contrabbasso e Matteo Bultrini batteria, cui si aggiungono in alcuni brani Charlotte Wassy voce, Daniele Tittarelli al sax alto, e i rapper Karnival Kid e Kala and The Lost Tribe, con cui ha inciso questo album. I quattro si conoscono e frequentano da diverso tempo ma non avevano, finora, avuto l’occasione di incidere assieme anche perché hanno percorso strade diverse. In particolare Fratini nel settembre 2010 si trasferisce a New York dove frequenta, grazie ad una borsa di studio quadriennale, i corsi della New School For Jazz and Contemporary Music. A New York si ferma per 5 anni avendo così l’opportunità di studiare con insegnanti quali Reggie Workman, George Cables, Aaron Goldberg, Jimmy Owens, Ambrose Akimounsire, Avishai Cohen… tra gli altri. Tornato in Italia nel 2016 costituisce il quartetto di cui parliamo in questa sede e con cui si presenta all’attenzione del pubblico italiano. E se il buongiorno si vede dal mattino non v’è dubbio che di questo gruppo e del suo leader in particolare sentiremo parlare molto a lungo. I quattro si muovono lungo dieci brani tutti scritti dallo stesso Fratini eccezion fatta per ”163 Humboldt Street” di Domenico Sanna e “Buffalo Wings” di Tom Harrell. Scorrendo l’organico, la presenza dei rapper evidenzia al meglio come Fratini sia rimasto legato alla realtà degli States e di come intenda riproporla nella sua musica. Di qui un jazz robusto, solido, impreziosito dalle spiccate individualità di tutti i musicisti

Paolo Fresu, Daniele Di Bonaventura – “Altissima luce. Laudario di Cortona” – Tuk 032

Conosco Paolo Fresu oramai da qualche decennio eppure questo artista riesce ancora a sorprendermi per la straordinaria musicalità che sa infondere in ogni progetto. E’ il caso di questo album concepito e realizzato in collaborazione con il bandoneonista Daniele Di Bonaventura cui si affiancano Marco Bardoscia al contrabbasso, Michele Rabbia alla batteria e percussioni, l’Orchestra da Camera di Perugia e il gruppo vocale “Armonioso incanto” diretto da Franco Radicchia, album impreziosito da una eccellente qualità del suono. In programma la rivisitazione del Laudario di Cortona ovvero una preziosa raccolta di 66 laude (di cui solo 46 canti devozionali) con testo in lingua volgare e su notazione quadrata risalente alla seconda metà del XIII secolo che dovrebbe essere stato copiato fra gli anni 1270 e 1297. Materiale difficile da maneggiare e posso dirlo a ragion veduta dal momento che per ben cinque anni ho seguito mio figlio che studiava e cantava musica sacra. Comunque, a prescindere da queste notazioni personali, l’album è davvero un piccolo gioiello di inventiva e capacità di arrangiare e attualizzare, per giunta in chiave jazzistica, una musica così distante dall’oggi. Dai suddetti 46 canti sono stati estrapolate 13 composizioni (a cui se ne è aggiunta un’altra, quella finale “Laudar Vollio Per Amore”, tratta dal più tardo e similare Laudario Magliabechiano 18). Nel CD in oggetto ogni elemento è al posto giusto: il coro che s’incarica di trasmetterci il misticismo dei canti originari, Fresu e Di Bonaventura che incarnano le due anime di questa musica quella colta e quella popolare, l ‘Orchestra che trasmette una narrazione più ampia, vasta nel cui ambito si rimescolano linguaggi e sonorità che abbracciano non solo la tradizione europea ma anche la cultura araba. Insomma un album da gustare con attenzione in tutte le sue mille sfaccettature.

Roberto Magris – “Sun Stone” – Jmoodrecords – 017

Ancora un eccellente album del pianista triestino Roberto Magris che questa volta si presenta alla testa di un sestetto di caratura internazionale con Ira Sullivan al flauto ed ai sax alto e soprano, Shareef Clayton alla tromba, Mark Colby al sax tenore, Jamie Ousley al contrabbasso e Rodolfo Zuniga alla batteria. In programma sei composizioni originali dello stesso Magris con l’aggiunta di “Innamorati a Milano” di Memo Remigi già entrato nel repertorio di alcuni jazzisti quali Stefano Benini, Marco Gotti, Mario Piacentini…insomma una sorta di standard italiano. Quasi superfluo affermare che Magris ne dà un’interpretazione assolutamente convincente, swingante, senza che venga persa un’oncia dell’originaria linea melodica, il tutto impreziosito dagli assolo dei tre fiati. Ma è tutto l’album che si fa apprezzare per la qualità della musica composta da Magris e la valenza degli esecutori. Il jazz che si ascolta non può considerarsi sperimentale ma proprio per questo acquisisce ancora maggior valore: in un momento in cui il cosiddetto mainstream è additato come qualcosa che si avvicina all’inconcepibile, Magris dimostra come si possa ancora fare non della buona ma dell’ottima musica senza discostarsi troppo dagli insegnamenti del passato. Certo ci vogliono classe, fantasia, capacità compositiva, grande padronanza strumentale, raffinate capacità interpretative, doti non facili da trovare tutte assieme ma che di sicuro fanno parte del bagaglio sia di Magris sia degli altri componenti questo fantastico gruppo. Tra le sette composizioni una menzione particolare la merita “Look at the Stars”, il brano più lungo dell’album, in cui dopo un’intro affidata a pianoforte e sezione ritmica si ascoltano in successione gli assolo dello stesso Magris, del sempre grande Ira Sullivan (classe 1931) al sax soprano, Shareef Clayton alla tromba, Mark Colby al sax tenore e di nuovo Magris prima della ripresa finale che vede la front line esprimersi all’unisono ben sostenuta dalla sezione ritmica.

Francesco Mascio, Alberto La Neve – “I Thàlassa Mas” – Manitù Records

Il chitarrista Francesco Mascio e il sassofonista (soprano) Alberto La Neve sono i protagonisti di questo album in cui si richiama un tema oggi di strettissima attualità: il significato di uno spazio, quale il Mar Mediterraneo, che collega e sotto certi aspetti, accomuna civiltà e tradizioni di più Paesi. Come viene illustrato nelle brevi note di copertina, “I Thàlassa Mas” è il nome con cui i greci chiamavano il Mediterraneo, ma i turchi lo chiamavano in altro modo così come gli arabi, gli albanesi… Questo per sottolineare come luoghi con culture diverse siano uniti dalle onde del medesimo mare. Di qui la partenza per un viaggio non solo musicale ma anche spirituale alla riscoperta di ciò che ci unisce; di qui la creazione di una musica che, prendendo spunto dalle molteplici sonorità dei diversi territori toccati dal Mediterraneo, arrivia ad un unicum di grande fascino; di qui la collaborazione, importante, che a questo intento hanno fornito le voci di Jali Babou Saho (anche suonatore di Kora) artista africano di lingua mandinga, Esharef Ali Mhagag di origine libica e Fabiana Dota di origine napoletana.
Insomma una sorta di jazz etnico che tocca diversi generi musicali (dal francese all’andaluso, dal balcanico al nordafricano, dall’italiano al vicino oriente) declinato attraverso nove composizioni, di cui due a firma di La Neve e sei di Mascio. La terza traccia (“Cano”) è frutto della collaborazione tra Mascio e il già citato Jali Babou Saho. Tutto il repertorio si ispira alle linee sopra illustrate, eccezion fatta per “Soul in September” di Francesco Mascio che si richiama ad un linguaggio jazzistico più tradizionale e mainstream.

Enrica Rava, Joe Lovano – “Roma” – ECM 2654

Ecco uno degli album più interessanti dell’anno: protagonisti due dei più autorevoli jazzisti oggi in esercizio – il trombettista Enrico Rava e il sassofonista Joe Lovano – coadiuvati da una sezione ritmica letteralmente stellare composta da Giovanni Guidi al pianoforte, Dezron Douglas al contrabbasso e Gerald Cleaver alla batteria. E vi assicuro che è davvero motivo d’orgoglio per chi, come lo scrivente, segue il jazz da qualche decennio constatare colme oggi i musicisti italiani siano in grado di misurarsi alla pari con gli artisti d’oltre Oceano. Questo album ne è l’ennesima riprova: registrato live durante un concerto del gruppo all’Auditorium Parco della Musica di Roma il 10 novembre del 2018, “Roma” è stato classificato primo nell’annuale referendum “Top Jazz” nella categoria “disco italiano dell’anno” e contemporaneamente Enrico Rava è stato ancora una volta giudicato “musicista italiano dell’anno” Un doppio riconoscimento che la dice lunga sui meriti dell’album e del musicista. Ad onor del vero non è che i referendum, da chiunque indetti, fotografino sempre al meglio i valori in campo, ma in questo caso i riconoscimenti sono assolutamente meritati. Ad onta della sua non verdissima età (ad agosto ha compiuto 80 anni), Rava, nell’occasione al flicorno soprano, suona bene, come al solito senza eccedere nei virtuosismi ma con una sensibilità, un trasporto, una visione d’assieme che gli fanno onore. Ovviamente non è da meno un altro leone del jazz quale Joe Lovano (classe 1952) che sfodera un linguaggio sassofonistico sempre attuale nonostante si rifaccia alle più genuine tradizioni del jazz. Il tutto declinato attraverso un repertorio che vede ancora in primo piano i due grandi maestri: così l’album si apre con le due composizioni di Rava “Interiors” e “Secrets”, cui fanno seguito i tre brani del sassofonista “Fort Worth”, “Divine Timing” e “Drum Song”, unico episodio in cui Lovano suona il tarogato, che apre la medley di chiusura completata dal coltraniano “Spiritual” e da un “Over the Rainbow” per solo piano. E proprio quest’ultimo brano mi offre l’occasione per sottolineare come la bella riuscita dell’album si deve anche al pianismo sempre raffinato e ben calibrato di Giovanni Guidi, e all’esemplare supporto di Douglas e Cleaver sempre propositivi.

Tower Jazz Composers Orchestra – “Tower Jazz Composers Orchestra”

Questo album, che segna il debutto discografico della Tower Jazz Composers Orchestra, merita una segnalazione particolare per più di un motivo. Innanzitutto evidenzia come l’intesa tra più soggetti possa portare a risultati positivi. L’orchestra è diretta emanazione del Jazz Club Ferrara e il nome Tower si riferisce alla sede storica del club, il rinascimentale Torrione San Giovanni. Ma l’uscita dell’album in oggetto non sarebbe stata possibile senza la collaborazione tra il Jazz Club Ferrara, Bologna Jazz Festival, Regione Emilia Romagna (“Legge Musica L.R 2/18, art. 8”) e Fondazione Del Monte di Bologna e Ravenna. A produrlo la neonata Over Studio Records, etichetta emanazione dell’omonimo studio discografico che si è occupato della registrazione del disco a fine settembre al Teatro De Micheli di Copparo (FE). In secondo luogo è l’ennesima dimostrazione di come il jazz orchestrale conservi un suo fascino particolare ed una sua precisa ragion d’essere…specie se la band segue strade poco battute. In effetti il nome è ispirato alla storica Jazz Composer’s Orchestra di Carla Bley e Michael Mantler e l’intento rimane quello, assai impegnativo, di mettere assieme alcuni compositori-improvvisatori in grado di offrire qualcosa di nuovo. Obiettivo perfettamente raggiunto: nell’organico, composto da musicisti dell’area emiliano-veneta, figurano musicisti di estrazione diversa tra cui figurano nomi ben noti come quelli di Piero Bittolo Bon e Alfonso Santimone che dirigono l’orchestra e della vocalist Marta Raviglia, accanto a giovani di sicuro talento come il trombettista Mirko Cisilino che abbiamo imparato a conoscere a Udine Jazz e la sassofonista Giulia Barba che ho avuto il piacere di intervistare nel 2014 in occasione dell’uscita del suo primo album “The Angry St. Bernard”. Le atmosfere proposte dalla big band sono assai variegate essendo molteplici i punti di riferimento (free jazz, musica latina, musica classica, mainstream orchestrale) ma in tutte si avverte una sapiente scrittura ed un costante equilibrio tra composizione e improvvisazione, una particolare ricerca timbrica, un sapiente uso della dinamica, il ricorso a soluzioni ritmiche inusuali, il tutto supportato dal talento dei musicisti.

Gianluigi Trovesi, Gianni Coscia – “La misteriosa musica della Regina Loana” – ECM 2652

E’ con vero piacere che vi presento questo album in quanto i protagonisti sono, oltre che due grandissimi musicisti, due affettuosi amici che conosco da tempo e che incontro ogni volta con sincero affetto. Ad onor del vero non vedo Gianluigi da circa due anni mentre con Gianni Coscia ci siamo incontrati nello scorso settembre a Castelfidardo per l’annuale edizione del premio internazionale della fisarmonica. In questa occasione Coscia, presentando in concerto un suo brano, omaggiò l’amico di sempre, Umberto Eco. E proprio al grande scrittore e semiologo è dedicato l’album in oggetto che trae ispirazione dal suo «La misteriosa fiamma della regina Loana» del 2004, romanzo illustrato sulla natura della memoria. E così Trovesi al clarinetto piccolo e alto e Gianni Coscia alla fisarmonica imbastiscono un repertorio tutto giocato sul filo dei ricordi, con i due che non nascondono il piacere di suonare assieme e di improvvisare con la solita classe e competenza. L’album si apre con “Interludio”, brano composto da Coscia quando aveva quattordici anni e di cui Eco scrisse i testi, cui fanno seguito una serie di pezzi assai conosciuti che svariano dal jazz, al folk, alla musica popolare italiana come tre frammenti tratti dalla composizione di Leoš Janáček “Nella nebbia”, “Basin Street Blues”, “Pippo non lo sa”, “As Time Goes By”, “Fischia il vento” libera elaborazione di “Bella Ciao”, “Gragnola”, “L’inno dei sommergibili”, una gustosa suite di brani EIAR, per chiudere con “Moonlight Serenade”. Certo l’improvvisazione c’è, lo swing pure, la maestria strumentale quanta ne volete… i virtuosismi strumentali fine a se stessi, il percorrere terreni ai confini del jazz, lo sperimentalismo sui suoni, beh questi elementi non ci sono. Ma siamo sicuri che sia poi così importante?

Gianluca Vigliar – “Plastic Estrogenus” – A.M.A. Records 019

Questo è il secondo album del sassofonista e compositore Gianluca Vigliar in quintetto con Andrea Biondi al vibrafono, Francesco Fratini alla tromba, Luca Fattorini al contrabbasso e Marco Valeri alla batteria, questi ultimi tre presenti anche nel precedente album di Vigliar “Fragia” (2018). Quando ci si accinge ad ascoltare un album di un artista non ancora conosciutissimo bisogna ben chiarire quali sono le aspettative. Se ci si attende di scoprire il novello John Coltrane fatalmente si resterà delusi; viceversa se l’idea è quella di incontrare un musicista di talento ci sono molte più probabilità che le nostre attese non vadano disattese. E’ questo il caso di Gianluca Vigliar, un musicista romano (classe 1979) che pur in possesso di una solida preparazione di base e ad onta delle numerose e prestigiose collaborazioni (Greg Hutchinson, Javier Girotto, Israel Varela, Pino Jodice, Mark White , Paolo Fresu, Pietro Jodice, Giovanni Tommaso… tra gli altri) non ha ancora avuto i riconoscimenti che merita. Questo “Plastic Estrogenus” è una sorta di concept album in cui Vigliar denuncia i danni che la plastica produce all’ambiente e quindi a noi stessi. Come in tutti gli album a tesi è veramente difficile che la musica corrisponda all’assunto per cui è meglio prescindere da questo elemento. Ciò detto bisogna riconoscere a Vigliar da un canto la facilità e la bravura nello scrivere (sei brani su sette sono sue composizioni), dall’altro la capacità di ben arrangiare i brani caratterizzandoli sia con una efficace ricerca timbrica sia con un convincente alternarsi tra “pieni” di buon effetto ed interventi solistici sempre pertinenti.

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Joe Bonamassa – “Live At The Sydney Opera House” – Mascot/Provogue

Iniziamo questa seconda parte della rubrica dedicata alle novità internazionali con un chitarrista bianco che fa musica nera: si tratta del newyorchese Joe Bonamassa (classe 1977). Dopo aver studiato musica classica, Joe, ancora ragazzino, scopre il blues ed è a questo genere che si dedica con tutte le forze esordendo professionalmente nel 2000 e divenendo in breve tempo uno dei migliori esponenti del rock-blues. E quanto tale stima sia meritata viene confermata dagli album che si succedono nel tempo; in particolare dopo i tre CD pubblicati nel 2018, ecco il CD in oggetto registrato dal vivo nel 2016 per l’appunto nella Sydney Opera House, durante il tour di “Blues Of Desperation”. Non a caso molti sono i brani tratti da “Blues Of Desperation”. L’impianto è quello caro al leader vale a dire un rock-blues piuttosto aggressivo, giocato su ritmi veloci e su dinamiche sempre alte. Quindi un linguaggio che potrebbe stancare se non ci fossero anche momenti di maggiore raffinatezza in cui si nota un approccio più jazzistico: è il caso di “Drive” impreziosito da un notevole assolo di Reese Wynans alle tastiere. Tra gli altri pezzi particolarmente convincente la riproposizione di una cover, “Florida Mainiline” tratta da “461 Ocean Boulevard” di Eric Clapton, con un Bonamassa in gran spolvero. E la menzione di Wynans mi offre il destro per sottolineare come il chitarrista presenti in questa occasione una band piuttosto nutrita completata da Anton Fig alle percussioni, Michael Rhodes al basso, Lee Thornburg alla tromba, Paulie Cerra al sax e Mahalia Barnes, Juanita Tippins, Gary Pinto ai backing vocals.

Edmar Castaneda, Grégoire Maret – “Harp vs. Harp” – ACT9044-2

Nonostante la presenza di un’eccellente arpista jazz come Marcella Carboni, sono ancora in molti nel nostro Paese a ritenere che con l’arpa non si possa suonare del buon jazz. Ebbene, a questi scettici consiglio caldamente l’ascolto di questo bell’album in cui si confrontano un grande esponente dell’arpa quale Edmar Castaneda e un eccellente armonicista quale Grégoire Maret, coadiuvati in alcuni brani da Béla Flack al banjo e Andrea Tierra voce. Svizzero l’uno (Maret), colombiano l’altro (Castaneda) hanno in comune alcuni tratti particolarmente significativi: l’aver deciso di abbandonare il proprio Paese per stabilirsi a New York e l’aver cercato e trovato una nuova strada per il proprio strumento. Di qui l’autorevolezza di cui i due godono nel panorama jazzistico internazionale; tanto per citare qualche elemento Maret ha vinto nel 2006 il Grammy Award for Best Contemporary Jazz Album grazie a “The Way Up” con il gruppo di Pat Meteny mentre Castaneda è unanimemente considerato uno dei massimi esponenti dell’arpa jazz, come d’altro canto testimoniato dalle collaborazioni con alcuni giganti del jazz attuale come Paquito D’Rivera, Giovanni Hidalgo, Joe Locke, Wynton Marsalis, John Patitucci, John Scofield, Hiromi. Poco tempo fa i due si sono incontrati al Montecarlo Jazz Festival e hanno deciso di creare un duo; così nel settembre del 2018, hanno radunato a New York il quartetto di cui in apertura dando vita all’album in oggetto. Album che sicuramente non va incontro alle esigenze di sperimentazione presenti in molti appassionati, ma altrettanto sicuramente soddisferà i palati di quanti anche nel jazz continuano a cercare belle melodie e arrangiamenti non particolarmente cervellotici anche se non banali. Ecco, tutto ciò è presente in abbondanza nell’album declinato attraverso otto brani di cui un paio originali (“Blueserinho” di Maret e”No Fear” di Castaneda) e gli altri sei di sapore prevalentemente sudamericano tra cui spiccano, a mio avviso, “Romance de Barrio” di Annibal Troilo e Homero Manzi e “Manhã de Carnaval” di Luiz Bonfá.

Avishai Cohen, Yonathan Avishai – “Playing The Room” – ECM 2641

I duo tromba-piano non sono frequentissimi nel mondo del jazz anche perché la formula è particolarmente insidiosa: manca del tutto il supporto ritmico e il pianoforte deve assumersi il duplice compito di sostenere melodia e armonia. Certo, occorrono musicisti che non solo siano straordinariamente bravi e sensibili ma anche che si conoscano assai bene per poter liberamente interagire. Ebbene queste due condizioni sono del tutto soddisfatte nell’album in oggetto dal momento che il pianista Avishai Cohen e il trombettista Yonathan Avishai si conoscono da circa vent’anni. E tale intesa si avverte sin dalle primissime note disegnate dal pianoforte che introduce il primo pezzo per oltre un minuto prima di ascoltare anche la tromba di Yonathan. Il clima del CD è, quindi, immediatamente riconoscibile: una approfondita ricerca melodica che bandisce qualsivoglia tentazione virtuosistica per far ricorso, unitamente, a quella sincerità d’espressione che da sempre caratterizza questi due artisti. E il repertorio scelto tocca tutti gli aspetti del jazz, eccezion fatta per le più accese sperimentazioni. Ecco quindi, oltre ai due brani di apertura dovuti rispettivamente ad Avishai Cohen e Yonathan Avishai, “Azalea” di Duke Ellington, “Kofifi Blue” di Abdullah Ibrahim, “Crescent” di John Coltrane, “Dee Dee” di Ornette Coleman fino al blues di Milt Jackson, “Ralph’s New Blues”, inciso per la prima volta dal Modern Jazz Quartet nel 1955 e a “Sir Duke”, brano di Stevie Wonder che ha superato gli ancor ristretti confini del jazz, magnificamente intonato dal pianoforte di Cohen sottilmente contrappuntato dalla tromba di Avishai..

Chick Corea Trio – “Trilogy 2” – Concord 00183 2 CD

Eccoci all’Università del jazz ad ascoltare la lezione di uno dei più grandi pianisti della storia del jazz, il pianista settantottenne di origini italiane Chick Corea, con i suoi assistenti, il batterista Brian Blade e il contrabbassista Christian McBride. Ed in effetti ascoltando questi due straordinari CD con sedici tracce (che non caso si è classificato sesto nell’annuale “Top Jazz” nella categoria “disco internazionale dell’anno”) non si può non restare ammirati di fronte ad un artista che non solo non conosce l’usura del tempo ma che anzi riesce a dare nuova linfa, nuova vitalità ad una formula usata ed abusata qual è quella del piano trio con batteria e contrabbasso. In queste due ore di musica non c’è un solo passaggio che suoni scontato, un solo frammento in cui si avverta un minimo di stasi, di ricorso a cliché: la musica è fresca, trascinante, godibile dal primo all’ultimo istante. Il tutto con un repertorio quanto mai impegnativo in cui figurano, tra l’altro, due brani di Thelonious Monk, “Work” e “Crepuscule With Nellie”, di cui il trio fornisce interpretazioni da antologia…per non parlare degli evergreen di Chick Corea quali “500 Miles High” registrato per la prima volta nel 1972 e impreziosito in quest’ultimo album da un poderoso assolo di Brian Blade, il celeberrimo “La Fiesta” e “Now He Sings, Now He Sobs”. Il titolo dell’album prende le mosse dal precedente cd “Trilogy” del 2014, che ottenne ben due Grammy Awards (Best Jazz Instrumental Album e Best Improvised Jazz Solo per “Fingerprints”) e da cui sono stati ripescati per questo nuovo doppio disco solo due brani, “How Deep Is the Ocean” di Irving Berlin, proposto in apertura, e del già citato “Work”. Come il precedente, anche questo “Trilogy 2” comprende esecuzioni provenienti da anni e luoghi diversi: in questo caso Oakland e Tokio nel 2010, Bologna e Zurigo nel 2012, Ottawa, Minneapolis, St. Louis, Rockport, Rochester nel 2016.

Pablo Corradini – “Alma de viejo” –

Compositore polistrumentista argentino che risiede in Italia da 25 anni, Pablo Corradini ha studiato flauto traverso diplomandosi successivamente in piano jazz. Parallelamente si è dedicato allo studio costante del bandoneon, attività che ha affinato confrontandosi spesso con i grandi maestri bandoneonisti del paese natio. Dopo “Betango” ecco la sua nuova produzione caratterizzata ancora una volta dalla riproposizione in chiave jazzistica dei ritmi tradizionali argentini. Per questa nuova impresa, Corradini ha chiamato accanto a se musicisti di vaglia quali Marco Postacchini al sax tenore e soprano e al flauto, Simone Maggio al piano, Roberto Gazzani al contrabbasso e Gianluca Nanni batteria e percussioni cui si aggiungono come special guests Javier Girotto al quena flute (flauto diritto andino) in “Tempo Atras” e un trio d’archi nella title track (Carlo Celsi violino, Fabio Cappella viola, Giuseppe Franchellucci cello). In repertorio undici brani tutti scritti dal leader che propongono un repertorio assai variegato in cui figurano diversi ritmi del folclore argentino come la zamba, la chacarera ed il tango, declinati però attraverso un linguaggio prettamente jazzistico in cui l’improvvisazione non è certo secondaria. Tra i diversi brani particolarmente significativi i due citati in precedenza in cui figurano gli ospiti, ambedue caratterizzati da una dolce linea melodica ben interpretata rispettivamente da Javier Girotto e dal trio d’archi. Dal canto suo il leader conferma appieno quanto di buono aveva già messo in mostra nei precedenti lavori vale a dire una assoluta padronanza strumentale coniugata con una piena maturità e consapevolezza dei propri mezzi espressivi.

Aaron Diehl – “The Vagabond” – Mack Avenue 1153

Ecco un altro album per trio pianoforte, batteria e contrabbasso. Protagonista Aaron Diehl, nome non particolarmente noto anche se si tratta di un artista davvero di grande spessore: non a caso Aaron Diehl è soprannominato “The Real Diehl” da Winton Marsalis ed è considerato dai critici del New York Times tra i più sofisticati e virtuosi pianisti jazz viventi. In questo album, accompagnato da Paul Sikivie al contrabbasso e Gregory Hutchinson alla batteria, Diehl evidenzia i molteplici aspetti della sua personalità artistica attraverso un repertorio variegato in cui accanto a sue composizioni, figurano brani di grandi personaggi del jazz come Sir Roland Hanna e John Lewis e due pezzi riconducibili alla musica colta come “March From Ten Pieces for Piano, Op. 12” di Sergei Prokofiev e “Piano Etude No. 16” di Philip Glass. L’album si divide, quindi, in due parti: nei primi sette brani Diehl si presenta nella duplice veste di compositore ed esecutore ed in ambedue evidenzia una spiccata sensibilità. Le sue composizioni non sono di facilissimo ascolto ma la ricerca di una precisa linea melodica si appalesa sempre precisa mentre le armonizzazioni ben si attagliano al disegno complessivo del pezzo. L’esecutore di assoluta originalità vien fuori nella presentazione di “A Story Often Told, Seldom Heard” di Sir Roland Hanna e del celebre “Milano” di John Lewis: in questi casi, pur rispettando l’originario impianto dei brani, il pianista ne offre una interpretazione affatto personale e ricercata. Infine, nelle due composizioni rispettivamente di Prokofiev e Philip Glass Diehl evidenzia l’ottima conoscenza del pianismo “classico” supportato, cioè, da studi approfonditi non solo della musica jazz. In ogni caso, qualunque repertorio affronti, Diehl si caratterizza per un stile raffinato ed elegante, per un tocco di straordinaria leggerezza, doti che trovano le loro radici, oltre che nello studio cui prima si faceva riferimento, in un indubbio talento naturale. Un’ultima non secondaria notazione: l’album è dedicato alla memoria di Lawrence “Lo” Leathers, batterista statunitense, caduto vittima di un agguato il 3 giugno del 2019 all’età di 38 anni.

Kit Downes – “Dreamlife Of Debris” – ECM 2632

Musicista assolutamente atipico questo Kit Downes, il quale, dopo essersi formatosi nel coro della cattedrale di Norwich dove ha imparato a suonare l’organo, si è successivamente innamorato del jazz ascoltando Oscar Peterson. Di qui una musica spesso straniante in cui si mescolano echi i più diversi. Se ne era avuta piena consapevolezza in “Obsidian” in cui Kit suona in splendida solitudine l’organo da chiesa coadiuvato da Tom Challenger al sax tenore in un solo brano. Stesso discorso per quest’ultimo “Dreamlife Of Debris” registrato nel 2018 nella sala da concerto dell’Università di Huddersfield, anch’essa dotata di un organo a canne, strumento cui Downes non sembra proprio voler rinunciare, così come non sembra voler fare a meno di determinati spazi che consentono una certa qualità di suono. Come spiegato da Steve Lake nelle esaurienti note che accompagnano l’album, il titolo dello stesso riporta una frase tratta dal documentario “Patience (After Sebald)” di Grant Gee, che traduce in immagini i testi vergati da W.G. Sebald, durante i suoi viaggi nella contea di Suffolk, testi che in particolare hanno ispirato il suo capolavoro, “Gli anelli di Saturno”. L’impianto basico di “Dreamlife Of Debris” è simile a quello di Obsidian in quanto pone in primo piano l’improvvisazione ma se ne differenzia sotto due aspetti non secondari: qui Downes ha voluto affiancare all’organo altri strumenti (ancora Tom Challenger sax tenore, Lucy Railton cello, Stian Westerhus chitarra, Sebastian Rochford batteria) e, in secondo luogo, si è presentato non solo come organista ma anche come pianista. Il risultato è assolutamente positivo in quanto l’ascoltatore è immerso in atmosfere senza tempo in cui jazz, musica da chiesa, echi folk, richiami alla musica colta da camera si mescolano incredibilmente in atmosfere il cui fascino è difficile da descrivere. Ascoltate il disco e capirete a cosa ci si riferisce.

Ethan Iverson Quartet – “Common Practice” – ECM 2643

Splendido album del quartetto del pianista Ethan Iverson innervato dalla presenza di Tom Harrell e completato da una eccellente ritmica con Ben Street al contrabbasso e Eric McPherson alla batteria). L’album registrato live al Village Vanguard nel gennaio del 2017 ci consegna un mainstream attualizzato, ricco di swing, esplicitato attraverso sia composizioni oramai classiche (ad esempio “The Man I Love”, “I Can’t Get Started”, “Sentimental Journey”, “All The Things You Are” e “We”) sia nuovi brani dovuti anche al pianista di Menomonie quali “Philadelphia Creamer” e “Jed From Teaneck” che rappresentano un mirabile esempio dell’approccio swing del quartetto. Iverson – lo ricordo per quei quattro, cinque che ancora non lo sapessero – è stato membro fondatore del trio jazz d’avanguardia The Bad Plus con il contrabbassista Reid Anderson e il batterista Dave King, che è riuscito a ricollocarsi in contesti assai diversi. E’ il caso, per l’appunto di questo “Common Practice”, il cui risultato è davvero notevole: l’intesa tra il leader e la tromba di Tom Harrell (classe 1946, votato nel 2018 come miglior trombettista dell’anno dalla U.S. Jazz Journalists Association) si staglia su un tessuto musicale ben disegnato in cui le invenzioni melodico-armoniche del leader sono sostenute da una sezione ritmica capace sempre di proiettare la musica in avanti, in una sorta di slancio che mai viene meno. Si ascolti al riguardo l’interpretazione di quel “Sentimental Journey” composto nel 1944 da Les Brown e Ben Homer (musica) e Bud Green (parole), portato al successo dapprima da Doris Day e successivamente inciso da molti jazzisti tra cui Lionel Hampton, Buck Clayton con Woody Herman, Ben Sidran, Frank Sinatra e Rosemary Clooney. Ma il brano citato è solo un esempio di quanto il gruppo sia ottimamente attrezzato anche per merito della sezione ritmica: si ascolti ancora nel successivo ”Out Of Nowhere” il centrato assolo di Ben Street al contrabbasso.

Louis Sclavis – “Characters On A Wall” – ECM 2645

Molti i riferimenti colti in questo album, vincitore del referendum “Top Jazz” nella categoria “disco internazionale dell’anno”, del clarinettista Louis Sclavis coadiuvato da Benjamin Moussay al piano, Christophe Lavergne alla batteria e Sarah Murcia al contrabbasso. L’ispirazione principale risiede nell’arte del pittore Ernest Pignon-Ernest con il quale Sclavis ha avuto modo di collaborare lungamente a partire dagli anni ’80. In effetti le opere di Pignon-Ernest erano state in precedenza oggetto dell’album di Sclavis “Napoli’s Walls” del 2002, disco ispirato ad un ciclo di immagini che il pittore aveva disegnato sui muri della città campana dal 1987 al 1995 aventi ad oggetto la rappresentazione della morte, le donne di Napoli ed i culti pagani e cristiani. Questa volta l’artista francese, in cinque dei suoi brani originali (“L’heure Pasolini”, “La dame de Martigues”, “Extases”, “Prison” e “Darwich dans la ville”) si ispira a dipinti realizzati da Pignon-Ernest in location diverse, da Parigi alla Palestina. Il disco è completato da un brano di Moussay, “Shadows and Lines”, e due improvvisazioni collettive. Altra differenza rispetto all’album precedente è che mentre in “Napoli’s Walls” si faceva un certo uso dell’elettronica, in questo “Characters” il gruppo è totalmente acustico Ciò detto, l’apertura è significativamente intitolata “L’heure Pasolini”, un brano intimista che disegna assai bene il quadro generale entro cui il gruppo si muoverà lungo tutto l’album. Ovvero una musica ricercata, in cui scrittura e improvvisazione si bilanciano, con la sezione ritmica che lavora quasi in sottofondo per creare le condizioni ideali in cui il leader inserisce i propri straordinari assolo caratterizzati sempre da un suono personale, limpido. Suono che si adatta perfettamente sia ai brani di più chiara ispirazione jazzistica, sia a quelle composizioni in cui si evince chiaramente un’ispirazione di matrice classica, nonostante si tratti di improvvisazioni collettive. Un’ultima notazione: l’album è corredato da un esauriente libretto con prefazione dello stesso Sclavis e ampie note di Stéphane Ollivier.

Israel Varela- “The Labyrinth Project” – VVJ 131

Ecco una sorta di internazionale del jazz: a guidarla il compositore, percussionista e vocalist messicano Israel Varela; al suo fianco il sassofonista canadese-americano Ben Wendel conosciuto soprattutto per essere un membro fondatore del gruppo Kneebody che nel 2009 si è meritato una nomination ai Grammy, il pianista tedesco Florian Weber il cui primo album “Minsarah” del 2006 ha vinto il premio della critica discografica tedesca, il bassista brasiliano Alfredo Paixao vincitore di numerosi Grammy Awards e “collaboratore” di alcune stelle anche al di fuori dell’ambito jazzistico come Julio Iglesias, , Liza Minelli, Henry Salvador… fino al ‘nostro’ Pino Daniele. Insomma un insieme composto da quattro spiccate personalità, evidentemente portatrici di culture e input differenziati, che si incontrano dando vita ad un ensemble del tutto originale…così come originale è la musica da loro proposta. Musica difficile da classificare dal momento che accanto a brani di chiara impronta jazzistica (si ascolti i lunghi assolo di Weber e di Wendel in “Heliopolis”) è possibile ascoltare episodi in cui ci si allontana dal jazz per approdare su sponde diverse come in “Azul” affidata alla coinvolgente e mai scontata vocalità di Israel Varela, in alcuni tratti addirittura commovente. Il quale subito dopo conferma in “Nueve secretos” di essere soprattutto uno strepitoso batterista accompagnando in solitudine il trascinante assolo di Ben Wendel. Nel conclusivo “Cuatro” si ricostituisce il gruppo in una sorta di rielaborazione di tutto il materiale sonoro offerto nell’album, quindi attenzione alle dinamiche, sapiente uso della tavolozza coloristica, giusta suddivisione degli assolo, eccellente equilibrio di scrittura e improvvisazione, il tutto conseguenza di un sapido arrangiamento.

Roma torna ad essere la capitale del jazz!

Non chiedetemi il perché: non lo so. Fatto sta che inopinatamente, nonostante i mille problemi che affliggono la città, Roma si presenta all’appuntamento con l’estate quale vera capitale del jazz. Sono davvero tante le iniziative dedicate alla musica afroamericana che si svolgeranno nella Capitale, alcune davvero di eccellente livello.

Roma, Auditorium Parco della Musica 18 06 2018 foto Musacchio & Ianniello

E partiamo con una struttura prestigiosa che, dopo vari mesi di assoluta inattività, torna prepotentemente alla ribalta. Lunedì 18 giugno, introdotta da un breve assolo di Danilo Rea, è stata presentata alla stampa la riapertura della Casa del Jazz nel cui parco il primo luglio parte la stagione estiva, la prima sotto la gestione della Fondazione Musica per Roma e all’interno della rassegna Estate Romana. Il parco di Villa Osio diventa così il palcoscenico ideale di una fitta programmazione di proposte originali, grandi concerti e spettacoli dal 1° luglio al 5 agosto in collaborazione con IMF Foundation e I Concerti nel Parco.

In particolare la Casa del Jazz ospiterà la 42esima edizione del Roma Jazz Festival, lo storico e prestigioso festival diretto da Mario Ciampà, che dopo 12 stagioni autunnali all’Auditorium Parco della Musica ritorna in estate con gran parte della programmazione alla Casa del Jazz. “Jazz is Now“ è il titolo di questa edizione che vuole trasmettere il sound attuale di una musica che non teme l’usura del tempo. Venti concerti con grandi stelle italiane e internazionali del jazz si susseguiranno alla Casa del Jazz con protagonisti Enrico Rava/Danilo Rea Duo (1.07), Pietropaoli – Zanisi – Paternesi Wire Trio (8.7), Ottolini – Bearzatti Licaones (9.7), Camille Bertault Trio (11.7), Tony Allen (13.7), Giovanni Guidi – Fabrizio Bosso (15.7), The Freexielanders (18.7), Randy Weston (19.7), Corey Harris (22.7), Vijay Iyer Sextet (23.7), Dee Dee Bridgewater (24.7), Tanotrio feat. George Garzone e Leo Genovese (25.7), Paolo Fresu/Chano Dominguez Duo (26.7), Steve Coleman & Five Elements (27.7), Big Fat Band (29.7), Giuliani – Biondini – Pietropaoli – Rabbia “Cinema Italia” (30.7), NTJO New Talents Jazz Orchestra (31.7), Lizz Wright (2.8), Chansons! (3.8), Piji Siciliani (4.8), Swing Valley Band (5.8).

Ma la Casa del Jazz non sarà l’unica location del “Roma Jazz Festival”: così alla Cavea dell’Auditorium ci saranno il 7 luglio gli Snarky Puppy, il 14 Chick Corea Akoustic Band, il 16 luglio Stefano Bollani Quintet, il 20 luglio Pat Metheny; al Museo Maxxi sarà possibile ascoltare il 12 Tommaso Cappellato, il 21 Kamaal Williams Trio, il 1 agosto Sons Of Kemet; presso il Parterre Farnesina il 14 luglio si esibirà Oddisee & Good Company, il 16 luglio Knower, il 23 Cory Henry & The Funk Apostles, il 28 luglio Jungle Green.

Tornando alla Casa del Jazz, la struttura ospiterà per il terzo anno consecutivo un’altra manifestazione storica dell’estate romana, I Concerti nel Parco, giunta alla sua 28sima edizione dal titolo “Una casa bellissima” e diretta da Teresa Azzaro. Tredici eventi, molte produzioni originali, in prima assoluta o al loro debutto romano e molte date uniche, in esclusiva in Italia; una programmazione di grande prestigio, sempre più multidisciplinare ed eterogenea, che ospita grandi nomi del parterre nazionale ed internazionale. Molti progetti speciali e giovani talenti italiani e stranieri che mettono in campo nuove idee per lo spettacolo dal vivo.

Tra i protagonisti: Graham Nash (2.7), Joey Alexander (3.7), Gio Evan (4.7), Monica Molina (5.7), Player2 Orchestra (6.7), The Black Blues Brothers (10.7), Paolo Cevoli e Quartetto Saxofollia (12.7), Claudia Gerini e Solis String Quartet (14.7), Suzanne Vega e Gerry Leonard (16.7), Avion Travel (20.7), Filippo Timi e Giuseppe Albanese (21.7), Teresa Salgueiro (28.7), Flamenco Tango Neapolis (1.8).

Da settembre riprenderanno le attività principali della Casa del Jazz quali la didattica, la divulgazione, la formazione e la promozione del jazz in tutte le sue forme oltre ovviamente alla programmazione concertistica Riaprirà anche il prestigioso studio di registrazione per riprendere le attività di produzione discografica. Verranno inoltre dedicate attività specifiche per i bambini e i giovani, concerti, spettacoli e attività di formazione. Così a maggio scorso è stato siglato un protocollo d’intesa tra la Fondazione Musica per Roma ed il Conservatorio di Santa Cecilia per sviluppare alla Casa del Jazz una collaborazione nei settori dell’Alta Formazione musicale, della formazione di base, della ricerca e della promozione e produzione artistica.

Sempre a maggio si è formata presso la Casa del Jazz la nuova Orchestra Nazionale Jazz Giovani Talenti (ONJGT) sotto la direzione di Paolo Damiani, ensemble che raccoglie undici tra i migliori talenti emersi in Italia e che presenta un organico inusuale con due voci femminili e un violino, oltre a fiati e sezione ritmica. Questo pregevole organico presenterà il 17 luglio il progetto “Oscene rivolte” che porterà in tour nelle più importanti città italiane per poi ritornare alla Casa del Jazz a registrare il suo primo disco.

Il 22 settembre inoltre la Casa del Jazz ospiterà uno degli appuntamenti del festival “Una striscia di terra feconda”, festival franco-italiano di jazz e musiche improvvisate, che vedrà protagonisti nella prima parte il pianista François Coutorier in un concerto in solo in prima nazionale e nella seconda parte i musicisti italiani, in residenza con il trombettista Mederic Collignon, Camilla Battaglia (voce), Andrea Molinari (chitarra), Rosa Brunello (contrabbasso), Perla Cozzone (pianoforte), tutti vincitori del Concorso Nazionale in collaborazione con l’Institut Français Italia, l’Ambasciata di Francia in Italia, MiDJ e SIAE.

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Ma, come si accennava in apertura, il “Roma Jazz Festival” non sarà l’unica occasione di ritrovo per gli appassionati di jazz. Fra le altre iniziative c’è da segnalare “L’ISOLA DI ROMA JAZZ & BLUES” che si svolgerà dal 4 Luglio al 17 Agosto presso l’Isola Tiberina. La rassegna vedrà la partecipazione di artisti da ogni parte del mondo, come il talentuoso ventenne russo Alexandr Misko, a ben ragione considerato il genio del percussive fingerstyle guitar solo (il 4 Luglio). L’ 8 luglio sarà la volta della pianista giapponese Chihiro Yamanaka e il suo “Electric Female Trio”. Mercoledì 11 Luglio a mio avviso uno degli avvenimenti più importanti dell’intera stagione romana: saliranno sul palco della Grande Arena Carla Bley con Andy Sheppard (sax) e Steve Swallow (basso). Si tratta di artisti che hanno fatto la storia del jazz e che, specie per quanto concerne la Bley, non è usuale ascoltare nella Capitale.  Il 18 invece si esibirà la band statunitense The Bad Plus, dal groove trascinante.

Il 25/7 l’Africa si impossesserà del palco: i Songhoy Blues, quattro ragazzi del Mali, proporranno brani Blues, R&B e Raggae nella lingua della loro terra.

Il mitico sassofonista Kenny Garrett suonerà col suo quintetto il 31 luglio mentre martedì 7 Agosto, si alterneranno sul palco Dick Halligan, storico pianista dei Blood Sweat & Tears, al piano solo, e la “Giancarlo Maurino’S Evidence”, condotta dal noto sassofonista italiano.

A chiudere la rassegna, Atrio, Dumbo, Station e Modular, testimoni delle nuove generazioni del crossover Jazz.

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Intanto dai primi del mese è in corso di svolgimento, nella splendida cornice di piazza Garibaldi, con una vista ineguagliabile sulla Città Eterna, la seconda edizione di “Gianicolo in Jazz” che, sotto la sapiente regia del nuovo direttore artistico Roberto Gatto, andrà avanti fino al 14 settembre. Variegato il programma che prevede artisti di assoluto rilievo internazionale e giovani talenti che possono così trovare l’occasione di far conoscere le proprie potenzialità. Tra gli appuntamenti più importanti il 27 giugno   il vocalist e chitarrista Mark Hanna; il 10 luglio il duo Javier Girotto sax e Natalio Mangalavite piano; il 15 luglio il Paolo Damiani Santa Cecilia Jazz Ensemble con Daphne Nisi voce, Francesco Fratini tromba, Andrea Molinari chitarra, Fabio Sasso batteria e Paolo Damiani contrabbasso e composizioni; il 18 “The Italian Trio” con Dado Moroni piano, Rosario Bonaccorso contrabbasso e Roberto Gatto batteria; il 24 “The Hidden Side” con Rosario Giuliani sax, Alessandro Lanzoni piano, Jacopo Ferrazza contrabbasso e Fabrizio Sferra batteria; il 7 agosto Tandem, ovvero Fabrizio Bosso tromba e Julian Mazzariello piano; il 15 Seamus Blake al sax, accompagnato da Roberto Tarenzi piano, Gabriele Evangelista contrabbasso e Roberto Gatto batteria; il 21 un quartetto di classe con Peter Bernstein chitarra, Dario Deidda basso, Alessandro Lanzoni piano e Roberto Gatto batteria; il giorno dopo Enrico Rava Quartet completato da Domenico Sanna piano, Dario Deidda basso e Roberto Gatto batteria; il 29 Enrico Pieranunzi piano, Rosario Giuliani sax, Luca Fattorini contrabbasso e Marco Valeri batteria; il 4 settembre Maurizio Giammarco “Syncotribe”, ovvero Maurizio Giammarco sax, Luca Mannutza organo e Enrico Morello batteria; il 9 il duo, Rita Marcotulli piano, Israel Varela batteria e voce.

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Un’altra manifestazione in corso di svolgimento è quella che si svolge in un’altra splendida villa della Capitale: la terza edizione del Village Celimontana, rassegna organizzata dal Cotton Club che si protrarrà fino all’8 settembre. Media-Partner della rassegna Radio Montecarlo, la radio italiana che offre maggiore spazio al jazz. Molto spazio ai giovani talenti italiani ma anche appuntamenti di rilievo internazionale: la “Carta Bianca” ad Enrico Pieranunzi sarà una tre giorni dedicata al grande pianista che salirà sul palcoscenico del Village Celimontana presentando due nuovi dischi, domenica 17 giugno in duo con una star emergente, il contrabbassista danese Thomas Fonnesbeak, mercoledì 4 luglio con un concerto in piano solo e giovedì 5 luglio in quintetto con ospite il sax di Rosario Giuliani.

Tra gli altri italiani degni di attenzione le esibizioni – tanto per citare qualche nome –  di Massimo Morriconi, Ellade Bandini, Nico Gori, Lorenzo Tucci, Stefano Sabatini, Gianni Oddi, Giorgio Rosciglione, Riccardo Biseo, Stefano Sabatini.

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Infine La Scuola Popolare di Musica di Testaccio presenta “Le vie del jazz”, concerti suonati e raccontati dai protagonisti del jazz romano attraverso sei lezioni-concerto.

Un’occasione per ascoltare le varie “anime” del jazz e le molteplici culture che, partendo dal blues e dalla musica di New Orleans, hanno nel tempo influenzato questo linguaggio fino a renderlo una sorta di esperanto musicale.

A rendere possibile l’iniziativa sono i musicisti che fanno base a Roma, tra i quali alcuni insegnanti della Scuola Popolare di Musica di Testaccio come Roberto Nicoletti, Gaia Possenti, Sonia Cannizzo, Simona Bedini e Ludovico Piccinini. Oltre a noti musicisti che, nella scuola, si sono nel tempo formati: Gabriele Coen, Giulia Salsone, Antonella Vitale, Luca Monaldi e oltre ancora a tutti i musicisti che con la scuola hanno più volte incrociato la propria strada per concerti, incontri, stage…

Durante gli incontri si toccheranno le varie influenze: dal rock-pop alle musiche del mondo, a Giuseppe Verdi in chiave gipsy/swing, alla canzone italiana in chiave swing, per finire con un approfondimento sulla musica di Thelonius  Monk e sul trombone.

Ogni incontro prevede una parte illustrativa curata dal relatore e una parte di concerto.

Gerlando Gatto

 

 

In programma alla Casa del Jazz dal 21 giugno al 7 agosto: parata di stelle al Summertime 2017

Davvero un gran bel cartellone quello posto in essere dalla Casa del Jazz di Roma per la sua “Summertime” 2017, ovvero i concerti all’aperto nella splendida struttura romana: star internazionali e italiane assieme a musicisti meno conosciuti ed emergenti, progetti originali, serate davvero imperdibili… il tutto avendo a disposizione un badget estremamente limitato.

Questa, in estrema sintesi la carta d‘identità della stagione estiva approntata dalla Casa del Jazz e ufficialmente presentata alla stampa il 15 giugno da Luciano Linzi coordinatore artistico della struttura e Luca Bergamo, Vice Sindaco e Assessore alla Crescita Culturale di Roma Capitale.

In effetti stupisce non poco il fatto che, sempre in ambito romano, una struttura sostanzialmente con pochi soldi riesca a mettere su una stagione siffatta cosa che altre, magari più ricche, non sono più in grado di fare. E si faccia attenzione al fatto che tutti i concerti previsti alla Casa del Jazz sono ascrivibili all’ambito jazzistico propriamente detto, senza ammiccamenti al pop e senza privilegiare le esigenze di cassa. Tutto ciò è stato possibile – ha spiegato Luciano Linzi – grazie al fatto che tutti i musicisti, anche i più celebrati, rendendosi conto della situazione hanno accettato di esibirsi con cachet molto al di sotto dei loro abituali. E, sempre con riferimento all’annosa questione dei finanziamenti, rispondendo ad una nostra precisa domanda circa i soldi che potrebbero essere destinati alla Casa del jazz, Luca Bergamo ha risposto ponendo in evidenza due fattori: il passaggio della struttura dall’egida del Palazzo delle Esposizioni a quello di Musica per Roma e la necessità di costituire una sorta di rete tra tutte le entità culturali della Capitale sì da portare la cultura anche in quelle realtà cittadine che ne sono attualmente deprivate.

Ma vediamo, adesso, più da vicino il cartellone.

Partenza il  mercoledì 21 giugno, con ingresso libero, in occasione della “Festa della musica”, con la proiezione di “Sicily Jass – The world’s first man in jazz” di Michele Cinque, documentario su Nick La Rocca e con la Jazz oltre night, un evento straordinario con i docenti e i migliori allievi dei corsi Jazz Oltre, organizzati in collaborazione con il Conservatorio di Santa Cecilia.

Come accennato in apertura, molte le serate imperdibili… ma almeno per il sottoscritto ce n’è una più imperdibile delle altre, quella che il 28 luglio vedrà sul palco il sassofonista Charles Lloyd in quartetto con Gerald Clayton al pianoforte, Reuben Rogers al contrabbasso e Eric Harland alla batteria. Personalmente ritengo Lloyd uno dei più geniali jazzisti in assoluto e un suo storico album, “Forest Flower”, registrato nel 1966 con Keith Jarrett piano, Cecil McBee basso e Jack DeJohnette batteria rappresenta ancora oggi uno dei miei ascolti preferiti. Inoltre a Lloyd va riconosciuto il merito di aver lanciato quelli che poi si sarebbero rivelati grandissimi artisti quali, per l’appunto, Keith Jarrett e soprattutto Michel Petrucciani.

Restando in ambito “straniero” quattro concerti di assoluto rilievo per gli amanti della chitarra: il 6 luglio il “William Lenihan e Marc Copland Quartet” con Marc Copland, pianoforte, William Lenihan, chitarra, Francesco Puglisi, contrabbasso e Lucrezio de Seta, batteria; il 13 luglio, unica data italiana,  una formazione tra le più interessanti del momento, quella del chitarrista Wolfgang Muthspiel con Ralph Alessi, tromba, Gwilym Simcock , pianoforte, Larry Grenadier contrabbasso, Jeff Ballard, batteria; il 18 luglio sarà la volta della “ John Scofield Uberjam Band”, in cui, a fianco dell’autorevole leader c’è un secondo chitarrista, Avi Bortnick, un bassista elettrico, Andy Hess, e un instancabile macinatore di ritmi come Dennis Chambers di nuovo live con Scofield dopo quasi 30 anni! Musicista dalla inequivocabile cifra stilistica, John Scofield è protagonista sin dalla fine degli anni Sessanta di una carriera artistica multiforme, scandita da progetti diversi per impianto strumentale e a cui piace sperimentare, rimettersi continuamente in gioco; la sua collaborazione di metà anni Ottanta con Miles Davis continua ad essere un punto fermo nel suo percorso evolutivo; venerdì 21 luglio, per la prima volta alla Casa del Jazz il grande Bill Frisell in trio con Tony Scherr al basso e Kenny Wollesen alla batteria, combo che oramai è sulla scena da molti anni tanto da aver sviluppato un’intesa davvero non comune.

Da segnalare la presenza di gruppi oramai consolidati e molto, molto interessanti: domenica 9 luglio The Bad Plus, ovvero Ethan Iverson al piano, Reid Anderson al contrabbasso e David King alla batteria, da diversi anni uno dei gruppi più interessanti della scena jazzistica mondiale che si contraddistingue per un repertorio che abbina loro composizioni originali, accanto a echi di Thelonius Monk e destrutturazione di successi pop. Da segnalare che questo è l’ultimo anno in cui Ethan Iverson farà parte del gruppo quindi l’ultima occasione per vederli insieme.

Lunedì 17 luglio, sul palco gli Oregon con Ralph Towner, Paul McCandless, Mark Walker che festeggiano il loro trentesimo album (CAM JAZZ), il primo con Paolino Dalla Porta al contrabbasso, e confermano tutta la loro impareggiabile abilità creativa, autentici precursori di world music, ancora estremamente freschi ed attuali.

Domenica 23 luglio, “Bokanté” , il nuovo progetto creato dal fondatore e leader della band rivelazione di questi ultimi anni “Snarky Puppy”,  Michael League, che affonda le radici tra il Delta del Mississippi e il deserto africano. Bokanté significa “Scambio” in creolo, la lingua della giovane cantante Malika Tirolien, cresciuta nell’isola caribica di Guadalupa. Otto musicisti provenienti da quattro diversi continenti che portano sul palco la propria conoscenza e la propria tradizione. Con due Grammy Award e un implacabile successo planetario League torna a rimettersi in gioco esordendo con un progetto che promette essere esplosivo.

Per quanto concerne ancora i grandi solisti internazionali, da segnalare il 3 luglio il concerto del trio di Chris Potter al sax tenore con James Francies tastiere, pianoforte e Eric Harland, batterista tra i più richiesti e stimati a livello mondiale oggi mentre l’ 1 agosto sarà la volta di “Peter Erskine is Dr. Um”; un’autentica icona del jazz mondiale, uno dei protagonisti della storia della musica moderna, uno dei batteristi più completi. “Dr. Um” è il titolo del suo più recente cd uscito per la Fuzzy Music, acclamato dalla critica mondiale, in cui Erskine esplora le sonorità R&B e Fusion che lo hanno visto protagonista assoluto degli anni ’80.

Altra caratteristica di “Summertime 2017” la presenza di alcuni progetti realizzati assieme da musicisti italiani e stranieri. Così il 24 giugno il duo Rita Marcotulli al piano e Mino Cinelu alle percussioni, duo nato l’anno scorso al Festival di Berchidda e in questa occasione per la prima volta a Roma. Nonostante non sia , forse, conosciutissimo nel nostro Paese, Mino Cinelu è uno dei più grandi percussionisti della storia del jazz e persona di grande sensibilità e umanità. Lo abbiamo conosciuto nel ’92 durante un Festival del Jazz alla Martinica e ne abbiamo conservato un ricordo quanto mai positivo.

Sabato 22 luglio il “TanoTrio”  feat. Kenny Werner al piano, quindi un quartetto con Kenny Werner, pianoforte, Daniele Germani, sax alto, Stefano Battaglia, contrabbasso e Juan Chiavassa, batteria. TanoTrio è una formazione nata nell’autunno del 2016 a Boston che  propone un jazz dalla forte influenza melodica con una chiara contaminazione da parte del free jazz e della musica classica contemporanea europea e statunitense.

Due date saranno caratterizzate da un doppio concerto: il 4 e il 26 luglio. Il 4 in apertura il trombettista Luca Aquino propone il suo progetto OverDOORS, con Antonio Jasevoli alle chitarre, Dario Miranda al basso e Lele Tomasi ai tamburi. Profondamente ispirato dalla musica dei Ramones, Offspring e Stranglers il trombettista rivisita, a suo modo, i classici del repertorio dei Doors. A seguire, “Greg Burk’s Solar Sound”  Feat. Rob Mazurek. La genesi di questo quartetto con Burk al piano, Mazurek alla tromba, Marc Abrams al basso e Enzo Carpentieri alla batteria si può collegare al ricordo del Lunar Quartet di John Tchicai. Nel 2008 infatti Burk, Abrams e Carpentieri erano a fianco del sassofonista afrodanese, scomparso quattro anni dopo. Oggi il pianista Greg Burk riprende quel viaggio sonoro interrotto, invitando a bordo Rob Mazurek, ormai tra i nomi di punta della musica contemporanea.

Il 26 luglio, nella prima parte il progetto “Travel” frutto della collaborazione tra l’Alfa Music, intraprendente etichetta romana con la Reale Ambasciata di Norvegia a Roma. Sul palco Marit Sandvik, voce, Maurizio Giammarco, sax, Fulvio Sigurtà, tromba, Eivind Valnes, pianoforte, Raffaello Pareti contrabbasso, Maurizio Picchiò batteria. Le composizioni di ”Travel” sono di Sandvik e si richiamano sia alle tradizioni jazz americane che europee, sia alla musica brasiliana. Seguirà il “Pasquale Innarella Quartet” una realtà attiva già da diversi anni, che presenta “Migrantes” (Innarella sax, Francesco Lo Cascio vibrafono, Mauro Nota contrabbasso e Roberto Altamura batteria). Il concerto sarà dedicato al contrabbassista Pino Sallusti, recentemente scomparso.

Per quanto concerne gli altri musicisti italiani, il 23 giugno l’inventiva di Massimo Nunzi viene fuori ancora una volta nella conduzione della Perugia Big Band in un programma dedicato all’esplorazione , in parallelo, dei suoni modernissimi del jazz orchestrale italiano degli anni 60, attraverso le sigle di Tv 7 , Rischiatutto, Brava e la musica del film Il Sorpasso e del repertorio dello stesso periodo dell’orchestra di Stan Kenton.

Lunedì 10 luglio un combo d’eccezione con Paolo Damiani al violoncello, Rosario Giuliani al sax e Michele Rabbia batteria e percussioni. Il trio debutta alla Casa del Jazz, ma i tre solisti hanno spesso suonato insieme in diverse formazioni. In particolare , Damiani e Giuliani collaborano da tempo in duo, ed entrambi hanno  sovente incrociato lo straordinario percussionista torinese.

Infine al quintetto di Ada Montellanico l’onore di chiudere la manifestazione il 7 agosto. La vocalist presenta il suo nuovo cd, “Abbey’s road, omaggio a Abbey Lincoln”, con gli arrangiamenti curati dal grande trombettista Giovanni Falzone. A loro si uniscono alcuni degli astri nascenti del jazz italiano: Matteo Bortone al contrabbasso, vincitore del Top Jazz 2015, Filippo Vignato al trombone, vincitore del Top Jazz 2016 e Ermanno Baron alla batteria.

E chiudiamo con una anticipazione: sabato 23 settembre, la Casa del Jazz ospiterà il concerto conclusivo di Una Striscia di Terra Feconda, Festival Franco-Italiano di Jazz e Musiche Improvvisate, direzione artistica Paolo Damiani e Armand Meignan. In programma  la prima nazionale del vincitore del Premio Siae 2016, Gabriele Evangelista Quartet con lo stesso Evangelista contrabbasso Pasquale Mirra vibrafono, Gabrio Baldacci chitarra, Bernardo Guerra batteria,  e la produzione originale, Residenza D’Artista franco italiana, “F.A.R.E.”: FOURNEYRON/ARCELLI RESIDENCE ENSEMBLE con Fidel Fourneyron trombone, composizione, Cristiano Arcelli alto sax, composizione (vincitore del concorso nazionale di MIDJ –Associazione nazionale musicisti di jazz), Francesco Diodati chitarra, Matteo Bortone contrabbasso, Bernardo Guerra batteria.

Montellanico, Bonaccorso e King entusiasmano il pubblico

 

Trittico di lusso alla Casa del Jazz dal 28  al 30 gennaio: protagonisti, nell’ordine, Ada Montellanico e il suo quintetto impegnati nella presentazione del loro nuovo album, il quartetto di Rosario Bonaccorso con “A Beautiful Story” ultimo lavoro discografico del contrabbassista siciliano, e il trio del batterista Dave King.

Conosciamo Ada Montellanico oramai da molti anni e l’abbiamo sempre considerata una delle migliori vocalist del panorama jazzistico nazionale, ciò non solo per le indiscusse qualità vocali ma anche per il coraggio con cui affronta determinate sfide. Ricordiamo, al riguardo, che è stata la prima ad evidenziare come si potesse cantare dell’ottimo jazz utilizzando la lingua italiana…ancora è stata tra i primi, se non la prima in senso assoluto, a saper rileggere in chiave jazzistica le composizioni di Tenco…e via di questo passo attraverso una serie di realizzazioni mai banali. Il tutto senza trascurare quell’impegno sociale cui neanche gli artisti dovrebbero sottrarsi: di qui le meritorie battaglie che Ada sta conducendo come presidente dell’associazione dei jazzisti italiani MIDJ.

In questo solco si inserisce l’ultimo album, “Abbey’s road, omaggio a Abbey Lincoln” (Incipit records, distribuzione Egea) presentato per l’appunto alla Casa del Jazz il 28 gennaio. Sul palco Giovanni Falzone tromba, Filippo Vignato trombone, Matteo Bortone contrabbasso, Ermanno Baron batteria, quindi un combo privo degli strumenti armonici per eccellenza, pianoforte e/o chitarra. Ma l’assenza di tali strumenti  non si è avvertita sia per la bravura della sezione ritmica, sia per gli splendidi arrangiamenti di Falzone che, confermandosi uno dei migliori arrangiatori oggi sulle scene non solo nazionali, ha saputo valorizzare al massimo l’elemento ritmico .   E così il gruppo si muove lungo coordinate ben precise in cui scrittura e improvvisazione sono ben bilanciate con i fiati sempre in evidenza,  la voce della Montellanico a legare il tutto con grande padronanza e, cosa da non sottovalutare, una bella presenza scenica. Ovviamente ascoltando l’album manca il fattore visivo, ma tutti gli elementi che si erano apprezzati durante il concerto li si ritrova intatti, se non addirittura valorizzati come ad esempio la voce della vocalist che dalle primissime file della Casa del Jazz non si percepiva al meglio. Ada canta con convinzione e sincera partecipazione, evidenziando ancora una volta quella che personalmente riteniamo la sua dote migliore, vale a dire la capacità di penetrare nelle pieghe più profonde del testo per poi raccontarlo sì da penetrare nel cuore, nell’anima dell’ascoltatore.

L’album si apre con un esplicito omaggio alla Lincoln scritto   da Falzone e da Montellanico cui fa seguito un programma piuttosto variegato anche se in qualche modo riconducibile alla Lincoln: così è possibile ascoltare  un cameo dalla Freedom Now Suite, mentre per quanto concerne i brani interpretati dalla Lincoln, Ada ha volutamente trascurato gli standards  per concentrarsi sul  suo aspetto autoriale. Così particolare attenzione viene posta sia sul suo  spirito africanista sia – sottolinea la stessa Montellanico nel corso di un’intervista concessa a Luigi Onori –  “su testi importanti come “Throw It Away”,  “Bird Alone”, canzoni dove parla di libertà, identità, liberazione. Ci sono anche composizioni altrui come il pezzo di Charlie Haden “First Song” per cui ha scritto testi di alto livello”.

Risultato: uno spaccato abbastanza esaustivo della complessa personalità della Lincoln sicuramente una delle vocalist più innovative, originali e combattive che la storia del jazz abbia conosciuto.

 

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Domenica 29 gennaio è stata la volta del quartetto del contrabbassista Rosario Bonaccorso con Enrico Zanisi al pianoforte, Dino Rubino al flicorno e Alessandro Paternesi alla batteria, vale a dire tre giovani ma validissimi esponenti del nuovo jazz made in Italy.

In programma la presentazione del nuovo CD “A Beautiful Story” (Jando Music/Via Veneto Jazz) che ripercorre il cammino tracciato nel precedente album “Viaggiando (2015). Si tratta di un percorso che potremmo definire autobiografico in cui Bonaccorso si mette a nudo e narra di sé attraverso la musica, attraverso le composizioni che scoprono la natura di un artista quanto mai sensibile e capace di apprezzare anche le più piccole cose che la vita può darci. In effetti “A Beautiful Story”   rappresenta quella storia meravigliosa che è la vita stessa.

Ma come si traduce tutto ciò in musica? Nell’album in oggetto si traduce in dodici composizioni di Bonaccorso; ascoltandole si ravvisa ancora una volta la propensione

del contrabbassista per la melodia, una melodia dolce, sinuosa, mai banale che ha la forza di farti abbandonare le pene giornaliere per condurti nel suo personalissimo universo musicale in cui bellezza e originalità sono gli elementi principali.

In tale contesto si evince la personalità di Bonaccorso che non solo si impone come eccellente compositore e altrettanto eccellente strumentista (lo si ascolti particolarmente in “Ducciddu“), ma anche come leader di indiscussa competenza. Non a caso ha chiamato alcuni giovani-grandi musicisti che sia alla Casa del Jazz sia nell’album hanno davvero dato il meglio di sé. Ancora una volta straordinario Dino Rubino che, abbandonato il pianoforte, si è esibito solo al flicorno sciorinando una sonorità, spesso “soffiata”, che è risultata assolutamente in linea con le esigenze espressive del leader (assolutamente toccante il suo eloquio in “My Italian Art Of Jazz”) . Enrico Zanisi sfoggia una sorprendente padronanza strumentale sorretta da un eloquio personale, da una mirabile capacità improvvisativa e da una  rara raffinatezza espressiva (lo si ascolti particolarmente in “Der Walfish”) mentre Paternesi è in grado di tessere costantemente un tessuto ritmico ricco di colori.

 

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Lunedì 30 gennaio è stata la volta del trio guidato dal batterista Dave King con Billy Peterson al contrabbasso e Bill Carrothers al pianoforte, tutti e tre originari del Minnesota, ed è stato davvero un bel sentire.

Dei tre il più conosciuto è certamente il leader  per la sua duratura collaborazione con The Bad Plus e Happy Apple, ma le sue attività non si fermano di certo a questi due progetti dato che contemporaneamente  è coinvolto in almeno dieci situazioni  che vanno da quelle più prettamente  jazzistiche come le già citate  Bad Plus e Happy Apple a rock bands come Halloween Alaska,  a progetti elettronici come Gang Font. Per non parlare delle numerose collaborazioni con grandi nomi come  Bill Frisell, Joshua Redman, Jeff Beck, Tim Berne, Craig Taborn, Jason Moran…

Il bassista Billy Peterson ha collaborato con artisti di vaglia quali con Leo Kottke , BB King, Johnny Smith, Lenny Breau. Nel 1975 è apparso nel famosissimo  Blood on the Tracks di Bob Dylan’s e pochi anni dopo ha cominciato una duratura collaborazione con Ben Sidran, che poi ha portato a oltre due decadi di lavoro con la Steve Miller Band.

L’artista che più ci ha impressionato, è stato, comunque, il pianista Bill Carrothers; a vederlo lo si potrebbe scambiare per un impiegato del catasto…ancora più improbabile il modo di sedersi dinnanzi allo strumento, appollaiato su una sedia normale… e poi il tocco finale: via le scarpe. Ma quando dalle apparenze si passa alla sostanza, vale a dire quando Carrothers comincia ad accarezzare i tasti bianchi e neri , allora si capisce immediatamente che siamo di fronte ad un grande, grandissimo pianista, dal linguaggio tanto etereo quanto originale e dalla tecnica strepitosa; il tutto al servizio della musicalità e del progetto del trio. Non è certo un caso che Bill sia stato nominato giovanissimo alle Victoires du Jazz, l’equivalente francese dei Grammy, e non è un caso che abbia riscosso pieno successo dapprima in Europa e poi negli Stati Uniti.

Lumeggiata brevemente la statura artistica dei tre, bisogna dire che il trio funziona alla perfezione. Dave King è una vera e propria macchina del ritmo: dalle sue mani, dalle sue dita scaturisce un flusso sonoro ininterrotto ma quanto mai variegato, speziato da mille colori, mille timbri diversi che conferiscono al tutto un sapore assai particolare. Billy Peterson piazza lì poche note ma tanto basta per equilibrare il trio e ancorarlo armonicamente…anche perché Carrothers al pianoforte non sembra avere bisogno di granché per elaborare i suoi assolo così  originali, frutto di un  intenso studio che gli ha permesso di coniugare le influenze di un trombettista come Clifford Brown con quelle di due straordinari pianisti quali Shirley Horn e Oscar Peterson

Insomma i tre sono riusciti  nell’intento, estremamente difficile, di far rivivere, chiaramente attualizzate, le atmosfere care ai trii di Bill Evans e Paul Bley. Così, in rapida successione, abbiamo ascoltato tutta una serie di standards, da “Moonlight Serenade” a “Slow Boat To China”, da “Lonely Woman” a “Four Brothers”, da “Body and Soul” a “So In Love”… Dinnanzi a questi titoli, qualcuno potrebbe anche parlare di un repertorio banale proprio per il fatto che si tratta di brani arcinoti ed eseguiti più e più volte. Ma il “trattamento” proposto dai tre è stato davvero magnifico per inventiva e capacità di legare strettamente il passato al presente dimostrando ancora una volta una tesi di cui personalmente siamo più che convinti: il jazz non è ciò che si suona ma come lo si suona. In altri termini è sciocco criticare aprioristicamente chi ancora oggi suona gli standards: bisogna vedere come li si presenta, come li si vive. Se non ci credete andate a sentire, quando ne avrete occasione, questo straordinario combo.

Gerlando Gatto

 

I risultati del Top Jazz 2016 non valorizzano appieno le nuove generazioni

 

di Luigi Onori –

E’ trascorso circa un mese dall’uscita dei risultati del referendum “Top Jazz 2016”, frutto della consultazione dei “migliori esperti di jazz italiani” indetta ogni anno dalla rivista <<Musica Jazz>>, a partire dal 1982.

Si è, quindi, ancora in tempo per riflettere sulle indicazioni scaturite (limitandosi ai primi tre/quattro piazzati per ciascuna delle dieci categorie) che dovrebbero offrire un quadro delle novità a livello discografico, concertistico e di progetto. Voglio precisare che quanto leggerete non riguarda le mie individuali opinioni ma si configura come un tentativo di interpretare in modo ampio i voti del <<Top Jazz>>

 

DISCO ITALIANO DELL’ANNO

Vince con 63 punti “Ida Lupino” (Ecm) del duo composto dal trombonista Gianluca Petrella e dal pianista Giovanni Guidi, allargato con la creativa presenza del pluristrumentista Louis Sclavis e del batterista Gerald Cleaver. Di poco staccato (61 punti) il trio del pianista Franco D’Andrea “Trio Music Vol. II” (Parco della Musica Records). Arriva terzo “Music For Lonely Souls (Beloved  by Nature)” (Almar Records) della Lydian Sound Orchestra diretta da Riccardo Brazzale (38 punti), seguito a 35 dal Cristiano Calcagnile Ensemble in “Multikulti Cherry On” (Caligola).

La classifica andrebbe rovesciata, al di là della classe e del valore indiscutibile del gruppo di D’Andrea. Brazzale ha portato la sua Orchestra, con un lungo lavoro, a livelli altissimi sia su repertori originali che storicizzati; Calcagnile ha rivisitato le composizioni di Don Cherry esaltandone proprio lo spirito eversivo, meticcio e di apertura, ricollocandole di fatto in un presente che il trombettista aveva già ampiamente intuito. L’album di Petrella e Guidi ha momenti di eccellenza ma resta magmatico e laboratoriale, quindi pregevole nel suo dipanarsi ma ancora sfuocato rispetto agli altri due.

 

MUSICISTA ITALIANO DELL’ANNO

Franco D’Andrea (91 punti), Tino Tracanna (31), Luca Aquino e Cristiano Calcagnile (30). Qui è necessario interrogarsi sul “senso” della votazione per la categoria in oggetto. Credo che sia utile votare guardando soprattutto alle “generazioni più recenti” che non possono essere confinate al “miglior nuovo talento”. D’Andrea ha vinto più volte in questa categoria e nulla si può togliere alla sua perdurante ed originale produzione. Continuare a votarlo (come a scegliere musicisti ampiamente riconosciuti quali Enrico Rava, Paolo Fresu o Enrico Pieranunzi) contribuisce – indirettamente – alla rigidità ed alla mancanza di ricambio nei cartelloni di festival e club. I musicisti alle spalle del pianista meranese, in questo senso, riguardano nomi che meritano il massimo di attenzione e che dovrebbero viaggiare quanto più possibile nel circuito concertistico nazionale: il sassofonista (didatta e compositore) Tino Tracanna, il trombettista Luca Aquino ed il batterista-leader Cristiano Calcagnile. Guadare al presente, quindi, indirizzando verso il ricambio: nel 1982 (prima edizione del referendum) vinsero, tra gli altri, Massimo Urbani ed Enrico Rava, non Nunzio Rotondo ed Enzo Scoppa (e nessuno mette in dubbio il valore di tutti i citati).

 

NUOVO TALENTO ITALIANO

In questa categoria le indicazioni del <<Top Jazz>> sono  rispondenti alla realtà. Un vero e meritato plebiscito per il trombonista veneziano Filippo Vignato (81 punti); 50 punti per il trombettista bresciano Gabriele Mitelli, artista di grande creatività spesso a fianco del vibrafonista Pasquale Mirra. Più staccata (39 punti) la clarinettista e compositrice Zoe Pia che si è imposta e fatta apprezzare con l’album “Shardana” dove si intrecciano folclore e contemporaneità, scrittura ed oralità. Qua e là nella classifica altri nomi di pregio tra cui Francesco Diodati, Mattia Cigalini, Manlio Maresca, Piero Bittolo Bon, Simone Graziano… Giustamente <<Musica Jazz>> ha abbinato a questa categoria un’intervista al produttore dell’etichetta Auand, Marco Valente, che spesso ha documentato con anticipo i “nuovi talenti”.

 

NUOVO TALENTO INTERNAZIONALE

I risultati prevedono un ex-aequo (29 punti) ed uno scarto di cinque punti per il terzo classificato (23). Sovradimensionato il risultato della sassofonista e compositrice norvegese Mette Henriette (suo album di debutto per la Ecm) mentre pienamente meritato quello del trombettista trentaquattrenne Jonathan Finlayson, un artista che suona da quindici anni nei Five Elements di Steve Coleman, ha un ruolo importante nell’ottetto di Steve Lehman e compare nell’ensemble del “chicagoano” Muhal Richard Abrams. Coglie il personaggio emergente la terza segnalazione, quella della sassofonista danese (residente in Norvegia) Mette Rasmussen; si esibisce spesso in solo (sarà il 19 febbraio in prima italiana al Centro d’Arte di Padova) e fa parte della Fire!Orchestra di Mat Gustafsson.

 

MUSICISTA INTERNAZIONALE DELL’ANNO

Indiscussa – e indiscutibile – la vittoria del polistrumentista e compositore Henry Threadgill (81 punti); ampio lo scarto per il secondo e terzo classificato che si collocano in un’area simile, quella del jazz d’avanguardia: il pianista Vijay Iyer ed il trombettista Wadada Leo Smith (seguiti da vicino dal batterista-compositore Jack DeJohnette e dal pianista Brad Mehldau).

 

DISCO INTERNAZIONALE DELL’ANNO

Al di là della prima posizione, il resto della classifica è piuttosto fluido. Threadgill trionfa (65 punti) con il suo album “Old Loks and Irregular Verbs” dedicato all’amico Lawrence “Butch” Morris (Pi Rcordings, realizzato con l’Ensemble Double Up); distanziati i Cd di Jack DeJohnette (“In Movement”, Ecm, inciso con Ravi Coltrane e Matthew Garrison) e “Into the Silence” (Ecm) del trombettista Avishai Cohen (da non confondere con l’omonimo contrabbassista). E’ tuttavia importante che nei primi dieci classificati ci siano gli album che hanno “segnato” e contraddistinto il 2016: “America’s National Parks” (Cuneiform) di Wadada Leo Smith; “The Distance” (Ecm) del Michael Formanek Ensemble Kolossus; “Lovers” (Blue Note) di Nels Cline; “Take Me To the Alley” (Blue Note) di Gregory Porter; “The Declaration of Musical Indipendence” (Ecm) di Andrew Cyrille; “A Cosmic Rhythm with Each Stroke” (Ecm) del duo Iyer / Smith; “Sélébéyone” (Pi Recordings) di Steve Lehman.

 

GRUPPO INTERNAZIONALE DELL’ANNO

Molto vicini i punteggi ed uno scarto massimo di 16 punti tra il primo e l’ultimo gruppo. Opinioni, quindi, variegate con una leggera prevalenza per il trio The Bad Plus (32 punti), l’Ensemble Double Up di Henry Threadgill (30 punti) e la Fire!Orchestra di Mat Gustafsson (28), tallonata da un’altra formazione orchestrale di estetica opposta, gli Snarky Puppy (27). Apprezzabile la presenza in classifica del trio di Brad Mehladu, degli Snakeoil di Tim Berne e del gruppo São Paulo Underground.

 

GRUPPO ITALIANO DELL’ANNO

In questa categoria i giurati sono stati compatti incoronando, con pieno merito, la Lydian Sound Orchestra diretta da Riccardo  Brazzale (90 punti). Seguono a distanza formazioni rodatissime come il Tinissima Quartet di Francesco Bearzatti (43 p.) e gruppi più recenti quali Tino Tracanna & Acrobats (40 p.) e Cristiano Calcagnile Ensemble (39 p.). Tra i primi dieci Roots Magic, il Double Quartet di Claudio Fasoli, Enten Eller e i Sousaphonix di Mauro Ottolini. Le indicazioni per “gruppo italiano dell’anno” se intrecciate con quelle di “musicista italiano dell’anno” riescono a dare un’efficace istantanea del panorama del jazz del BelPaese nella sua ricca e poliedrica complessità.

 

Un paio di categorie riguardano “inediti storici” e “ristampe”: non hanno bisogno di commento perché hanno rispettivamente incoronato album di Bill Evans, Miles Davis quintet, Charlie Parker e dell’Albert Ayler quartet, John Coltrane, Peter Erskine trio. Qui parla la “storia”, remota o recente, e c’è veramente poco da aggiungere.

Luigi Onori

Al via Ferrara in Jazz 2016/17, il Jazz Club spegne 18 candeline!

Quest’anno Ferrara in Jazz conquista la maggiore età, e il pluripremiato jazz club estense si appresta a festeggiare il diciottesimo anno nella storica sede del Torrione San Giovanni (bastione rinascimentale iscritto nella lunga lista dei beni UNESCO, e location per il cinema di Emilia-Romagna Film Commission) con un’edizione speciale che prenderà il via venerdì 07 ottobre 2016, per concludersi a fine aprile 2017, con oltre 30 concerti animati da protagonisti assoluti del panorama internazionale, altrettante serate dedicate a talenti emergenti e novità discografiche, nuovi itinerari musicali, il live mensile della Tower Jazz Composers Orchestra (l’orchestra residente del Jazz Club Ferrara), didattica, incontri con l’autore e ben tre mostre tra illustrazione e fotografia, per un totale di circa 70 appuntamenti (la metà circa ad ingresso a offerta libera riservato ai soci Endas) che abbracciano il linguaggio jazzistico a 360° gradi, valicando confini geografico-culturali, in una continua alternanza di avanguardia e tradizione.
Il taglio del nastro della rassegna concertistica, organizzata da Jazz Club Ferrara con il contributo di Regione Emilia-Romagna, Comune di Ferrara, Endas Emilia-Romagna ed il prezioso sostegno di numerosi partner privati, è affidato al trio del pianista statunitense Harold Mabern, figura fondamentale nell’evoluzione del linguaggio jazzistico moderno.
Nelle tre serate di apertura settimanale – il venerdì, il sabato e il lunedì – si alterneranno a molti talenti del panorama italiano ed europeo icone internazionali della musica afroamericana quali Barry Harris, Randy Brecker, Horacio “El Negro” Hernandez, Buster Williams, Kurt Rosenwinkel, Franco D’Andrea, Michel Portal, Dado Moroni, Samuel Blaser, Theo Bleckmann, Fabrizio Bosso, The Bad Plus, Myra Melford, Julian Lage, The New Zion Trio, Ben Monder, Regina Carter, Fred Frith, Jaques Morelembaum, Tim Berne, David Torn, Eric Friedlander, Joe Chambers, Bill Carrothers e Dave King. I lunedì del Jazz Club firmati Monday Night Raw saranno volti alla scoperta di giovani leoni del jazz e alla presentazione di nuovi progetti discografici, seguiti da imprevedibili jam session. Alle altre serate del week-end, sotto la sigla Somethin’Else, spetta invece l’esplorazione di nuovi sentieri musicali che quest’anno toccheranno in particolar modo i territori della canzone d’autore, della world e black music, deviando lungo spericolati “fuoripista” contemporanei.
Continua, altresì, l’appassionante avventura della Tower Jazz Composers Orchestra: i 20 elementi che compongono l’apprezzata resident band del Torrione, diretti da Alfonso Santimone e Piero Bittolo Bon, arricchiranno il palinsesto con un’esibizione mensile e saranno preceduti da interessanti incontri con l’autore, mentre, sotto la sigla Jazz Goes To College, si rinnova il sodalizio con il Conservatorio “G. Frescobaldi” di Ferrara. Restando in ambito didattico, nel corso del 2017, riprenderà The Unreal Book, serie di clinics ideata da Jazz Club Ferrara tenuta da docenti di prima fascia.
Consueto è infine l’appuntamento del Torrione con l’arte contemporanea. Ospiti di questa edizione speciale di Ferrara in Jazz saranno le tavole dell’artista e illustratore Gianluigi Toccafondo, che costituiranno la preziosa anteprima del Festival internazionale di fumetto BilBOlbul (in collaborazione con Bologna Jazz Festival); “Note in bianco e nero”, la personale del giovane fotografo Michele Bordoni realizzata in collaborazione con Endas Emilia-Romagna e, last but not least, “Le strade del jazz”, mostra fotografica dell’eclettico Roberto Cifarelli.
Ferrara in Jazz 2016/2017 si fregia di una preziosa rete di co-produzioni che ne amplifica il prestigio e la visibilità. Quest’anno, oltre al Conservatorio “G. Frescobaldi” di Ferrara, Ferrara Musica, Bologna Jazz Festival e Crossroads Jazz e altro in Emilia-Romagna, il Jazz Club accoglie il nuovo ingresso di Teatro Off e Only Good Music. (altro…)