I NOSTRI CD: una raffica di recensioni!

I NOSTRI CD

Costanza Alegiani – “Lucio Dove vai?” – Parco della Musica Records
Nonostante l’ancor giovane età, Costanza Alegiani è artista intelligente, matura, consapevole dei propri mezzi espressivi. La conferma viene da questo eccellente album registrato dalla vocalist assieme al suo trio Folkways, composto da Marcello Allulli al sax e Riccardo Gola al contrabbasso, cui si aggiungono due ospiti eccellenti come Antonello Salis alla fisarmonica e Francesco Diodati alla chitarra. Come si evince dal titolo, l’album è dedicato alla figura di colui che personalmente considero il più grande cantautore italiano, Lucio Dalla. Un compito, quindi, da far tremare le vene ai polsi anche perché le composizioni di Dalla sono ben note e quindi il confronto è lì, dietro l’angolo. E già nella scelta del repertorio si nota la cura con cui la vocalist ha inteso confrontarsi con Dalla: trascurate – volutamente – le canzoni più note, la Alegiani ha pescato nel vasto repertorio degli anni ’60 e ’70 presentando pezzi egualmente splendidi. L’apertura è affidata a “La canzone di Orlando” con Gola e Allulli in grande spolvero e la vocalist intenta a definire al meglio i contorni di un gioiellino musicale.
Eccellente anche l’interpretazione de “La casa in riva al mare” sicuramente assieme a “Caruso” uno dei brani più toccanti di Dalla; Alegiani lo interpreta con sincera partecipazione ben coadiuvata dagli interventi di Antonello Salis alla fisarmonica. Ma questi sono solo due esempi di un disco che sono sicuro risulterà di sicura soddisfazione anche per i palati più esigenti. Ciò perché ritengo che il pregio maggiore dell’album consista nel fatto che la Alegiani sia riuscita a conservare una ben precisa identità in una prova di estrema difficoltà che le fa onore.

Ralph Alessi – “It’s Always Now” – ECM
Non si scopre certo l’acqua calda affermando che Ralph Alessi è attualmente uno dei migliori trombettisti in esercizio. In questo album, registrato negli studi di Stefano Amerio nel giugno del 2021, Ralph suona in quartetto assai ben coadiuvato dal pianista Florian Weber, da Bänz Oester al contrabbasso e dal batterista Gerry Hemingway. Si tratta di una nuova formazione che risulta perfettamente funzionale alle idee del leader che presenta tredici composizioni tutte sue, di cui solo tre scritte in collaborazione con Florian Weber. L’atmosfera è quella tipica degli album di Alessi: un minimalismo illuminato dalle sortite del trombettista che nulla concede allo spettacolo. La sua musica è intensa ma allo stesso tempo raccolta, quasi sussurrata come se avesse paura di nuocere, di disturbare. Di qui la necessità di una sezione ritmica che consenta di dare il giusto peso ad ogni passaggio, ad ogni cambio di direzione per quanto poco percettibile lo stesso possa essere. Ne abbiamo un chiaro esempio in “Portion control” in cui il pallino è nelle mani dell’intera sezione ritmica mentre Alessi sordina la sua tromba che passa così in secondo piano. Comunque i brani che maggiormente mi hanno impressionato sono la title track e “Tumbleweed”; nella prima – “It’s Always Now” – c’è come un richiamo proveniente da lontano che a poco a poco si svela alle nostre orecchie mentre la conclusiva “Tumbleweed” mostra un Alessi in stato di grazia, un artista capace di improvvisare magnificamente senza  mai perdere le fila del discorso.

Daniel Besthorn – “Emotions” – Alfa Music
Album d’esordio per questo batterista tedesco da poco residente in Italia. Se, come si dice, il buon giorno si vede dal mattino, non c’è dubbio che di questo musicista sentiremo parlare e a lungo. Daniel si presenta alla testa di un gruppo piuttosto nutrito, denominato “Radiance” e formato da otto eccellenti giovani musicisti che provengono da Germania, Svizzera e Polonia, mentre nel conclusivo “The Rawness and Finesse of The Drums” si ascolta anche Iago Fernandez alla batteria. In repertorio sei brani di cui ben cinque composti e arrangiati dallo stesso Besthorn e “Hyperactive Mole” firmato dal pianista Tobias Altripp che fa parte del gruppo. Il fatto che Daniel abbia scelto per il suo album d’esordio un programma da lui scritto quasi interamente evidenzia come il batterista abbia voluto presentare le sue molteplici abilità: non solo valido batterista ma anche solido arrangiatore e fantasioso compositore. E la prova viene superata a pieni voti dal momento che l’album è piacevole, si ascolta tutto d’un fiato dall’inizio alla fine e tiene fede alle premesse insite nel titolo. In effetti la musica di Besthorn è in grado di produrre emozioni in chi la ascolta sia perché spesso riesce ad essere totalmente inattesa pur restando nel solco di un filo logico perfettamente individuabile, sia perché alcuni brani sono davvero ben costruiti ed eseguiti. E’ il caso, ad esempio, della ballad “That Time” impreziosita da un assolo di Florian Fries al sax tenore, in possesso di un bel timbro e di un eloquio fluido e pertinente, mentre anche il pianista Tobias Altripp trova il modo di mettersi in luce.

Maurizio Brunod – “Trip with The Lady” – H Fi Diprinzio; Brunod, Gallo, Barbiero – “Gulliver” – Via Veneto Jazz
Maurizio Brunod è chitarrista sensibile e raffinato; si ripresenta al pubblico con due album veramente diversi, registrati quasi nello stesso periodo, vale a dire il primo trimestre del 2022. “Trip with The Lady” rappresenta un punto di svolta nella storia artistica di Brunod che per la prima volta registra un album per sola chitarra acustica.
E il perché tutto ciò è accaduto vale la pena di essere raccontato. “Lady” è un modello speciale di chitarra prodotto dal liutaio italiano Mirko Borghino in omaggio alla marca automobilistica Rolls Royce ed al suo Club di Enthusiasts; prodotto in esemplare unico lo strumento ha letteralmente stregato Brunod inducendolo a progettare e realizzare il primo disco con la sola chitarra acustica. Il risultato è eccellente e non poteva essere diversamente dati due fattori imprescindibili: la bravura strumentale e compositiva di Maurizio e la sua approfondita conoscenza dell’universo musicale che lo ha portato a predisporre un repertorio di tutto rispetto in cui accanto a sue composizioni, figurano alcune delle più belle pagine della letteratura jazzistica come l’immortale “Naima di John Coltrane e “My One and Only Love” di Wood e Mellin.
Nel secondo album, “Gulliver”, Brunod suona in trio con altri due grandi del jazz italiano quali Danilo Gallo al contrabbasso e Massimo Barbiero batteria e percussioni.
Si tratta del secondo album del trio (dopo “Extrema Ratio del 2016) che conferma appieno quanto di buono si era ascoltato nel precedente. Il titolo dell’album e i titoli dei vari brani ci introducono assai bene nel tipo di musica che ascolteremo. Siamo nel campo di un folk che serve da immenso serbatoio da cui trarre ispirazione per una musica che non conosce tempo né spazio né tanto meno confini stilistici. Il loro è un viaggio declinato tra i temi popolari: si passa così dalla fiabesca “Gaungling” tradizionale cinese, ad “Albero bianco” (originale di Danilo Gallo), dalla piemontese “Maria Giuana” al notissimo “El pueblo unido” (di rilievo la performance di Brunod), fino a “Time to remember” (di Brunod) riletto come un “quasi-tango”, per giungere alla conclusione con la rete (Altro originale di Massimo Barbiero). I tre si lasciano andare a escursioni solistiche che però mai perdono di vista il discorso generale: così le corde delle chitarre di Brunod vibrano magnificamente mentre Danilo Gallo evidenzia l’essenzialità del suo incedere quale punto di raccordo tra chitarra e batteria. Dal canto suo Barbiero procede con la sua straordinaria eleganza nel percuotere pelli e piatti.

Ludovica Burtone – “Sparks” – Outside In Music
Ho avuto modo di ascoltare live Ludovica Burtone qualche anno fa durante ‘Udine Jazz’ ed essendone rimasto particolarmente colpito ho voluto avvicinarla e scambiare con lei quattro chiacchiere. Ho così avuto la percezione di un’artista matura, perfettamente consapevole degli obiettivi da raggiungere e di come raggiungerli. Ed eccoli qui questi obiettivi, sintetizzati nell’ottimo album che è stato presentato martedì 11 aprile alle 19 al Barbès di Brooklyn, La violinista italiana, adesso stabilitasi negli States, è coadiuvata da ottimi musicisti quali Fung Chern Hwei (violino), Leonor Falcon Pasquali (viola), Mariel Roberts (violoncello), Marta Sanchez (pianoforte), Matt Aronoff (contrabbasso) e Nathan Elmann-Bell (batteria), più cinque ospiti come Sami Stevens (voce in “Altrove”), Melissa Aldana (sax tenore in “Awakening”), Leandro Pellegrino (chitarra in “Sinhà”), Roberto Giaquinto (batteria in “Incontri”) e Rogerio Boccato (percussioni ancora in “Sinhá”). Il programma consta di sei brani, cinque composti da Ludovica Burtone, mentre “Sinhá”, che apre l’album, è un sentito omaggio a due artisti brasiliani come Chico Buarque e João Bosco autori del brano, arrangiato nell’occasione dalla violinista. Tracciate così le linee guida dell’album, occorre sottolineare i motivi ispiratori della poetica di Burtone, che traggono origine tanto dalla musica colta quanto dal jazz senza dimenticare le melopee mediterranee. Insomma un universo amplio da cui la Burtone sembra trarre quegli elementi che meglio si attagliano alla sua sensibilità per una performance davvero notevole.

Claudio Cojaniz – “Black” – Caligola
Titolo non potrebbe essere più esplicativo: il pianista friulano Claudio Cojaniz, in trio con Mattia Magatelli al contrabbasso e Carmelo Graceffa batterista siciliano messosi in luce con il gruppo del sassofonista, anch’egli siciliano, Gianni Gebbia. prosegue lungo la strada tracciata dai numerosi album precedenti anche se questa volta forse rende ancora più esplicito il senso del blues presente nel suo pianismo. Di qui una ricerca melodica che assume varie connotazioni; così ad esempio in “Martin Fierro”, brano che s’ispira al celebre romanzo dell’argentino Josè Hernandez, pubblicato originariamente nel 1872, la melodia di Cojaniz è toccante nella sua esposizione in cui coesistono malinconia, storie di vite vissute e storia di una nazione che scorrono sui tasti del pianista tra echi di tradizionalismo folk e musica classica; sempre con riferimento a questo brano da sottolineare la superba introduzione del contrabbassista Magatelli che fa intravvedere immediatamente quale sarà l’atmosfera del pezzo. Il concentrarsi sulla perfezione melodica ha portato la musica di Cojaniz a un livello di estrema originalità che, a nostro avviso, raggiunge il punto più alto nell’esecuzione di “Mon Amour. A” uno dei due brani eseguiti per piano solo (l’altro è il conclusivo “Ola de fuerza”). Lì dentro c’è tutta l’essenza del blues, materia che Cojaniz ha talmente bene introitato da riuscire a renderla personale con un pianismo mai ridondante che ci riporta un po’ indietro nel tempo. Molto interessante anche il già citato “Ola de fuerza”:
Cojaniz sembra abbandonare quel terreno su cui si era addentrato nei precedenti brani per inerpicarsi su scoscesi sentieri quasi free in cui si lascia andare ad una improvvisazione che non delude….tutt’altro!

Marc Copland Quartet – “Someday” – innerVoiceJazz
A 74 anni, il pianista statunitense Marc Copland si mantiene meravigliosamente sulla cresta dell’onda. Un ulteriore prova l’abbiamo da quest’ultimo lavoro in cui Marc si presenta alla testa di un quartetto completato da Drew Gress bassista già assieme a Copland in numerose avventure, Robin Verheyen sassofonista anch’egli accanto al leader nel corso degli ultimi dieci anni e Mark Ferber batterista attivo tra New York e Los Angeles e ben conosciuto dagli appassionati di jazz per aver suonato accanto a Gary Peacock in trio e a Ralph Alessi in quintetto. Il repertorio dell’album comprende tre classici del jazz quali “Someday My Prince Will Come” di (Churchill e Moray) ,  “Let’s Cool One” di Monk e “Nardis” di Miles Davis accanto ad altri cinque original, di cui tre a firma Copland e due Verheyen. Parlando di Marc Copland riferirsi alla delicatezza di tocco, alla tecnica sopraffina, alla profondità delle armonie, alle straordinarie capacità improvvisative, al gusto per suadenti melodie sembrerebbe quasi superfluo…ma sicuramente tra chi ci legge ci saranno dei giovani che magari poco o nulla conoscono di Copland. Ecco io credo che basti l’ascolto di questo album per rendersi conto di chi sia Marc Copland non solo come esecutore ma anche come autore. Al riguardo si ascolti “Day And Night” (il brano più lungo dell’album) in cui oltre alla bellezza del tema, si può ammirare il modo in cui Marc riesca ad esaltare il ruolo dei suoi compagni, in primo luogo del sassofonista assolutamente convincente, mentre Ferber sostiene il tutto con un drumming propulsivo ma non invasivo ben coadiuvato in ciò dal basso di Gress. Dal canto suo Copland si produce in uno dei suoi assolo che si pone quasi come una sorta di enciclopedia del pianismo jazz.

Ilaria Crociani – “Connecting The Dots” –
E’ con vero piacere che presento questo disco proveniente niente popò di meno che dall’Australia. Protagonista una vocalist italiana alla testa di un settetto composto da Mirko Guerrini sax, clarinetto, tastiere e composizione, Paul Grabowsky pianoforte e composizione, John Griffith liuto, Geoff Hughes chitarra, Ben Robertson contrabbasso e basso elettrico e Niko Schäuble batteria e percussioni. L’album ha una storia particolare: nel 2021 Ilaria viene incaricata da ABC Jazz di scrivere e registrare una nuova serie di brani che portassero in vita storie di donne australiane e straniere in un mix eclettico. La vocalist accetta la sfida e la vince alla grande; in effetti l’album si fa particolarmente apprezzare non solo per la qualità della musica ma anche per ciò che la Crociani ha saputo rappresentare, vale a dire la storia di “donne che hanno fatto la differenza”. “L’ispirazione di questo album nasce dalla mia esperienza di emigrazione”, racconta la vocalist nel corso di una intervista, ed in effetti ascoltando l’album questa tensione morale si avverte esplicita. Soffermandoci in particolare sugli aspetti squisitamente musicali, occorre dire che l’album è ben congegnato con la bella voce di Ilaria che interpreta con partecipazione testi non proprio facilissimi, anche perché le atmosfere cambiano passando dalle ballad (‘Cosa Resta del Giorno, ‘Gina’ or ‘Stones of Fire’) al jazz più moderno, dalle influenze latine (‘Mary Lou’) a sonorità più vicine al rock e al reggae (‘Silent Words’, ‘The author is dead’, ‘Eat my dust’). Ovviamente tutto ciò non sarebbe stato possibile se ad accompagnare la vocalist non ci fosse un gruppo di prim’ordine, un gruppo che si muove all’unisono con forti individualità e sapienti arrangiamenti.

Maurizio Giammarco Rumours – “Past Present “ – Parco della Musica Records
“Rumours” è il nome del nuovo gruppo di Maurizio Giammarco comprendente Fulvio Sigurtà trombettista ben presente anche sulla scena londinese, Riccardo Del Fra contrabbassista, dal 2004 responsabile del Dipartimento Jazz e Musiche Improvvisate al Conservatorio Nazionale Superiore di Musica e Danza di Parigi, e Ferenc Nemeth batterista di origine ungherese, tra i più richiesti in questo momento;  quindi due fiati, contrabbasso e batteria, una formazione piuttosto anomala ma che nel jazz vanta precedenti illustri e che lo stesso Giammarco aveva sperimentato nei primi anni della carriera quando nel 1976 costituì un gruppo con Tommaso Vittorini, Enzo Pietropaoli, e Roberto Gatto. Appositamente per questo gruppo Giammarco ha scritto alcune composizioni cui ha aggiunto altri brani della tradizione a costituire un repertorio di 13 brani che lumeggiano assai bene la complessa e poliedrica personalità di Giammarco. Il sassofonista (tra i migliori in esercizio nell’intera Europa) con questo album conferma ampiamente quanto già si conosceva sul suo conto: strumentista sopraffino, compositore di ampio respiro, leader capace, arrangiatore originale, Giammarco tiene perfettamente in mano le redini del discorso anche quando da un discorso collettivo si vira decisamente verso il free dando a ciascuno una certa libertà d’espressione. Ma il concetto su cui Giammarco insiste da tempo e che viene ripreso anche nel titolo dell’album è l’importanza di un ponte che leghi la grande tradizione del passato con il presente come base insostituibile su cui costruire il futuro. In tal senso spiccano i magistrali arrangiamenti di due celebri pezzi ellingtoniani come “Prelude to a Kiss” e “The Mooche” resi magnificamente anche con il solo quartetto, mentre in “Desireless” di Don Cherry, ascoltiamo un superlativo Riccardo Del Fra, che ci accompagna in un lungo viaggio all’indietro, meta: gli anni ’70.

Vicky Chow – “Philip Glass Piano Etudes Book 1” – Cantaloupe
Nel gennaio scorso ha festeggiato i suoi 86 anni Philip Glass, il compositore statunitense a ben ragione considerato uno dei padri del minimalismo assieme a Steve Reich e Terry Riley. Lo omaggia in musica la pianista canadese originaria di Hong Kong, Vicky Chow, considerata dalla stampa statunitense una delle strumentiste più innovative, prestigiose, originali e brillanti degli ultimi anni. La Chow nel 2020 ha registrato il Book 1 degli studi di Glass per pianoforte. La musica del compositore di Baltimora ha un suo indubbio fascino ma deve essere interpretata al meglio, con profonda cognizione di causa e sincera partecipazione. Doti che Chow mette in luce sottolineando come lei sia completamente “innamorata” di queste partiture dopo averle eseguite, assieme ad altri pianisti, nel 2018 nel corso di uno stage in Canada. Se a ciò si aggiunga il fatto che Chow conosce bene Glass per averlo frequentato a New York come membro, tra l’altro, della “Bang on a Can All-Stars” si capirà ancor meglio il perché questa pianista sia perfettamente in grado di interpretare le musiche di Glass senza minimamente tradirne l’originario significato. Non a caso è lo stesso Glass a spendersi in una esplicita lode nei confronti della pianista e del disco: “E’ una performance molto dinamica ed espressiva. C’è una certa energia che è unicamente sua”.

JugendJazzOrchester – “Spicey” – ATS
Questo album mi offre l’opportunità di parlare della JugendJazzOrchester: si tratta di una formazione che offre ai giovani musicisti di talento dell’Alta Austria l’opportunità di lavorare per un periodo di alcuni mesi su un programma creato appositamente per l’ensemble e di eseguirlo poi nell’ambito di una tournée nazionale. La direzione artistica è affidata a Benjamin Weidekamp e in pochi anni l’orchestra si è rivelata al pubblico come ensemble degno della massima attenzione. Questo album è davvero ottimo: ascoltatelo tutto con attenzione e mi darete ragione. L’organico è quello proprio di una big band classica: cinque sassofoni, quattro trombe, quattro tromboni (di cui uno basso), tastiera, basso elettrico, chitarra elettrica, batteria, un coro di cinque elementi e due cantanti solisti, il tutto sotto la direzione artistica di Andreas Lachberger. Così strutturata l’orchestra fila via come un meccanismo assai ben rodato e i brani sono interessanti, illuminati dagli assolo dei vari musicisti che confermano tutti una preparazione di alto livello. Non è certo un caso se Bob Mintzer, sassofonista su cui non vale la pena spendere parole, e che ritroviamo nel disco come arrangiatore in tre brani, si è lasciato andare ad un giudizio molto positivo sull’orchestra elogiando in particolare il lavoro dello stesso Lachberger : “il futuro della big band jazz – afferma Mintzer – è in buone mani” . E come dargli torto?

Edi Kohldorfer – “Fish & Fowl” – ATS

Il chitarrista austriaco (classe 1966) si ripresenta al suo pubblico alla testa di un settetto ad interpretare con forza e partecipazione un repertorio di undici brani firmati in massima parte dallo stesso leader. Musicista indubbiamente ben preparato, Edi scava in questo album il terreno periglioso della free improvisation con risultati non sempre ottimali. In effetti se il brano d’apertura “Rumex” lascia piuttosto perplessi, il successivo “Willughbeia Sarawacensis” evidenzia un gruppo molto compatto, con il leader che svetta su tutti grazie ad una tecnica assolutamente ineccepibile. E la cosa si spiega facilmente ove si tenga conto che Edi ha studiato chitarra classica prima di cimentarsi in ambiti rock e jazz. Tornando all’album, le cose migliorano ancora quando entrano in campo i due vocalist Anna Anderluh e Stefan Sterzinger. Comunque, in buona sostanza, il clima dell’album non muta sostanzialmente: i musicisti probabilmente improvvisano in modo collettivo sì da rendere impossibile la lettura di una qualche linea melodica e anche la struttura ritmica – ammesso che di ciò si possa parlare – è sempre difficile da seguire. Quindi piena soddisfazione per gli amanti di questo genere mentre per gli altri non resta che attendere l’austriaco nelle successive prove.

Roberto Laneri – “Wintertraume” – Da Vinci Classics
Quando mi ha telefonato per informarmi dell’uscita di questo album, Laneri mi ha detto: “vedrai che questa volta ti sorprenderò” Ed aveva ragione. L’album è sicuramente particolare…per usare un eufemismo. In effetti Laneri ha concepito un qualcosa di veramente originale ma allo stesso temo pericoloso, come avvicinarsi a fili elettrici scoperti con noncuranza. In buona sostanza Laneri si è rivolto ad alcuni capolavori della musica colta cercando di riattualizzarli attraverso una complessa operazione di scomposizione e ricomposizione, senza che tutto ciò suoni come un’operazione blasfema. I compositori presi in considerazione da Laneri sono molteplici passando da Schubert a Strauss, da Dowland a Weill, da Tarrega a Liszt, da Debussy a Brahms. Dal punto di vista esecutivo Laneri si avvale delle voci di Elisa Rossi, Benedetta Manfriani, Agnese Banti e Frauke Aulbert suonando egli stesso clarinetti e sassofoni; ma nella originale visione dell’artista figura anche il processo di registrazione e missaggio come un’attività compositiva a sé stante, modalità che nel mondo del jazz trova molti illustri precedenti. Il risultato finale può definirsi soddisfacente: il progetto è assai ben articolato e si avvale delle indubbie qualità di Laneri sia come profondo conoscitore dell’universo musicale, sia come raffinato esecutore capace di eseguire al meglio anche le più raffinate e complesse partiture.

Dominic Miller – “Vagabond “ – ECM
Dopo ‘Silent Light’ (2017) e ‘Absinthe’ (2019) ecco il terzo album registrato da Dominic Miller per la ECM. Alla testa di un quartetto completato da Jacob Karlzon al pianoforte, Nicola Fiszmann al basso elettrico e Ziv Ravitz alla batteria, il chitarrista argentino (Buenos Aires 1960) presenta un repertorio di otto brani da lui stessi composti a confermare la tesi che Miller è un musicista completo, in grado di far suonare bene la sua chitarra ma anche di comporre brani tutt’altro che banali. L’album si sviluppa con una coerenza che l’accompagna dalla prima all’ultima nota. In effetti tutti i brani sono caratterizzati da una squisita ricerca della linea melodica che appare così l’elemento caratterizzante la poetica del leader. In effetti in primo piano ascoltiamo spesso la chitarra di Dominic che però mai oscura i compagni di viaggio che hanno così la possibilità di mettere in luce le proprie potenzialità. Si ascolti ad esempio “Clandestin”: introduce Miller quasi subito raggiunto da Karlzon; dopo un minuto ecco la sezione ritmica su cui si staglia un bellissimo assolo del pianista. Ed è ancora Karlzon in primo piano nel successivo “Altea”: spetta a lui il compito di accelerare il ritmo introducendo così una sorta di novità che però non si allontana minimamente dal clima generale. Ripreso immediatamente in “Mi Viejo” un brano che Miller dedica alla figura del padre con una dolce melodia non a caso eseguita dalla chitarra in solo. L’album si chiude con “Lone Waltz” un episodio che si pone come una sorta di resumé di quanto ascoltato fino al quel momento, con il quartetto impegnato in momenti di “insieme” davvero notevoli.

Bobo Stenson – “Sphere” – ECM

Tra i pianisti di maggior prestigio che il jazz europeo abbia saputo offrire agli appassionati, c’è sicuramente lo svedese Bobo Stenson che, ad onta della sua non giovanissima età (classe 1944) continua a deliziare il pubblico con i suoi dischi. Quest’ultimo “Sphere” è nel suo genere una dimostrazione di come debba essere inteso il jazz oggi: non più una musica connotata da parametri specifici, da regole che nessuno ha scritto, ma un modo di interpretare sé stessi e la realtà che ci circonda lasciandosi andare alle emozioni, all’estro del momento. Ovviamente per incamminarsi su questa strada occorrono una eccellente preparazione tecnica, una perfetta consapevolezza dei propri mezzi espressivi, una visione molto larga di ciò che la musica significa e rappresenta. A ciò si aggiunga, se si suona in trio (come in questo caso), la capacità di saper guidare con mano ferma i propri compagni di viaggio. Ecco, al riguardo la maestria di Stenson risaltare evidente ove si tenga conto del fatto che il batterista Jon Fält e il contrabbassista Anders Jormin – suoi abituali compagni di viaggio – riescono a seguirlo in ogni momento: si ascolti al riguardo “Unquestioned answer – Charles Ives in memoriam” un brano di Jormin dedicato alla memoria del compositore americano Charles Ives (1874-1954), perfettamente riuscito in ogni sua più sfuggevole nuance. E questo clima etereo, quasi di indeterminatezza, si ascolta, si percepisce in tutto l’album con il trio che si muove speditamente sulle ali di una interazione sempre presente. Tra gli altri brani particolarmente incisivo “Kingdom of coldness”, a firma di Jormin; tra le tante astrazioni cui si faceva rifermento, questo è il brano probabilmente più terreno che non a caso si configura come una ballad in cui, manco a dirlo, Stenson distilla ogni singola nota a disegnare una linea melodica suggestiva.

Stefania Tallini, Franco Piana – “E se domani” -Alfa Music
Stefania tallini vocalist e Franco Piana trombettista, flicornista e nell’occasione anche vocalist e percussionista sono due artisti che “A proposito di jazz” ha sempre seguito con grande attenzione sottolineandone la invidiabile statura artistica. Statura che viene vieppiù evidenziata da questo album in duo, una formula, quindi, molto, molto pericolosa che può essere affrontata con successo solo da artisti veramente tali. L’album presenta un titolo assai significativo ma allo stesso tempo ingannevole: si potrebbe credere che i due abbiano scelto un programma basato sulle canzoni e, invece, nove dei quattordici brani sono composizioni originali che ben descrivono le capacità compositive dei due, mentre gli altri cinque si rivolgono al pop italiano, al Brasile, al jazz e al songbook statunitense. Il risultato è eccellente e per una serie di motivi facilmente identificabili. Innanzitutto la scelta del repertorio e la bellezza dei temi originali; in secondo luogo le capacità dei due che si integrano alla perfezione grazie anche ai sapidi arrangiamenti della pianista che rendono difficile distinguere tra parti scritte e parti improvvisate. Non a caso è la stessa Tallini a sottolineare come si tratti di “un disco nato nella più totale spontaneità e naturalezza, a seguito di una serie di concerti attraverso cui il nostro duo è cresciuto sempre più, rivelandone l’incredibile feeling e intesa, musicale e umana». Concetto ripreso da Piana: «Per me – afferma – è un’esperienza nuova che mi fa molto piacere condividere con una grande artista, sensibile e musicale come Stefania Tallini. Un disco in cui ritorno un po’ alle mie origini…come quando da bambino, non avendo ancora la tromba, mi divertivo a cantare i soli dei miei jazzisti preferiti, accompagnandomi con qualsiasi oggetto potesse essere percosso: in pratica un percussionista «scattante» inconsapevole”.

Gianluigi Trovesi, Stefano Montanari – “Stravaganze consonanti” – ECM
Titolo al limite dell’illogico per una musica che, viceversa, di logica ne ha molta. Responsabili del progetto il multistrumentista Gianluigi Trovesi e Stefano Montanari nella veste di concertmaster a guidare un ensemble di 12 musicisti. In repertorio 15 brani, alcuni scritti da Trovesi (uno assieme a Fulvio Maras alle percussioni), gli altri si rifanno direttamente ad alcuni autori del passato quali Henry Purcell, esponente del barocco inglese seicentesco, Giovanni Maria Trabaci, anch’egli esponente del barocco ma italiano (1575-1647), Guillaume Dufay (1400-1474), Giovanni Battista Buonamente (1595-1642), Andrea Falconieri (1586-1656) e Josquin Desprez (1450?-1521). Insomma un parterre di autori davvero straordinario, sicuramente difficili da attualizzare con un linguaggio che, come si evince nel titolo, sia da un canto coerente con le premesse autoriali, dall’altro originale nella sua esplicazione. Impresa, quindi, particolarmente difficile, ma sfida vinta compiutamente grazie soprattutto alla genuina “follia” dei musicisti coinvolti che sono riusciti a ricreare un clima in cui potessero coesistere repertorio classico, improvvisazione jazz e melodie popolari; così non è certo un caso se i brani dell’album si concatenano e si sovrappongono con estrema naturalezza, senza che per un solo attimo l’album perda la sua coerenza intrinseca. Quasi inutile, eppure doveroso, sottolineare che la riuscita dell’album è dovuta anche alla bravura dei musicisti (alcuni dei quali fanno parte dell’Accademia Bizantina di Ravenna) che hanno accompagnato i due capofila, pronti a seguire le volontà dei leaders attuando anch’essi un linguaggio ”stravagante”.

Ralph Towner – “At First Light” – ECM
“First Light” è anche il titolo di un album del 1971 inciso da Freddie Hubbard, un album spumeggiante in cui il trombettista da un assaggio delle sue eccezionali qualità strumentali…e non solo. Ecco, chi si aspetta di trovare qualcosa del genere anche in questo album, ne resterà profondamente deluso. Tanto esuberante, estroverso è Freddie Hubbard, tanto intimista, raccolto è Ralph Towner anche in quest’ultimo album, registrato a Lugano nel 2022. Nell’occasione Towner suona esclusivamente la chitarra classica a sei corde e presenta un repertorio di undici brani di cui otto sue composizioni e tre classici del jazz quali il traditional “Danny Boy, il sempre verde “Make Someone Happy” di Jule Styne e “Little Old Lady” di Hoagy Carmichael.. L’intero disco si sviluppa brevemente – all’incirca 45 minuti – ma del tutto sufficienti a lumeggiare la statura del personaggio. A 83 anni suonati, Ralph nulla ha perso delle caratteristiche che già molti anni fa lo resero personaggio unico nel suo genere: artista scevro da qualsivoglia esibizionismo, sempre in possesso di una tecnica personale (unica la delicatezza del tocco) e perfettamente funzionale all’esposizione delle proprie idee, con uno stile contrassegnato dall’amore per alcuni grandi del passato come Gershwin, Coltrane e Bill Evans (influenze che appaiono chiaramente anche in questo lavoro). Tra i brani degni di menzione la title-track sospesa tra presente, passato e futuro, la splendida seppure brevissima “Argentinian Nights” e la conclusiva “Empty Stage” dall’atmosfera malinconica così come suggerisce l’eloquente titolo.

Frederik Villmow – “Momentum” – Losen
In questo suo nuovo album, il batterista Frederik Villmow è alla testa di un quintetto molto ben equilibrato. In effetti le caratteristiche fondamentali del CD sono illustrate dallo stesso leader nelle note che accompagnano la musica: innanzitutto la volontà di tutti i musicisti di salvaguardare la propria identità sia come strumentista sia come compositore senza incidere sull’omogeneità del tutto; in secondo luogo la gioia di suonare assieme improvvisando. Non a caso ad eccezione di “Eternity” per tutti gli altri brani è stata sufficiente la prima take. Ciò premesso, occorre sottolineare come il clima generale si avvicina molto al free storico: spesso il brano non è stato nemmeno provato e basta un cenno del leader per iniziare a suonare dopo di che tutto è lasciato all’empatia che regna in studio. Un esempio probante al riguardo è “B-flat” della pianista Olga Konkova. Viceversa altri pezzi – come “Ali kurerer gruff”, “Momentum” e Eternity” presentano un tema scritto e sono basati su una certa struttura ritmica. Come già sottolineato a proposito dell’album “Fish & Fowl” del chitarrista austriaco Edi Kohldorfer inciso per la ATS, l’album si rivolge ad una fetta ben precisa degli appassionati di jazz i quali ancora oggi prediligono le improvvisazioni collettive. Per tutti gli altri crediamo che l’ascolto sia piuttosto duro…ma se si ha la pazienza di arrivare alla fine del disco probabilmente si avrà modo di apprezzare anche questo genere pur nella sua precisa collocazione storica e politica.

Gerlando Gatto

Christian McBride: la mia passione è suonare il contrabbasso

Nell’odierna realtà jazzistica se c’è un personaggio che riesce a racchiudere tutte quelle qualità che fanno di un buon musicista un eccezionale artista questi è sicuramente Christian McBride. Strumentista portentoso, compositore e arrangiatore di sicuro livello, didatta coscienzioso (con la moglie, la cantante Melissa Walker, diplomata anche come educatrice, crea a Montclair, New Jersey, una scuola la Jazz house Kids), sembra mai accontentarsi e così nel marzo 2016 viene nominato direttore artistico del Newport Jazz Festival. Il tutto condito da una serie di riconoscimenti ufficiali tra cui ben otto Grammy.

Originario di Filadelfia, classe 1972, ha un aspetto imponente: alto, massiccio, con una bella voce profonda e leggermente roca all’apparenza non sembra certo il tipo con cui vorresti avere qualche incontro ravvicinato del terzo tipo. Ma quando lo incontri e gli parli, l’impressione cambia radicalmente: Christian è persona squisita, gentile, comprensivo, che parla volentieri e non elude alcuna domanda.

Cominciamo da un fatto che mi incuriosisce parecchio. Lei è molto giovane eppure ha già fatto davvero tante, tante cose. Tournée, didattica, produzione, composizione, direzione di big band, tecnica straordinaria sullo strumento…e potrei continuare. Cosa preferisce fare?
“Innanzitutto vorrei precisare che non sono così giovane. Ad oggi sono cinquant’anni. Quel che ho fatto non è stato tutto pianificato, è venuto così dove mi ha portato la mia anima. Quando sono andato a vivere a New York per la prima volta, trentadue anni fa, volevo solo suonare con i miei eroi e molto di questo è successo. Per quanto concerne ciò che è venuto dopo, ho solo proseguito lungo il cammino. Comunque tornando alla sua domanda preferisco suonare il basso…e non sto scherzando. Da sempre suonare il contrabbasso è la mia passione, ciò che realmente mi riempie il cuore di gioia. Io davvero mi auguro che tutti i musicisti abbiano queste stesse possibilità, di sentirsi felici quando suonano il proprio strumento”.

Data questa sua passione per il contrabbasso, lei preferisce suonarlo nell’ambito di un’orchestra o di un combo?
“Per me è assolutamente lo stesso. Metto lo stesso impegno, la stessa passione e mi diverto allo stesso modo sia se suono all’interno di una big band, sia che mi trovo a far parte di un trio o un quartetto”.

Cosa ricorda di una delle sue prime collaborazioni, quella con Bobby Watson parecchi anni fa, se non sbaglio nel 1989?
“Ero alle primissime settimane di college quando qualcuno mi ha detto ‘ehi c’è uno strano tipo che ti sta cercando, ma non sappiamo il suo nome’. Così me ne sono andato a seguire la successiva lezione ma altri studenti mi hanno ripetuto che qualcuno mi stava cercando. Così quando sono andato a pranzo, seduto ad un tavolo leggendo un giornale l’ho visto: era Bobby Watson che già conoscevo. Appena sono entrato e l’ho visto, l’ho salutato calorosamente e lui mi ha risposto: ‘ehi, ti stavo cercando; che fai questo fine settimana? Ho un regalo per te. Suoniamo al Birdland con James Williams che suona il piano, Victor Lewis alla batteria”. Cosa ricordo di questo episodio? Che ero molto, molto spaventato. Quel pomeriggio abbiamo provato e poi è andato tutto bene. Sono rimasto nella band di Bobby Watson per due anni”

Così poco? Io avevo letto che avevate suonato assieme per più tempo…
“No, con la stessa band sono rimasto due anni. Poi, sai come succede, se uno si fa un nome finisce con il suonare con un sacco di gente. E ovviamente a me è capitato anche in seguito di suonare con Bobby. Ma nello stesso tempo ho avuto modo di suonare con altri grandissimi musicisti quali, tanto per fare qualche nome in ordine cronologico, ho lavorato dapprima con Ray Hargrove, quindi con Benny Golson, e poi con Freddie Hubbard. Tra il 1989 e il 1992 ho fatto molti concerti con diversi leader”.

Un altro dei grandi musicisti cui Lei è particolarmente affezionato è sicuramente Chick Corea. Come ricorda questo artista?
“Lui è stato una delle persone più straordinarie, meravigliose che io abbia incontrato nel corso della mia vita. Certo era un grande compositore, un grandissimo pianista, ma soprattutto una bellissima persona”.

In che senso?
“Abbiamo collaborato per ben ventisei anni e in questo lungo periodo mai una volta l’ho visto rivolgersi male verso qualcuno, essere sgarbato…insomma era davvero una brava persona, una persona per bene: nel mondo ci sarebbe bisogno di molte più persone come lui. Da un punto di vista più strettamente musicale, Chick mi spronava sempre a comporre aggiungendo che lo facevo bene. Ma egualmente io mi sentivo in imbarazzo davanti a lui in quanto, mi creda, Chick Corea è stato uno dei compositori più illuminati del secolo scorso”.

Chick a parte, qual è la collaborazione che ricorda con più piacere?
“Quella con James Brown, l’eroe della mia infanzia. Suonare con lui per me è stato come realizzare un sogno. Quando mi ha chiamato io ero, in un certo senso, più che preparato…conoscevo ogni suo pezzo, conoscevo tutto ciò che aveva fatto nel corso della sua carriera. Quindi nel momento in cui, quando festeggiava il suo 64simo compleanno, nel corso di una sorta di jam session mi chiamò sul palco, ero letteralmente al settimo cielo. Poi ho prodotto uno dei suoi ultimi spettacoli ed è stata un’esperienza unica, straordinaria, meravigliosa”.

Bene. E cosa pensi di Marvin Gaye?
“Anche lui è una leggenda. Ci sono molti cantanti r&b, soul che sono anche eccellenti musicisti jazz. Herbie Hancock racconta questa bella storia di quando entrando in uno studio di registrazione ha incontrato per la prima volta Marvin Gaye che intonava magnificamente al pianoforte “Maiden Voyage” (Uno dei brani più conosciuti di Hancock ndr). Non so se Winton Marsalis, entrando in uno studio, potrebbe incontrare John Legend che intona uno dei suoi brani. Mi piace moltissimo anche Stevie Wonder: lui è il re”

Cosa pensa del cd. ‘modern jazz’?
“Onestamente devo dire che non lo amo particolarmente. Bisogna però intendersi meglio. Oggi per modern jazz si intende la musica suonata per lo più da ventenni. In realtà molti giovani suonano mescolando ad esempio suoni acustici con l’elettronica, cosa certo non nuova, e alle volte devo ascoltare questa musica anche due volte per entrarci dentro ma ciò mi piace. Insomma in linea di massima questo tipo di espressione non mi soddisfa pienamente anche se devo riconoscere che ci sono cose interessanti”.

Pensa sia possibile parlare oggi di jazz americano, jazz europeo, jazz italiano?
“Non sono molto bravo ad operare simili distinzioni. Io penso che il jazz è jazz: il jazz è nato in America e da lì tutto deriva, anche la musica improvvisata europea, anche quella asiatica seppure innervata da elementi tratti dalle culture locali. Ciò non toglie, ovviamente, che ci siano eccellenti musicisti di jazz in tutto il mondo”.

Cosa conosce del jazz made in Italy?
“Tete Montoliou, Michel Petrucciani…”

Mi scusi ma l’uno è spagnolo e l’altro di origine italiana ma francese…
“Stefano Di Battista…”

Sì con lui ci siamo, e poi?
“Il contrabbassista Giuseppe Bassi che è un mio caro amico e poi naturalmente Paolo Fresu”.

Perché lo stato della popolazione afroamericana negli States è sempre così complessa, per usare un eufemismo?
“Io penso che in tutto il mondo, ma particolarmente negli Stati Uniti, ci sia un problema di razza e allo stesso tempo di classe sociale, di soldi. Se tu sei ricco nessun problema; viceversa i bianchi che sono poveri hanno gli stessi problemi dei neri poveri, degli asiatici poveri, dei latini poveri. A ciò si aggiunga il razzismo verso la gente di colore che negli States è ancora forte. E’ molto difficile che quanti hanno tanti soldi si prendano cura di chi è realmente povero. Questa è la grande sfida da affrontare subito”.

Personalmente Lei ha avuto brutte esperienze in tal senso?
“Certo che sì. Ogni cittadino americano di colore tra i sedici e i settantacinque anni potrebbe raccontare episodi del genere. Io stesso più volte sono stato fermato dalla polizia ho sempre reagito nel migliore dei modi, educatamente, salutando cordialmente. Ma non sempre funziona: io sono grande, grosso e nero e ciò basta per suscitare qualche sospetto, per pensare che sia violento. Per non parlare dell’enorme problema costituito dalla presenza delle armi che andrebbero bandite perché gli americani quando si parla di armi è come se diventassero bambini”.

Pensa che in Europa sia diverso?
“Onestamente non lo so. Uno dei miei più cari amici che vive a Roma da quattro anni, Greg Hutchinson, mi racconta che non importa dove vai, qualcuno ti guarderà sempre in modo sciocco. Per quanto concerne moleste della polizia e razzismo non so come sarebbe in Europa; conosco molti musicisti neri che hanno lasciato l’America tra gli anni ’40 e ’50 e sembrano felici

Qual è il suo album che preferisce?
“Francamente è difficile rispondere. Comunque, pensandoci meglio, credo che le mie preferenze vadano al primo album, “Gettin’ to It”, per la Verve nel 1995 con Roy Hargrove tromba e flicorno, Joshua Redman tenor saxophone, Steve Turre  trombone, Cyrus Chestnut  piano, Lewis Nash  batteria, Ray Brown e Milt Hinton  basso on ‘Splanky’ “.

Qual è la musica che preferisce suonare oggi?
“Tutta, purché sia buona musica. Voglio essere cittadino del mondo”.

Gerlando Gatto

Doctor 3: non importa cosa suoni ma come lo suoni

L’intervista è stata realizzata in occasione della 23esima stagione di “Latina in Jazz”, nota rassegna a cura del Latina Jazz Club Luciano Marinelli che ospita ogni anno musicisti di fama internazionale. In occasione della terza serata, il Doctor 3 ha gentilmente accettato la proposta di farsi intervistare per la rubrica “Salotto Rosso” a cura di Daniele Mele.

Enzo Pietropaoli, Danilo Rea, Fabrizio Sferra. Il Doctor 3 ha 26 anni: la mia età
praticamente. Come si fa a far vivere una formazione per 26 anni?
Sferra: “Basta suonare poco”.         (ridono)

-Dai, rispondete voi.
Pietropaoli: “É come in un rapporto di coppia, basta gestire tutte le fasi: gli amori, i momenti belli, le crisi… saperli gestire in nome dell’amicizia e della musica, e si può andare avanti”.

-Credo a questo punto, finché…
Danilo Rea: “La morte”.
Sferra: “Finchè morte non ci separi”.

– Questi sono i piani per il futuro, quindi. E suonare poco…
Rea: “Se la prendi da un punto di vista professionale, e gli americani in questo sono maestri, si riesce a suonare anche senza parlarsi. Fanno grandissimi gruppi dove non si parlano neanche più, da anni, non si ricordano neanche i nomi praticamente”.
Pietropaoli: “O gruppi sciolti dopo tournée troppo lunghe”.
Rea: “Se si affronta con professionalità vai avanti ad libitum. Noi siamo italiani, non l’abbiamo fatto con questo atteggiamento”.

– Secondo voi, qual è il valore del trio oggi? Il pubblico ascolta e apprezza il trio come si ascoltava una volta, oppure no?
Sferra: “Forse non dipende dalla formazione, ma da come si esprime la formazione, e dal grado di comunicazione che instaura con il pubblico. Io penso che questo gruppo abbia avuto successo anche per quello, perché stabilisce un alto grado di comunicazione ed è molto interattivo sia per il repertorio scelto sia per come viene trattato. Penso che sia un gruppo molto generoso da questo punto di vista, e quella cosa lì forse conta più della formazione in sé, che sia trio, quartetto o quintetto”.
Pietropaoli: “Sono d’accordo”.

– Il purista del Barocco dice “ascolto solo Bach”, il purista del Jazz dice “ascolto Parker”,e voi invece attraversate tutti i generi musicali e arrivate a tutte le persone nel mondo. Quand’è che, secondo voi, la musica è “buona musica”?
Rea: “Diciamo che il Pop coreano ancora non l’abbiamo affrontato”.
Pietropaoli: “Però abbiamo avuto successo in Oriente”.
Rea: “Perché comunque ci sono delle canzoni che arrivano dappertutto”.

– Sì, insomma quand’è che la considerate una musica “da suonare”?
Rea: “Ah, bella domanda”.
Pietropaoli: “Tu dici a livello di scelta del repertorio?”.

– Sì.
Rea:” Questa è una domanda molto particolare. Vi ricordate quando chiesi a Jeff se avrebbe mai suonato quella canzone, “The Way We Were” “.
Sferra: “Quella che cantava Barbra Streisand”.
Rea: “Quella”.
Pietropaoli: “Dicci chi è questo Jeff”.
Rea: “No, non si può dire… Lui disse “Eh no, perché è troppo smielata”. “É troppo che?”, ho pensato. E il limite è molto personale, per rispondere alla tua domanda, ognuno ha un “pudore musicale” tutto suo”.
Sferra: “Però forse si può dire, in relazione a questo trio, che la canzone Pop funziona perché tutti e tre abbiamo un rapporto molto forte con la canzone e con la melodia. Questo, a prescindere dalla scelta, ha funzionato da sempre perché siamo tutti sinceramente e profondamente legati alla melodia e alla forma-canzone, pur essendo jazzisti e avendo fatto un percorso più complesso. Alla fine rimaniamo “puristi in relazione alla musica”.
Pietropaoli: “Dunque non importa cosa ma come”.
Rea: “Sì, esatto”.
Sferra: “Sì, è chiaro che il Pop spesso contiene quegli elementi della forma-canzone che noi privilegiamo a prescindere dal genere. Ed è la stessa scelta che abbiamo fatto nel Jazz, dove privilegiamo quella forma”.
Pietropaoli: “Non abbiamo mai fatto pezzi contorti, per così dire”.
Rea: “Ma in fondo i jazzisti afro-americani che prendevano? Le canzoni del loro tempo. A un certo punto è come se fosse stata creata una barriera, come a dire che “fin qui si può suonare, se vai oltre diventa un’altra cosa”. Ma in realtà dipende tutto esattamente dal “come”… quelle di allora erano grandi canzoni pop, Billie Holiday, Louis Armstrong, cantavano tutti pezzi pop fatti alla maniera loro. Quello che bisogna fare quindi è cercare di analizzare, contestualizzare…”.
Pietropaoli: “E di impossessarci anche della nostra cultura, che non è necessariamente quella di un americano. Nella nostra gioventù c’è Battisti, De Andrè, Tenco…”.

– In un’altra intervista ho sentito di critiche che vi sono state mosse perché avevate fatto un certo tipo di scelta di repertorio.
Rea: “Un sacco di volte”.
Sferra: “Qualche volta siamo stati additati come “Doctor Furbetti”…”.

– Quando suonate c’è comprensione, c’è feeling e tantissima interazione sul tema, ed è genuinamente bello vedervi dal vivo. Invece la nuova generazione spesso è “Il brano lo faccio tutto io, poi metto assieme i pezzi e carico la mia cover su YouTube”. Che cosa ne pensate di questo approccio alla musica? È tutto brutto, oppure…?
Rea: “Ma stai parlando di quale musica? Quella di oggi?”.

– Quella di oggi, anche Jazz. Coetanei che studiano al Conservatorio, magari prodigi
polistrumentisti che sanno suonare bene il basso, la batteria e fare un improvvisazione al pianoforte come si deve…
Sferra: “Beati loro!”.

– Poi registrano tutto quanto e caricano su Facebook, YouTube.
Rea: “Se tu pensi che Damien Rice, con The Blower’s Daughter, è nato su internet… è un approccio diverso un po’ lontano da noi, insomma”.
Sferra: “Comunque è un fenomeno un po’ complesso da trattare, che non riguarda soltanto la musica”.
Pietropaoli: “Diciamo che la tecnologia e i social sono un’opportunità, dipende come tu li usi. Quel procedimento di cui parli tu può portare a cose splendide, può portare a cose insulse ma questo riguarda anche chi suona dal vivo, per cui è difficile generalizzare”.

– Certo. Vi faccio una domanda conclusiva, la classica: che cosa c’è nel futuro prossimo del Doctor 3?
Sferra: “Abbiamo 2-3 concerti programmati, il che è un bell’orizzonte”.
Pietropaoli: “Resisteremo ancora per un po’, salute permettendo”.         (ridono)
Sferra: “Personalmente ogni volta che c’è un concerto del Doctor 3 sono molto felice”.
Rea: “Siccome ogni volta che suoniamo si aprono finestre nuove, musicalmente parlando, non sappiamo che fine faremo. La fortuna di questo gruppo è che sopravvive perché, oltre alfatto di vedersi poco frequentemente, c’è un’arte dell’incontro, del ritrovarsi per far uscire cose leggermente o spesso anche molto diverse dalla volta precedente. Difficile dire cosa bolle in pentola. I CD sono serviti proprio a mettere il punto su certe situazioni, anche se nonsi fanno quasi più… io non faccio un CD in piano solo da 4-5 anni”.
Pietropaoli: “Ora sta tornando il vinile, c’è molta musica liquida… addirittura ho risentito parlare di cassette”.
Sferra: “Mania Vintage!”.
Pietropaoli: “Beh i supporti cambiano, ma la musica è quella, anche se essa dipende dai supporti e dagli strumenti. Prima che esistessero gli amplificatori era diverso, la musica è stata condizionata da quel cambiamento tecnico, per cui non so oggi quanto sia condizionata dalle opportunità digitali”.
Sferra: “La maniera in cui si mixano i dischi è cambiata notevolmente perché deve tener presente che la musica esce da una piccola scatoletta, e quindi si lavora in maniera diversa”.
Rea: “Se pensi che oggi i dischi si registrano a casa… è cambiato tutto”.

– Vedremo cosa il futuro ha in serbo per noi. É stata una piacevole intervista, grazie per il vostro tempo!

Daniele Mele

A Renzo Ruggieri il CIA Merit Award

Più volte in questo stesso spazio, abbiamo sottolineato la satura artistica di Renzo Ruggieri fisarmonicista di assoluto livello mondiale.

Renzo Ruggieri

Ed un esplicito riconoscimento in tal senso è venuto proprio dalla Confédération Internationale des Accordéonistes (CIA, Unesco) costituita nel 1935. Nei giorni dal 3 al 5 marzo scorso la Confederazione ha tenuto il suo 149° Congresso invernale dell’Assemblea generale, in Ungheria, per la precisione a Parks, cui hanno partecipato delegati di 17 Paesi provenienti da Stati Uniti, Corea del Sud, Russia, Scandinavia e da tutta Europa. Scopo principale di questi appuntamenti è l’assegnazione del prestigioso CIA Merit Award, che premia i contributi eccezionali al movimento internazionale della fisarmonica.

Questa volta il Congresso ha votato all’unanimità per l’assegnazione del Merit Award al nostro Renzo Ruggieri e a Ladislav Horák (Repubblica Ceca).

Il riconoscimento arriva non del tutto inatteso in quanto Ruggieri ha già alle spalle una brillante carriera, declinata attraverso oltre due mila concerti in ogni angolo del mondo, parecchi album a suo nome nonché numerose partecipazioni in produzioni sempre di livello cui si affianca una intensa attività organizzativa e didattica. Sotto il primo aspetto ricordiamo la sua direzione artistica al PIF di Castelfidardo, la direzione dell’ Italia Award Festival da lui stesso creato (e su cui ci soffermeremo nei prossimi giorni) mentre per quanto concerne la didattica basti ricordare che finalmente sotto il suo impulso presso il conservatorio Gaetano Braga di Teramo è stato inserito il biennio/master di fisarmionica ovviamente curato dallo stesso Ruggieri. Da sottolineare infine che i suoi allievi han ottenuto prestigiosi riconoscimenti in tutti i più importanti contest del mondo.

Dal canto suo Ladislav Horák è vice direttore del Conservatorio di Praga e ha effettuato numerose tournée esibendosi in contesti per lo più classici. E’ direttore artistico del festival International Accordion Days in Praga e ha registrato numerosi lavori per la radio del suo Paese e per altre emittenti internazionali.

Gerlando Gatto

Orpheus Award 2023: i vincitori del prestigioso premio dedicato al mondo della fisarmonica e della famiglia delle ance

Anche per quest’anno operazione compiuta e con pieno successo.
Organizzato dall’Associazione Promozione Arte, si è chiuso l’ORPHEUS AWARD (Premio della Critica per produzioni di fisarmonica e tutta la famiglia delle ance, di cui il nostro direttore Gerlando Gatto è direttore artistico) rivolta ad artisti italiani. Occorre sottolineare come anche l’edizione di quest’anno abbia pienamente confermato le scelte degli organizzatori compiute nel recente passato. Quindi produzioni per lo più digitali e non coerenti con le canoniche durate dei CD: si parla di SINGOLI, di EP o brani unici ma di lunga durata.
Stante l’elevato numero di artisti partecipanti, evidentemente il nuovo regolamento è stato apprezzato dai musicisti; lo stesso dicasi per i numerosi critici che hanno partecipato all’evento, esprimendo tre preferenze per ogni sezione – classica, jazz, world – cui si affianca il premio alla carriera.

Quest’ultimo è stato conferito ad una vera e propria icona della fisarmonica: Wolmer Beltrami. Nato a Breda Cisoni il 23 maggio 1922, da ‘ragazzo prodigio’ qual era, Wolmer già a  16 anni aveva la sua orchestra con cui si esibì per molti mesi in alcuni grandi alberghi. Nel 1947, si costituì il celebre duo Kramer-Beltrami mentre con l’avvento della televisione in Italia formò il Trio con le sorelle Luisa e Leda, con le quali negli anni ’50 effettuò alcune tournée in Medio Oriente. Nel 1960 ebbe un importante riconoscimento: l'”Oscar Mondiale della Fisarmonica”.
Straordinario virtuoso, Beltrami è giustamente ricordato anche come compositore immaginifico: tra le sue “creature” da citare “Il treno”, “Carovana negra”, “Squadrone bianco”.

E veniamo adesso alla tre sezioni attraverso cui si articola l’Orpheus.

Per il jazz sono risultati vincitori Simone Zanchini e Gabriele Mirabassi con “Il Gatto e la Volpe” Egea Records.
Per la classica Marco Gemelli con ‘El Tiburon’ Ars Spoletium Publishing&Recording; infine per la world/popular, ancora un duo costituito da Flaviano Braga e Simone Mauri con ‘Ma però’ della Caligola Records.
Va ricordato come la manifestazione non sarebbe stata possibile senza l’impegno e l’abnegazione di un piccolo ma efficiente staff che oltre al già citato direttore artistico, comprende Renzo Ruggieri presidente dell’APA e vero motore della manifestazione, affiancato da Giuseppe Di Falco e Andrea Di Giacomo ambedue segretari.
A vostra disposizione il video della serata in cui, per l’appunto, sono stati comunicati i risultati delle segnalazioni operate dai critici.

Marina Tuni – Redazione APdJ

I NOSTRI CD: uno sguardo all’estero e due note di classica

UNO SGUARDO ALL’ESTERO

Wolfert Brederode – “Ruins and Remains” – ECM
Questa suite per pianoforte, quartetto d’archi e percussioni, ha un preciso significato storico in quanto è stata composta da Wolfert Brederode nel 2018, in occasione del centenario della fine della Prima Guerra Mondiale. Da quell’anno al 2021 quando la suite è stata registrata dal pianista Wolfert Brederode coadiuvato dal percussionista Joost Lijbart e dal gruppo d’archi olandese Matangi Quartet la composizione ha visto alcuni cambiamenti grazie alla stretta collaborazioni fra i musicisti. In effetti Brederode aveva avuto in passato occasione di collaborare sia con il Matangi Quartet sia con il percussionista presente nei suoi gruppi sin dal 2004. Lijbart è un esponente del “nuovo” jazz caratterizzato da una profonda e radicale improvvisazione ed è riuscito a portare questa cifra stilistica all’interno di composizioni che, pur privilegiando una certa ricerca melodica, non disdegnano di riservare spazi significativi all’improvvisazione. E, ad avviso di chi scrive, il pregio maggiore dell’album – e probabilmente del leader – è quello di aver saputo dare alla musica un’anima che riesce assai bene a coniugare l’espressività del pianoforte con il sound del quartetto e le capacità improvvisative di Lijbart. Ancora una volta, come fa rilevare Maria-Paula Majoor, componente del Matangi Quartet, fondamentale è risultato in sala di incisione il ruolo di Manfred Eicher, produttore nonché fondatore nel 1969 della ECM, il quale ha spinto sempre i musicisti a rimodellare la musica di modo che la transizione tra le parti improvvisate e quelle scritte fosse quasi impercettibile.

Ali Gaggl – “A Piece of Art” – ATS
Nonostante l’Austria abbia dato i natali a due grandissimi musicisti quali Joe Zawinul e Friedrich Gulda, negli ultimi anni poco conosciamo di quel che accade in quel Paese. Ben venga, quindi, l’ATS che ci presenta alcuni musicisti austriaci. Questo “A Piece Of Art” è l’ultimo album della vocalist e compositrice Ali Gaggl, vero nome Alberta Gaggl, nata il 15 Ottobre 1959 a Klagenfurt. Musicista a 360 gradi (ha studiato jazz e musica popolare al Conservatorio della città natale, specializzandosi in canto e in pianoforte oltre ad aver avviato una rilevante carriera didattica insegnando canto al Conservatorio di Trieste, alla Bruckner University di Linz e alla Summer Academy del Castello di Viktring) la Gaggl si è fatta ascoltare sia in Europa sia in Canada collaborando spesso con Kenny Wheeler e la Upper Austrian Jazz Orchestra. In quest’ultimo album, la Gaggl ha chiamato accanto a sé molti musicisti tra i quali il sassofonista Wolfgang Puschnig, la Upper Austrian Jazz Orchestra – UAJO e il quartetto d’archi Koehne; in programma un repertorio assai variegato in cui accanto a sue composizioni, figurano standard come “In a Sentimental Mood” (accompagnata dal quartetto d’archi) e “God Bless The Child” con l’UAJO, forse il brano meno riuscito. Il clima che si respira ascoltando per intero l’album è quello di un solido mainstream sostenuto dall’abilità di tutti i protagonisti e specialmente della vocalist che appare perfettamente in linea sia quando è accompagnata dal solo trio di pianoforte (“Stund Up”), sia che canti con l’orchestra, sia che interpreti brani più leggeri (“C’est ci bon”), sia che si trovi immersa in un contesto ritmico più marcato come nei casi della title track e di “African Child” uno dei brani più originali dell’intero album.

Sverre Gjørvad – “Here Comes the Sun” – Losen
È con vero piacere che presentiamo al pubblico italiano questo batterista norvegese in Italia sostanzialmente ancora sconosciuto, nonostante non sia più giovanissimo (classe 1966). Il musicista di Stathelle, cittadina nel comune di Bamble nella contea di Vestfold og Telemark, viceversa è ben noto in patria avendo collaborato con alcuni musicisti di rilievo come Live Maria Roggen, Ståle Storløkken, Mats Eilertsen e Nils-Olav Johansen. In questa nuova registrazione si ripresenta alla testa del suo gruppo storico completato da Herborg Rundberg piano, Dag Okstad basso, Kristian Svalestad Olstad chitarra cui si aggiunge Eirik Hegdal ai sax nel brano che conclude l’album, “Voi River”. Questo “Here Comes the Sun” chiude un ciclo di quattro CD dedicati alle quattro stagioni, registrati sempre con i medesimi musicisti. La stagione cui si riferisce questa volta è la primavera ed in effetti la musica rispecchia abbastanza bene il clima che si respira da quelle parti a partire da marzo, aprile. E questo è un discorso difficile da capire per chi non sia mai vissuto nel Nord Europa e non sia stato testimone di quello straordinario risveglio della natura che si registra in quel periodo. Così la musica del gruppo è vivace, sostenuta da un buon ritmo, con pianista e chitarrista in primo piano a supportare le concezioni del leader che si rispecchia appieno, anche come compositore, in tutte e trenta le composizioni attraverso cui sono declinati i quattro album di cui in precedenza.

Rolf Kristensen – “Invitation” – Losen
Eccellente chitarrista norvegese, nato a Kristiansand, nel 1961, ha già ottenuto in patria numerosi riconoscimenti di pubblico e di critica soprattutto come solista del gruppo Secret Garden. In questa nuova fatica discografica, Rolf ha chiamato accanto a sé molti musicisti tra cui alcuni vocalist da lui ritenuti tra i migliori del momento in Norvegia (Torun Eriksen, Hilde Hefte , Kari Iveland e Hilde Norbakken) e un altro celebre chitarrista Allen Hinds (The Crusaders, Roberta Flack, Randy Crawford, Natalie Cole)il quale, trovandosi in città durante la registrazione dell’album, accettò volentieri l’invito del leader ad unirsi al gruppo per incidere il classico di Corea “Crystal Silence” Per il resto il repertorio è di quelli che fanno tremare le vene ai polsi dal momento che si tratta di brani tutti tratti dal “Great American Songbook”. Ecco quindi uno dopo l’altro alcuni classici come “Blue in Green”, la title track…per chiudere con il già citato “Crystal Silence”. Si tratta, in buona sostanza, di una sfida che Rolf ha espressamente dichiarato di voler affrontare proprio per evidenziare in che modo la sua preparazione soprattutto la sua personalità gli consentono di affrontare questi brani apportando qualcosa di personale. Obiettivo raggiunto? Difficile dirlo…nel senso che sicuramente Kristensen interpreta assai bene tutti i brani, un po’ più difficile affermare che vi apporti qualcosa di veramente nuovo.

Maja Jaku – “Soul Searching” – ATS
Maja Jaku giunta al suo quarto album da leader, ha tutte le carte in regola per affermarsi nel pur vasto panorama del jazz europeo. Può innanzitutto vantare una solida preparazione di base avendo studiato, tra gli altri, con
Sheila Jordan, Mark Murphy, Jay Clayton e Andy Bey e nel suo curriculum figura la prestigiosa collaborazione con la band fusion di Gerd Schuller “Attack”. Questo nuovo album, creato tra San Diego e Vienna, si intitola significativamente “Soul Searching” ad indicare la precisa volontà della vocalist di rifarsi alle atmosfere tipiche della Blue Note anni ’70 declinando un repertorio abbastanza variegato. Principale responsabile il compositore e trombonista Dave Scott che ha scritto 3 composizioni mentre il trombettista americano Jim Rotondi ha contribuito agli arrangiamenti degli ottoni e due composizioni sono state co-scritte dalla stessa Maja Jaku. Il gruppo è completato da Sasa Mutic piano, Dusan Simovic basso e Joris Dudli batteria.
Per chi ama questo tipo di jazz l’album risulterà sicuramente interessante; per tutti gli altri detto che la Jaku ha molte carte da giocare, in alcuni passaggi si nota una qualche incertezza, una non perfetta padronanza della materia musicale che si può spiegare con la giovane età nella consapevolezza che in un futuro non lontano le cose non potranno che migliorare. Tra gli otto brani in programma particolarmente interessante “Be Real” mentre in “God Bless The Child” si apprezza una bella intro del trombettista Jim Rotondi. Un’ultima notazione: vi abbiamo presentato due vocalist austriache e ambedue hanno messo in repertorio quest’ultimo brano, scelta che non comprendiamo appieno data la difficoltà di interpretare al meglio una partitura entrata oramai nell’immaginario collettivo.

Keith Jarrett – “Bordeaux Concert” – ECM
Ascoltando album come questo si riaccende il rammarico per l’impossibilità di ascoltare nuove imprese di colui che a ben ragione può essere considerato uno dei massimi pianisti del secolo scorso. Questa volta Jarrett viene ripreso durante un concerto svoltosi all’Auditorium dell’Opera National di Bordeaux il 6 luglio del 2016, nell’ambito di quel tour europeo che aveva portato l’artista ad esibirsi, tra l’altro, a Budapest, Vienna e Monaco. Venendo a quest’ultimo album, dobbiamo confessare che recensirlo è impresa davvero ardua in quanto su Jarrett molto, moltissimo è stato scritto e “Bordeaux Concert” non fa altro che ribadire tutto ciò che già si conosceva. Vale a dire un artista straordinario sotto le cui dita il pianoforte assurge a vertici difficilmente raggiungibili. Jarrett suona con straordinaria lucidità e quindi con pieno controllo della materia sonora che si sviluppa seguendo una logica ben precisa, non ardua da individuare specialmente per chi ben conosce Jarrett. Ecco quindi la sua capacità di suonare frasi già conosciute ma in modo totalmente nuovo grazie soprattutto alla costante ricerca di nuove cellule melodiche. Quindi non è certo un caso che la stampa internazionale abbia accolto l’album con grande rilievo sottolineando a più riprese sia il carattere intimistico della musica sia la bellezza delle parti estese che si collocano in una dimensione altra lontana dallo spazio e dal tempo. Da sottolineare come l’album è declinato attraverso tredici parti senza titolo ma numerate con cifre romane, parti che si allacciano perfettamente l’una all’altra pur nella diversità d’ispirazione sì da costituire un lungo straordinario, entusiasmante e commovente discorso sonoro.

Jean-Charles Richard – “L’ètoffe des reves” – La Buissonne
Come l’album “Canto” più sopra recensito, anche questa nuova produzione del sopranista e baritonista Jean-Charles Richard può definirsi ‘jazz da camera’, ove con tale definizione si intenda riferirsi ad una musica organicamente costruita con pochi mezzi e soprattutto scritta con sobrietà ed eleganza. Oltre al sassofonista nell’album è possibile ascoltare il pianista Marc Copland, la vocalist Claudia Solal e il violoncellista Vincent Segal. E a nostro avviso è proprio Copland, unitamente al leader, a conferire una precisa cifra stilistica all’intero album declinato attraverso undici composizioni. I due dialogano sempre con empatia disegnando atmosfere che sembrano collocarsi al di fuori del tempo e dello spazio, una dimensione in cui il silenzio ha quasi la stessa importanza del suono; si ascolti, ad esempio “Giverny” o “Desquartes”… anche se in realtà queste caratteristiche si evidenziano in tutte le esecuzioni. Eccellente anche la prestazione della vocalist Claudia Solal moglie del sassofonista e figlia del celebre Martial; Claudia interpreta con pertinenza “Ophélie Death” (in cui si mette in musica i versi dell’Amleto) e la “Title track” (con testo tratto dalla Tempesta shakespeariana) ambedue porte in inglese e “Ophélie” (con versi di Rimbaud) cantata viceversa in francese.
Ma questi rimandi alla letteratura attraversano un po’ tutto l’album così come i richiami a musicisti di altre epoche quali Olivier Messiaen, Igor Stravinsky, Claude Debussy. L’album si chiude con “Weeping Brook” un pezzo di bravura del leader al sax baritono.

Steve Tibbets – “Hellbound Train: An Anthology” – ECM 2CD
Le antologie non figurano in cima alle nostre preferenze…a meno che non si tratti di qualcosa di particolare. Ed è proprio questo il caso dal momento che si tratta di un tributo riservato ad un artista tanto originale quanto riservato. Molti anni sono passati da quel lontano 1977 quando Steve pubblicò il suo primo album ma l’artista ha sempre tenuto fede a quelle che sin dall’inizio sono state le direttrici su cui ha impostato la propria ricerca: i continui riferimenti etnici, impiego di una strumentazione del tutto particolare ivi compresi i nastri magnetici, l’alternarsi di momenti estatici ad altri molto più terreni. In repertorio 28 brani tratti dagli album che l’artista ha realizzato per l’ECM in un lungo lasso di tempo. Ovviamente molti i musicisti che si ascoltano accanto al polistrumentista leader, ma la musica ruota sostanzialmente intorno a Steve che suona la chitarra, il dobro (o chitarra resofonica), la kalimba e le percussioni. Due le notazioni che si possono fare per rendere più agevole l’ascolto: la sequenza dei brani non è cronologica e i brani scelti rispecchiano assai bene la multiforme personalità del leader. Molti sarebbero i brani da segnalare all’attenzione del lettore, ma andremmo ben oltre i limiti che riserviamo ad ogni recensione per cui basti sottolineare come i curatori sono riusciti a tracciare un ritratto esaustivo dell’artista.

DUE NOTE DI CLASSICA

Margherita Porfido – “Da Gesualdo a Piccinni – Musicisti del Sud Italia dal 1500 al 1700) DiG 2 CD
Margherita Porfido – “Margherita’s Miniatures” – DiG
In questi due album, editi da DiG (Digressione) abbiamo l’opportunità di ascoltare e ammirare una delle più complete clavicembaliste italiane. Nata ad Altamura, Margherita Porfido comincia a studiare musica sin da giovanissima diplomandosi in pianoforte e clavicembalo. A partire dal 1983 si dedica completamente allo studio del clavicembalo soprattutto con riferimento alla musica Rinascimentale-Barocca ed a quella contemporanea, prediligendo il repertorio solistico e di solista con orchestra.
Nel primo album, “Da Gesualdo a Piccinni”, impreziosito da un esauriente libretto vergato da Alessandro Zignani, scrittore, musicologo e germanista di grande spessore, possiamo ascoltare una serie di brani che risultano assolutamente indispensabili per capire a fondo la musica tra ‘500 e ‘700 del meridione d’Italia. Il repertorio, infatti, comprende tra l’altro la “Canzon francese del principe” di Gesualdo Da Venosa, la “Salve Regina” di Rodio, composizioni di Giovanni Salvatore, Giovanni Maria Trabaci, i balli e le danze di Antonio Valente e Bernardo Storace, fino alle “Tre Sonate e Una Toccata” di Niccolò Piccinni. In buona sostanza si tratta di uno straordinario viaggio attraverso le note che ci conduce alla scoperta, o forse sarebbe meglio dire alla riscoperta, di autori purtroppo non particolarmente eseguiti ma che risultano fondamentali per lo sviluppo della musica colta nel nostro Paese.
Diverso il secondo CD, “Margherita’s Miniatures”, in cui la clavicembalista affronta un repertorio variegato, molto diverso dal precedente, con autori non accademici, e con l’ausilio di un artista proveniente da altri ambiti quali Pino Minafra alla tromba e al didgeridoo. Ad onta di queste discrepanze, l’album mantiene una sua ben precisa unità di fondo data dal clavicembalo della Porfido che riesce ad interpretare tutte le partiture con maestria dimostrando come anche uno strumento oggettivamente “antico” possa misurarsi con linguaggi moderni. Ecco quindi che si parte con le “Danze popolari romene di Béla Bartok per approdare a “Les fastes de la grande et ancienne MXNXSTRXNDXSX” di François Couperin, in cui si ascolta il jazzista Pino Minafra al didgeridoo. In mezzo ancora un autore classico come Erik Satie ma soprattutto esponenti della musica moderna quali Eugenio Colombo, Fred Van Hopve, Keith Tippett, Livio Minafra, Michel Godard, Daniel Pinkham, Nino Rota e Gianluigi Trovesi. Ed è proprio al confronto con questi ultimi che si manifesta in tutta la sua bravura la Porfido che riesce ad adattare il suo strumento alle necessità espressive dei vari brani senza che gli stessi perdano un’oncia dell’originario fascino. Particolarmente suggestivo “Romeo e Giulietta” di Nino Rota anche per la presenza di Pino Minafra alla tromba, musicista che, come sottolinea Ugo Sbisà nelle note che accompagnano l’album, proprio in veste di trombettista si fa desiderare oramai da lunga, troppo lunga, pezza

Valentin Silvestrov – Maidan – ECM
Il significato di questo album va ben al di là del fatto squisitamente musicale in quanto si inserisce a pieno titolo nella più drammatica vicenda che il mondo sta vivendo dopo la Seconda guerra mondiale. Valentin Silvestrov, nato nel 1937 a Kyiv, è considerato il compositore più significativo in Ucraina e queste registrazioni, effettuate nel 2016 dal Kyiv Chamber Choir diretto da Mykola Hobodych, durante un concerto tenuto presso la cattedrale di San Michele, nella capitale ucraina, ne sono la palese testimonianza. La sua è una musica sobria, riflessiva, che rispecchia perfettamente l’anima di un popolo nel tentativo perfettamente riuscito di coniugare le cose semplici della vita con il senso più profondo della bellezza del mondo e degli umani sentimenti. In tal senso Silvestrov è sempre rimasto una sorta di cronista in musica della storia della sua terra. Ed è proprio in questo senso che l’album assume quella valenza di cui in apertura. In effetti il compositore, dopo i moti ucraini del 2004 (noti come la Rivoluzione arancione) e le proteste di Maidan (Majdan Nezaležnosti – Piazza Indipendenza, la piazza centrale di Kiev capitale dell’Ucraina) contro l’influenza russa nel 2014, si è rivolto più apertamente a temi politici e religiosi. Di qui una serie di pezzi raccolti sotto l’insegna “Maidan-2014”, per coro a cappella. (Il suo tredicesimo movimento è la “Preghiera per l’Ucraina”). Adesso la situazione per Silvestrov si è fatta davvero pesante: poco dopo l’invasione russa dell’Ucraina, ha dovuto lasciare la sua città natale e vive a Berlino da allora. Parallelamente dopo l’inizio della guerra, la musica di Silvestrov viene eseguita spesso al di fuori dell’Ucraina ottenendo sempre grandi successi di pubblico e di critica e portando la fama dell’autore a vertici mai raggiunti in precedenza. Dal punto di vista squisitamente artistico, la musica si fa apprezzare particolarmente per come riesce ad esprimere atmosfere assai diverse transitando da momenti corali maestosi ad altri in cui sembra prevalere una sensazione di dolorosa partecipazione, ad altri ancora in cui si avverte una grande dolcezza. Di qui anche le diverse strutture del coro che ora si avvale solo di alcune sezioni, ora interviene per intero nella sua maestosità, altre volte ancora si affida ad alcune voci soliste. Insomma, un piccolo capolavoro che va ascoltato con il massimo rispetto.

Gerlando Gatto