Greta Panettieri ed Elena Paparusso: ancora due grandi artiste a “L’altra Metà del Jazz””

Anche il penultimo incontro del ciclo “L’altra Metà del Jazz”, ideato e condotto da Gerlando Gatto, ha confermato le premesse da cui la serie ha preso avvio. Rifacendosi al secondo libro di Gatto, “L’altra Metà del Jazz”, il giornalista ha voluto presentare uno spaccato di quanto ricco sia il panorama delle musiciste jazz nel nostro Paese. Di qui una carrellata di artiste notissime, conosciute e meno conosciute che hanno tutte evidenziato un livello artistico di qualità assoluta e che forse, almeno in molti casi, meriterebbero maggiore considerazione.
Ma, rimandando alla prossima, conclusiva puntata del ciclo (martedì 12 marzo, con  Cinzia Tedesco e Laura Sciocchetti) un bilancio più approfondito, veniamo alla serata di martedì scorso.

La prima musicista intervistata da Gatto è stata Greta Panettieri, che esordisce raccontando la sua infanzia a dir poco peculiare: cresciuta facendo vita rurale in una comune in Umbria, ovvero in un casale abbandonato e occupato dai suoi genitori e un gruppo di stretti amici, Greta racconta che questa vita, oltre ad insegnarle ad affrontare con coraggio le difficoltà del momento e a crescere in maniera organica con la natura, è stata fondamentale per avvicinarla al macrocosmo musicale in cui vive oggi. Infatti erano molto comuni le esibizioni musicali e gli ascolti in comunità di numerosi dischi, soprattutto di Frank Zappa, ed è proprio da questo ascolto che nascerà la sua passione per la musica, passione che si concretizzerà tramite lo studio del violino dall’età di sei anni, proseguito a sedici anni con l’ingresso al conservatorio.
A questo proposito viene evidenziato un particolare anno nella vita della cantante, ovvero il 1994: infatti quello sarà l’anno in cui inizierà a studiare canto sotto la maestra Cinzia Spata, prima e unica insegnante di canto – per il resto Greta racconta di essere autodidatta – della quale ricorda con affetto il fatto di essere stata la prima sia ad instillare in lei la concezione della voce come vero e proprio strumento, sia ad approfondire la forma del canto jazz; narra inoltre un simpatico aneddoto secondo cui la passione di Greta per il canto e la sua foga fossero tali da far esclamare alla maestra, l’ultimo giorno di lezione: “Non so nemmeno cosa ti ho insegnato!”. E alla constatazione di Gatto sulle radici siciliane della maestra Spata, come del resto di altre insegnanti – vocalist già menzionate nelle scorse serate – Greta risponde lodando la generosità della gente di Sicilia e la loro voglia di condividere la propria conoscenza.
Altro anno cruciale per la carriera di Greta sarà il 1998, anno in cui vincerà una borsa di studio per andare al Berkeley College of Music di Boston; tuttavia, a differenza di sue altre colleghe, lei non studierà veramente lì: infatti, per una questione di sostenibilità dei costi, non coperti del tutto dalla borsa di studio, si fermerà a New York City per un periodo,  che a conti fatti si dimostrerà molto fruttuoso.
Nel 2004 forma una band, i Greta’s Bakery, con il pianista, produttore e arrangiatore Andrea Sanmartino, suo accompagnatore per la serata nonché compagno nella vita, e il bassista Mike LaValle; con questa band firmerà nel 2007 un contratto con la prestigiosa casa discografica Decca Records, da cui uscirà nel 2010 l’album The Edge of Everything, che comprende sia composizioni originali del trio sia cover di altri celeberrimi artisti come Diane Warren, Mina o gli Outkast. Se da un lato Greta descrive quest’esperienza come estremamente formativa per conoscere meglio il mestiere sia del cantante che del discografico, d’altra parte riconosce le profonde difficoltà riscontrate durante quel periodo: infatti le era stato chiesto dalla casa un cambiamento radicale, sia d’immagine sia dal punto di vista musicale. Di qui la necessità – nonché la voglia – di un cambiamento che la porterà, nel 2011, a rescindere il contratto con la Decca per ritornare ad essere un’artista completamente indipendente. Da questa svolta nascerà nel 2011 l’album Brazilian Nights, in collaborazione con il pianista Cidinho Teixeira, il sassofonista Rodrigo Ursaia,  il batterista Mauricio Zottarelli e il bassista Itaiguara Brandão, disco nel quale, a suo dire, ha ritrovato quell’integrità artistica smarrita durante il periodo con la Decca.
Infine Greta racconta della sua attività secondaria, ovvero la scrittura di libri: infatti a repertorio ha una graphic novel intitolata Viaggio di Jazz, narrazione della sua storia fino a quel momento, e La voce nel pop e nel jazz, un testo universitario in cui si analizzano cento canzoni tratte dal repertorio del pop classico americano degli anni ‘20-‘60. Certo è piuttosto sorprendente scoprire una musicista che scrive libri, ma a ben vedere la cosa non è poi così strana.  Al riguardo, prendendo spunto anche dall’intervista della serata scorsa ad Ottavia Parrilla, che raccontava del suo ruolo di storyteller, non appare particolarmente bizzarro che un compositore, già avvezzo a raccontare storie per mezzo della musica, si trovi nel suo elemento cimentandosi in quelle che in fondo sono altre forme di espressione artistica. È il caso per esempio del rapper spagnolo Rayden, al secolo David Martínez Álvarez, che ha sempre coltivato una passione per la letteratura tale da arrivare non solo a scrivere romanzi durante la carriera, ma addirittura a ritirarsi l’anno scorso, proprio all’apice del suo successo, per dedicarsi in toto alla letteratura e alla scrittura.
I brani presentati live dai due artisti sono stati Don’t know (Sammartino, Panettieri) The Sabiá di Chico Buarque e Tom Jobim, e Strangers In the Night, tratto dal songbook di Frank Sinatra, cui sarà dedicato il prossimo album della Panettieri in uscita a breve.

La serata prosegue con Elena Paparusso, artista poliedrica che nonostante i suoi legami con numerose forme d’arte, tra cui la danza, si sente prima di tutto musicista; di lei Gatto nota subito il curriculum zeppo di eventi cui ha partecipato, ed Elena risponde affermando che questa è una passione nata fin da quando lei era piccola: condividere e far conoscere degli artisti da lei stimati attraverso l’organizzazione di eventi, concerti e rappresentazioni. Inoltre, interrogata riguardo la scarsa produzione discografica da parte sua, spiega come la sua attività non si fermi alla musica, ma si estenda anche ad altre branche dell’arte – e di conseguenza la maggior parte delle sue idee non trova concretizzazione in dischi (ad esempio la danza contemporanea).
Parla poi della sua storia personale: nata a Noci, cittadina in provincia di Bari, dopo aver finito le superiori si trasferisce a Roma – inizialmente per studiare economia, ma poco dopo si iscrive al Conservatorio di Santa Cecilia studiando con Maria Pia de Vito, laureandosi e specializzandosi in canto jazz ma proseguendo comunque i suoi studi di canto con il contralto lirico Lucia Cossu; a questo proposito racconta che, dato il suo timbro da mezzosoprano, ha sempre avuto una particolare attenzione alla tecnica vocale, notando la difficoltà da parte delle persone con il suo stesso timbro vocale nel cambiare registro.
A proposito della sua discografia e delle sue opere, parlando del suo primo album Inner Nature del 2016, l’artista afferma il legame profondo con la tradizione jazz presente in esso; a questo proposito cita i suoi modelli di riferimento: in quanto a cantanti Carmen McRae, Jeanne Lee, Becca Stevens, Sarah Vaughan, Abbey Lincoln ed Ella Fitzgerald. Inoltre, riguardo alle sue composizioni, la cantante spiega come il testo di una canzone e scrivere quello che si canta siano visti da lei come elementi di estrema importanza nei suoi lavori, nonostante questo non le impedisca di musicare alcune poesie già esistenti: a questo proposito, oltre a citare tra i suoi lavori un adattamento di Dark August di Derek Walcott, racconta di come abbia messo in musica una raccolta di poesie dello scrittore Vittorio Tinelli. A proposito interviene Gatto che racconta un gustoso episodio di come molti anni addietro, prima del Nobel,  conobbe Walcott in una splendida spiaggia caraibica, trovandolo un uomo molto colto ma allo stesso tempo gentile e affabile.
Riguardo alla sua carriera, nel 2015 vince il premio come Miglior Compositrice nel Women in Jazz Competition, vittoria che le permetterà di suonare sia a Londra sia  ala Casa del Jazz; a questo proposito, rispondendo alla consueta domanda di Gatto sulle discriminazioni a stampo sessista nell’ambito jazzistico e musicale, lei risponde che non molti uomini, fortunatamente, mettono in atto comportamenti di questo genere, esistono tuttavia ancora discriminazioni in questo ambito: in sostanza, si sono fatti passi avanti ma c’è ancora molto da fare.
Nel 2018 partecipa al progetto della sua insegnante Maria Pia de Vito, Moresche e altre invenzioni, realizzato in collaborazione con l’Ensemble Burnogualà: di questa collaborazione Elena ricorda divertita le sessioni di registrazione a Ventotene, le esibizioni sulle Dolomiti e a Ravello e in generale l’atmosfera cameratesca che si respirava in quell’ambiente.
Accenna infine alle sue altre attività, sia parlando dell’evento Cantiere Infinito nel 2019 in collaborazione con la coreografa Mariagiovanna Esposito, descritto come una collaborazione tra il conservatorio e l’accademia nazionale di danza e come un momento di sperimentazione tra musicisti e ballerini, sia raccontando della sua attività didattica come docente di canto jazz al conservatorio. Dell’entusiasta racconto che Elena fa di questa sua esperienza, ormai quinquennale, due sono i punti su cui focalizza maggiormente la sua attenzione: la soddisfazione ottenuta dal buon feedback ricevuto dai suoi alunni e l’aver capito la necessità da parte loro di lavorare con persone attive e appassionate.
I pezzi presentati dalla cantante e dal suo accompagnatore Francesco Poeti, alla chitarra-basso, sono stati Labile, sua composizione originale eseguita originariamente in quintetto con Francesco Poeti, Domenico Sanna al piano, Luca Fattorini al basso e Fabio Sasso alla batteria, My First Dance With You come anteprima del suo nuovo album Anatomy of the Sun di prossima uscita, In attesa e Poor Butterfly.

Beniamino Gatto

Divertenti e brave Susanna Stivali e Chiara Viola

Serata “scoppiettante” quella di martedì scorso che alla Casa del Jazz, nell’ambito del ciclo “L’altra metà del Jazz” curato da Gerlando Gatto, ha visto protagoniste Susanna Stivali, accompagnata da Alessandro Gwis al piano, e Chiara Viola con Danilo Blaiotta al piano.

Come si accennava, ospite del primo tempo Susanna Stivali, che ha esordito rispondendo alla domanda di Gatto riguardo ad eventuali problemi legati al sessismo nel mondo del jazz; l’artista ha invitato tutti ad una riflessione, non su episodi specifici ma su un atteggiamento generale abbastanza arretrato nei confronti delle musiciste jazz in Italia sebbene oggi,  grazie ad iniziative di musicisti, organizzatori e manager si stia avviando un lento ma inesorabile cambiamento, con una conseguente apertura maggiore alle musiciste jazz. Tra gli eventi più significativi, la creazione dell’associazione Musicisti Italiani di Jazz (MIDJ) del cui direttivo Susanna fa parte, l’istituzione del Premio Gender Equality destinato al festival più impegnato dal punto di vista della parità di genere e un report annuale che descrive la situazione relativa a questa problematica con riferimento al panorama nazionale.

Conclusa la parte relativa alle questioni di genere Susanna, guidata dalle domande di Gatto, parla della sua carriera partendo dalla sua preparazione: nel raccontare dei suoi studi di pianoforte, canto classico e canto jazz ricorda come la sua formazione classica sia stata indispensabile per avere solide fondamenta su cui costruire anche il canto jazz – disciplina che aveva intrapreso di nascosto, contro il volere della sua insegnante di canto. Una particolarità che riguarda la sua formazione è che anche lei, come altre musiciste di questa serie di incontri, ha studiato presso il Berklee College of Music di Boston per un anno e mezzo, grazie al conseguimento di una borsa di studio; proprio a Boston Susanna decide di dedicarsi in toto allo studio della musica. Relativamente a quell’esperienza, ma anche ai suoi numerosi viaggi in vari paesi tra cui Sudafrica, Brasile, Thailandia, Lettonia e Mozambico, Susanna descrive una sensazione molto particolare, che si prova studiando a lungo all’estero: paradossalmente quando si è più lontani da casa, a suo dire, ci si avvicina di più alle proprie radici e alla propria terra e ci si trasforma; a questo proposito condivide un bel ricordo di una sua partecipazione ad un festival locale di musica internazionale. Tra gli insegnanti avuti in questo periodo ricorda Bob Stoloff, Mark Murphy, ma soprattutto Hal Crook, trombonista di vaglia nonché autore del libro How To Improvise, uno dei più conosciuti manuali di improvvisazione jazz in circolazione.

In seguito parla delle sue collaborazioni una volta tornata in Italia: oltre ai sodalizi  con artisti del calibro di Lee Collins, Miriam Makeba e Rita Marcotulli (già ospite di questa serie) Susanna dà particolare spazio al suo rapporto di amicizia con Giorgia, conosciuta in un campus in Inghilterra e con cui ha sviluppato fin da subito un legame grazie alla passione comune per Whitney Houston; legame che si è esteso  anche in ambito artistico, dal momento che Susanna ha scritto il brano Chiaraluce per l’amica, contenuto nell’album Stonata del 2007. Un’altra collaborazione di cui la cantante parla con affetto è quella con il Trio Corrente composto da Paulo Paulelli al contrabbasso, Fabio Torres al pianoforte e Edu Ribeiro alla batteria, trio brasiliano tra i più conosciuti nell’ambito jazz in patria per uno stile musicale che adotta una pulsazione ritmica diversa da quella tipica  brasiliana per fare spazio ad atmosfere più soavi e morbide (vincitori peraltro di un Grammy Award al miglior album di musica latina nel 2014 con Song For Maura, registrato con Paquito D’Rivera). Ed è collegandosi proprio a quest’argomento che si va a toccare l’ultimo punto della chiacchierata, ovvero l’importanza della scrittura, fondamentale a detta della vocalist che ha anche raccontato la sua evoluzione dal punto di vista della lingua usata: ha infatti iniziato a scrivere in inglese, cambiando poi registro quando è passata alla scrittura in italiano. Conclude quindi esprimendo la sua opinione riguardo alla correlazione tra sensibilità femminile e scrittura musicale, sostenendo l’effettiva inesistenza di questa dicotomia.

I brani cantati da Susanna, insieme al pianista Alessandro Gwiss, sono stati Valsinha, tratto dall’album Caro Chico; Fee-Fi-Fo-Fum dello scomparso Wayne Shorter e Decostruzione della stessa cantante, un’anteprima del suo prossimo album, in uscita a giugno in Brasile.

La seconda cantante della serata, Chiara Viola, entrata sul palco accompagnata dal pianista Danilo Blaiotta, inizia raccontando del suo rapporto con la musica, di cui si è innamorata soprattutto per quanto riguarda il canto, grazie al film Sister Act, la cui visione era una tradizione annuale nella scuola di suore che frequentava durante l’infanzia. In seguito, racconta dei suoi studi di chitarra classica e di come la sua passione per la musica degli 883 l’abbia da una parte spinta ad imparare a suonare lo strumento, e dall’altra l’abbia messa un po’ in contrasto con il suo insegnante. In seguito si iscrive alla Scuola Popolare di Musica Donna Olimpia per studiare canto, e a seguito di un concerto di Joey Garrison si innamora del jazz e decide che quella sarà la sua strada (una divertita Chiara racconta, a questo proposito, dell’indifferente reazione di Garrison all’entusiasmo della cantante). Prosegue raccontando dei tanti lavori da lei svolti al di fuori della musica: dal fare l’hostess di terra per Alitalia a lavorare in un albergo di Parigi, dove si è trasferita in seguito e dove adesso risiede.

Tornando alla musica, continua parlando del suo periodo di studio al Conservatorio Santa Cecilia, con insegnanti del calibro di Maria Pia de Vito (già anche lei ospite del ciclo) e Danilo Rea, e della tesi con cui si è laureata con 110 e lode, dedicata al silenzio. Dietro sollecitazione di Gatto, la Viola esprime una particolare ammirazione  per il “silenzio” che lei ama come una tela bianca che permette di apprezzarne i colori – in questo caso i suoni. Un dato curioso è che un’altra musicista ospite del ciclo, Miriam Fornari, aveva dedicato la sua tesi di laurea allo stesso argomento esprimendo più o meno le stesse opinioni di Chiara.

Il racconto prosegue con una artista assolutamente padrona del palco che denota una sorta di umorismo davvero apprezzabile con cui tiene desta l’attenzione del folto pubblico, chiaramente divertito e interessato. Ecco quindi l’esperienza in un gruppo di jazz tradizionale in contemporanea ad un suo tour con un complesso di free jazz – tour nato per puro caso, in cui lei era entrata in sostituzione della cantante titolare a causa di un malore di quest’ultima.

L’ultima parte della chiacchierata è dedicata ad un intenso dibattito, in cui è stato coinvolto anche Danilo, riguardo alle differenze tra l’Italia e Parigi per quanto riguarda il ruolo dei musicisti nella società: la nostra cantante racconta di un pubblico parigino educato fin da piccolo alla musica, grazie anche all’istituzione dei conservatoires, rinomate scuole di musica statali presenti in abbondanza nella Città delle Luci, una per ogni banlieue – ma più in generale grazie ad uno stato che investe di più sulla cultura rispetto a quello italiano, tanto che lì è in vigore una legge che consente ai musicisti di ricevere un sussidio statale (legge che, come fa notare Danilo, è passata in maniera molto più restrittiva anche qui in Italia); da qui è emersa un profondo disappunto da parte di Chiara nei confronti dello Stato italiano e degli organizzatori che non pagano abbastanza i musicisti, trascurando anche l’aspetto culturale.

I pezzi eseguiti da Chiara e Danilo sono stati Didsbury, tratta dall’album Until Down pubblicato da Chiara nel 2019, Lullaby for Francesco, anch’essa una toccante composizione della cantante, e una originale rielaborazione di Harvest Moon di Neil Young.

Degno di una nota a parte è stato il finale della serata: in virtù di un rapporto di amicizia che lega Chiara e Susanna, le due cantanti, accompagnate da Danilo Blaiotta al piano, si sono esibite insieme in una frizzante esecuzione di Bye Bye Blackbird.

Beniamino Gatto

Nerovivo di Evita Polidoro – Nero i giorni dispari e Vivo i giorni pari

Parlami di te. Dividi un foglio con una linea orizzontale e cospargi di nero solo la metà inferiore.
Prendi una classica Bic nera e scrivi dei tuoi beni nello spazio bianco e dei tuoi mali sopra la coltre di pece.
Non si riesce a leggere ciò che sta sotto, eppure vive, siccome esiste a prescindere dalla vista. Un disequilibrio tra la parte chiarescente dell’Io e quella che sprofonda in pullulanti atti rimossi e nascosti alla mente. Tuttavia, angolando la carta sotto la luce di una lampadina, brillano i riflessi di limpidi solchi scavati dalla penna. Il tratto disvela il suo contenuto e si avvia un processo di emersione dell’interiorità che smargina il confine netto tra due zone in antitesi, trovando una pacifica coesistenza sulla medesima superficie. “Per poi fuggire, sopra le nuvole, volare ai limiti, niente sole, nero vivo, nuvole e fuliggine.”

Un quieto urlo cantato da John di Leo, nella strofa di Nero Vivo dei Quintorigo, diventa una eco travolgente che Evita Polidoro, batterista e cantante, accoglie e trasforma nel suo primo album come band leader: Nerovivo, per l’etichetta Tuk Music di Paolo Fresu, in trio con i chitarristi Nicolò Francesco Faraglia e Davide Strangi. La carriera di Polidoro è una somma di occasioni colte e scelte per giungere a questo punto del 2024. Il triennio alla Fondazione Siena Jazz, le tournée con la cantante Dee Dee Bridgewater e Francesca Michielin e il Siena Jazz 2022 al fianco di Shai Maestro, Avishai Cohen e Matt Penman. Un’anima da rocchettara dichiarata, cui nocciolo si schiude nel privato in un ricco mondo di ascolti: pop, elettronica, trap, drill, new wave, punk, fino agli sperimentalismi di Alejandra Ghersi.
Le note incise sul calco nero dell’album sono la ricerca di un gusto timbrico-elettronico che mette i suoni su frequenze gravi in primo piano, con perpetui rumorismi e drone dei synth, riverberi, feedback e delay alla chitarra, lasciando spazio sia a ricchezze melodiche che a necessari respiri di vuoti e silenzi, un mix caro all’estetica post-rock. Una locandina che promette Thom Yorke, Alt-J, Bon Iver e Sigur Rós sul medesimo palco; special guests le limature jazzistiche e gli innesti ambient perfettamente in interplay tra le formazioni.

Commistioni che pulsano nell’eclettico batterismo della Polidoro, destreggiandosi esilmente tra rock, pop e jazz. In Black Mirror, il groove dal tiro rock si articola in un fraseggio libero ma coeso nel timing, uno stile esecutivo dei batteristi post-bop e venturi. Un moto turbinante dell’accompagnamento percussivo che si amalgama ai tratti scuri e onirici delle pennate di Faraglia e Strangi, ascrivibili a colonna sonora per l’omonima serie TV dalle tematiche distopiche. Simile attenzione ai crossover anche in Limerick, una raffinata poesia strumentale strutturata su quattro sezioni, dove cellule sonore della chitarra o della batteria in una stanza rimano per riemersione in quelle successive, in un continuo permutare della tessitura colma di impliciti da scovare con l’orecchio.

Le rifiniture jazz e le sonorità ambient spirano nelle quattro “Arie” del disco, come uno spirito errante che aleggia su tutta la tracklist. Stupefacenti nel modo in cui rovesciano il ruolo convenzionale dell’ambient da significato a significante. Infatti, Arie di pioggia ha per struttura generatrice un immaginifico paesaggio plumbeo disegnato con cupe nuvole di synth, arpeggi e frasi melodiche allacciati tra le chitarre e condite da gocce d’acqua nelle sferzate con le spazzole su piatti e pelli della batteria. Un incedere atemporale del brano in cui il cumulonembo sonoro si dirada solo verso il finale. I neri più profondi sono espressi in Arie dimenticate, un gioco d’improvvisazione tra le due chitarre che diventano l’una evanescente fantasma acustico dell’altra, e in Arie morte con i solenni rintocchi dissonanti sulle corde, simili a campane funebri. Il finale dell’album, Arie ricordate, è un risveglio della coscienza, in cui le rimembranze tratte dalle arie precedenti distendono i pulviscoli neri, senza snaturarne il senso.

In Extra-Ordinary e In Your Head, s’incastrano pezzi di puzzle in frasi verticali scritte sul foglio da cui siamo partiti, un testo che prende vita con la vocalità dolce e pulita di Evita Polidoro. Leggiamo un diario di spontanea intimità che racconta le difficoltà nel mantenere i rapporti umani a noi cari, in una quotidianità sempre meno ordinaria e il funambolico rapporto tra la realtà dentro la nostra testa e quella fuori. I sintetizzatori modulari e sampler di Ruggero Fornari e Stefano Bechini creano in questi brani un perfetto connubio con le atmosfere del trio: un tepore inquieto, così avviluppante tra suono e parola da non poterlo concepire come ossimoro. La stessa Polidoro parlando di Nerovivo spiega questa sincrasi: “Nerovivo è quello che mi passa per la testa. È il contrasto continuo nel vivermi la vita: nero i giorni dispari e vivo i giorni pari.” Pari e dispari potrebbero avere un ironico corrispettivo nella posizione della “Arie” che dividono la tracklist: prima e terza contro sesta e ottava, quali di queste metà è la parte nera del foglio? Forse entrambe?
Con Nerovivo, il trio testimonia quanto il jazz odierno sia per sua natura agglomeratore e mediatore delle forze sonore interiori ed esteriori dei musicisti. Il jazz ci ha trasmesso un’idea di approccio musicale aperto verso il superamento dei confini attraverso l’estemporaneità di stimoli globali coevi e passati, ossia suonare evitando di cristallizzarci su manifesti neromorti.

Alessandro Fadalti ©

Cinzia Gizzi e Noemi Nuti entusiasmano il pubblico: Ripresa alla Casa del Jazz la fortunata serie L’Altra Metà del Jazz condotta e ideata dal nostro direttore Gerlando Gatto

Dopo un’attesa di circa due mesi e mezzo, la fortunata serie L’Altra Metà del Jazz, a cura di Gerlando Gatto, è ricominciata alla Casa del Jazz con due valide artiste: la pianista Cinzia Gizzi e l’arpista e vocalist Noemi Nuti.
La prima parte della serata è dedicata appunto a Cinzia Gizzi, la cui intervista inizia con una riflessione sull’assenza del canto jazz nel Festival della Canzone Italiana di Sanremo, conclusosi pochi giorni prima dell’evento: riflessione da cui scaturisce l’amara considerazione di un confinamento del jazz in certe nicchie e ambienti definiti, nonostante  l’attuale tendenza alla contaminazione tra generi.

Parla poi della sua carriera: partendo dal primo incontro con la musica che avvenne per caso durante i suoi studi universitari in una facoltà impostale dalla famiglia . Ma ben presto la musica ebbe la meglio e nell’arco di poco tempo si andò delineando la personalità di una grande artista che  proseguì con il suo rapporto con il piano classico, che lei definisce fondamentale per una buona formazione jazzistica ma non indispensabile. Sulla musica classica tornerà in seguito, esprimendo la sua preferenza, tra i compositori, per Bach, genio capace di donare equilibrio a chi lo ascolta. Enumera quindi alcune delle sue collaborazioni più significative e di alto profilo come Harry “Sweets” Edison, Joe Newman, Sammy Davis e Tony Scott, dei quali ricorda con grande affetto l’aspetto umano oltre a quello artistico. E si arriva così  al 1988, anno della svolta per la sua carriera: sarà infatti quello l’anno in cui vincerà una borsa di studio, grazie ad una sua amica che la convinse a presentare la domanda, che la porterà negli USA, a Berkeley; Cinzia ricorda questi tempi negli Stati Uniti come duri ma molto soddisfacenti. Altri incontri e collaborazioni l’hanno segnata: nello specifico con Chet Baker, Dizzy Gillespie e in particolare Jaki Byard, con cui ha studiato metodologia a seguito di un incontro presso il Mississippi Jazz Club, allora gestito dai fratelli Toth.
Racconta poi del suo ritorno in Italia e della pubblicazione del suo primo disco Trio and Sextet, nel 1991, con la collaborazione di musicisti come Flavio Boltro alla tromba, Piero Odorici al sassofono, Giovanni Tommaso al basso, Gianni Cazzola alla batteria e Mario Migliardi al trombone, e della sua carriera didattica di cui ricorda luci e ombre: tra le prime ricorda la soddisfazione dell’insegnamento, sottolineandone tuttavia la complessità; tra le seconde illustra le difficoltà affrontate a causa di un sistema che imponeva al detentore della cattedra unica l’insegnamento di sette materie in tutto il semestre ed anche del fatto che, in quanto donna, ha dovuto dimostrare più degli altri colleghi maschi. Da questo complessivo bagaglio di esperienze le deriva la forza e la capacità di scrivere due libri dedicati agli “Arrangiatori Jazz”.
Toccando infine gli aspetti più recenti della sua carriera, ricorda il premio alla carriera vinto nel 2017 nell’ambito del Premio Internazionale Profilo Donna, grazie alla segnalazione di Patricia Adkins Chiti, e conclude con una piccola riflessione sulla quasi totale assenza di jazz nella Rai, collegandosi alla prima domanda fatta durante l’incontro da cui si evince, secondo Cinzia, che i giovani d’oggi vengono bombardati da un determinato tipo di musica, mentre dovrebbero avere la possibilità di scegliere la musica che amano e la Rai – servizio pubblico, non dimentichiamolo – dovrebbe dare modo ai suoi ascoltatori, che pagano un canone, di seguire ogni genere musicale.
Come al solito non sono mancati interventi musicali: in questo caso Cinzia è stata accompagnata dal contrabbassista Pietro Ciancaglini e dal batterista Marco Valeri, e insieme hanno suonato I Keep Love in You di Bud Powell, Subconsciously di Lee Collins e Te Vojo Bene Assaje.

Dopo il consueto intervallo di cinque minuti, la serata è ripresa con l’arpista e vocalist Noemi Nuti che purtroppo, a causa di un problema tecnico con l’arpa, si è presentata solo nelle vesti di cantante, accompagnata dall’eccellente pianista Andrew McCormack, compagno non solo sulla scena ma anche nella vita.
La vita di Noemi è caratterizzata da numerosi viaggi e contatti con diverse culture: nasce infatti a New York da famiglia italiana e ci rimane fino agli otto anni; da quel momento si trasferisce in Italia dove passerà la tarda infanzia e l’adolescenza, per poi trasferirsi a Londra, dove tuttora risiede. Già fin dall’età di otto anni Noemi inizia a studiare l’arpa, di cui si è innamorata grazie alla copertina di una rivista che la raffigurava in tutto il suo splendore; comincia quindi con lo studio dell’arpa classica e folk (soprattutto celtica) fino all’ottavo grado, ma grazie al contatto con la musica di Kurt Rosenwinkel ed Ella Fitzgerald decide di passare alla musica jazz: ed è in questo ambito che nel 2012 si diplomerà al Trinity College di Londra, studiando con insegnanti del calibro di Anita Waddell, John Hendrix e Sammie Purcell.
Nella sua musica risulta evidente un vivo interesse per la musica brasiliana, soprattutto per l’unione, da lei illustrata, tra ricchi ritmi e melodie leggere, semplici solo all’apparenza ma che in realtà nascondono una complessità disarmante: questa passione la porterà a formare una band di samba che arriverà fino al celeberrimo Carnevale di Rio de Janeiro. A proposito del Brasile, Noemi lo descrive come un posto molto particolare: un luogo isolato e un porto allo stesso tempo, contemporaneamente un melting pot e un luogo legato alla propria cultura.
Un altro luogo di cui parla con molto affetto è la sua residenza attuale, ovvero Londra: facendo un paragone tra la scena musicale londinese e quella italiana Noemi nota un attaccamento al passato e alle tradizioni molto più presente in Italia che nel Regno Unito dove, al contrario, osserva una maggiore apertura all’innovazione e attenzione da parte del governo nei confronti delle arti. Sempre a proposito del jazz inglese, descrive l’influenza subita dalla musica sudafricana e le differenze dei ritmi afro-jazz presenti nelle varie regioni del mondo: da una chiacchierata con il pianista panamense Danilo Pérez nasce una maggiore attenzione alle casse e ai bassi nelle regioni del Sud America, mentre, al contrario, una predilezione nei confronti dei piatti e delle frequenze alte nel Regno Unito; a questo proposito ha citato la cantante britannica Norma Winstone e come un suo brano, Azimuth, sia tornato alla ribalta grazie ai celebri rapper Drake e Yeat e ai produttori Bnyx e Sebastian Shah, che l’hanno campionata nel loro  IDGAF, uscito nello scorso ottobre. Conclude infine il suo intervento con un ulteriore elogio nei confronti di Londra, ovvero di come la scena inglese permetta un’ottima formazione a livello professionale e di affrontare a ogni sorta di pubblico e ambiente.
I brani proposti con il pianista Andrew McCormack sono stati “For What I See,” composizione originale di Noemi contenuta nel suo disco ‘Venus Eye’ uscito nel 2020 e ispirata da “Treme Terra” di Flora Purim e Airto Moreira con Joe Farrell (il disco si chiama “Three-Way Mirror”). A questa prima, trascinante esibizione hanno fatto seguito “Disfarça e Chora” di Cartola e “I Can’t Believe You’re In Love With Me” di Jimmy McHugh, interpretato anche da Billie Holiday.
In quanto a pubblico la serata è stata un successo, facendo registrare non solo un numero di spettatori tale da riempire quasi l’intera sala ma anche un entusiasmo e un gradimento che chi vi scrive non può che condividere.

Il prossimo appuntamento è in programma martedì 20 Febbraio alle 21 con Susanna Stivali e Chiara Viola. Clicca qui per info&tickets

Beniamino Gatto

Miles Davis: basta un istante per spogliarsi, in una nota di Blue in Green

Si può raccontare un artista in una sola nota? Un fantasioso viaggio nel sound di Miles Davis e la sua rivoluzione musicale, cercando la risposta attraverso la prima nota di tromba di Blue in Green del celebre album Kind of Blue del 1959. Un mix di interviste, aneddoti, storia, teoria musicale e arte per riflettere sul valore del tempo in musica nella nostra vita.

Premere il tasto pausa e poi rewind, riavvolgere un nastro o spostare la puntina di un vinile. Tutte azioni che sembrano scontate, ma sono quei gesti quotidiani più simili all’esperienza di un viaggio nel tempo. Possiamo ascoltare e riascoltare un brano o un singolo passaggio all’infinito fino a stufarci, consumando compulsivamente il tempo del disco, incidendo un solco nella nostra memoria percettiva. Vivere la musica in questo modo significa riconoscere l’eccezionalità di alcuni attimi, un impulso simile al voler scattare una fotografia che immortali un frammento di realtà da poter conservare o guardare sotto una nuova luce. Coloro che lo fanno sentono forse la necessità di tornare a quel singolo momento, per le vibrazioni che si trasformano in sensazioni corporee, per le sinestesie fantasiose che crea o per un ricordo intimo a cui lo leghiamo. Pierre Boulez nei Relevés d’Apprenti, pubblicati nel 1962, parla della concentrazione sull’istante sonoro che si manifesta nella musica di Debussy; uno tra i tanti è l’iconico ingresso dei fiati e dell’arpa nel Prélude à l’après-midi d’un faune, un momento di estasi meravigliata tale da paralizzare il tempo, con l’energia che si crea nel passaggio dal suono flebile e ammaliante del flauto del fauno all’ingresso degli altri strumenti, restituendo la sensazione di un pacifico mondo bucolico nascosto da una spessa tenda. Eppure la musica è l’arte del tempo irreversibile, sembra strano poter parlare di paralisi del tempo e ammirazione di un singolo istante di musica. Per gran parte del ‘900, il filosofeggiare sulla questione temporale ha permesso ai compositori di rimettere in discussione il concetto per cui un brano scorre e nulla può fermarla o riportarla indietro. Una marea di pensieri trasfigurati in opere che giocano viaggiando nel tempo, creando stasi, rallentamenti e dilatazioni; parallelismi di flussi che scorrono l’uno sopra l’altro, riavvolgendosi, conglomerandosi o disperdendosi in molteplici direzioni, un’idea tattile del tempo che ritroviamo ad esempio nel compositore Brian Ferneyhough. Come ascoltatori questo ci tocca nel profondo, perché siamo abituati a godere all’ascolto di una successione di eventi, la canzone è una narrazione che deve scorrere verso un punto preciso, la freccia è sempre rivolta da sinistra verso destro, guidandoci tortuosamente a un climax e a un finale. Un ragionamento sullo spazio e il tempo del suono è qualcosa che solo in apparenza si situa lontano dalla nostra vita di tutti i giorni. Tutto questo però cos’ha a che vedere con Miles Davis? Tengo in macchina un talismano, un disco dal titolo “1959 L’Anno che Cambiò il Jazz”. Un anno in cui sono usciti degli album che hanno effettivamente cambiato la storia del jazz. Davis fa parte del novero di questi musicisti rivoluzionari, tuttavia raccontarlo in modo alternativo è sempre difficile vista la mole di parole già profuse da molti. La provocazione sul tempo diventa quindi un aggancio spaziale dal sentore di fisica quantistica, l’obiettivo è racchiudere qualcosa di gigantesco in un oggetto minuscolo: una sola nota. Il Mi di Tromba tra 0:18 e 0:21 secondi nel brano Blue in Green, tratto dall’album Kind of Blue del 1959 è il contenitore su cui sperimentare, raccontando la vita e l’estro artistico del trombettista attraverso alcune tappe e stimoli creativi che confluiscono verso questo istante tridimensionale. Per capire cos’abbia di così particolare questa nota bisogna indossare varie lenti, scegliendo progressivamente quella più graduata in base a cosa si sta cercando e cosa si sceglie di osservare.

Se si parla di Miles si pensa ad un personaggio arrogante, burbero, cinico, assoggettatore, scortese, dal sorriso nascosto dietro labbra serrate o dal bocchino della tromba. Convive con una timidezza interiorizzata tale da creare delle insormontabili barriere difensive, un tratto che fa parte di quelle menti annoiate dall’ordinario, instancabilmente alla ricerca di una via d’uscita dai canoni convenzionali. Gli venne affibbiato addirittura il soprannome di Prince of Darkness per questo suo carattere, ironicamente proprio nel periodo in cui si distingueva per il look flamboyant e lo stile di vita un po’ posh. Un profilo psicologico che diventa curioso se si pensa alla sua provenienza. Cresce nell’Illinois a East St. Louis, secondo di tre fratelli in una famiglia in cui il padre lavora come dentista e la madre è violinista e insegnante di musica. Per gli anni ‘20 questo implicava un tenore di vita tipico della black bourgeoisie, ma in un’America dove il benessere economico rappresenta uno status sociale, l’afroamericano benestante non era esente dal razzismo e Miles ne è stato a lungo vittima. Vivere in questo paradossale contrasto socioeconomico potrebbe essere sufficiente per comprendere solo quale sia una delle tante scintille che portano a un propulsivo bisogno di cambiamento e ricerca creativa di nuove soluzioni espressive. Non a caso da adolescente negli anni ‘40 abbraccia la filosofia dei boppers e degli hipster, ripudiando quel mondo di modelli valoriali borghesi che ha assorbito dalla sua famiglia. Sorge spontaneo chiedersi in quale modo il suo vissuto abbia stimolato l’evoluzione del suo sound indistinguibile, quanti semi bisogna piantare perché cresca una pianta di Miles?

Indossando degli occhiali che ci danno il senso di profondità di campo possiamo andare oltre la cornice del quadro che è la sua vita. Allora guardiamo al ramificato inviluppo di interviste, pareri, aneddoti e racconti scritti da critici, giornalisti, biografi, storici, produttori e musicisti con cui Davis ha suonato. Timbro etereo e raffinato, grande lirismo, uso di sordine, come se dalla campana uscisse una nebbia: queste parole sono la sintesi di aggettivi provenienti da diverse penne usate per descrivere il suono della sua tromba dal ’58 in poi. L’idea della nebulosità è suggestiva e ben si sposa con la sua voce più iconica, quella irrimediabilmente divenuta rauca e arrugginita dopo un’operazione per rimuovere dei noduli alle corde vocali nel ‘57. In particolare, possiamo già sentire nelle ballad come My Funny Valentine e It Never Enter My Mind, registrati nel ’56 per gli album Cookin’ e Workin’, un’ombra sonora che sembra proiettarsi inesorabilmente verso quella foschia magica della nota di Blue in Green. Questo è un Miles molto sicuro e chiuso nelle sue idee siccome è arrivato al punto d’illuminazione tanto atteso che connette passato, presente e futuro del jazz. Si rinchiude nello studio di registrazione formando un sestetto eccezionale, composto da musicisti ormai punti cardinali della sua formazione, John Coltrane al sassofono e Paul Chambers al contrabbasso a cui si aggiungono il contraltista Cannonball Adderley, Bill Evans al piano e Jimmy Cobb alla batteria. Il gruppo si arma solo di qualche canovaccio e foglietto su cui erano abbozzate delle note su cui improvvisare, pronti a mettere in vinile, nero su nero, quella che era la nuova idea di sound davisiano, Kind Of Blue. Si legge spesso di come quest’album sia stata la prima opera in cui il trombettista sconquassa il jazz approcciandosi alla musica modale. Una visione un po’ miope nel momento in cui scopriamo come la musica modale in Davis sia solo un tassello nel macrocosmo di influenze e scoperte che ha fatto nella vita e soprattutto di come la bussola di questi cambiamenti punti sempre verso quel sound che tanto fa parlare di lui. Allontanando lentamente il fuoco del nostro sguardo verso il passato, troviamo un’intervista con Nat Hentoff del dicembre del ’58, in cui Davis disse: “Quando Gil [Evans] compose l’arrangiamento di “I Love You Porgy” mi scrisse solo una scala. Niente accordi, è questo dà molta più libertà e spazio per sentire le cose. Quando suoni in questo modo puoi andare avanti per sempre. Non devi preoccuparti dei changes e puoi fare molto di più con la linea melodica. Quando ti basi sugli accordi, sai che alla fine delle trentadue battute l’accordo è concluso e non puoi far altro che ripetere ciò che hai fatto con alcune variazioni”. Un altro esempio lo troviamo nelle parole del produttore discografico George Avakian, che nel ’56 ha portato Bernstein e Miles a collaborare per un arrangiamento stile cool jazz del brano Sweet Sue nell’album in uscita What is Jazz? “Quello che fece quando suonò Sweet Sue era una breve introduzione formale, prima di scivolare nell’improvvisazione totale, estremamente libera. È stata una svolta improvvisa in cui ha semplificato la struttura accordale della melodia, si è più o meno persa l’armonia della canzone. Quella potrebbe essere stata la scintilla da cui è scaturita la qualità fluida del fraseggio in Kind of Blue”.

Il punto di arrivo di questo decalogo lo troviamo invece nelle parole di George Russell quando racconta come “Ho percepito che Miles volesse trovare un nuovo modo di rapportarsi agli accordi, e il pensiero di come potesse arrivarci è qualcosa su cui rimuginava costantemente. Ho parlato con Miles delle scale modali sul finire degli anni ‘40 e mi domandavo come mai ci stesse mettendo così tanto, ma quando ho sentito So What ho capito che li stava usando”. Viene spontaneo pensare che Miles si sia lasciato ispirare dal famoso libro di Russell Lydian Chromatic Concept of Tonal Organization, pubblicato nel’53, un testo che è stato consumato anche dai jazzisti dell’epoca. La corrispondenza nelle date darebbe senso a un brano come Swing Spring del ’54 in cui c’è una chiara costruzione modale negli accordi e nei solo. Tuttavia, le parole di Russell colpiscono se si pensa come Miles parlasse dei modi in un’epoca non sospetta come gli anni ’40. Una decade in cui è passato nel giro di poco da studiare alla Juilliard nel ‘44, quello che per lui era l’istituto adatto per diventare un professionista, ma trasformatosi presto in un momento di noia che interrompeva la sua divertente partita a nascondino per i locali della 52esima strada alla ricerca di Gillespie e Parker, alla vittoria di questa partita che gli è valsa la collaborazione assidua proprio con Bird l’anno dopo. Arrivando poi al ’48, quando iniziò a suonare con la cerchia di musicisti che gravitava attorno al compositore Gil Evans, tra cui Lee Konitz, Gerry Mulligan e John Lewis. Questo scambio tra i due avviene quindi nel periodo delle prime espressioni del cool jazz, in cui Davis comincia a levigare un suono più personale, in un lirismo assorto concedendosi qualche accenno di vibrato, una poetica che è anche riscoperta della sua adolescenza, precisamente in quell’ispirazione nata dal legame col trombettista Clark Terry. Questo riallacciarsi al passato non sorprende siccome la seduzione per il ritmo aggressivo e frenetico del Bebop è durato poco a conti fatti. Per molti jazzisti la via d’uscita da quello stagnante linguaggio incentrato sui changes si è costruita anche attraverso quei nodi tra passato e presente musicale nelle cui fibre si celano quei what if che aspettano l’attimo propizio per diventare compiuti. Altro motivo d’ispirazione verso la musica modale si riscontra quando riflettiamo sulla natura della grande mela: una troposfera culturale dove la musica fluttua tra cielo e terra e l’ossigeno che si respira è un composto di musica latino-americana, spagnola, egiziana, medio-orientale, indiana e d’ogni altro folklore immaginabile… una miscela di accenti sonori che contemplano sistemi scalari alternativi a quelli della musica occidentale. Per Miles ogni incontro con un musicista e ogni concerto del periodo newyorkese potrebbe esser stato lo spunto primigenio. Il trombettista si sofferma poco su questioni tecniche quando parla di Kind of Blue, invece nelle intenzioni risulta trasparente. Perché questo suo excursus storico ci mostra come la modalità sia un mero tramite per raggiungere la sua idea di spazio in musica, per cui il musicista, potendo andare oltre il rapporto armonia-melodia, è in grado di contemplare uno svuotamento di significato nella dimensione verticale e riempiendola di una melodia orizzontale che sgorga con maggior libertà, raffinando nel linguaggio l’intensità e soprattutto il timbro.

Miles parla nello specifico di “suonare lo spazio” con Gil Evans, riferendosi alla musica del nuovo trio del pianista Ahmad Jamal con Israel Crosby al contrabbasso e il batterista Vernel Fournier. Questa idea dello spazio ci spinge a ritornare dentro la cornice del quadro, indagando il tempo con degli occhialini chirurgici, fino a usare il microscopio di un biologo per indagare quella che il compositore Gérard Grisey chiamava la vita interna del suono. Blue in Green è solo in apparenza un brano semplice, se guardiamo alla sua struttura possiamo immaginare la sfida non indifferente per il sestetto a improvvisare così liberamente su una infrequente forma di dieci battuti. Improvvisazioni che diventano ancora più affascinanti se sentiamo con quanta frenesia il ritmo armonico muta in raddoppi o dimezzamenti all’alternarsi dei solisti. Sull’armonia di questo brano sussistono opinioni divisive, a ben guardare si possono sentire alcuni escamotage che non lo rendono modale in senso stretto, personalmente mi trovo in disaccordo con chi sostiene sia sufficiente a detrarne la natura modale. Per comprenderla bisogna spostare il punto focale dall’analisi armonica e concentrarsi su quanto la melodia della tromba di Miles si esprime in un fraseggio nei cui respiri non si trova mai quella nota che crea un appoggio o una chiusura coerente alle funzioni armoniche sottostanti. Si percepisce una gran tensione quando si scontra con il pianoforte di Evans, che dà l’impressione di dover inseguire le note di Miles dando una risoluzione armonica a un’idea melodica che è già passata, svanita nell’aria. Questo effetto crea una forma di dialogo infinito, precludendo alla narrazione una proiezione uditiva verso un finale. Esiste quindi quello che si chiama un pensiero di circolarità in Blue in Green, un termine usato da Herbie Hancock e riportato dai compositori e teorici musicali Henry Martin e Steve Larson per descrivere questa peculiarità strutturale del brano. L’idea circolare è coerente a questa interpretazione di una corsa sfuggente della melodia alla ricerca di un centro tonale di gravità permanente, isolato rispetto al basso e al pianoforte, due strumenti che circumnavigano attorno a progressioni armoniche in tonalità ora di Re minore ora di La minore. Ma quindi è modale o no? La prima nota è la dichiarazione d’intenti sufficiente a far cadere ogni indugio, un Mi naturale sopra un accordo di Sol minore undicesima, un colore limpidamente dorico. Uscendo dai binari della teoria, è indubbio quanto questa nota si presenti come un cardine percettivo topico, viene suonata con la stessa delicatezza della pennellata di un pittore impressionista che disegna un paesaggio in cui il tempo si è paralizzato, ma nelle sfumature e nelle ombre possiamo vedere una scena che scorre nella nostra immaginazione. Utilizzando il microscopio del sonogramma è possibile amplificare questa retorica coloristica, guardandola nella sua composizione cellulare.

In termini tecnici questo è uno spettro sonoro. Il suono nel suo vibrare genera frequenze, rappresentate come stringhe la cui lunghezza è data dalla nascita e morte della loro emissione. Quanta più energia hanno queste frequenze tanto più le stringhe brillano di una luce intensa, restituendoci l’idea visiva di quanto un singolo suono sia in realtà costellazione eterocromatica di una moltitudine di altre note, creando uno spazio acustico che alle nostre orecchie si trasforma in timbro strumentale, ma a un livello più profondo può addirittura restituirci la firma distintiva e personale di un’artista. Possiamo in soldoni vedere il Mi di Blue in Green in tutta la sua intima vita interna, in rosso è contrassegnata la nota reale che suona Miles, mentre in blu vediamo quanta energia ci sia fino alle prime cinque parziali armoniche, le cosiddette stringhe, fino al Mi due ottave sopra. Questa energia resta vivida anche nelle parziali superiori rappresentate nel rettangolo giallo dell’immagine, dove vediamo la brillantezza del suono di Miles nelle frequenze più acute, quelle evanescenti all’orecchio. Sempre nella parte in giallo è interessante vedere l’effetto che crea la sordina Wah Wah per tromba che apre a ventaglio il suono, strato dopo strato gli attacchi delle parziali si disvelano, come se venissero tolte una ad una delle lenzuola sottilissime sulla nudità di una nota a prostrarsi in tutta la sua fragilità proprio come l’animo stesso di Miles. Questo sonogramma restituisce un corrispettivo tra gli aggettivi usati per descrivere la percezione del sound di Miles attorno al ’59 e la sua reale composizione fisica, a dimostrazione dell’eccezionalità esecutiva di questa nota che può quindi segnare un sunto e punto d’arrivo nel lungo percorso dell’artista. Se questa corrispondenza tra scienza e immaginazione non fosse un setting ancora abbastanza suggestivo e mistico, allora pensiamo a cosa succede prima di questa nota. Possiamo sentire in introduzione un accompagnamento sofisticato, misterioso ma dalla grande serenità; il contrabbasso di Paul Chambers è avvolgente nell’inseguire il movimento armonico del pianoforte di Bill Evans. Una danza tra i due strumenti che creano un’ambiente dolce e rilassato, trovando una conclusione amara sull’ultimo accordo che ci lascia in sospeso come fosse una domanda dubbiosa nei confronti di questo piacere spensierato e cullante. La tromba di Miles è la risposta, con questo suono mesto che cambia irrimediabilmente l’atmosfera del brano. Il significato del titolo Blue in Green alla fine è simboleggiato dall’arrivo di questo istante sonoro preso in esame: una speranzosa pace che lascia spazio a una malinconia dal colore blu. Quante volte nelle nostre vite abbiamo provato questo? Parlo della gioia tipica di un traguardo raggiunto dopo un lungo viaggio verso quel verde, ma proprio quando ci si ferma per goderne, incombe la malinconia e il vuoto esistenziale con quella sua aura blu che risuona proprio come questo maledetto Mi, e in quell’istante il tempo del vivere si paralizza. Questa nota, oltre ad allacciare passato e presente di Miles, diventa profetica nel suo significato, perché questa sensazione assomiglia molto a come viene dipinto il trombettista poco dopo nel ’61. Un momento di apice della sua carriera, in cui decide di allontanarsi dalla scena per un paio d’anni, una vita di rendita in forza della fortuna monetaria accumulata, potendo godere di un’esistenza domestica nel proprio focolare. Esagerando con la fantasia potremmo prendere Miles e Monet, mettendoli seduti comodamente su due poltrone in uno di quei salotti d’intellettuali parigini che piacevano al trombettista quando andava in Francia. Una terra che per lui è croce e delizia, dal fiasco della sua prima esibizione europea nel tramonto degli anni ’40 che lo ha portato a gettarsi nell’abuso delle droghe, all’amore irrefrenabile che ha trovato in Jeanne Moreau, attrice nel famoso film noir Elevator to the Gallows del regista Louis Marie Malle, per cui Miles ha improvvisato nel ‘58 in presa diretta l’intera colonna lasciandosi suggestionare dallo scorrere delle scene su grande schermo. Chissà cosa si sarebbero detti il pittore e il musicista se si fossero scambiati quattro chiacchiere ascoltando Blue in Green mentre guardavano a uno dei quadri della serie delle ninfee.

Claude Monet scrisse “Un’istante, un aspetto della natura contiene tutto” riferendosi ai suoi tardi capolavori che ha dipinto, dal 1879 alla sua morte, nella sua dimora a Giverny. Frase azzeccata se la colleghiamo al valore d’istante che possiede questa nota rispetto al dipinto di Claude Monet del 1907: uno squarcio di blu tenue che dissipa il verde attorno fino a liquefarsi. Una scena che si mette in moto da sola al primo sguardo. Questo quadro è un’analogia che si collega per associazione visiva, alle frequenze del sonogramma e per sinestesia alla sensazione intima del Blue in Green riassunta in quel Mi. Addirittura, potremmo dire che è una summa della storia del trombettista che con il movimento degli impressionisti ha degli incroci; in fondo anche i pittori dell’epoca cercavano uno stile personale per uscire dallo stagnante linguaggio del realismo in pittura, così come Miles ha trovato in un sound in perenne evoluzione, l’essenza della sua rivoluzione del linguaggio jazz. Qualcosa di enorme che ben calza dentro qualcosa di così piccolo come una singola nota.

L’appello in chiusura è quello di immergersi in questa nota al punto tale che il frullato di parole lette non sia più qualcosa di scritto, ma venga generato in un istante come un bagliore dalla propria mente al solo ascolto di quei pochi secondi di Blue in Green. Questo è l’effetto che provo ogni volta che la riascolto e il motivo per cui quel Mi di tromba è la mia nota prescelta a riassumere l’essenza di Miles Davis. Sarei curioso di chiedere ad ogni persona quale sia il suo istante in musica preferito, quale arista, quale canzone, quale nota sceglierebbero e perché. In caso fatemelo sapere sarei ben curioso di leggere e condividere questa esperienza musicale.

Alessandro Fadalti

I nostri CD: Buone Feste con tanta buona Musica e oggi… non solo Jazz!

Heinz Holliger, Anton Kernjak – “Eventail” – ECM New Series
Consentitemi di aprire questa rubrica in modo assolutamente nuovo, vale a dire con una sortita nel campo della musica classica. Lo faccio perché questo album mi ha semplicemente incantato e credo valga la pena di essere ascoltato soprattutto da quanti, come me, amano la musica francese dei primi anni del secolo scorso incentrata sull’oboe. In programma musiche di Messiaen, Koechlin, Jolivet, Ravel, Debussy, Milhaud, Saint-Saens, Casadeus. L’ oboista e compositore svizzero Heinz Holliger (classe 1939) è considerate uno dei migliori oboisti al mondo particolarmente versato nel genere che si ascolta in questo album; al suo fianco Anton Kernjak, che ebbe modo di collaborare con Holliger nell’album “Aschenmusik” del 2014, mentre l’arpista francese Alice Belugou l’ascoltiamo in un solo brano di Andre Jovilet “Controversia” per oboe e arpa. L’ascolto è impreziosito dal libretto che accompagna il CD in cui Holliger spiega perché ha scelto questi brani illustrandone la valenza storica e artistica.

Veljo Tormis – “Reminiscentiae” – ECM New Series
Un’altra prestigiosa realizzazione di ECM nella collana New Series. Protagonista la musica di Veljo Tormis (1930-2017) considerato a ragione uno dei più grandi compositori corali contemporanei nonché uno dei più importanti compositori del XX secolo in Estonia. Nell’album sono contenute memorie che evocano scene dell’infanzia di Tormis in un alternarsi di situazioni sonore che vedono protagonisti ora il coro e i due soprani più un recitativo, ora il coro e l’orchestra, ora il mezzo-soprano Iris Oja e l’orchestra, ora il coro, il soprano Maria Valdmaa ora alcuni solisti come Indrek Vanu alla tromba, Madis Metsamart alle percussioni e Linda Vood al flauto. L’album assume una particolare rilevanza anche perché è stato personalmente curato da Tõnu Kaljuste che per decadi è stato uno dei più stretti collaboratori di Tomis e che nell’occasione, oltre a dirigere la Tallinn Chamber Orchestra ha scelto personalmente il materiale da far ascoltare, ivi compreso quel ‘The Tower Bell in My Village’ che Tormis compose nel 1978 appositamente per un tour che Kaljuste effettuò di lì a poco. Insomma un album in cui Kaljuste riflette tutto il suo amore, la sua ammirazione verso il compositore scomparso la cui musica non può che affascinare ad onta degli anni che passano.

Anthony Burgess – “Complete Guitar Quartets” – Naxos
Il compositore inglese Anthony Burgess (1917-1993) fu personalità poliedrica, capace di eccellere sia nella letteratura sia nella musica. In quest’ultimo campo compose una serie di quartetti per chitarra che vengono qui presentati in edizione integrale, unitamente ad altre due composizioni, di cui una ‘traditional’ e le altre due dovute rispettivamente all’estro di Gustav Holst e Car Maria von Weber. Tornando ai quartetti di Burgess, composti negli anni ’80, la cosa strana è che Anthony mai ha suonato la chitarra eppure in molte sue novelle il protagonista principale è proprio un chitarrista. Il primo quartetto rilevante, “Quatuor pour Guitares”, completato nel 1986, fu scritto per l’ Aighetta Quartet, e fu eseguito per la prima volta presso l’ Academié Rainer III di Monaco; sottotitolato ‘Quatuor en hommage a Maurice Ravel’ evidenzia una forte influenza della musica francese. Come già accennato, oltre ai quartetti in questo album compare “Trois Morceaux Irlandais” ovvero tre trascrizioni e arrangiamenti di altrettante arie Irlandesi che evidenziano le grandi capacità di Burgess anche come arrangiatore. Un’ultima ma non secondaria notazione: nell’album a suonare la musica di Burgess è chiamato il Mēla Guitar Quartet ovvero Matthew Robinson, George Tarlton, Daniel Bovey e Jiva Housden.

Torniamo sempre con ECM sul terreno jazzistico

Wolfgang Muthspiel – “Dance of the Elders” – ECM
Il chitarrista Wolfgang Muthspiel si ripresenta alla testa del suo trio con Scott Coley al contrabbasso e Brian Blade alla batteria per bissare il successo ottenuto con il precedente album “Angular Blues” del 2018. Ancora una volta la musica dell’artista presenta molteplici riferimenti sia alla musica folk sia alla musica classica solo che, in questa occasione, abbiamo ascoltato un Muthspiel più attratto dalle linee melodiche il più delle volte perfettamente riconoscibili. Di qui un fraseggio sempre originale, misurato, tecnicamente ineccepibile e sempre molto, molto elegante. Dei sette brani presentati nell’album (tutti a firma del leader eccezion fatta per “Liebeslied” di Kurt Weill e Berthold Brecht e “Amelia”) il brano che meglio esemplifica quanto fin qui detto è proprio il conclusivo “Amelia”: si tratta di una splendida ballad di Joni Mitchell che il trio reinterpreta con rara delicatezza e con un linguaggio prettamente jazzistico a conferma, se pur ce ne fosse bisogno, che il jazz si identifica non già per quel che si suona ma per come lo si suona.

Maciej Obara Quartet – “Frozen Silence” – ECM
Maciej Obara è un sassofonista polacco (alto e tenore) che ha già alle spalle una fortunata carriera sia come leader sia come sideman in altri gruppi. Con questo nuovo album è alla sua terza realizzazione per ECM e si ripresenta alla testa del suo collaudato quartetto che ha già alle spalle una lunga storia. Al piano troviamo Dominik Wania anch’egli polacco, un altro grande talento che si è incontrato con Obara una decina di anni fa in un ensemble di Tomasz Stanko. Da 2012 i due sono stati raggiunti da una sezione ritmica norvegese composta dal bassista Ole Morten Vagan e dal percussionista Gard Nilssen. Sette delle otto composizioni dell’album sono state scritte durante il periodo della pandemia e quindi riflettono al meglio il lato interiore di Maciej Obara. Di qui un’atmosfera sempre assai meditativa, alle volte velata da una certa malinconia, il tutto declinato con un linguaggio pacato, mai sopra le righe, che non vuol affermare alcuna validità tecnica ma solo rispondere appieno a quelle che sono le intenzioni comunicative del leader. Molto interessante anche il gioco sulle dinamiche che esplicita al meglio l’empatia tra i membri del quartetto.

Sinikka Langeland – “Wind And Sun” – ECM
Undici composizioni della vocalist norvegese Sinikka Langeland su testi del poeta Jon Fosse più un brano scritto sempre dalla Langelad ma questa volta in collaborazione con Geirr Tveitt. Ad accompagnare la leader un quartetto composto da Trygve Seim – già collaboratore della stessa Langeland – al sax tenore e soprano, Mathias Eick alla tromba, Mats Eilertssen al contrabbasso e Thomas Stronen alla batteria, musicisti tutti ben noti a chi segue il jazz nordico. L’album rispecchia ancora una volta quelle che sono le coordinate stilistiche della Langeland, vale a dire una musica essenziale, senza fronzoli, che trae i suoi motivi ispiratori il più delle volte direttamente dal ricco patrimonio folkloristico nonché dagli input che provengono direttamente dalla natura. Non è certo un caso che la vocalist abbia messo in musica i versi di uno dei più importanti poeti e drammaturghi contemporanei come Jon Fosse –  anch’egli norvegese – conosciuto come “il nuovo Ibsen”. Ma chi si aspettasse un album dalle sonorità arcaiche rimarrebbe deluso in quanto il gruppo si muove invece su elementi di assoluta modernità sorretti da grande preparazione tecnica e da un idem sentire con la vocalist. Sentite, ad esempio, come il sax (ora soprano ora tenore) di Seim sottolinei alcuni passaggi che il kantele di Sinikka continua ad eseguire in sottofondo con una stratificazione di suoni tutt’altro che banale.

Restiamo in Norvegia con le produzioni Losen

Sara Calvanelli, Virginia Sutera – “Ejadira” – Losen
La Losen si va caratterizzando sempre più per la presenza nel suo catalogo di musicisti non norvegesi tra cui parecchi italiani. Questa volta è il caso di un duo al femminile composto da Sara Calvanelli, accordeon, indian harmonium, loops, cojo, voce e Virginia Sutera, violino. Davvero strana la genesi di questo album per cui vale la pena raccontarla brevemente. La Calvanelli è fisarmonicista arguta che ama sia la scrittura sia la libera improvvisazione; dal canto suo Virginia Sutera è violinista anch’essa attenta all’improvvisazione ma soprattutto all’interazione tra la musica e le altre arti. Siamo nell’autunno del 2020, tempo di lock-down. Le due musiciste decidono di incontrarsi seppure solo per corrispondenza: di qui uno scambio di idee, di prove, di registrazioni fino a quando chiuso il periodo del lock-down, le due si incontrano personalmente dando vita all’album in oggetto. Date le premesse tutto il disco si basa su un libero gioco improvvisativo tra le due che dimostrano di avere un’ottima intesa passando da sonorità che richiamano il barocco a momenti folk fino ad atmosfere più “moderne”.

Sudeshna Bhattacharya & Somnath Roy –“Mousson de Calcutta” – Losen
Ancora una sortita fuori dai confini nazionali da parte di questa coraggiosa etichetta che si è spinta sino a considerare la musica indiana…anche se poi la registrazione è stata effettuata a Oslo. Anche di questo album è protagonista un duo ben lontano, come si accennava, dalle terre e dalle atmosfere nordiche: Sudeshna Bhattacharya e Somnath Roy. Si tratta di un connubio apparentemente improbabile: Sudeshna è infatti uno dei migliori specialisti di sarod, lo strumento a corde tipico della tradizione musicale dell’Hindustan mentre Somnath è conosciuto per la sua straordinaria abilità nel percuotere il ghatam, strumento tipico della musica carnatica indiana. E’ possibile far coesistere questi due generi sulla carta così diversi? Secondo gli esperti di musica indiana assolutamente no: viceversa i due artisti, con questo album, hanno dimostrato che sì, è possibile, basta intendersi su ciò che si vuole esprimere, basta possedere una straordinaria tecnica di base e il gioco è fatto. In repertorio tre composizioni create da Bhattacharya che durano ben sei, 13 e 38 minuti; in tutte e tre spicca il meraviglioso canto della già citata Somnath Roy che riesce ad emozionare ogni ascoltatore al di là di qualsivoglia barriera di terra e di lingua.

Benvenuta alla Ipogeo Records
E’ con vero piacere che salutiamo questa nuova etichetta discografica Ipogeo Records fondata di recente da Filippo Cosentino, uno dei principali compositori e musicisti jazz contemporanei.
Come sottolineano i responsabili dell’etichetta, fondamentale è la solidità del team di produzione. Da un lato il gruppo di lavoro, che nelle figure chiave è formato da Filippo Cosentino, fondatore, producer e direttore artistico; Federico Mollo, fonico e assistente di produzione; Adriana Riccomagno, ufficio stampa e coordinamento team di distribuzione; Fabrizia Gar e Carlotta Vacchetti, team grafico. Particolare attenzione viene dedicata alla cura del catalogo musicale assicurato dalla casa editrice Cose Note Edizioni. Le sezioni del catalogo sono: jazz music, songwriting e cantautorato; musica contemporanea; early music; soundtrack.
In jazz music e musica contemporanea, tre progetti sono stati ammessi al primo turno di ballottaggio dei Grammy® Awards in due differenti edizioni: 65th Recording Academy / GRAMMYs for the Grammy® Awards Heros, Filippo Cosentino feat. Danilo Mineo e Daniele Bertone, nella categoria Best New Artist; Carlotta The Musical, James David Spellman / Filippo Cosentino, nella categoria Best Theatre Music essendo in effetti la colonna sonora di uno spettacolo teatrale; e quest’anno alla 66th Recording Academy / GRAMMYs for the Grammy® Awards Ask, Filippo Cosentino, nella categoria Best Instrumental Contemporary Music mentre Leeway, singolo tratto da Ask, Filippo Cosentino & Marc Copland feat. Daniele Bertone, nella categoria Best Jazz Performance.
Nella categoria Jazz i primi due lavori pubblicato sono stati “Multiverse” solo in versione digitale e quindi “Heros” di Filippo Cosentino. In quest’ultimo album la formazione è il trio in cui il leader, chitarrista, è accompagnato dal formidabile pianista Marc Copland, per moltissimi anni componente della formazione di John Abercrombie, e Daniele Bertone alla batteria e percussioni. In programma sette composizioni del leader in cui si evidenzia da un lato le capacità strumentali di tutti e tre i musicisti, dall’altro le ottime capacità compositive di Cosentino che di certo non scopriamo oggi. Le atmosfere predilette sono un mix di jazz, folk e country anche se qua e là riemerge l‘anima mediterranea del leader.

In Italia scendono in campo anche i grossi calibri

Amato Jazz Trio – “Keep Straight On” – abeat
Elio Amato piano, Alberto Amato contrabbasso e Loris Amato batteria sono i componenti dell’Amato Jazz Trio, una delle formazioni più longeve he a storia del jazz italiano conosca. Una storia costellata di successi straordinari colti in tutto il mondo tanto che non a caso l’amico Franco Faienz li aveva definiti uno dei più originali trii d’Europa e oltre”. La storia del Trio comincia nel 1979 in Sicilia, a Canicattini Bagni, dove i tre fratellini Elio, Alberto e Sergio si divertono a suonare assieme. Ben presto si fanno notare a livello locale e arrivano i primi ingaggi, i primi concerti. Nel periodo che va dal 1985 al 1987 la svolta: il gruppo viene chiamato per aprire i concerti di stelle quali Betty Carter, Muhual Richard Abrams e Wynton Marsalis. Nel 1988 il gruppo vince a Milano il concorso indipendenti per l’allora celebre rivista Fare Musica e subito dopo il jazz contest della Dire. ottenendo come premio la possibilità di incidere il loro primo disco intitolato ‘Jazz Contest 88’. Da quel momento l’Amato Jazz trio incide una serie di album sempre di grande successo e soprattutto ottiene il plauso indiscriminato di pubblico e di critica mantenendo il suo standard qualitativo sempre molto elevato. Cosa che si ripete anche in quest’ultimo album in cui i tre fratelli convincono sempre di più. La loro è davvero una musica ‘universale’ nel senso che nel stessa confluiscono input assai diversi provenienti ovviamente dal bop, dal free jazz, dalla tradizione classica e dalle straordinarie armonizzazioni proprie della musica dei primo del ‘900, il tutto senza dimenticare le origini mediterranee del trio che trova in ognuno dei componenti l’interprete ideale per quel che in quel momento si sta eseguendo. Di qui la difficoltà di segnalare un brano piuttosto che un altro…anche se qualche parola in più desideriamo spenderla per “Arvo” scritto da Alberto Amato: si tratta di un sentito omaggio al compositore estone Arvo Pärt contenuto in poco meno di quattro minuti in cui le influenze minimaliste la fanno da padrone trasportando l’ascoltatore in un mondo “altro”, ben lontano dalle nefandezze di quello odierno.

Claudio Angeleri – “Concerto feat. Gianluigi Trovesi” – Dodicilune
Si intitola semplicemente “Concerto” il nuovo album firmato Claudio Angeleri e registrato live in occasione del Bergamo/Brescia Capitale della Cultura Italiana il 20 maggio 2023 presso l’Auditorium Modernissimo Nembro. Nella versione live i quadri di Gianni Bergamelli si intrecciano con le composizioni musicali di Claudio Angeleri, i testi narrativi di Maurizio Franco e le animazioni di Adriano Merigo che danzano in tempo reale con le improvvisazioni dei diversi solisti. Il CD che vi presentiamo è quindi  un album a tema in cui   il pianista e compositore bergamasco desidera omaggiare i grandi della cultura lombarda. Per affrontare questo difficile compito Angeleri ha chiamato accanto a sé una schiera di eccellenti musicisti quali Gianluigi Trovesi (clarinetto), Giulio Visibelli (sax soprano e flauto), Gabriele Comeglio (sax alto), Marco Esposito (basso elettrico), Matteo Milesi (batteria), Paola Milzani (impegnata sia come solista vocale sia come direttrice del coro), il giovane talento Nicholas Lecchi (sax tenore) e il coro The Golden Guys. In programma otto brani tutti scritti dallo stesso Angeleri eccezion fatta per “Lacrimosa” tratto dalla Messa da Requiem op. 73 di Gaetano Donizetti, mentre le liriche di “Light and Dark” e “Armida” sono state scritte da Alessia Marcassoli. Cercando di mantenersi in un difficilissimo equilibrio tra antico e attuale, Angeleri mette in campo tutta la sua sapienza musicale scrivendo partiture in cui echi di gospel si mescolano a input di chiara influenza “jazz contemporary” nonché classica in cui l’improvvisazione gioca un ruolo di primissimo piano grazie all’interplay che si è costituito tra i musicisti. Al riguardo eccellente il contributo degli artisti citati in precedenza con un Trovesi che sembra non sentire minimamente il peso degli anni che passano anche per lui. Per la cronaca i protagonisti cui sono dedicate le varie performance sono Caravaggio, Arturo Benedetti Michelangeli, Giacomo Costantino Beltrami, Niccolò Tartaglia, Giacomo Quarenghi, Torquato Tasso e le donne della Resistenza. Infine un elemento su cui interviene lo steso Angeleri: la musica, come si accennava, è tratta da uno spettacolo multimediale, procedimento sempre piuttosto rischioso. Di qui la domanda: è possibile gustare la valenza della musica prescindendo da tutto il resto? “Suggerisco afferma Angeleri –  di dedicarsi ad un primo ascolto esclusivamente sonoro senza guardare e leggere il booklet: solo pura suggestione uditiva. Gli ascolti e le letture successive offriranno così la possibilità di cambiare prospettiva e replicare più volte le emozioni. Il disco, in questo modo, assume una dimensione plurale e condivisa che lo rende ancora oggi, nel terzo millennio, un mezzo vivo e stimolante per i musicisti di jazz – uso volutamente un termine così ampio – che si esprimono nel tempo reale e per il pubblico che ne fruisce. Anche per questo motivo è stata scelta una versione live di Concerto per catturare una versione unica e irripetibile».

Dino Betti Van Der Noot – “Let Us Recount Our Dreams” – Audissea
Mi onoro di conoscere Dino Betti oramai da qualche decennio ma posso tranquillamente affermare che ben difficilmente ho visto un jazzista conservare un entusiasmo, una lucidità, una positività che sempre riscontro quando parlo con lui. E queste qualità si ritrovano puntualmente negli album che, in questi ultimi tempi Dino licenzia producendo sempre musica di altissima qualità. Ovviamente a questa regola non fa eccezione “Let Us Recount Our Dreams” (“Raccontiamoci i nostri sogni”) chiaramente ispirato da una delle più belle e suggestive pagine di William Shakespeare.    A parte l’originalità delle composizioni, è straordinario il modo in cui Betti gioca con le note: lui le fa ruotare, rimbalzare, rincorrere a formare un caleidoscopio che poi, fatalmente va a sfociare in un disegno unitario che evidentemente è lì, nella mente del leader. Ovviamente per raggiungere risultati del genere, è indispensabile poter contare su musicisti che ben conoscono il modo di operare del compositore: non è quindi un caso che anche questa volta Dino Betti Van Der Noot abbia chiamato accanto a sé i ventidue musicisti con i quali ha lavorato negli ultimi anni, in particolare nel precedente “The Silence of the Broken Lute”, con l’aggiunta del trombettista Tiziano Codoro, mentre a scrivere le lunghe note di copertina è stato incaricato il critico statunitense Thomas Conrad le cui considerazioni sono, a mio avviso, condivisibili dalla prima all’ultima riga. Venendo alle nostre personalissime considerazioni, anche in questo album abbiamo ritrovato quelle caratteristiche elencate in apertura con una attenzione maggiore verso certi suoni orientaleggianti che amplificano lo spettro sonoro di cui si serve Dino. Non a caso si è servito di strumenti quali l’arpa, il dizi e il flauto cinese poco usuali nelle orchestre jazz. A Conferma della sua straordinaria conoscenza dell’universo musicale nel suo insieme, non mancano accenni al progressive, accenni sempre misurati e comunque assolutamente pertinenti. Tutto Ciò, agendo allo stesso tempo con l’incrociare delle linee melodiche, con il flusso dinamico che varia in modo straordinario, con il variare delle atmosfere proposte fa sì che l’album mai perda una sola oncia di omogeneità. Insomma un gran bell’album che vale la pena ascoltare più di una volta per capirne ogni più remota sfumatura.

Maria Pia De Vito – “This Woman’s Work” – PMR
Se ci dichiarassimo stupiti dall’ascolto di questo nuovo album di Maria Pia De Vito non saremmo sinceri fino in fondo: in effetti seguiamo la straordinaria carriera della vocalist napoletana da tanti anni e l’abbiamo sempre ammirata per quel suo mai adagiarsi sugli allori di un successo più che meritato, ma continuare a ricercare, ad andare avanti ad esplorare nuovi terreni. Questa volta l’obiettivo è veramente importante e per chi scrive è un piacere sottolinearlo dal momento che proprio a questo argomento ha dedicato un libro: riflessione sulla condizione femminile e su quali strategie sono state attuate dalle donne per resistere in questi lunghi lassi di tempo. Per farlo la De Vito si è avvalsa innanzitutto di un nuovo gruppo senza pianoforte composto da Mirco Rubegni tromba, Giacomo Ancillotto chitarre ed electronics, Matteo Bortone basso ed electroncis, Evita Polidoro batteria. I pezzi in repertorio provengono dal jazz di Tony Williams, Ornette Coleman, dal cantautorato di Elvis Costello e Kate Bush, fino a elementi del folk cui si aggiungono tre pezzi composti a quattro mani dalla leader con Matteo Bortone. L’ispirazione, per esplicita ammissione della stessa De Vito, proviene dalle opere di autrici quali Virginia Woolf, Rebecca Solnit, Margaret Atwood. Il risultato? Assolutamente convincente. La De Vito è del tutto credibile quando affronta la questione femminile anche perché, come si accennava in apertura, ha speso tutta la vita al servizio della musica senza cedere a compromessi e andando sempre dritto per la sua strada. Prescindendo dalle più che lodevoli intenzioni della leader, l’album si segnala per la sua intrinseca valenza artistica: i brani sono tutti significativi, interpretati ora con vigore ora con dolcezza dalla De Vito la cui voce sembra più chiara rispetto ad altre occasioni. More solito la De Vito improvvisa con disinvoltura chiamando in causa la sua profonda conoscenza della musica non solo jazz, ma anche rock, folk e classica. Ovviamente per affrontare una tematica così complessa non solo dal punto di vista musicale, la De Vito si è affidata ad un gruppo di musicisti non solo collaudati ma anche sulla rampa di lancio come la bravissima batterista Evita Polidoro. Al riguardo occorre sottolineare come la scelta si stata più che felice dal momento che il gruppo ha funzionato semplicemente alla perfezione.

Claudio Fasoli NeXt 4et – “Ambush” – abeat–
Conosco Fasoli oramai da parecchi anni e quindi posso affermare, senza tema di smentite, che Claudio è uomo intelligente, spiritoso, cordiale e originale. Queste doti il sassofonista le trasporta nella sua musica che di conseguenza risulta sempre straordinariamente nuova, affascinante, coinvolgente. Ascoltando uno dopo l’altro i vari suoi dischi si rimane davvero stupefatti di come l’artista abbia saputo trovare una chiave sempre nuova per le sue composizioni. Così anche questo “Ambush” presenta una sua spiccata originalità che lo distingue nettamente dai precedenti album, originalità che può farsi risalire ad un uso più spregiudicato e intenso dell’elettronica che trova nella chitarra di Simone Massaron un interprete fondamentale. Le note sembrano quasi rimbalzare da un lato all’altro del pentagramma senza soluzione di continuità con il leader che guida il gruppo con mano ferma anche se le parti improvvisate paiono davvero tante. Il tutto senza che mai il discorso narrativo perda la sua logica: Fasoli è sempre perfettamente a suo agio qualunque strumento imbracci ( sax tenore o sax soprano) e qualunque ruolo rivesta in quello specifico momento. E al riguardo non si può non rilevare la grandezza di Fasoli come compositore, un musicista che conosce benissimo il linguaggio musicale anche al di là del jazz, che sa perfettamente da dove partire e dove arrivare e che soprattutto riesce sempre ad esprimere i propri sentimenti all’interno di una scrittura che sa valutare assai bene anche il valore del silenzio, l’importanza del respiro nella musica, nell’universo sonoro. Non a caso Nat Hentoff ha scritto di lui “che non lo si può confondere con nessun’altro”. Molto ben studiato anche il repertorio in cui a brani veloci si alternano atmosfere più riflessive e intimistiche. Che portano l’ascoltatore a chiedersi con curiosità ‘cosa ascolterò adesso?’. Come ci piace sottolineare sempre in occasioni del genere, quando un album riesce così bene certo il merito va alle composizioni, al leader…ma anche al resto del gruppo che per l’occasione è costituito dal già citato Simone Massaron chitarra elettrica, Tito Mangialajo Rantzer contrabbasso e Stefano Grasso percussioni.

Nicola Mingo – “My Sixties in Jazz” – Alfa Music
Come si è forse già capito dalle mie note, i jazzisti italiani che hanno più di 50 anni praticamente li conosco tutti…o quasi. Ma coloro i quali posso definire “amici” sono ovviamente pochi, molto pochi. Ecco, Nicola Mingo è uno di questi anni. L’ho conosco da tempo e tra di noi si è instaurato un bellissimo rapporto fatto di reciproca stima ed amicizia. Stima ed amicizia che però non mi impediscono di valutare con tutta l’oggettività di cui sono capace le sue ‘imprese’ musicali. E proprio partendo da tale presupposto non ho alcun timore di essere smentito affermando che quest’ultima produzione del chitarrista napoletano è fra le cose migliori da lui incise nel corso degli anni. Nicola è uno dei musicisti più coerenti che abbia conosciuto: lui è u amante del bop e a questo linguaggio rimane fortemente ancorato nonostante i boppers in esercizio permanente effettivo siano rimasti veramente pochi ed è questa una considerazione imprescindibile nel valutare l’album. Lo stesso si pone, infatti, come un esplicito omaggio da un canto ai 60 anni di jazz di Mingo in senso autobiografico e,  dall’altro esplicita il chitarrista “a quegli anni Sessanta che hanno prodotto fenomeni musicali come l’hard bop, Art Blakey and Jazz Messengers e tutte le derivazioni chitarristiche come Grant Green, Wes Montgomery, Kenny Burrell, Barney Kessel, Tal Farlow, Joe Pass, Pat Martino, George Benson, miei punti di riferimento stilistici”. M per essere ancora più chiari Mingo aggiunge che “questo progetto rappresenta un contributo personale, moderno ed innovativo al linguaggio del bebop e al suo fraseggio, nato con Charlie Parker e Dizzie Gillespie e ulteriormente sviluppatosi in una continua evoluzione fino ad approdare alla nostra contemporaneità”. Obiettivo centrato? A mio avviso assolutamente sì. La modernità di Mingo nell’approcciare uno dei linguaggi più complessi del jazz è sotto gli occhi (o meglio le orecchie) di tutti e può rappresentare, soprattutto per i più giovani, un momento di attenta rilettura di uno dei periodi più gloriosi nella storia del jazz, un momento che, specie negli ultimi anni, non tutti hanno saputo interpretare, nel modo più giusto facendolo apparire vecchio e superato. Ottimo, è anche questo è un grande pregio, il rivolgersi a compagni di viaggio che hanno saputo ben interpretare gli intendimenti del leader: Francesco Marziani piano, Pietro Ciancaglini contrabbasso e Pietro Iodice batteria sono risultati perfetti, assolutamente inseriti nel progetto studiato da Mingo.

Modern Art Trio – “Modern Art Trio” – Gleam Records
Franco D’Andrea pianoforte, piano elettrico e sax soprano, Franco Tonani batteria e tromba, Bruno Tommaso contrabbasso sono gli artefici di una registrazione che è rimasta iconica, una registrazione che ha spinto la Gleam Records a ristampare per la quarta volta il disco in oggetto. Questa ulteriore ripresentazione dell’album è il frutto di una importante opera di restauro audio voluta dal produttore Angelo Mastronardi e realizzata grazie al fortuito ritrovamento del nastro originale da parte dell’editore Luca Sciascia e accuratamente restaurato e masterizzato dal fonico Jeremy Loucas negli Stati Uniti. L’album è disponibile in edizione limitata su Vinile 180 gr. (bauletto con inedito booklet) e su CD (formato gatefold con booklet arricchito), dal 10 novembre 2023 e distribuito da IRD International Distribution. Ciò detto vediamo più da vicino i contenuti musicali (e non solo) di questo “Modern Art Trio”. Siamo nell’aprile del 1970 a Roma e già da qualche anno (per la precisione dal 1967) è attivo il Il Modern Art Trio che rimarrà in attività fino al 1972. La prima formazione vedeva al contrabbasso Marcello Melis che lascerà il posto l’anno successivo a Giovanni Tommaso, il quale a sua volta nel 1969 sarà sostituito da Bruno Tommaso. Il primo e unico disco del trio riporta sulla copertina la sigla “Progressive Jazz”, un chiaro riferimento alla musica suonata. L’album fece scalpore in quanto si trattava di un primo tentativo di mettere ordine in un linguaggio che di ordine non voleva sentir parlare come ricorderanno chi quegli anni ha vissuto in prima persona. E che il tentativo fosse già di per sé piuttosto ambizioso se non addirittura velleitario lo evidenzia lo stesso D’Andrea quando nel libro dedicato a Gato Barbieri da Andrea Polinelli afferma: Quando con Gato facemmo ‘Ultimo tango’ io venivo fuori da questa cosa terribile che era il MAT nel quale come linguaggio musicale stavo completamente da un’altra parte”. Comunque a parte le sensazioni che i componenti il trio possono esprimere oggi, resta il fatto che il disco rappresentò una grossa novità specie per il panorama italico dal momento che in ogni modo rappresenta una sorta di dichiarazioni di intenti, un documento in cui Tonani e compagni illustrano le ricerche che in quel momento stavano portando avanti, ricerche che come dimostrerà un attento ascolto del disco, avevano, hanno e avranno un loro perché.

Roberto Ottaviano – “A che punto è la notte”, “Astrolabio mistico” – Dodicilune
Credo di aver speso tutte le aggettivazioni possibili parlando di Roberto Ottaviano che considero in assoluto uno degli artisti più innovativi, immaginifici, tecnicamente superlativi, coerenti con alcuni inderogabili principi di fondo quale in primo luogo l’onestà intellettuale, che calchino le scene del jazz internazionale. E ciò che si abbia riguardo sia ai concerti sia alle registrazioni. A quest’ultimo riguardo due sono le perle che il sassofonista barese Roberto Ottaviano ha deciso di regalarci nel corso di questo 2023 che ci sta salutando: la prima – “Roberto Ottaviano & Pinturas – A che punto è la notte” – è un progetto interamente pugliese in cui il gruppo guidato da Ottaviano è completato dalla chitarra di Nando di Modugno, dal contrabbasso di Giorgio Vendola e dalla batteria e dalle percussioni di Pippo D’Ambrosio. Il progetto è dedicato alla memoria del chitarrista pugliese Rino Arbore prematuramente scomparso nel 2021. Per chi ama leggere “A che puto è la notte” avrà sicuramente richiamato il titolo di un racconto di Fruttero e Lucentini ma Ottaviano spiega chiaramente che la frase è stata usata strumentalmente solo perché “può racchiudere in sé molte altre atmosfere e richiami, come quelli contenuti in diversa letteratura”. Ciò premesso, l’album si snoda minuto dopo minuto, attimo dopo attiamo, scoprendo di volta in volta le sue innumerevoli sfaccettature. Ecco quindi trapelare nelle composizioni originali il profondo radicamento dei musicisti nella realtà mediterranea bilanciato in qualche modo dai due brani che aprono e chiudono il disco, di “O Silencio das Estrellas” della cantante e compositrice brasiliana Fatima Guedes e “Avalanche”, del cantautore canadese Leonard Cohen. Ma a parte queste citazioni quel che colpisce è soprattutto l’empatia che si avverte tra i musicisti e la loro capacità improvvisativa che emerge magari laddove non te l’aspetti.
Il secondo volume in realtà è a firma doppia – “Michel Godard, Roberto Ottaviano – Astrolabio mistico – Dodicilune” e racconta la vita di Bianca Lancia, «l’unica donna che l’imperatore Federico II di Svevia abbia mai amato». Per questa non facile impresa l’ 11 e 12 settembre scorsi al Castello Normanno-Svevo di Gioia del Colle (Ba), si sono dati appuntamento il serpentone e il basso elettrico di Michel Godard, il sax soprano di Roberto Ottaviano, il canto di Ninfa Giannuzzi, la tiorba di Luca Tarantino, i testi e la voce recitante di Anita Piscazzi. In programma quattordici brani originali scritti dai musicisti, con testi di Anita Piscazzi e arrangiamenti di Michel Godard e Luca Tarantino. In perfetta coerenza con la storia raccontata, l’album è pervaso da una a volte struggente malinconia come nel bellissimo brano d’apertura firmato da Roberto Ottaviano. E questo tono soffuso, raccolto si avverte per tutta la durata dell’album che acquisisce così una propria personalità ben distinta dal clamore della sperimentazione ad ogni costo o dalla riproposizione sic et simpliciter di modelli usati e abusati. Insomma una originalità di esposizione che caratterizza non già da oggi le produzioni dei due leader; ad ulteriore conferma si ascolti il terzo brano, “Light the Earth”, per l’appunto scritto da Godard.

Gerlando Gatto