Montellanico, Bonaccorso e King entusiasmano il pubblico

 

Trittico di lusso alla Casa del Jazz dal 28  al 30 gennaio: protagonisti, nell’ordine, Ada Montellanico e il suo quintetto impegnati nella presentazione del loro nuovo album, il quartetto di Rosario Bonaccorso con “A Beautiful Story” ultimo lavoro discografico del contrabbassista siciliano, e il trio del batterista Dave King.

Conosciamo Ada Montellanico oramai da molti anni e l’abbiamo sempre considerata una delle migliori vocalist del panorama jazzistico nazionale, ciò non solo per le indiscusse qualità vocali ma anche per il coraggio con cui affronta determinate sfide. Ricordiamo, al riguardo, che è stata la prima ad evidenziare come si potesse cantare dell’ottimo jazz utilizzando la lingua italiana…ancora è stata tra i primi, se non la prima in senso assoluto, a saper rileggere in chiave jazzistica le composizioni di Tenco…e via di questo passo attraverso una serie di realizzazioni mai banali. Il tutto senza trascurare quell’impegno sociale cui neanche gli artisti dovrebbero sottrarsi: di qui le meritorie battaglie che Ada sta conducendo come presidente dell’associazione dei jazzisti italiani MIDJ.

In questo solco si inserisce l’ultimo album, “Abbey’s road, omaggio a Abbey Lincoln” (Incipit records, distribuzione Egea) presentato per l’appunto alla Casa del Jazz il 28 gennaio. Sul palco Giovanni Falzone tromba, Filippo Vignato trombone, Matteo Bortone contrabbasso, Ermanno Baron batteria, quindi un combo privo degli strumenti armonici per eccellenza, pianoforte e/o chitarra. Ma l’assenza di tali strumenti  non si è avvertita sia per la bravura della sezione ritmica, sia per gli splendidi arrangiamenti di Falzone che, confermandosi uno dei migliori arrangiatori oggi sulle scene non solo nazionali, ha saputo valorizzare al massimo l’elemento ritmico .   E così il gruppo si muove lungo coordinate ben precise in cui scrittura e improvvisazione sono ben bilanciate con i fiati sempre in evidenza,  la voce della Montellanico a legare il tutto con grande padronanza e, cosa da non sottovalutare, una bella presenza scenica. Ovviamente ascoltando l’album manca il fattore visivo, ma tutti gli elementi che si erano apprezzati durante il concerto li si ritrova intatti, se non addirittura valorizzati come ad esempio la voce della vocalist che dalle primissime file della Casa del Jazz non si percepiva al meglio. Ada canta con convinzione e sincera partecipazione, evidenziando ancora una volta quella che personalmente riteniamo la sua dote migliore, vale a dire la capacità di penetrare nelle pieghe più profonde del testo per poi raccontarlo sì da penetrare nel cuore, nell’anima dell’ascoltatore.

L’album si apre con un esplicito omaggio alla Lincoln scritto   da Falzone e da Montellanico cui fa seguito un programma piuttosto variegato anche se in qualche modo riconducibile alla Lincoln: così è possibile ascoltare  un cameo dalla Freedom Now Suite, mentre per quanto concerne i brani interpretati dalla Lincoln, Ada ha volutamente trascurato gli standards  per concentrarsi sul  suo aspetto autoriale. Così particolare attenzione viene posta sia sul suo  spirito africanista sia – sottolinea la stessa Montellanico nel corso di un’intervista concessa a Luigi Onori –  “su testi importanti come “Throw It Away”,  “Bird Alone”, canzoni dove parla di libertà, identità, liberazione. Ci sono anche composizioni altrui come il pezzo di Charlie Haden “First Song” per cui ha scritto testi di alto livello”.

Risultato: uno spaccato abbastanza esaustivo della complessa personalità della Lincoln sicuramente una delle vocalist più innovative, originali e combattive che la storia del jazz abbia conosciuto.

 

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Domenica 29 gennaio è stata la volta del quartetto del contrabbassista Rosario Bonaccorso con Enrico Zanisi al pianoforte, Dino Rubino al flicorno e Alessandro Paternesi alla batteria, vale a dire tre giovani ma validissimi esponenti del nuovo jazz made in Italy.

In programma la presentazione del nuovo CD “A Beautiful Story” (Jando Music/Via Veneto Jazz) che ripercorre il cammino tracciato nel precedente album “Viaggiando (2015). Si tratta di un percorso che potremmo definire autobiografico in cui Bonaccorso si mette a nudo e narra di sé attraverso la musica, attraverso le composizioni che scoprono la natura di un artista quanto mai sensibile e capace di apprezzare anche le più piccole cose che la vita può darci. In effetti “A Beautiful Story”   rappresenta quella storia meravigliosa che è la vita stessa.

Ma come si traduce tutto ciò in musica? Nell’album in oggetto si traduce in dodici composizioni di Bonaccorso; ascoltandole si ravvisa ancora una volta la propensione

del contrabbassista per la melodia, una melodia dolce, sinuosa, mai banale che ha la forza di farti abbandonare le pene giornaliere per condurti nel suo personalissimo universo musicale in cui bellezza e originalità sono gli elementi principali.

In tale contesto si evince la personalità di Bonaccorso che non solo si impone come eccellente compositore e altrettanto eccellente strumentista (lo si ascolti particolarmente in “Ducciddu“), ma anche come leader di indiscussa competenza. Non a caso ha chiamato alcuni giovani-grandi musicisti che sia alla Casa del Jazz sia nell’album hanno davvero dato il meglio di sé. Ancora una volta straordinario Dino Rubino che, abbandonato il pianoforte, si è esibito solo al flicorno sciorinando una sonorità, spesso “soffiata”, che è risultata assolutamente in linea con le esigenze espressive del leader (assolutamente toccante il suo eloquio in “My Italian Art Of Jazz”) . Enrico Zanisi sfoggia una sorprendente padronanza strumentale sorretta da un eloquio personale, da una mirabile capacità improvvisativa e da una  rara raffinatezza espressiva (lo si ascolti particolarmente in “Der Walfish”) mentre Paternesi è in grado di tessere costantemente un tessuto ritmico ricco di colori.

 

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Lunedì 30 gennaio è stata la volta del trio guidato dal batterista Dave King con Billy Peterson al contrabbasso e Bill Carrothers al pianoforte, tutti e tre originari del Minnesota, ed è stato davvero un bel sentire.

Dei tre il più conosciuto è certamente il leader  per la sua duratura collaborazione con The Bad Plus e Happy Apple, ma le sue attività non si fermano di certo a questi due progetti dato che contemporaneamente  è coinvolto in almeno dieci situazioni  che vanno da quelle più prettamente  jazzistiche come le già citate  Bad Plus e Happy Apple a rock bands come Halloween Alaska,  a progetti elettronici come Gang Font. Per non parlare delle numerose collaborazioni con grandi nomi come  Bill Frisell, Joshua Redman, Jeff Beck, Tim Berne, Craig Taborn, Jason Moran…

Il bassista Billy Peterson ha collaborato con artisti di vaglia quali con Leo Kottke , BB King, Johnny Smith, Lenny Breau. Nel 1975 è apparso nel famosissimo  Blood on the Tracks di Bob Dylan’s e pochi anni dopo ha cominciato una duratura collaborazione con Ben Sidran, che poi ha portato a oltre due decadi di lavoro con la Steve Miller Band.

L’artista che più ci ha impressionato, è stato, comunque, il pianista Bill Carrothers; a vederlo lo si potrebbe scambiare per un impiegato del catasto…ancora più improbabile il modo di sedersi dinnanzi allo strumento, appollaiato su una sedia normale… e poi il tocco finale: via le scarpe. Ma quando dalle apparenze si passa alla sostanza, vale a dire quando Carrothers comincia ad accarezzare i tasti bianchi e neri , allora si capisce immediatamente che siamo di fronte ad un grande, grandissimo pianista, dal linguaggio tanto etereo quanto originale e dalla tecnica strepitosa; il tutto al servizio della musicalità e del progetto del trio. Non è certo un caso che Bill sia stato nominato giovanissimo alle Victoires du Jazz, l’equivalente francese dei Grammy, e non è un caso che abbia riscosso pieno successo dapprima in Europa e poi negli Stati Uniti.

Lumeggiata brevemente la statura artistica dei tre, bisogna dire che il trio funziona alla perfezione. Dave King è una vera e propria macchina del ritmo: dalle sue mani, dalle sue dita scaturisce un flusso sonoro ininterrotto ma quanto mai variegato, speziato da mille colori, mille timbri diversi che conferiscono al tutto un sapore assai particolare. Billy Peterson piazza lì poche note ma tanto basta per equilibrare il trio e ancorarlo armonicamente…anche perché Carrothers al pianoforte non sembra avere bisogno di granché per elaborare i suoi assolo così  originali, frutto di un  intenso studio che gli ha permesso di coniugare le influenze di un trombettista come Clifford Brown con quelle di due straordinari pianisti quali Shirley Horn e Oscar Peterson

Insomma i tre sono riusciti  nell’intento, estremamente difficile, di far rivivere, chiaramente attualizzate, le atmosfere care ai trii di Bill Evans e Paul Bley. Così, in rapida successione, abbiamo ascoltato tutta una serie di standards, da “Moonlight Serenade” a “Slow Boat To China”, da “Lonely Woman” a “Four Brothers”, da “Body and Soul” a “So In Love”… Dinnanzi a questi titoli, qualcuno potrebbe anche parlare di un repertorio banale proprio per il fatto che si tratta di brani arcinoti ed eseguiti più e più volte. Ma il “trattamento” proposto dai tre è stato davvero magnifico per inventiva e capacità di legare strettamente il passato al presente dimostrando ancora una volta una tesi di cui personalmente siamo più che convinti: il jazz non è ciò che si suona ma come lo si suona. In altri termini è sciocco criticare aprioristicamente chi ancora oggi suona gli standards: bisogna vedere come li si presenta, come li si vive. Se non ci credete andate a sentire, quando ne avrete occasione, questo straordinario combo.

Gerlando Gatto

 

I risultati del Top Jazz 2016 non valorizzano appieno le nuove generazioni

 

di Luigi Onori –

E’ trascorso circa un mese dall’uscita dei risultati del referendum “Top Jazz 2016”, frutto della consultazione dei “migliori esperti di jazz italiani” indetta ogni anno dalla rivista <<Musica Jazz>>, a partire dal 1982.

Si è, quindi, ancora in tempo per riflettere sulle indicazioni scaturite (limitandosi ai primi tre/quattro piazzati per ciascuna delle dieci categorie) che dovrebbero offrire un quadro delle novità a livello discografico, concertistico e di progetto. Voglio precisare che quanto leggerete non riguarda le mie individuali opinioni ma si configura come un tentativo di interpretare in modo ampio i voti del <<Top Jazz>>

 

DISCO ITALIANO DELL’ANNO

Vince con 63 punti “Ida Lupino” (Ecm) del duo composto dal trombonista Gianluca Petrella e dal pianista Giovanni Guidi, allargato con la creativa presenza del pluristrumentista Louis Sclavis e del batterista Gerald Cleaver. Di poco staccato (61 punti) il trio del pianista Franco D’Andrea “Trio Music Vol. II” (Parco della Musica Records). Arriva terzo “Music For Lonely Souls (Beloved  by Nature)” (Almar Records) della Lydian Sound Orchestra diretta da Riccardo Brazzale (38 punti), seguito a 35 dal Cristiano Calcagnile Ensemble in “Multikulti Cherry On” (Caligola).

La classifica andrebbe rovesciata, al di là della classe e del valore indiscutibile del gruppo di D’Andrea. Brazzale ha portato la sua Orchestra, con un lungo lavoro, a livelli altissimi sia su repertori originali che storicizzati; Calcagnile ha rivisitato le composizioni di Don Cherry esaltandone proprio lo spirito eversivo, meticcio e di apertura, ricollocandole di fatto in un presente che il trombettista aveva già ampiamente intuito. L’album di Petrella e Guidi ha momenti di eccellenza ma resta magmatico e laboratoriale, quindi pregevole nel suo dipanarsi ma ancora sfuocato rispetto agli altri due.

 

MUSICISTA ITALIANO DELL’ANNO

Franco D’Andrea (91 punti), Tino Tracanna (31), Luca Aquino e Cristiano Calcagnile (30). Qui è necessario interrogarsi sul “senso” della votazione per la categoria in oggetto. Credo che sia utile votare guardando soprattutto alle “generazioni più recenti” che non possono essere confinate al “miglior nuovo talento”. D’Andrea ha vinto più volte in questa categoria e nulla si può togliere alla sua perdurante ed originale produzione. Continuare a votarlo (come a scegliere musicisti ampiamente riconosciuti quali Enrico Rava, Paolo Fresu o Enrico Pieranunzi) contribuisce – indirettamente – alla rigidità ed alla mancanza di ricambio nei cartelloni di festival e club. I musicisti alle spalle del pianista meranese, in questo senso, riguardano nomi che meritano il massimo di attenzione e che dovrebbero viaggiare quanto più possibile nel circuito concertistico nazionale: il sassofonista (didatta e compositore) Tino Tracanna, il trombettista Luca Aquino ed il batterista-leader Cristiano Calcagnile. Guadare al presente, quindi, indirizzando verso il ricambio: nel 1982 (prima edizione del referendum) vinsero, tra gli altri, Massimo Urbani ed Enrico Rava, non Nunzio Rotondo ed Enzo Scoppa (e nessuno mette in dubbio il valore di tutti i citati).

 

NUOVO TALENTO ITALIANO

In questa categoria le indicazioni del <<Top Jazz>> sono  rispondenti alla realtà. Un vero e meritato plebiscito per il trombonista veneziano Filippo Vignato (81 punti); 50 punti per il trombettista bresciano Gabriele Mitelli, artista di grande creatività spesso a fianco del vibrafonista Pasquale Mirra. Più staccata (39 punti) la clarinettista e compositrice Zoe Pia che si è imposta e fatta apprezzare con l’album “Shardana” dove si intrecciano folclore e contemporaneità, scrittura ed oralità. Qua e là nella classifica altri nomi di pregio tra cui Francesco Diodati, Mattia Cigalini, Manlio Maresca, Piero Bittolo Bon, Simone Graziano… Giustamente <<Musica Jazz>> ha abbinato a questa categoria un’intervista al produttore dell’etichetta Auand, Marco Valente, che spesso ha documentato con anticipo i “nuovi talenti”.

 

NUOVO TALENTO INTERNAZIONALE

I risultati prevedono un ex-aequo (29 punti) ed uno scarto di cinque punti per il terzo classificato (23). Sovradimensionato il risultato della sassofonista e compositrice norvegese Mette Henriette (suo album di debutto per la Ecm) mentre pienamente meritato quello del trombettista trentaquattrenne Jonathan Finlayson, un artista che suona da quindici anni nei Five Elements di Steve Coleman, ha un ruolo importante nell’ottetto di Steve Lehman e compare nell’ensemble del “chicagoano” Muhal Richard Abrams. Coglie il personaggio emergente la terza segnalazione, quella della sassofonista danese (residente in Norvegia) Mette Rasmussen; si esibisce spesso in solo (sarà il 19 febbraio in prima italiana al Centro d’Arte di Padova) e fa parte della Fire!Orchestra di Mat Gustafsson.

 

MUSICISTA INTERNAZIONALE DELL’ANNO

Indiscussa – e indiscutibile – la vittoria del polistrumentista e compositore Henry Threadgill (81 punti); ampio lo scarto per il secondo e terzo classificato che si collocano in un’area simile, quella del jazz d’avanguardia: il pianista Vijay Iyer ed il trombettista Wadada Leo Smith (seguiti da vicino dal batterista-compositore Jack DeJohnette e dal pianista Brad Mehldau).

 

DISCO INTERNAZIONALE DELL’ANNO

Al di là della prima posizione, il resto della classifica è piuttosto fluido. Threadgill trionfa (65 punti) con il suo album “Old Loks and Irregular Verbs” dedicato all’amico Lawrence “Butch” Morris (Pi Rcordings, realizzato con l’Ensemble Double Up); distanziati i Cd di Jack DeJohnette (“In Movement”, Ecm, inciso con Ravi Coltrane e Matthew Garrison) e “Into the Silence” (Ecm) del trombettista Avishai Cohen (da non confondere con l’omonimo contrabbassista). E’ tuttavia importante che nei primi dieci classificati ci siano gli album che hanno “segnato” e contraddistinto il 2016: “America’s National Parks” (Cuneiform) di Wadada Leo Smith; “The Distance” (Ecm) del Michael Formanek Ensemble Kolossus; “Lovers” (Blue Note) di Nels Cline; “Take Me To the Alley” (Blue Note) di Gregory Porter; “The Declaration of Musical Indipendence” (Ecm) di Andrew Cyrille; “A Cosmic Rhythm with Each Stroke” (Ecm) del duo Iyer / Smith; “Sélébéyone” (Pi Recordings) di Steve Lehman.

 

GRUPPO INTERNAZIONALE DELL’ANNO

Molto vicini i punteggi ed uno scarto massimo di 16 punti tra il primo e l’ultimo gruppo. Opinioni, quindi, variegate con una leggera prevalenza per il trio The Bad Plus (32 punti), l’Ensemble Double Up di Henry Threadgill (30 punti) e la Fire!Orchestra di Mat Gustafsson (28), tallonata da un’altra formazione orchestrale di estetica opposta, gli Snarky Puppy (27). Apprezzabile la presenza in classifica del trio di Brad Mehladu, degli Snakeoil di Tim Berne e del gruppo São Paulo Underground.

 

GRUPPO ITALIANO DELL’ANNO

In questa categoria i giurati sono stati compatti incoronando, con pieno merito, la Lydian Sound Orchestra diretta da Riccardo  Brazzale (90 punti). Seguono a distanza formazioni rodatissime come il Tinissima Quartet di Francesco Bearzatti (43 p.) e gruppi più recenti quali Tino Tracanna & Acrobats (40 p.) e Cristiano Calcagnile Ensemble (39 p.). Tra i primi dieci Roots Magic, il Double Quartet di Claudio Fasoli, Enten Eller e i Sousaphonix di Mauro Ottolini. Le indicazioni per “gruppo italiano dell’anno” se intrecciate con quelle di “musicista italiano dell’anno” riescono a dare un’efficace istantanea del panorama del jazz del BelPaese nella sua ricca e poliedrica complessità.

 

Un paio di categorie riguardano “inediti storici” e “ristampe”: non hanno bisogno di commento perché hanno rispettivamente incoronato album di Bill Evans, Miles Davis quintet, Charlie Parker e dell’Albert Ayler quartet, John Coltrane, Peter Erskine trio. Qui parla la “storia”, remota o recente, e c’è veramente poco da aggiungere.

Luigi Onori

Al via Ferrara in Jazz 2016/17, il Jazz Club spegne 18 candeline!

Quest’anno Ferrara in Jazz conquista la maggiore età, e il pluripremiato jazz club estense si appresta a festeggiare il diciottesimo anno nella storica sede del Torrione San Giovanni (bastione rinascimentale iscritto nella lunga lista dei beni UNESCO, e location per il cinema di Emilia-Romagna Film Commission) con un’edizione speciale che prenderà il via venerdì 07 ottobre 2016, per concludersi a fine aprile 2017, con oltre 30 concerti animati da protagonisti assoluti del panorama internazionale, altrettante serate dedicate a talenti emergenti e novità discografiche, nuovi itinerari musicali, il live mensile della Tower Jazz Composers Orchestra (l’orchestra residente del Jazz Club Ferrara), didattica, incontri con l’autore e ben tre mostre tra illustrazione e fotografia, per un totale di circa 70 appuntamenti (la metà circa ad ingresso a offerta libera riservato ai soci Endas) che abbracciano il linguaggio jazzistico a 360° gradi, valicando confini geografico-culturali, in una continua alternanza di avanguardia e tradizione.
Il taglio del nastro della rassegna concertistica, organizzata da Jazz Club Ferrara con il contributo di Regione Emilia-Romagna, Comune di Ferrara, Endas Emilia-Romagna ed il prezioso sostegno di numerosi partner privati, è affidato al trio del pianista statunitense Harold Mabern, figura fondamentale nell’evoluzione del linguaggio jazzistico moderno.
Nelle tre serate di apertura settimanale – il venerdì, il sabato e il lunedì – si alterneranno a molti talenti del panorama italiano ed europeo icone internazionali della musica afroamericana quali Barry Harris, Randy Brecker, Horacio “El Negro” Hernandez, Buster Williams, Kurt Rosenwinkel, Franco D’Andrea, Michel Portal, Dado Moroni, Samuel Blaser, Theo Bleckmann, Fabrizio Bosso, The Bad Plus, Myra Melford, Julian Lage, The New Zion Trio, Ben Monder, Regina Carter, Fred Frith, Jaques Morelembaum, Tim Berne, David Torn, Eric Friedlander, Joe Chambers, Bill Carrothers e Dave King. I lunedì del Jazz Club firmati Monday Night Raw saranno volti alla scoperta di giovani leoni del jazz e alla presentazione di nuovi progetti discografici, seguiti da imprevedibili jam session. Alle altre serate del week-end, sotto la sigla Somethin’Else, spetta invece l’esplorazione di nuovi sentieri musicali che quest’anno toccheranno in particolar modo i territori della canzone d’autore, della world e black music, deviando lungo spericolati “fuoripista” contemporanei.
Continua, altresì, l’appassionante avventura della Tower Jazz Composers Orchestra: i 20 elementi che compongono l’apprezzata resident band del Torrione, diretti da Alfonso Santimone e Piero Bittolo Bon, arricchiranno il palinsesto con un’esibizione mensile e saranno preceduti da interessanti incontri con l’autore, mentre, sotto la sigla Jazz Goes To College, si rinnova il sodalizio con il Conservatorio “G. Frescobaldi” di Ferrara. Restando in ambito didattico, nel corso del 2017, riprenderà The Unreal Book, serie di clinics ideata da Jazz Club Ferrara tenuta da docenti di prima fascia.
Consueto è infine l’appuntamento del Torrione con l’arte contemporanea. Ospiti di questa edizione speciale di Ferrara in Jazz saranno le tavole dell’artista e illustratore Gianluigi Toccafondo, che costituiranno la preziosa anteprima del Festival internazionale di fumetto BilBOlbul (in collaborazione con Bologna Jazz Festival); “Note in bianco e nero”, la personale del giovane fotografo Michele Bordoni realizzata in collaborazione con Endas Emilia-Romagna e, last but not least, “Le strade del jazz”, mostra fotografica dell’eclettico Roberto Cifarelli.
Ferrara in Jazz 2016/2017 si fregia di una preziosa rete di co-produzioni che ne amplifica il prestigio e la visibilità. Quest’anno, oltre al Conservatorio “G. Frescobaldi” di Ferrara, Ferrara Musica, Bologna Jazz Festival e Crossroads Jazz e altro in Emilia-Romagna, il Jazz Club accoglie il nuovo ingresso di Teatro Off e Only Good Music. (altro…)

I nostri CD. Dal minimalismo di Bärtsch alla fusion degli Yellow Jackets

a proposito di jazz - i nostri cd

Nik Bärtsch’s Mobile – “Continuum” – ECM 2464
ContinuumProva impegnativa questa del pianista svizzero Nik Bärtsch alla testa del suo gruppo “Mobile” con Sha clarinetto basso e clarinetto contrabbasso, Kaspar Rast e Nicolas Stocker batteria e percussioni, e il quintetto d’archi Extended costituito da Etienne Abelin e Ola Sendecki violini, David Schnee viola, Solme Hong e Ambrosius Huber cello. E già dall’organico si capisce abbastanza bene in quale orbita si muova il gruppo: una ricerca che cerca di coniugare il jazz da un lato con la musica colta contemporanea europea, dall’altro con il minimalismo di marca statunitense. In effetti Nik Bärtsch può vantare approfonditi studi di Conservatorio, anche se, ad onor del vero, in questo “Continuum” l’influenza predominante sembra essere quella del minimalismo americano. Di qui una musica incentrata sovente sulla reiterazione di minuscole celle melodiche che mutano pelle in modo quasi impercettibile. Il tutto sorretto da un robusto impianto ritmico che dimostra come Nik conosca assai bene anche il linguaggio jazzistico. Elemento, questo, che si riscontra anche nel brano conclusivo, “Modul 8_11”, che a tratti – ma solo a tratti – sembra quasi virare verso un andamento ritmico funky, Di impronta più nettamente cameristica sono, invece, “Modul 12”, “Modul 18” e “Modul 60” ; “Modul 44” – il brano più lungo dell’ album – è introdotto da un bel gioco di spazzole per poi svilupparsi su un ostinato eseguito dal pianoforte mentre in “Modul4” il gruppo insiste troppo sulla riproposizione del medesimo gruppo di note. Tra gli esecutori, oltre il leader, una nota particolare la merita Sha, compositore, sassofonista e clarinettista ; classe 1983, Sha ha studiato presso la Jazz School di Lucerna avendo come insegnanti Don Li, Sujay Bobade , Bänz Oester e lo stesso Nik Bärtsch; in questo album suonando con perizia il clarinetto basso, non ha minimamente fatto rimpiangere l’assenza del contrabbasso. Insomma un album ben costruito, ben studiato e altrettanto ben suonato… anche se alle volte il gioco della reiterazione può indurre nell’ascoltatore una certa stanchezza, cosa che andrebbe assolutamente evitata.

Carla Bley – “Andando el Tiempo” – ECM 2487
Andando El TiempoDi recente ci siamo occupati degli ottanta anni di questa straordinaria e geniale artista che torna a stupire il mondo del jazz con questa sua ultima produzione. Coadiuvata da
Andy Sheppard al sax tenore e soprano e dal compagno di vita e di musica Steve Swallow al basso, Carla evidenzia ancora una volta quanto sia ampia la sua capacità compositiva e come sia ancora fresco ed entusiasmante il suo pianismo. E la cosa , ad onor del vero, non stupisce più di tanto ove si tenga presente che i tre collaborano oramai da tanti anni nulla perdendo dell’originario entusiasmo, anzi aggiungendo sempre qualcosa in termini di empatia. Per averne conferma basta riascoltare “Trios” inciso qualche anno dalla stessa formazione e confrontarlo con questo “Andando el Tiempo”: i tre, se possibile, dimostrano di conoscersi ancora meglio e di saper dialogare su livelli di quasi perfezione, anche perché questa volta le composizioni sono tutte nuove. In effetti l’album ha una genesi particolare dal momento che la Bley ha scritto la musica rispondendo al preciso invito di Manfred Eicher , patron della ECM, di realizzare un disco che raccontasse una storia. Ecco quindi ‘Sin Fin’, ‘Potacion de Guaya’ e ‘Camino al Volver’ (i tre brani attraverso cui si articola la suite che da il titolo all’album) a fotografare il recupero dalla dipendenza dalle droghe di un amico della Bley. Di qui l’uso del ritmo di tango, come espressione di pathos, per evidenziare la caduta e la lotta. ‘Naked Bridges/Diving Brides’ è il regalo di nozze per il matrimonio di Andy Sheppard, influenzato – ammette la stessa Bley – dalla poesia di Paul Haines, librettista di Carla per opere precedenti tra cui ‘Escalator Over The Hill’, e dalla musica di Mendelssohn la cui marcia nuziale viene esplicitamente richiamata . Infine ‘Saints Alive!’ racconta la Bley – è ‘un’espressione usata da vecchie signore sedute sotto il portico nel fresco della sera, mentre si scambiano pettegolezzi particolarmente succosi’, clima reso perfettamente dal dialogo raffinato ed elegante tra Steve Swallow e dapprima il piano della Bley e successivamente il sax di Andy Sheppard. Ma, come si accennava in precedenza, è tutto l’album ad essere caratterizzato da questo dialogo fra i tre che producono un jazz da camera in cui il pianismo così misurato, quasi minimale si coniuga alla perfezione con il lirismo dei sassofoni di Sheppard mentre Swallow si incarica di cucire il tutto con l’enorme carica di swing, alle volte sotterranea ma sempre ben presente che scaturisce dal suo basso elettrico. Il tutto senza che minimamente si avverta la mancanza della batteria.

Wolfert Brederode Trio- “Black Ice” – ECM 2476
Black IceWolfert Brederode al piano, Gulli Gudmundsson al contrabbasso e Jasper van Hulten alla batteria sono i protagonisti di questo interessante album registrato nel luglio del 2015 all’Auditorium dello Studio RSI di Lugano. In effetti si tratta di un trio abbastanza atipico in quanto è costituito da due olandesi (il pianista-leader e il batterista) e un islandese (il contrabbassista); la collaborazione tra Brederode e Gudmundsson data oramai da molti anni passando dal free alla musica per teatro mentre l’innesto del batterista è piuttosto recente, non a caso “Black Ice” è il primo album inciso da questa formazione dopo i due precedenti CD in casa ECM registrati da un quartetto sempre guidato dal pianista ma comprendente Claudio Puntin (clarinetti), Mats Eilertsen (contrabbasso) e Samuel Rohrer (batteria). Quali le differenze tra i due contesti? A nostro avviso la formula del trio valorizza meglio le raffinatezze del pianismo di Wolfert, la sua capacità di delineare un’atmosfera facendo ricorso solo a poche note, il suo controllo della dinamica, il suo senso melodico ben supportato da una capacità di armonizzazione non comune, il suo tocco così delicato e deciso allo stesso tempo: non a caso ha conseguito i masters degree sia in piano classico sia in piano jazz al Royal Conservatory dell’Aia. Prima avevamo accennato alla lunga collaborazione tra Brederode e Gudmundsson e se ne ha l’ennesima dimostrazione già a partire dal brano d’apertura, “Elegia”, in cui il contrabbasso sottolinea al meglio le invenzioni melodiche di Wolfert mentre Jasper van Hult si dimostra innesto quanto mai felice riuscendo a trovare immediatamente una felice intesa con i compagni di viaggio. In repertorio 13 brani scritti da Brederode eccezion fatta per “Conclusion” di Gudmundsson, tutti intrisi di un profondo lirismo; difficile citarne qualcuno in particolare anche se particolarmente ci ha colpiti “Cocoon”, impreziosito da uno splendido assolo di Gulli Gudmundsson.

Greg Burk – Clean Spring” – SteepleChase 33124
clean-springStatunitense di nascita ma italiano (romano) d’adozione, Greg Burk è artista le cui doti, a nostro avviso, non sono state ancora valorizzate come meriterebbero. E che si tratti di un fior di musicista lo evidenzia a tutto tondo quest’album registrato dal vivo al Teatro Marchetti di Camerino per la prestigiosa SteepleChase nel marzo del 2015. Greg affronta la prova del piano-solo declinandola attraverso quattordici tracce tutte di sua composizione ad evidenziare anche una felice vena compositiva. Greg conosce a fondo lo strumento e lo utilizza in tutta la sua ampiezza con una perfetta indipendenza tra le due mani e un fraseggio fluido, scattante sorretto sempre da pertinenti armonizzazioni. Il tutto guidato da una forte idea di base: ricercare la modernità attraverso l’improvvisazione e la sperimentazione restando, però, in qualche modo ancorato alla tradizione. Di qui una ricerca affatto personale che lo ha portato ad ottenere quei brillanti risultati che si possono apprezzare in quest’ album. Ecco quindi l’omaggio contemporaneamente ad uno dei suoi grandi maestri e alla forma blues in “Blues For Yusef Lateef” mentre in altre tracce come, ad esempio, “A Simple Question” , “Four Reasons”, “Ionosphere” appare evidente la prevalenza dell’improvvisazione. La vena melodica emerge forte in brani quali “Solo una camminata”, “Serena”, “Amore trovato”, lo splendido “Tonos” mentre la title tracke è un delizioso bozzetto caratterizzato da una forte carica ritmica. “Escher Dance” è una sorta di enciclopedia di tecnica pianistica con una continua serie di variazioni tonali e con la mano destra di Burk che vola velocissima sulla tastiera. Il disco si chiude con “Not Forever” un brano di largo respiro in cui si ascolta, tra l’altro, una citazione di “NatureBoy”.

Danielsson, Neset, Lund – “Sun Blowing” – ACT 9821-2
sunblowingIl trio composto da sax tenore, basso e batteria non è certo una novità nel mondo del jazz ma è una formula sempre vincente soprattutto se ad interpretarla sono musicisti quali Marius Neset al sax tenore, Lars Danielsson al basso e Morten Lund alla batteria a costituire una sorta di internazionale scandinava essendo rispettivamente norvegese, svedese e danese. L’idea della registrazione è stata di Morten Lund che ben conosceva gli altri due anche se in realtà il trio si è trovato a registrare in studio senza mai aver suonato assieme. Insomma una scommessa vera e propria che è stata vinta grazie alla brillantezza strumentale di tutti e tre i musicisti e di quell’alchimia che alle volte si crea senza una specifica ragione se non la gioia di suonare assieme. In effetti alle prese con un repertorio di otto brani scritti dai tre con l’aggiunta di “The Cost Of Living” di Don Grolnick, i tre dimostrano di trovarsi a meraviglia: il disegno degli spazi è ottimale così come le improvvisazioni dei singoli che ben si inseriscono nel tessuto complessivo disegnato da batteria e contrabbasso. Comunque, a nostro avviso, una menzione particolare la merita il sassofonista Marius Neset, a suo agio in tutti i brani, e in grado di elaborare un linguaggio, un fraseggio che pur prendendo le mosse dal connazionale Jan Garbarek riesce poi a risultare personale e caratterizzato da un sound ricco, pieno, a tratti potente a tratti dolcemente espressivo: lo si ascolti particolarmente in “Salme” una sua composizione e a nostro avviso uno dei brani meglio riusciti dell’intero album.

Jack DeJohnette/Ravi Coltrane/Matthew Garrison (NO) – “In Movement” – ECM 2488
inmovementQuesto album, almeno per il celebrato batterista, ha una valenza che va ben al di là del fatto squisitamente musicale e che viene esplicitata dallo stesso DeJohnette in una breve nota di copertina: “Matthew – spiega Jack – è il mio figlioccio e ha trascorso molti anni con la mia famiglia durante la sua fanciullezza e Ravi l’ho conosciuto sin da quando era un bambino così lo considero come se fosse un mio figlio”. Senza contare che Jack , nel passato, ha avuto modo di suonare con i padri di ambedue questi giovani musicisti. Non è quindi un caso che l’album si apra con “Alabama” un celebre brano di John Coltrane. Ma non è questa la sola dedica dell’album: ecco quindi “Blue In Green” di Miles Davis e Bill Evans, “Serpentine Fire”, in onore di Maurice White, fondatore degli Earth, Wind and Fire (e ancora una volta Jack ha suonato con tutti e tre questi artisti), “Two Jimmys” in onore di Jimi Hendrix e Jimmy Garrison, mentre “Rashied” è dedicato al batterista Rashied Ali. Insomma un repertorio ricco di riferimenti storici che non possono passare inosservati. Occorre sottolineare come questo trio sia enormemente migliorato nel corso degli anni: lo avevamo ascoltato in concerto nel 2014 e fu una serata insoddisfacente, tanto per usare un eufemismo. I tre apparivano completamente sconnessi, come se mai avessero provato prima di quella serata. E’ stato, quindi, un vero piacere sentire questo album in cui, viceversa, i tre evidenziano un’empatia straordinaria. Il leader, impegnato sia dietro i tamburi e percussioni elettroniche sia al pianoforte, detta i tempi delle esecuzioni e Matthew Garrison al basso elettrico è in grado di seguire gli input del laeder a disegnare un tappeto armonico-ritmico in cui si inserisce perfettamente Ravi Coltrane, positivo con tutti e tre i sassofoni utilizzati: tenore, soprano e sopranino. Il risultato è notevole: DeJohnette è quel grandioso musicista che non ha certo bisogno di ulteriori presentazioni; qualche parola in più è necessaria per i suoi partners: Garrison dimostra di avere un senso compiuto dello spazio entro cui muoversi mentre Ravi ha elaborato un sound molto personale anche al sopranino. I brani sono tutti notevoli con una menzione particolare per le due ballad composte da DeJohnette, “Lydia” dedicata alla moglie e “Soulful Ballad” in cui DeJohnette suona il suo primo strumento, vale a dire il pianoforte. Per chi, viceversa, predilige i climi infuocati, il pezzo forte è costituito da “Rashied” un duetto al fulmicotone tra batteria e sopranino.

Duke Ellington – The Complete Newport 1956 Concert – Essential Jazz Classics 55687 – 2 CD
Thew complete newportRecensire questo doppio CD è impresa quanto mai facile: sarebbe sufficiente dire che si tratta di uno dei migliori jazz festival mai organizzati (basti confrontarne i programmi con quelli odierni; oltre Ellington c’erano Louis Armstrong e Buck Clayton) e che l’orchestra registrata il 7 luglio del 1956 è una delle migliori in assoluto che mai abbia calcato i palcoscenici del jazz. In effetti in quegli anni la big band del Duca era in forma smagliante, impreziosita da solisti che davvero hanno fatto la storia del jazz quali, tanto per fare qualche nome, Clark Terry, Quentin Jackson, Jimmy Hamilton, Johnny Hodges, Paul Gonsalves, Harry Carney, per non parlare della straordinaria sezione ritmica costituita dallo stesso Ellington al piano, Jimmy Wood o Al Lucas al contrabbasso e Sam Woodyard alla batteria. Così abbiamo l’opportunità di riascoltare alcune interpretazioni che sono rimaste memorabili come ad esempio l’assolo con 27 chorus di Paul Gonsalves al sax tenore in “Diminuendo and Crescendo in Blue”. Ma il pregio di questa nuova edizione non consiste solo nel riproporre la versione integrale dello storico concerto del ’56. Sono aggiunte le tracce registrate in studio due giorni dopo lo show e l’intera session realizzata in studio nel marzo dello stesso 1956 nonché alcune tracks molto rare tratte da una trasmissione radiofonica a New York tre mesi prima del concerto a Newport.

Fats O – “On Tape” – jazzhaus 123
OnTapeDisco divertente e curioso questo “On Tape” che vede protagonista ‘fatsO’, un ensemble colombiano la cui musica trae evidente ispirazione dal blues così come dal jazz e dall’hard rock: Disco curioso, dicevamo, ed in effetti da musicisti provenienti dalla Colombia, e in modo specifico dalla sua capitale Bogotà, ci si aspetterebbe musica latina nell’accezione più completa del termine. Ed invece ecco questo settetto capitanato da Daniel Restrepo bassista dalla buona tecnica ma soprattutto vocalist dotato di una voce roca e suadente al tempo stesso; accanto a lui una ricca front line con i clarinettisti e sassofonisti Daniel Linero, e Elkin Hernandez, Cesar Daniel Caicedo al sax alto , Pablo Beltran al sax tenore, mentre la sezione ritmica è completata da Santiago Jiménez, chitarrista di formazione classica e Cesar Morales alla batteria con l’aggiunta, quale special guest, dell’alto-sassofonista Daniel Bahamon in “Crying Out”. In repertorio dieci tracce tutte firmate, parole e musica, da Daniel Restrepo che, alla già citata sapienza interpretativa, accoppia una felice vena compositiva. In effetti le sue creazioni disegnano atmosfere molto variegate: così, ad esempio, si passa dallo swingante e allegro “Hello” che apre l’album alla più dolce “It’s Getting Bad” a evidenziare le doti di Santiago Jimenez alla chitarra; dal clima vagamente fusion e malinconico di “Crying Out” in cui il leader duetta con un clarinetto (onestamente non sappiamo da chi imboccato) strumento tipico della tradizione boliviana e chiuso da un bell’assolo di Daniel Bahamon al sax alto, al rock-blues spigoloso e piuttosto duro di “Out of control”; “Pimp” è forse il brano più jazzistico dell’intero album con in bella evidenza la batteria di Cesar Morales e la front line di fiati cui fa seguito il blueseggiante “Movie Star”. “Oye Palo” si caratterizza per essere l’unico brano in cui Restrepo ha fatto ricorso alla lingua spagnola e di conseguenza a stilemi che si rifanno chiaramente alla musica folkloristica boliviana. L’album si chiude con “I’ll Be Fine” , ancora un saggio di bravura di Restrepo come vocalist che in questa occasione richiama, almeno a parere del vostro cronista, il Joe Cocker dei tempi migliori; significativa anche la performance del chitarrista Santiago Jimenez.

Michael Formanek, Ensemble Kolossus – “The Distance” – ECM 2484
TheDistanceImpresa davvero colossale, tanto per citare il nome dell’ensemble, questa intrapresa dal bassista californiano Michael Formanek alla testa di un vasto organico di ben diciotto elementi tra cui non mancano nomi di spicco quali Ralph Alessi , Kris Davis , Oscar Noriega, Chris Speed, Mark Helias che dirige la band anche nei concerti e qualche sorpresa come ascoltare Tim Berne al sax baritono. Insomma un ensemble davvero stellare per una musica che senza dubbio costituisce uno dei non molti capolavori registrati in questi ultimi anni. Le composizioni di Formanek sono di ampio respiro, illuminate da variabili colori orchestrali, da una certa carica di swing anche se alle volte sottotraccia, da un alternarsi di tensione e distensione, da una struttura solida al cui interno i vari solisti trovano la possibilità di esprimere le proprie potenzialità. E’ il caso dello stesso leader sempre straordinario al contrabbasso, ma altresì di molti altri musicisti che con le loro performances riescono a caratterizzare alcuni momenti della lunga suite, “Exoskeleton”, attraverso cui si articola l’album aperto dai sei minuti della title tracke , inusuale preambolo della suite stessa: così, ad esempio, il trombonista Ben Gerstein e la chitarrista Mary Halvorson costituiscono il fulcro su cui ruotano, rispettivamente, la terza e la quinta parte della suite. Ma i momenti più interessanti sono quelli in cui l’orchestra si esprime a pieno organico , compatta, solida…fino al pirotecnico finale in cui ascoltiamo un’improvvisazione collettiva straordinaria per inventiva e allo stesso tempo rispetto della forma: un equilibrio davvero difficile da raggiungere in situazioni del genere.

Allan Harris – “Black Bar Jukebox” – Love Records 233921
Black Bar JukeBoxNato il 4 aprile 1956 a Brooklyn, il vocalist, chitarrista, e compositore Allan Harris può vantare, tra l’altro, numerosi awards tra cui il New York Nightlife Award for “Outstanding Jazz Vocalist” – vinto per ben tre volte – il Backstage Bistro Award for “Ongoing Achievement in Jazz,” e l’ Harlem Speaks “Jazz Museum of Harlem Award.” Il titolo di questo nuovo album è quanto mai esplicativo: attraverso la menzione del jukebox, Harris intende rendere omaggio a tutta una serie di grandi artisti del passato più o meno recente, anche modificando in qualche modo i suoi punti di riferimento. In effetti prima Harris veniva considerato una sorta di straordinaria sintesi di Nat King Cole, Frank Sinatra e Tony Bennett mentre in quest’ultima realizzazione, sotto la guida del produttore Brian Bacchus (lo stesso di Gregory Porter) allarga il suo raggio d’azione includendo in repertorio brani jazz, R&B, country, blues, soul, e musica latina, sia con pezzi originali sia con composizioni di James Moody, Lester Young, Elton John e Bernie Taupin, Rodgers e Hart, Kenny Rankin e John Mayer a disegnare un mosaico tanto variegato quanto affascinante. Alla testa di un sestetto con il batterista Jake Goldbas, il bassista Leon Boykins, il pianista/tastierista Pascal Le Boeuf, con l’aggiunta in veste di special guests del percussionista Samuel Torres e del chitarrista Yotam Silbersteinadd, Allan Harris evidenzia come il suo talento sia rimasto immutato nel corso degli ani. La bellezza della voce caratterizzata da un registro che oscilla tra tenore e baritono e la capacità di interpretare con assoluta padronanza e pertinenza brani tra loro così diversi sono doti proprie solo dei grandi artisti: si ascolti con quanta disinvoltura Allan passi da pezzi quali “I Got A Lot Of Livin’ To Do”, o “Lester Leaps In” un classico di Lester Young trasformato da Eddie Jefferson nel vocalese “I Got The Blues”, o lo swingante “Love’S The Key” tutti di chiara impostazione jazzistica, a “Catfish” di impronta latineggiante, al funky-soulful di “Take Me To The Pilot” un hit di Elton John e Bernie Taupin…fino al sorprendente “Daughters” di John Mayer in cui Allan suona la chitarra acustica disegnando atmosfere che in qualche modo si riallacciano alla mitica Motown.

Stan Kenton – “The Stuttgart Experience” – SWR 457
The Stuttgart ExperienceLa leggenda del cosiddetto progressive jazz, Stan Kenton, guida una delle più celebri, innovative ma allo stesso tempo controverse formazioni che abbiano illuminato le scene jazzistiche internazionali. L’orchestra è qui registrata durante un concerto tenuto a Stoccarda il 17 gennaio del 1972: La band è infarcita di nomi importanti quali, tanto per citarne qualcuno, Ray Brown, Fred Carter, Richard Torres, e soprattutto il batterista John van Ohlen… oltre naturalmente allo stesso leader al piano. In quel periodo la band attraversava un momento particolarmente felice e aveva introdotto in repertorio alcuni nuovi brani che si possono ascoltare nell’album in oggetto quali il latineggiante “Malaga” di Bill Holmann , un nuovo arrangiamento della “Rhapsody in Blue” ad opera dello stesso Holmann e il brano portante della colonna sonora del film “Love Story” scritto da Francis Lai . Ebbene, a distanza oramai di molti anni, forse si possono abbandonare le polemiche e riconoscere che, al di là dei gusti personali, Stan Kenton fu un grande musicista e che le formazioni da lui dirette erano organici di grande spessore, in grado di interpretare anche le partiture più ostiche senza alcuna difficoltà apparente. Anche la band che si ascolta a Stoccarda è semplicemente poderosa: Kenton , come al solito, ama agire sulle masse sonore, sovrapponendole o allineandole nel tentativo, rivelatosi comunque utopistico, di fondere in un unicum jazz e musica classica. Di qui un flusso sonoro imponente, costante che si riversa sull’ascoltatore con un sound che è divenuto un vero e proprio marchio di fabbrica delle orchestre kentoniane. Tra i brani presenti nell’album due ci hanno particolarmente colpiti soprattutto per la bontà degli arrangiamenti e la qualità degli interventi solistici: “Rhapsody in Blue” arrangiato da Bill Holman e impreziosito da Chuck Carter nell’occasione al sax baritono e “Intermission Riff” con un centrato assolo del bassista John Worster.

Golfam Khayam, Mona Matbou Riahi – “Narrante” – ECM 2475
NarranteDue straordinarie artiste iraniane, Golfam Khayam alla chitarra e Mona Matbou Riahi al clarinetto, hanno formato il “Naqsh Duo” decidendo di proseguire all’estero i propri studi musicali ma restando in qualche modo legate alle proprie tradizioni. Di qui una musica davvero personale, sotto molti aspetti affascinante, raffinata anche se di non facilissima lettura per un pubblico occidentale poco abituato ai microtoni, ai ritmi, ai cicli improvvisativi propri della musica orientale. Questo “Narrante” costituisce il loro debutto in casa ECM ed è la prima volta che un album prodotto da Manfred Eicher viene edito contemporaneamente in Europa e in Iran. Il repertorio è declinato su nove tracce originali delle due musiciste alla ricerca di un contatto tra oriente e occidente. Evidentemente qui siamo ben lontani da quel che si intende per jazz anche se, ascoltando con attenzione l’album, sembra potersi rinvenire qua e là una pratica improvvisativa certo non sconosciuta alle due. In effetti dal punto di vista tecnico-strumentale Golfam e Mona sono preparatissime, tanto per usare un eufemismo, per cui possono benissimo abbandonare la pagina scritta per addentrarsi in territori sconosciuti ed uscirne senza problema alcuno. Il loro tocco è straordinario, la visione musicale sempre coerente, l’intesa profonda: basta ascoltare un qualsiasi brano per rendersi immediatamente conto di come le due si conoscano alla perfezione intrecciando le loro voci strumentali in un dialogo fitto, incessante. In precedenza accennavamo a come il duo non intenda distaccarsi completamente dalle proprie tradizioni e lo dimostra il fatto che alcuni dei brani si richiamano esplicitamente a tale passato: così, ad esempio, la title tracke trae ispirazione dal Guati , una cerimonia di guarigione del Baluchistan caratterizzata da figure ritmiche ripetitive e scale pentatoniche mentre “Lacrimae” evidenzia l’influenza delle tradizioni improvvisative canore del Kurdistan. (altro…)

Torna The Unreal Book, la didattica firmata Jazz Club Ferrara

Il Jazz Club Ferrara – con il prezioso sostegno di Endas Emilia-Romagna – rinnova anche quest’anno gli appuntamenti didattici con la seconda edizione di “The Unreal Book”. Il ciclo di studi diretto da Piero Bittolo Bon e Alfonso Santimone, dedicato all’approfondimento di strategie improvvisative e repertori poco battuti all’interno dei canali “ufficiali” dell’insegnamento jazzistico, si svolgerà a partire dalla fine di febbraio (29/2) fino alla fine di marzo 2016 (7/3, 14/3, 21/3).
Gli allievi intraprenderanno un percorso che andrà snodandosi tra la libera improvvisazione ed alcuni elementi desunti sia dalla conduction di Butch Morris, sia dalle tecniche avanzate legate a “Cobra” (uno dei Game Piece di John Zorn), passando per una serie di esercizi di gruppo volti ad affinare l’ascolto reciproco, il gioco di squadra ed il suono dell’ensemble.
In questa seconda edizione sarà dato particolare rilievo alla responsabilità diretta dei musicisti nell’inventare originali modalità di improvvisazione atte a scardinare l’univocità del rapporto tra direzione ed ensemble. Parallelamente, il gruppo affronterà un repertorio composto da brani originali degli insegnanti, nonché da alcune pagine di importanti compositori quali Steve Coleman, Henry Threadgill, Tim Berne, Steve Lehman, George Russell, Bill Frisell ed altri ancora, che verrà eseguito nella cornice della jam session del Jazz Club alla luce dei nuovi strumenti acquisiti. In quest’ambito avrà ampio spazio anche lo studio delle tecniche di arrangiamento in tempo reale e differito.
Infine, a conclusione dell’attività didattica, il gruppo svolgerà un concerto in forma di saggio che aprirà il live della Tower Jazz Composers Orchestra in programma per venerdì 25 marzo. In quell’occasione saranno consegnati gli attestati di partecipazione. (altro…)

Ferrara in Jazz 2015 – 2016. Al via la seconda parte di stagione

XVII Edizione
16 ottobre 2015 – 23 aprile 2016

Dopo la consueta pausa natalizia il Jazz Club Ferrara riscalda i motori per inaugurare la seconda parte della diciassettesima edizione di Ferrara in Jazz che si svolgerà, dal 23 gennaio al 23 aprile 2016, nell’incantevole cornice del Torrione San Giovanni, bastione rinascimentale iscritto nella lunga lista dei beni UNESCO e tra le location per il cinema di Emilia-Romagna Film Commission.
L’apprezzata rassegna concertistica, organizzata da Jazz Club Ferrara con il contributo di Regione Emilia-Romagna, Comune di Ferrara, Endas Emilia-Romagna e una fitta schiera di partner privati, riserva ad un pubblico trasversale ed in costante crescita altri tre mesi di emozionanti concerti, nuove proposte e didattica, per indossare gli abiti di uno sfarzoso festival che volge lo sguardo al panorama internazionale con radici saldamente affondate nel territorio.
La riapertura, che riconferma le co-produzioni con Ferrara Musica, Crossroads – Jazz e altro in Emilia-Romagna ed il Conservatorio “G. Frescobaldi di Ferrara”, unitamente alla seconda edizione del progetto didattico “The Unreal Book” (realizzato in collaborazione con Endas Emilia-Romagna), spetta – sabato 23 gennaio – al quartetto di un’icona del jazz d’oltreoceano, il contrabbassista portoricano Eddie Gomez.
Con la consueta cadenza di tre concerti settimanali (venerdì, sabato e lunedì), la seconda parte di Ferrara in Jazz 2015 – 2016 consta di quindici Main Concerts tenuti da grandi nomi del panorama nazionale ed internazionale come Kenny Werner, Roberto Gatto, Mark Turner, Michael Blake, Marc Ribot, Joyce Moreno, Nels Cline, Ralph Alessi, Johnny O’Neal, Giovanni Guidi, Donny McCaslin, Jason Lindner, Gianluca Petrella, Jim Black, Cristiano Calcagnile, Jochen Rueckert, Nicole Mitchell, Romero Lubambo, James Carter e molti altri.
Copiose e di assoluta qualità sono anche le “rassegne nella rassegna” che affiancano gli appuntamenti principali. Si parte con gli scatenati lunedì firmati Monday Night Raw che, con un focus sul contemporaneo e le immancabili jam session, propongono quanto di nuovo è in circolazione scandagliando tra giovani protagonisti del panorama jazzistico europeo. Si prosegue con i venerdì di Friday Jazz Dinner, in cui le invitanti proposte culinarie elaborate dal Wine-Bar del Torrione sposano i colori del miglior jazz dal vivo del nostro territorio. A questi ultimi si alterneranno non solo le esibizioni mensili della Tower Jazz Composers Orchestra, la resident band nuova di zecca del Jazz Club Ferrara, ma anche le performance di Jazz Goes To College, che vedono succedersi i migliori allievi del Dipartimento Jazz del Conservatorio estense.
Infine, i solisti della Chamber Orchestra Of Europe – una tra le più importanti orchestre da camera d’Europa – firmano OFF, la rassegna realizzata in collaborazione con Ferrara Musica che, da oltre cinque anni, offre la rara opportunità di poter fruire di ricercati repertori classico-contemporanei tra le mura del Torrione.

Il PALINSESTO di questa seconda parte di stagione si riallaccia ai primi mesi di programmazione, mirando alla qualità delle proposte selezionate dall’universo jazzistico statunitense di area prevalentemente newyorchese, spaziando tra tradizione e avanguardia in un continuo alternarsi di musicisti di nuova e vecchia generazione.
A conferma di quanto sopra è il concerto di riapertura che spetta, sabato 23 gennaio, al quartetto di uno dei contrabbassisti fondamentali della storia del jazz, Eddie Gomez. Accompagnatore e solista di razza, Gomez ha militato lungamente nel trio di Bill Evans, per poi collaborare con Chick Corea e gli Steps Ahead. Qui lo troviamo in compagnia di Salvatore Bonafede e Roberto Gatto – due autentici mostri sacri del jazz italiano – e del giovane e talentuoso trombettista Alessandro Presti.

Proseguendo su sentieri MODERN JAZZ, venerdì 4 marzo, il Torrione sarà avvolto dallo stile elegante e raffinato del Johnny O’Neal Trio, all’insegna di un viaggio sonoro – tra swing e be bop – impreziosito dalla vocalità bluesy del pianista che ha lavorato a fianco di Clark Terry e Art Blackey.
GROOVE FEELING ad alto carico energetico è invece garantito, sabato 6 febbraio, dal James Carter Organ Trio che affonda le radici nel soul jazz degli anni ’60. La formazione del polistrumentista, impostosi fin da giovanissimo sulla scena statunitense per la straordinaria tecnica applicata ad ogni genere di strumento a fiato, è completata da Gerard Gibbs all’organo Hammond e Alex White alla batteria.

TRAIETTORIE CONTEMPORANEE, lungo le quali la scena downtown newyorchese incontra l’avanguardia più pura, definiscono un’articolata mappa sonora ricca di tesori da scoprire. Ancora in bilico tra tradizione e modernità è “Tiddy Boom”, originale lavoro che il sassofonista Michael Blake presenterà al Torrione sabato 27 febbraio, accompagnato da una sezione ritmica forte dell’esperienza di Greg Cohen e della freschezza di Giovanni Guidi e Jeremy Clemons. Altro appuntamento con uno dei principali esponenti del sassofono, presente sulla scena statunitense da oltre vent’anni e recentemente reclutato da David Bowie per il suo ultimo lavoro, è con il Donny McCaslin “Fast Future” Quartet (sabato 19 marzo). Si approda quindi a sabato 16 aprile, quando il Jazz Club ospiterà il batterista tedesco Jochen Rueckert che presenterà “We Make The Rules” a capo di un nuovo eccellente organico nel quale figurano, oltre all’acclamato tenor sassofonista Mark Turner, Mike Moreno alla chitarra e Orlando Le Fleming al contrabbasso.
L’universo delle sei corde gode, in questa parte di stagione, di una sorta di celebrazione. Il 30 gennaio è la volta del solo di Marc Ribot, preceduto dall’esibizione della compositrice, chitarrista e cantante Sara Ardizzoni, mentre sabato 20 febbraio l’anima rock di Nels Cline (ex Wilco) incontra l’estro di Julian Lage in “Room”.
Di taglio contemporaneo sono anche i tre appuntamenti 2016 firmati Crossroads & Ferrara in Jazz, realizzati in collaborazione con la prestigiosa kermesse itinerante. Il taglio del nastro è previsto per sabato 12 marzo con “Baida”, quartetto capitanato dal trombettista Ralph Alessi e completato da Gary Versace (pianoforte), Drew Gress (contrabbasso) e Nasheet Waits (batteria), che presenterà al pubblico del Torrione “Mirror Mind”, secondo lavoro per ECM. Sabato 9 aprile la co-produzione propone il nuovo piano trio del batterista Jim Black (con Elias Stemeseder al pianoforte e tastiere e Thomas Morgan al contrabbasso) che esplora, dopo l’esperienza degli AlasNoAxis, una vena più melodica e swingante. A chiudere l’intrigante trittico (sabato 23 aprile) è un altro quartetto – questa volta da camera – guidato da Nicole Mitchell, una tra le più grandi virtuose di flauto sulla scena mondiale, che con rigore ed immediatezza ci introdurrà il suo universo musicale. (altro…)