Udin&Jazz tocca quota 33! Molti gli appuntamenti da non perdere da Stewart Copeland a Pat Metheny, Eliane Elias e Roberto Ottaviano

Udin&Jazz tocca quota 33
Molti gli appuntamenti da non perdere tra cui quelli con Stewart Copeland, Pat Metheny, Eliane Elias e Roberto Ottaviano
Il festival in programma dal 10 al 18 luglio

Quest’anno, se tutto procede senza intoppi, ritornerò al Festival Udin&Jazz, organizzato da Euritmica, una delle pochissime manifestazioni del genere che stimolano ancora il mio interesse. E ciò per i motivi che ho più volte espresso ma che si riassumono nel fatto che il Festival si presenta sempre più legato al territorio di cui intende promuovere le eccellenze non solo artistiche.
Il Festival, in programma dal 10 al 18 luglio, offrirà alla città di Udine e alla regione intera circa 25 appuntamenti, fra location storiche e siti periferici, dove si terranno concerti, incontri, laboratori e proiezioni che coinvolgeranno oltre 110 artisti da 12 Paesi del mondo, 40 addetti e una cinquantina fra volontari e studenti, con la presenza della più qualificata stampa del settore.
Il tema scelto per questa 33^ edizione è “Jazz Against The Machine”, argomento che sarà approfondito il 10 luglio, all’apertura ufficiale del festival, nel corso di un apposito talk incentrato per l’appunto sul ruolo dell’arte e della musica dal vivo nello sviluppo dell’umanità dell’era digitale. In programma anche il concerto della Jazz Bigband Graz dedicato alla musica e alla cultura armena con una guest star: il vocalist e percussionista di fama mondiale Arto Tunçboyacıyan.
Scorrendo il vasto programma, alcuni appuntamenti appaiono imperdibili: Stewart Copeland, batterista, compositore e fondatore dei Police, si esibirà nel Piazzale del Castello il 12 luglio, prima data del suo tour europeo, con una straordinaria esperienza che propone i più grandi successi della band riarrangiati da Copeland in chiave orchestrale. Nel cast, anche il chitarrista di origini friulane, Gianni Rojatti e il bassista Alessandro Turchet, affiancati per l’occasione dalla prestigiosa FVG Orchestra, formazione recentemente annoverata dal Ministero della Cultura tra le migliori in Italia.
Altro concerto di assoluto rilievo quello di Pat Metheny in programma il 18 luglio; il chitarrista americano presenterà il suo recente progetto ‘Side Eye’ realizzato con talentuosi musicisti emergenti.
Due le star della notte brasiliana del 15 luglio: Amaro Freitas, giovane e prodigioso pianista, e la carismatica vocalist e pianista Eliane Elias, reduce dalla vittoria ai Grammy 2022.
Accanto a questi grossi calibri ci saranno anche giovani artisti internazionali tutti da scoprire quali Lakecia Benjamin, sassofonista newyorkese (17 luglio); Mark Lettieri, funambolico chitarrista, colonna portante degli Snarky Puppy (13 luglio); Matteo Mancuso, enfant prodige della chitarra (14 luglio).

Ovviamente anche questa volta non sarà poco lo spazio dedicato ai musicisti italiani: così, tra gli altri, avremo modo di ascoltare Roberto Ottaviano Eternal Love 5et (anche questo appuntamento degno della massima attenzione), Dario Carnovale trio feat. Flavio Boltro; Claudio Cojaniz; Massimo De Mattia e Giorgio Pacorig, Ludovica Burtone, violinista di origini udinesi residente a NYC, Soul System, GreenTea inFusion e la Zerorchestra.
In coerenza con quanto sottolineato in apertura circa l’aderenza del Festival alle necessità del territorio, Udin&Jazz estende i suoi orizzonti ben oltre i confini locali, realizzando progetti con festival e realtà europee e inviando giovani musicisti in residenze artistiche all’estero per momenti di crescita formativa e professionale. Anche in queste occasioni, Udine si pone, quindi,  al centro dei grandi circuiti europei del turismo culturale e artistico. All’Incontro JazzUpgrade (14 luglio) studenti e addetti ai lavori racconteranno l’esperienza di un campus di alta formazione musicale internazionale.
Questo e altri momenti, fanno parte di Udin&Jazz talk e Udin&Jazz(in)book, eventi collaterali strutturati secondo una logica che affronta sfaccettature diverse dell’anima jazz contemporanea. Fra i libri che verranno presentati, ricordiamo: Il Jazz e i mondi di Guido Michelone (12 luglio); la mini collana edita da Shake edizioni dedicata al grande poeta e intellettuale afroamericano Amiri Baraka (ospite di Udin&Jazz nel 2008), presentata da Marcello Lorrai in dialogo con Flavio Massarutto (13 luglio) e Sonosuono di Matteo Cimenti (17 luglio).
Dedicati agli studenti i workshop Jazz Sessions per i PCTO e il concerto di pianoforte partecipato di Agnese Toniutti per famiglie e bambini (15 luglio).
Da non perdere, dal 12 al 18 luglio: alle 12.00, gli Udin&Jazz Daily Special alla Ghiacciaia, aperitivi jazz con chiacchierate musicali, e le speciali dirette da Udine di “Torcida”, il programma sportivo e musicale dell’estate della rete ammiraglia Rai, condotto da Max De Tomassi, (presentatore ufficiale dei concerti del festival).
E vorrei chiudere questa nota su Udin&Jazz 2023 con le parole con cui Giancarlo Velliscig, direttore artistico del Festival, ma in realtà vera anima nonché instancabile motore della manifestazione, ha aperto la conferenza stampa di presentazione: «Si potrebbe dire che ricominciamo da 33, evocando un adorabile film del tenero Troisi. Udin&Jazz, infatti, non ricomincia da zero, come di solito si definiscono le ripartenze, ma dalla storia di 32 edizioni di un festival che ha saputo ritagliarsi un’autorevole collocazione tra i punti fermi del jazz nazionale».

Gerlando Gatto

IL PROGRAMMA COMPLETO DI UDIN&JAZZ
info dettagliate al sito www.euritmica.it

lunedì 10 luglio
ore 09:30 Groove Factory, Martignacco
WORKSHOP PCTO / 1
Progetto Jazz Sessions – Euritmica per le Scuole

ore 18:30 Corte Morpurgo
Udin&Jazz talk
JAZZ AGAINST THE MACHINE
Incontro sul ruolo dell’arte e della musica dal vivo nello sviluppo dell’umanità dell’era digitale Con la partecipazione di: Marco Pacini giornalista e scrittore / Angelo Floramo, docente e medievista, scrittore / Claudio Donà, critico, docente di Storia del Jazz al Conservatorio di Rovigo, produttore discografico / Giancarlo Velliscig, direttore artistico Udin&Jazz / Modera Andrea Ioime, giornalista e critico musicale
ore 21:30 Piazza Libertà
JAZZ BIG BAND GRAZ & GUESTS – ARMENIAN SPIRIT
Horst-Michael Schaffer, vocals, trumpet / Heinrich von Kalnein, reeds / Karen Asatrian, keyboards / Thomas Wilding, bass / Tom Stabler, drums
Special guests: Arto Tunçboyacıyan, percussion, vocals / Bella Ghazaryan, voice

martedì 11 luglio
ore 09:30 Groove Factory, Martignacco
WORKSHOP JAZZ SESSIONS / 2
Progetto Jazz Sessions – Euritmica per le Scuole
ore 20:00 via R. Di Giusto – Area Parrocchiale
Udin&Jazz talk
I LUOGHI DELLA MUSICA IN CITTÀ
Visioni, proiezioni, prospettive, progetti intorno agli spazi culturali e alle architetture dedicate alla musica in città.
Con: Federico Pirone, Ivano Marchiol, Chiara Dazzan – Assessori del Comune di Udine / Giancarlo Velliscig, presidente di Euritmica / Modera Oscar d’Agostino – caporedattore delle pagine culturali del Messaggero Veneto
segue
ore 21:30
SOUL SYSTEM Quartet
Piero Cozzi, sax / Mauro Costantini, piano / Andrea Pivetta, drums / Federico Luciani, percussion

mercoledì 12 luglio
ore 18:00 Spazio 35, via C. Percoto
Udin&Jazz (in) book
IL JAZZ E I MONDI Musiche, nazioni, dischi in America, Africa, Asia, Oceania
Guido Michelone presenta il suo libro (Arcana Ed.) e dialoga con Max De Tomassi, Radio 1 Rai
segue
ore 19:00
CLAUDIO COJANIZ “Black”
Claudio Cojaniz, piano feat. Mattia Magatelli, doublebass / Carmelo Graceffa, drums
ore 21:30 Piazzale del Castello di Udine
STEWART COPELAND & FVG ORCHESTRA
“Stewart Copeland Police Deranged for Orchestra” prima data europea
Stewart Copeland, drums, guitar, conductor / Troy Miller, conductor / Laise Sanches, vocals / Raquel Brown, vocals / Sarah-Jane Wijdenbosch, vocals / Vittorio Cosma, keyboard / Gianni Rojatti, guitar

giovedì 13 luglio
ore 18:00 Corte Morpurgo
Udin&Jazz(in) book
A SESSANT’ANNI DA “IL POPOLO DEL BLUES” (1963): L’EREDITÀ DI AMIRI BARAKA
Incontro con Marcello Lorrai, giornalista, scrittore e conduttore radiofonico in dialogo con Flavio Massarutto, scrittore e critico musicale
ore 20:00 Corte Morpurgo
LUDOVICA BURTONE 4et “Sparks”
Ludovica Burtone, violin, compositions / Emanuele Filippi, piano / Alessio Zoratto, doublebass / Luca Colussi, drums
ore 21:30 Piazza Libertà
MARK LETTIERI GROUP
Mark Lettieri, guitar, baritone guitar / Eoin Walsh, bass / Jason Thomas, drums / Daniel Porter- keyboards

venerdì 14 luglio
ore 18:00 Corte Morpurgo
Udin&Jazz talk: JAZZ UPGRADE
Jazz a Vienne e Udin&Jazz – Il campus di alta formazione musicale internazionale, come esempio della necessaria collaborazione e scambio per lo sviluppo della creatività giovanile e di un linguaggio musicale davvero globale. Con: Federico Pirone – Assessore alla Cultura Comune di Udine / Giovanni Maier, musicista, docente al Conservatorio Tartini Trieste / Glauco Venier, musicista e docente al Conservatorio Tomadini Udine / Roberto Ottaviano, musicista e docente al Conservatorio Piccinni Bari / Tomi Novak, presidente Kulturno umetniško društvo “Zvočni izviri” Nova Gorica / Giancarlo Velliscig, direttore artistico Udin&Jazz / In collegamento Benjamin Tanguy direttore artistico del Festival internazionale Jazz a Vienne (festival e città gemellati con Udine) e gli studenti italiani partecipanti al campus. In collaborazione con i Conservatori di Trieste e di Udine
ore 20:00 Piazza Libertà
ROBERTO OTTAVIANO – Eternal Love 5et
Roberto Ottaviano, sax / Marco Colonna, clarinets / Alexander Hawkins, piano, Giovanni Maier, doublebass / Zeno De Rossi, drums
ore 21:30 Corte Morpurgo
MATTEO MANCUSO trio
Matteo Mancuso, guitars / Stefano India, bass / Giuseppe Bruno, drums

sabato 15 luglio
ore 10:30 Casa Cavazzini, Museo di arte moderna e contemporanea
AGNESE TONIUTTI “Piano maestro”
Concerto partecipato per pianoforte, toy piano e piano preparato per bambini (dai 6 anni) e famiglie

ore 18:30 Piazza Libertà
DARIO CARNOVALE TRIO feat. FLAVIO BOLTRO
Dario Carnovale, piano / Lorenzo Conte, doublebass / Sasha Mashin, drums / feat. Flavio Boltro, trumpet
Piazzale del Castello di Udine
BRAZILIAN NIGHT
ore 20:30
AMARO FREITAS “Piano Solo”
Amaro Freitas, piano
segue
ore 22:00
ELIANE ELIAS
Eliane Elias, piano & vocals / Marc Johnson, bass / Leandro Pellegrino, guitar / Rafael Barata, drums

domenica16 luglio
ore 19:00 Giangio Garden – Parco Brun
GREENTEA inFusion “Viva Cuba!” New Album
Franco Fabris, Fender Rhodes, synth / Gianni Iardino, alto&soprano sax, flute, synth / Maurizio Fabris, percussion and vocals / Pietro Liut, electric bass
ore 21:00 Piazza Libertà
Introduzione al film e alla colonna sonora dal vivo di “The Freshman” a cura di Cinemazero – Pordenone
segue
ore 21:30
ZERORCHESTRA “The Freshman”
Proiezione del film muto con Harold Lloyd e la colonna sonora eseguita dal vivo dalla Zerorchestra: Mirko Cisilino, direzione, tromba e trombone / Francesco Bearzatti, sax tenore / Luca Colussi, batteria / Juri Dal Dan, pianoforte / Luca Grizzo, percussioni ed effetti sonori / Didier Ortolan, clarinetti / Gaspare Pasini, sax alto / Romano Todesco, contrabbasso / Luigi Vitale, vibrafono

lunedì 17 luglio
ore 18:30 Casa Cavazzini – Museo di arte moderna e contemporanea
Udin&Jazz(in) book
SONOSUONO
Incontro con Matteo Cimenti, autore del libro Sonosuono / Anselmo Paolone / Damiano Cantone / Massimo de Mattia / Giorgio Pacorig
segue
ore 20:00
MASSIMO DE MATTIA / GIORGIO PACORIG
Massimo De Mattia, flute / Giorgio Pacorig, piano
ore 21:30 Corte Morpurgo
LAKECIA BENJAMIN “Phoenix”
Lakecia Benjamin, alto sax / Zaccai Curtis, piano / EJ Strickland, drums / Ivan Taylor, bass

martedì 18 luglio
ore 18:30 Comunità Nove, parco S. Osvaldo
Udin&Jazz talk&sound
Doctor Delta “Zappa, idrogeno e stupidità”
Giorgio Casadei, oratore, chitarra, ukulele / Alice Miali voce, chitarra, banjolele, banjo, stylophone, kazoo
Tributo a Frank Zappa fra parole e musica nel trentennale della morte
In collaborazione con Vicino/Lontano Mont e Comunità Nove – Coop. sociale Itaca
ore 21:30 Piazzale del Castello di Udine
PAT METHENY “Side-Eye”
Pat Metheny, guitars/ Chris Fishman, piano, keyboards / Joe Dyson, drums

dal 12 al 18 luglio in diretta da Udine
MAX DE TOMASSI conduce “TORCIDA” e presenta sul palco i concerti di Udin&Jazz

Dal 12 al 18 luglio
Ore 12:00 Osteria alla Ghiacciaia
Udin&Jazz daily special:
12 luglio: Stewart Copeland e i Police, con Andrea Ioime
13 luglio: I collettivi musicali, con Guido Michelone
14 Luglio: Il jazz del futuro, il futuro del jazz, con Marcello Lorrai
15 luglio: Miti e leggende della musica brasiliana, con Max De Tomassi 18 luglio: La storia del Pat Metheny Group, con Flaviano Bosco

17 luglio Ore 12:00 Corte dell’Hotel Astoria
Dora Musumeci/Lakecia Benjamin, Tra le donne del jazz, con Gerlando Gatto

Udin&Jazz per i musicisti
Se sei un musicista iscritto a MIDJ e sei in possesso del QR code (inviato dalla segreteria al tuo indirizzo di posta) hai diritto al biglietto ridotto o all’abbonamento YOUNG per gli eventi del Festival. Info: www.musicisti-jazz.it

#euritmicasocial: Pagina Facebook Udin&Jazz / Twitter Udin&Jazz / Instagram Udin&Jazz / Canale YouTube euritmicavideo / Instagram Euritmica / Pagina Facebook Euritmica

biglietti e abbonamenti
tutti gli eventi sono ad ingresso gratuito ad eccezione di:
mercoledì 12 luglio – Piazzale del Castello
Stewart Copeland & FVG Orchestra
Poltronissima intero € 55,00 + € 8,25 d.p. / ridotto € 44,00 + € 6,60 d.p. Platea intero € 40,00 + € 6,00 d.p. / ridotto € 32,00 + € 4,80 d.p.

venerdì 14 luglio – Corte Morpurgo
Matteo Mancuso
intero € 15,00 + € 2,00 d.p. / ridotto € 10,00 + € 1,50 d.p.

sabato 15 luglio – Casa Cavazzini
Agnese Toniutti
posto unico € 7,00
prevendita su eventbrite.it (non acquistabile all’ingresso).

sabato 15 luglio – Piazzale del Castello
BRAZILIAN NIGHT Amaro Freitas + Eliane Elias
intero € 30,00 + € 4,50 d.p. / ridotto € 24,00 + € 3,60 d.p.

lunedì 17 luglio – Corte Morpurgo
Lakecia Benjamin
intero € 25,00 + € 3,75 d.p. / ridotto € 20,00 + € 3,00 d.p.

martedì 18 luglio – Piazzale del Castello
Pat Metheny
Poltronissima intero € 50,00 + € 7,50 d.p. / ridotto € 40,00 + € 6,00 d.p.
Platea intero € 40,00 + € 6,00 d.p. / ridotto € 32,00 + € 4,80 d.p.

abbonamento full festival (5 concerti, settore poltronissima)
intero € 150,00 | ridotto € 120,00 | young € 100,00 / L’abbonamento young è riservato a: studenti di ogni ordine e grado under 26.
I biglietti e gli abbonamenti ridotti sono riservati a: studenti di ogni ordine e grado under 26; Soci Banca di Udine; possessori Contatto card, Iscritti a Groove Factory, Iscritti alla Università delle Liberetà, Associati Arci; musicisti iscritti al MIdJ; soci Vicino/Lontano; soci A.C.CulturArti.
biglietteria e prevendita
circuito e punti vendita Vivaticket / per i concerti di Stewart Copeland e Pat Metheny circuito e punti vendita TicketOne / per gli eventi gratuiti prenotazioni su eventbrite.it
abbonamenti: tickets@euritmica.it

Rino Cirinnà: in Sicilia non si riesce a fare sistema

Non si può certo dire che la vita di Rino Cirinnà sia banale; nato a Hartford negli Stati Uniti proveniente da una famiglia siciliana di musicisti da tre generazioni torna in Italia quando ha sei anni. Studiato clarinetto nei conservatori di Catania e Roma, città dove si trasferisce per ben otto anni.
Nel 1984 vince il concorso come sassofono soprano nella prestigiosa Banda Nazionale dei Carabinieri di Roma. Nella capitale ha la possibilità di frequentare ed approfondire la musica e l’ambiente jazz confrontandosi con i più importanti musicisti Italiani e principalmente Massimo Urbani, Sandro Satta, Maurizio, Giammarco, Danilo Terenzi, Antonello Salis, e studia con Alfio Galigani. Partecipa ad alcune trasmissioni televisive RAI e fa parte di tour di musica leggera di alcuni tra i più conosciuti cantanti Italiani
Nel 1989 si trasferisce negli USA dove risiede per parecchi anni, studia al Berklee College di Boston con insegnanti del calibro di Jerry Bergonzi e Charlie Banacos. Negli USA frequenta gli ambienti Blues, Jazz, Etno e collabora con Ibraima Camara, Tony Bennett, John Lockwood.
Rientrato in Italia, decide di stabilirsi in Sicilia, sua terra d’origine senza comunque trascurare i suoi “rapporti” con l’estero. Così realizza due tour negli Stati Uniti, ha
la cittadinanza onoraria della città di Little Rock e partecipa a vari Festival Jazz in Francia.
Di recente è uscito il suo ultimo album, “Open Letters” ,  che recensiamo qui accanto:
Ma cosa lo ha spinto a tornare in Italia e trasferirsi in Sicilia. Glielo abbiamo chiesto ed ecco le sue risposte.

                                                                                                   *****

-Tu hai un’intensa vita professionale. Cosa ti ha spinto e cosa ti spinge anche oggi a rimanere in Sicilia?
“Come sai io provengo da una famiglia di musicisti. Mio nonno semi-professionista, mio padre professionista: è stato probabilmente, a livello nazionale, il più importante suonatore di flicornino nelle bande; il flicornino era lo strumento che nelle bande sostituiva il soprano.  Di qui la mia passione per la musica. Ad un certo punto tutta la mia famiglia si trasferisce negli States, io sono nato lì per la precisione a Hartford e lì sono cresciuto fino ai miei sei anni, dopo di ché siamo tornati in Sicilia. Tieni presente che quando noi arrivammo negli Stati Uniti, mio padre fece amicizia con Conrad Gozzo il quale proveniva dallo stesso paese di mio papà; Conrad sotto certi aspetti prese mio padre sotto la sua ala protettiva e man mano lo inserì in un certo ambiente. Mio padre era un discreto strumentista, non improvvisava ma eseguiva bene le parti che gli venivano affidate; suonava un po’ alla Harry James e quindi da lì parte un po’ tutto…ovviamente anche la mia preparazione, la mia cultura musicale”.

-Cultura che non si sostanziava solo nel jazz…
“Certo che no. A casa mia si ascoltava molta lirica, così come la musica delle grandi orchestre…ecco questo era il panorama musicale al cui interno mi sono sempre mosso, sin da bambino”.

-Ok, ma torniamo alla domanda di apertura. Dato questo enorme bagaglio di esperienze, perché hai deciso di stare in Sicilia che non rappresenta certo una tappa definitiva per un musicista di jazz.

“Quando negli anni ’70 siamo rientrati in Italia, io ho vissuto otto anni a Roma, poi, nel 1984, ho vinto il concorso per entrare come sassofono soprano nella prestigiosa Banda Nazionale dei Carabinieri di Roma. Nella capitale ho avuto la possibilità di frequentare ed approfondire la musica e l’ambiente jazz. Ho partecipato ad alcune trasmissioni televisive RAI finché nel 1989 ho deciso di ritornare negli USA dove sono rimasto per ben dodici anni, approfondendo, ovviamente la mia preparazione. Ad un certo punto ho sentito che per tirare fuori veramente tutto ciò che avevo fatto nella mia vita era indispensabile tornare in Sicilia dove avevo vissuto dai sei ai diciotto anni. Così la grande decisione di cui non mi pento assolutamente. In Sicilia ho veramente tirato fuori tutto ciò che avevo dentro; tieni presente che ho anche messo su uno studio di registrazione che mi dà parecchie soddisfazioni. Sai in America la musica è una vera professione per cui mai ti puoi rilassare o fermarti a pensare su come andare avanti, no, devi andare avanti…e poi ci accorgiamo che tutto ciò non ci appartiene”.

-Da quanto mi dici intuisco che sei soddisfatto del percorso compiuto…
“Certo che sì; distinguiamo: in Italia non mi trovo bene anzi in Sicilia mi trovo meglio che in altri posti. Per fortuna mi muovo meglio all’estero dove ho un’intensa attività. Il problema è che da noi – e quindi non solo in Sicilia – c’è una mentalità piuttosto ristretta, gli ambienti sotto certi aspetti sono naif. Certo il Conservatorio ha aperto le porte al jazz ma l’insegnamento è francamente ridicolo. Quindi mi trovo male per quanto riguarda il lato prettamente musicale. Viceversa, per quanto riguarda, lo spazio mentale sono assolutamente soddisfatto: io vivo in campagna, come ti dicevo mi sono costruito un bellissimo studio di registrazione, la vita non è cara per cui se vivi una vita economicamente tranquilla la dimensione di artista la puoi mantenere senza troppi sforzi”.

-Secondo te, qual è oggi la situazione del jazz in Sicilia?
“Dal punto di vista tecnico, vale a dire del numero e della preparazione dei musicisti ci siamo appieno…peccato, però che non esista un ambiente. Ognuno si muove per conto suo, è praticamente impossibile fare qualcosa di buono assieme per cui si procede in ordine sparso con le conseguenze che puoi facilmente immaginare. C’è un individualismo troppo sfrenato per cui non si riesce a creare un ambiente”.

-Ma questo è grave…
“Non è grave, è gravissimo dal momento che non si riesce a fare sistema”.

-Secondo te che conosci assai bene sia la realtà jazzistica statunitense sia quella italiana, è possibile tracciare un qualsivoglia parallelismo tra quanto accadeva negli States nei primi anni del ‘900 quando nasceva il jazz e ciò che in quegli stessi anni accadeva in Sicilia?

“Sì, secondo me sì. Noi abbiamo portato negli States il contributo delle bande che in Italia erano state importantissime già da metà dell’800, importanza che hanno mantenuto sino ad oggi. Mio padre ha mantenuto la nostra famiglia proprio suonando con una banda e adesso è pensionato della Banda Municipale di Noto; in Sicilia le tre bande municipali, non militari, regolarmente costituite, con stipendi regolari e quant’altro, erano tre, Acireale, Caltagirone e Noto. Quindi sì, da questo punto di vista, sono certo che c’è stato un notevole contributo delle bande soprattutto nel jazz eseguito dagli italo-americani. Poi a partire dagli anni ‘70, il jazz è cambiato radicalmente: Comunque facendo riferimento ai miei anni trascorsi negli Stati Uniti devo dire che c’era un fortissimo ambiente jazzistico italo-americano, o forse sarebbe meglio dire siculo-americano. Ti do un elemento interessante: quando veniva fatto un blindfold test se c’era da distinguere un musicista nero da un musicista bianco la cosa risultava facile, ma se il musicista bianco era un siculo-americano la cosa era molto ma molto più difficile”.

-Ma perché questo elemento mai viene enfatizzato a dovere?
“Per il motivo cui accennavo in precedenza: noi non facciano sistema. Mentre ad esempio i lombardi proteggono i loro musicisti, noi siciliani non lo facciamo. SE tu pensi che Conrad Gozzo, ovvero colui che ha definito il ruolo della prima tromba nelle big band, era figlio di un emigrato negli USA proveniente da Canicattini Bagni e pochissimi ne conoscono l’esistenza. Noi non abbiamo alcun rapporto con gli americani di origine siciliana che suonano lì. L’anno scorso ho fatto un calendario in cui c’erano sei musicisti siculo-americani e sei musicisti autoctoni. Bene, tra gli altri ho contatto Sam Noto, Pat LaBarbera, Joe Lovano… e devi vedere come questi sono orgogliosi delle loro origini”.

-Si lo so; parecchi anni fa, quando abitavo in Norvegia, ho avuto modo di conoscere Joe Lovano e quando ha saputo che io ero siciliano mi ha fatto davvero un sacco di feste e da allora abbiamo mantenuto un bel rapporto…
“Purtroppo è così. Io mi sono legato molto più all’estero…ho cari amici in Portogallo Malta, in Israele”.

-E non credo che le cose miglioreranno in un prossimo futuro…anche perché le teste sono sempre le stesse.
“A mio avviso le cose potrebbero migliorare solo se la politica si mette da parte. Finché la musica e la politica sono così strettamente connesse, non se ne esce”.


Gerlando Gatto

                                                                *****

Rino Cirinnà – “Open Letters” – Anaglyphos
Tenendo fede alla sua statura internazionale, Rino Cirinnà guida il “Red Apple 4et” costituito da due musicisti di base siracusana – lo stesso leader al sax soprano e tenore e Santi Romano al basso e contrabbasso – e da due musicisti di radice italiana ma francesi d’adozione, il chitarrista Vittorio Silvestri e il batterista italo-americano Michael Santanastasio.
L’album è declinato attraverso sei composizioni originali (“Esbjorn” e “Dimples” di Vittorio Silvestri, “Deep down” e “Open letters” di Rino Cirinnà, “Wheater Changes” e “While I was waiting for you” di Michael Santanastasio), e una cover (“Historia de un amor” di Carlos Eleta Almaran) e da ciò si può facilmente intuire come la musica proposta rappresenti appieno la personalità dei singoli musicisti. Quindi atmosfere e dinamiche diversificate in cui passato e presente convivono straordinariamente all’insegna di un jazz che, così come sempre dovrebbe essere, non conosce confini di tempo e/o di luogo. I temi sono tutti godibili, ben strutturati, ottimo l’equilibrio tra parti improvvisate e parti scritte e, cosa ancora più importante, gli assolo appaiono tutti pertinenti, ben inseriti nel contesto globale, senza alcuna pretesa di stupire l’ascoltatore con improbabili equilibrismi sonori. Ciò detto vorrei spendere qualche parola sull’unica cover presente: “Historia de un amor” è un brano ‘latino’ celebre composto dal panamense Arturo “Chino” Hassán con testo scritto da Carlos Eleta Almarán dopo la morte della moglie di suo fratello. Il pezzo ha raggiunto in breve una grandissima popolarità essendo stato inserito nelle colonne sonore di vari film ed inciso da alcuni dei più grossi nomi della musica internazionale quali Cesária Évora, Dalida, Richard Galliano. Insomma molte esecuzioni con cui raffrontarsi: ebbene Cirinnà e compagni hanno felicemente superato la prova per la stretta attinenza mostrata nei confronti dell’originale grazie anche agli ottimi assolo di Rino Cirinnà e Vittorio Silvestri.

I NOSTRI CD: una raffica di recensioni!

I NOSTRI CD

Costanza Alegiani – “Lucio Dove vai?” – Parco della Musica Records
Nonostante l’ancor giovane età, Costanza Alegiani è artista intelligente, matura, consapevole dei propri mezzi espressivi. La conferma viene da questo eccellente album registrato dalla vocalist assieme al suo trio Folkways, composto da Marcello Allulli al sax e Riccardo Gola al contrabbasso, cui si aggiungono due ospiti eccellenti come Antonello Salis alla fisarmonica e Francesco Diodati alla chitarra. Come si evince dal titolo, l’album è dedicato alla figura di colui che personalmente considero il più grande cantautore italiano, Lucio Dalla. Un compito, quindi, da far tremare le vene ai polsi anche perché le composizioni di Dalla sono ben note e quindi il confronto è lì, dietro l’angolo. E già nella scelta del repertorio si nota la cura con cui la vocalist ha inteso confrontarsi con Dalla: trascurate – volutamente – le canzoni più note, la Alegiani ha pescato nel vasto repertorio degli anni ’60 e ’70 presentando pezzi egualmente splendidi. L’apertura è affidata a “La canzone di Orlando” con Gola e Allulli in grande spolvero e la vocalist intenta a definire al meglio i contorni di un gioiellino musicale.
Eccellente anche l’interpretazione de “La casa in riva al mare” sicuramente assieme a “Caruso” uno dei brani più toccanti di Dalla; Alegiani lo interpreta con sincera partecipazione ben coadiuvata dagli interventi di Antonello Salis alla fisarmonica. Ma questi sono solo due esempi di un disco che sono sicuro risulterà di sicura soddisfazione anche per i palati più esigenti. Ciò perché ritengo che il pregio maggiore dell’album consista nel fatto che la Alegiani sia riuscita a conservare una ben precisa identità in una prova di estrema difficoltà che le fa onore.

Ralph Alessi – “It’s Always Now” – ECM
Non si scopre certo l’acqua calda affermando che Ralph Alessi è attualmente uno dei migliori trombettisti in esercizio. In questo album, registrato negli studi di Stefano Amerio nel giugno del 2021, Ralph suona in quartetto assai ben coadiuvato dal pianista Florian Weber, da Bänz Oester al contrabbasso e dal batterista Gerry Hemingway. Si tratta di una nuova formazione che risulta perfettamente funzionale alle idee del leader che presenta tredici composizioni tutte sue, di cui solo tre scritte in collaborazione con Florian Weber. L’atmosfera è quella tipica degli album di Alessi: un minimalismo illuminato dalle sortite del trombettista che nulla concede allo spettacolo. La sua musica è intensa ma allo stesso tempo raccolta, quasi sussurrata come se avesse paura di nuocere, di disturbare. Di qui la necessità di una sezione ritmica che consenta di dare il giusto peso ad ogni passaggio, ad ogni cambio di direzione per quanto poco percettibile lo stesso possa essere. Ne abbiamo un chiaro esempio in “Portion control” in cui il pallino è nelle mani dell’intera sezione ritmica mentre Alessi sordina la sua tromba che passa così in secondo piano. Comunque i brani che maggiormente mi hanno impressionato sono la title track e “Tumbleweed”; nella prima – “It’s Always Now” – c’è come un richiamo proveniente da lontano che a poco a poco si svela alle nostre orecchie mentre la conclusiva “Tumbleweed” mostra un Alessi in stato di grazia, un artista capace di improvvisare magnificamente senza  mai perdere le fila del discorso.

Daniel Besthorn – “Emotions” – Alfa Music
Album d’esordio per questo batterista tedesco da poco residente in Italia. Se, come si dice, il buon giorno si vede dal mattino, non c’è dubbio che di questo musicista sentiremo parlare e a lungo. Daniel si presenta alla testa di un gruppo piuttosto nutrito, denominato “Radiance” e formato da otto eccellenti giovani musicisti che provengono da Germania, Svizzera e Polonia, mentre nel conclusivo “The Rawness and Finesse of The Drums” si ascolta anche Iago Fernandez alla batteria. In repertorio sei brani di cui ben cinque composti e arrangiati dallo stesso Besthorn e “Hyperactive Mole” firmato dal pianista Tobias Altripp che fa parte del gruppo. Il fatto che Daniel abbia scelto per il suo album d’esordio un programma da lui scritto quasi interamente evidenzia come il batterista abbia voluto presentare le sue molteplici abilità: non solo valido batterista ma anche solido arrangiatore e fantasioso compositore. E la prova viene superata a pieni voti dal momento che l’album è piacevole, si ascolta tutto d’un fiato dall’inizio alla fine e tiene fede alle premesse insite nel titolo. In effetti la musica di Besthorn è in grado di produrre emozioni in chi la ascolta sia perché spesso riesce ad essere totalmente inattesa pur restando nel solco di un filo logico perfettamente individuabile, sia perché alcuni brani sono davvero ben costruiti ed eseguiti. E’ il caso, ad esempio, della ballad “That Time” impreziosita da un assolo di Florian Fries al sax tenore, in possesso di un bel timbro e di un eloquio fluido e pertinente, mentre anche il pianista Tobias Altripp trova il modo di mettersi in luce.

Maurizio Brunod – “Trip with The Lady” – H Fi Diprinzio; Brunod, Gallo, Barbiero – “Gulliver” – Via Veneto Jazz
Maurizio Brunod è chitarrista sensibile e raffinato; si ripresenta al pubblico con due album veramente diversi, registrati quasi nello stesso periodo, vale a dire il primo trimestre del 2022. “Trip with The Lady” rappresenta un punto di svolta nella storia artistica di Brunod che per la prima volta registra un album per sola chitarra acustica.
E il perché tutto ciò è accaduto vale la pena di essere raccontato. “Lady” è un modello speciale di chitarra prodotto dal liutaio italiano Mirko Borghino in omaggio alla marca automobilistica Rolls Royce ed al suo Club di Enthusiasts; prodotto in esemplare unico lo strumento ha letteralmente stregato Brunod inducendolo a progettare e realizzare il primo disco con la sola chitarra acustica. Il risultato è eccellente e non poteva essere diversamente dati due fattori imprescindibili: la bravura strumentale e compositiva di Maurizio e la sua approfondita conoscenza dell’universo musicale che lo ha portato a predisporre un repertorio di tutto rispetto in cui accanto a sue composizioni, figurano alcune delle più belle pagine della letteratura jazzistica come l’immortale “Naima di John Coltrane e “My One and Only Love” di Wood e Mellin.
Nel secondo album, “Gulliver”, Brunod suona in trio con altri due grandi del jazz italiano quali Danilo Gallo al contrabbasso e Massimo Barbiero batteria e percussioni.
Si tratta del secondo album del trio (dopo “Extrema Ratio del 2016) che conferma appieno quanto di buono si era ascoltato nel precedente. Il titolo dell’album e i titoli dei vari brani ci introducono assai bene nel tipo di musica che ascolteremo. Siamo nel campo di un folk che serve da immenso serbatoio da cui trarre ispirazione per una musica che non conosce tempo né spazio né tanto meno confini stilistici. Il loro è un viaggio declinato tra i temi popolari: si passa così dalla fiabesca “Gaungling” tradizionale cinese, ad “Albero bianco” (originale di Danilo Gallo), dalla piemontese “Maria Giuana” al notissimo “El pueblo unido” (di rilievo la performance di Brunod), fino a “Time to remember” (di Brunod) riletto come un “quasi-tango”, per giungere alla conclusione con la rete (Altro originale di Massimo Barbiero). I tre si lasciano andare a escursioni solistiche che però mai perdono di vista il discorso generale: così le corde delle chitarre di Brunod vibrano magnificamente mentre Danilo Gallo evidenzia l’essenzialità del suo incedere quale punto di raccordo tra chitarra e batteria. Dal canto suo Barbiero procede con la sua straordinaria eleganza nel percuotere pelli e piatti.

Ludovica Burtone – “Sparks” – Outside In Music
Ho avuto modo di ascoltare live Ludovica Burtone qualche anno fa durante ‘Udine Jazz’ ed essendone rimasto particolarmente colpito ho voluto avvicinarla e scambiare con lei quattro chiacchiere. Ho così avuto la percezione di un’artista matura, perfettamente consapevole degli obiettivi da raggiungere e di come raggiungerli. Ed eccoli qui questi obiettivi, sintetizzati nell’ottimo album che è stato presentato martedì 11 aprile alle 19 al Barbès di Brooklyn, La violinista italiana, adesso stabilitasi negli States, è coadiuvata da ottimi musicisti quali Fung Chern Hwei (violino), Leonor Falcon Pasquali (viola), Mariel Roberts (violoncello), Marta Sanchez (pianoforte), Matt Aronoff (contrabbasso) e Nathan Elmann-Bell (batteria), più cinque ospiti come Sami Stevens (voce in “Altrove”), Melissa Aldana (sax tenore in “Awakening”), Leandro Pellegrino (chitarra in “Sinhà”), Roberto Giaquinto (batteria in “Incontri”) e Rogerio Boccato (percussioni ancora in “Sinhá”). Il programma consta di sei brani, cinque composti da Ludovica Burtone, mentre “Sinhá”, che apre l’album, è un sentito omaggio a due artisti brasiliani come Chico Buarque e João Bosco autori del brano, arrangiato nell’occasione dalla violinista. Tracciate così le linee guida dell’album, occorre sottolineare i motivi ispiratori della poetica di Burtone, che traggono origine tanto dalla musica colta quanto dal jazz senza dimenticare le melopee mediterranee. Insomma un universo amplio da cui la Burtone sembra trarre quegli elementi che meglio si attagliano alla sua sensibilità per una performance davvero notevole.

Claudio Cojaniz – “Black” – Caligola
Titolo non potrebbe essere più esplicativo: il pianista friulano Claudio Cojaniz, in trio con Mattia Magatelli al contrabbasso e Carmelo Graceffa batterista siciliano messosi in luce con il gruppo del sassofonista, anch’egli siciliano, Gianni Gebbia. prosegue lungo la strada tracciata dai numerosi album precedenti anche se questa volta forse rende ancora più esplicito il senso del blues presente nel suo pianismo. Di qui una ricerca melodica che assume varie connotazioni; così ad esempio in “Martin Fierro”, brano che s’ispira al celebre romanzo dell’argentino Josè Hernandez, pubblicato originariamente nel 1872, la melodia di Cojaniz è toccante nella sua esposizione in cui coesistono malinconia, storie di vite vissute e storia di una nazione che scorrono sui tasti del pianista tra echi di tradizionalismo folk e musica classica; sempre con riferimento a questo brano da sottolineare la superba introduzione del contrabbassista Magatelli che fa intravvedere immediatamente quale sarà l’atmosfera del pezzo. Il concentrarsi sulla perfezione melodica ha portato la musica di Cojaniz a un livello di estrema originalità che, a nostro avviso, raggiunge il punto più alto nell’esecuzione di “Mon Amour. A” uno dei due brani eseguiti per piano solo (l’altro è il conclusivo “Ola de fuerza”). Lì dentro c’è tutta l’essenza del blues, materia che Cojaniz ha talmente bene introitato da riuscire a renderla personale con un pianismo mai ridondante che ci riporta un po’ indietro nel tempo. Molto interessante anche il già citato “Ola de fuerza”:
Cojaniz sembra abbandonare quel terreno su cui si era addentrato nei precedenti brani per inerpicarsi su scoscesi sentieri quasi free in cui si lascia andare ad una improvvisazione che non delude….tutt’altro!

Marc Copland Quartet – “Someday” – innerVoiceJazz
A 74 anni, il pianista statunitense Marc Copland si mantiene meravigliosamente sulla cresta dell’onda. Un ulteriore prova l’abbiamo da quest’ultimo lavoro in cui Marc si presenta alla testa di un quartetto completato da Drew Gress bassista già assieme a Copland in numerose avventure, Robin Verheyen sassofonista anch’egli accanto al leader nel corso degli ultimi dieci anni e Mark Ferber batterista attivo tra New York e Los Angeles e ben conosciuto dagli appassionati di jazz per aver suonato accanto a Gary Peacock in trio e a Ralph Alessi in quintetto. Il repertorio dell’album comprende tre classici del jazz quali “Someday My Prince Will Come” di (Churchill e Moray) ,  “Let’s Cool One” di Monk e “Nardis” di Miles Davis accanto ad altri cinque original, di cui tre a firma Copland e due Verheyen. Parlando di Marc Copland riferirsi alla delicatezza di tocco, alla tecnica sopraffina, alla profondità delle armonie, alle straordinarie capacità improvvisative, al gusto per suadenti melodie sembrerebbe quasi superfluo…ma sicuramente tra chi ci legge ci saranno dei giovani che magari poco o nulla conoscono di Copland. Ecco io credo che basti l’ascolto di questo album per rendersi conto di chi sia Marc Copland non solo come esecutore ma anche come autore. Al riguardo si ascolti “Day And Night” (il brano più lungo dell’album) in cui oltre alla bellezza del tema, si può ammirare il modo in cui Marc riesca ad esaltare il ruolo dei suoi compagni, in primo luogo del sassofonista assolutamente convincente, mentre Ferber sostiene il tutto con un drumming propulsivo ma non invasivo ben coadiuvato in ciò dal basso di Gress. Dal canto suo Copland si produce in uno dei suoi assolo che si pone quasi come una sorta di enciclopedia del pianismo jazz.

Ilaria Crociani – “Connecting The Dots” –
E’ con vero piacere che presento questo disco proveniente niente popò di meno che dall’Australia. Protagonista una vocalist italiana alla testa di un settetto composto da Mirko Guerrini sax, clarinetto, tastiere e composizione, Paul Grabowsky pianoforte e composizione, John Griffith liuto, Geoff Hughes chitarra, Ben Robertson contrabbasso e basso elettrico e Niko Schäuble batteria e percussioni. L’album ha una storia particolare: nel 2021 Ilaria viene incaricata da ABC Jazz di scrivere e registrare una nuova serie di brani che portassero in vita storie di donne australiane e straniere in un mix eclettico. La vocalist accetta la sfida e la vince alla grande; in effetti l’album si fa particolarmente apprezzare non solo per la qualità della musica ma anche per ciò che la Crociani ha saputo rappresentare, vale a dire la storia di “donne che hanno fatto la differenza”. “L’ispirazione di questo album nasce dalla mia esperienza di emigrazione”, racconta la vocalist nel corso di una intervista, ed in effetti ascoltando l’album questa tensione morale si avverte esplicita. Soffermandoci in particolare sugli aspetti squisitamente musicali, occorre dire che l’album è ben congegnato con la bella voce di Ilaria che interpreta con partecipazione testi non proprio facilissimi, anche perché le atmosfere cambiano passando dalle ballad (‘Cosa Resta del Giorno, ‘Gina’ or ‘Stones of Fire’) al jazz più moderno, dalle influenze latine (‘Mary Lou’) a sonorità più vicine al rock e al reggae (‘Silent Words’, ‘The author is dead’, ‘Eat my dust’). Ovviamente tutto ciò non sarebbe stato possibile se ad accompagnare la vocalist non ci fosse un gruppo di prim’ordine, un gruppo che si muove all’unisono con forti individualità e sapienti arrangiamenti.

Maurizio Giammarco Rumours – “Past Present “ – Parco della Musica Records
“Rumours” è il nome del nuovo gruppo di Maurizio Giammarco comprendente Fulvio Sigurtà trombettista ben presente anche sulla scena londinese, Riccardo Del Fra contrabbassista, dal 2004 responsabile del Dipartimento Jazz e Musiche Improvvisate al Conservatorio Nazionale Superiore di Musica e Danza di Parigi, e Ferenc Nemeth batterista di origine ungherese, tra i più richiesti in questo momento;  quindi due fiati, contrabbasso e batteria, una formazione piuttosto anomala ma che nel jazz vanta precedenti illustri e che lo stesso Giammarco aveva sperimentato nei primi anni della carriera quando nel 1976 costituì un gruppo con Tommaso Vittorini, Enzo Pietropaoli, e Roberto Gatto. Appositamente per questo gruppo Giammarco ha scritto alcune composizioni cui ha aggiunto altri brani della tradizione a costituire un repertorio di 13 brani che lumeggiano assai bene la complessa e poliedrica personalità di Giammarco. Il sassofonista (tra i migliori in esercizio nell’intera Europa) con questo album conferma ampiamente quanto già si conosceva sul suo conto: strumentista sopraffino, compositore di ampio respiro, leader capace, arrangiatore originale, Giammarco tiene perfettamente in mano le redini del discorso anche quando da un discorso collettivo si vira decisamente verso il free dando a ciascuno una certa libertà d’espressione. Ma il concetto su cui Giammarco insiste da tempo e che viene ripreso anche nel titolo dell’album è l’importanza di un ponte che leghi la grande tradizione del passato con il presente come base insostituibile su cui costruire il futuro. In tal senso spiccano i magistrali arrangiamenti di due celebri pezzi ellingtoniani come “Prelude to a Kiss” e “The Mooche” resi magnificamente anche con il solo quartetto, mentre in “Desireless” di Don Cherry, ascoltiamo un superlativo Riccardo Del Fra, che ci accompagna in un lungo viaggio all’indietro, meta: gli anni ’70.

Vicky Chow – “Philip Glass Piano Etudes Book 1” – Cantaloupe
Nel gennaio scorso ha festeggiato i suoi 86 anni Philip Glass, il compositore statunitense a ben ragione considerato uno dei padri del minimalismo assieme a Steve Reich e Terry Riley. Lo omaggia in musica la pianista canadese originaria di Hong Kong, Vicky Chow, considerata dalla stampa statunitense una delle strumentiste più innovative, prestigiose, originali e brillanti degli ultimi anni. La Chow nel 2020 ha registrato il Book 1 degli studi di Glass per pianoforte. La musica del compositore di Baltimora ha un suo indubbio fascino ma deve essere interpretata al meglio, con profonda cognizione di causa e sincera partecipazione. Doti che Chow mette in luce sottolineando come lei sia completamente “innamorata” di queste partiture dopo averle eseguite, assieme ad altri pianisti, nel 2018 nel corso di uno stage in Canada. Se a ciò si aggiunga il fatto che Chow conosce bene Glass per averlo frequentato a New York come membro, tra l’altro, della “Bang on a Can All-Stars” si capirà ancor meglio il perché questa pianista sia perfettamente in grado di interpretare le musiche di Glass senza minimamente tradirne l’originario significato. Non a caso è lo stesso Glass a spendersi in una esplicita lode nei confronti della pianista e del disco: “E’ una performance molto dinamica ed espressiva. C’è una certa energia che è unicamente sua”.

JugendJazzOrchester – “Spicey” – ATS
Questo album mi offre l’opportunità di parlare della JugendJazzOrchester: si tratta di una formazione che offre ai giovani musicisti di talento dell’Alta Austria l’opportunità di lavorare per un periodo di alcuni mesi su un programma creato appositamente per l’ensemble e di eseguirlo poi nell’ambito di una tournée nazionale. La direzione artistica è affidata a Benjamin Weidekamp e in pochi anni l’orchestra si è rivelata al pubblico come ensemble degno della massima attenzione. Questo album è davvero ottimo: ascoltatelo tutto con attenzione e mi darete ragione. L’organico è quello proprio di una big band classica: cinque sassofoni, quattro trombe, quattro tromboni (di cui uno basso), tastiera, basso elettrico, chitarra elettrica, batteria, un coro di cinque elementi e due cantanti solisti, il tutto sotto la direzione artistica di Andreas Lachberger. Così strutturata l’orchestra fila via come un meccanismo assai ben rodato e i brani sono interessanti, illuminati dagli assolo dei vari musicisti che confermano tutti una preparazione di alto livello. Non è certo un caso se Bob Mintzer, sassofonista su cui non vale la pena spendere parole, e che ritroviamo nel disco come arrangiatore in tre brani, si è lasciato andare ad un giudizio molto positivo sull’orchestra elogiando in particolare il lavoro dello stesso Lachberger : “il futuro della big band jazz – afferma Mintzer – è in buone mani” . E come dargli torto?

Edi Kohldorfer – “Fish & Fowl” – ATS

Il chitarrista austriaco (classe 1966) si ripresenta al suo pubblico alla testa di un settetto ad interpretare con forza e partecipazione un repertorio di undici brani firmati in massima parte dallo stesso leader. Musicista indubbiamente ben preparato, Edi scava in questo album il terreno periglioso della free improvisation con risultati non sempre ottimali. In effetti se il brano d’apertura “Rumex” lascia piuttosto perplessi, il successivo “Willughbeia Sarawacensis” evidenzia un gruppo molto compatto, con il leader che svetta su tutti grazie ad una tecnica assolutamente ineccepibile. E la cosa si spiega facilmente ove si tenga conto che Edi ha studiato chitarra classica prima di cimentarsi in ambiti rock e jazz. Tornando all’album, le cose migliorano ancora quando entrano in campo i due vocalist Anna Anderluh e Stefan Sterzinger. Comunque, in buona sostanza, il clima dell’album non muta sostanzialmente: i musicisti probabilmente improvvisano in modo collettivo sì da rendere impossibile la lettura di una qualche linea melodica e anche la struttura ritmica – ammesso che di ciò si possa parlare – è sempre difficile da seguire. Quindi piena soddisfazione per gli amanti di questo genere mentre per gli altri non resta che attendere l’austriaco nelle successive prove.

Roberto Laneri – “Wintertraume” – Da Vinci Classics
Quando mi ha telefonato per informarmi dell’uscita di questo album, Laneri mi ha detto: “vedrai che questa volta ti sorprenderò” Ed aveva ragione. L’album è sicuramente particolare…per usare un eufemismo. In effetti Laneri ha concepito un qualcosa di veramente originale ma allo stesso temo pericoloso, come avvicinarsi a fili elettrici scoperti con noncuranza. In buona sostanza Laneri si è rivolto ad alcuni capolavori della musica colta cercando di riattualizzarli attraverso una complessa operazione di scomposizione e ricomposizione, senza che tutto ciò suoni come un’operazione blasfema. I compositori presi in considerazione da Laneri sono molteplici passando da Schubert a Strauss, da Dowland a Weill, da Tarrega a Liszt, da Debussy a Brahms. Dal punto di vista esecutivo Laneri si avvale delle voci di Elisa Rossi, Benedetta Manfriani, Agnese Banti e Frauke Aulbert suonando egli stesso clarinetti e sassofoni; ma nella originale visione dell’artista figura anche il processo di registrazione e missaggio come un’attività compositiva a sé stante, modalità che nel mondo del jazz trova molti illustri precedenti. Il risultato finale può definirsi soddisfacente: il progetto è assai ben articolato e si avvale delle indubbie qualità di Laneri sia come profondo conoscitore dell’universo musicale, sia come raffinato esecutore capace di eseguire al meglio anche le più raffinate e complesse partiture.

Dominic Miller – “Vagabond “ – ECM
Dopo ‘Silent Light’ (2017) e ‘Absinthe’ (2019) ecco il terzo album registrato da Dominic Miller per la ECM. Alla testa di un quartetto completato da Jacob Karlzon al pianoforte, Nicola Fiszmann al basso elettrico e Ziv Ravitz alla batteria, il chitarrista argentino (Buenos Aires 1960) presenta un repertorio di otto brani da lui stessi composti a confermare la tesi che Miller è un musicista completo, in grado di far suonare bene la sua chitarra ma anche di comporre brani tutt’altro che banali. L’album si sviluppa con una coerenza che l’accompagna dalla prima all’ultima nota. In effetti tutti i brani sono caratterizzati da una squisita ricerca della linea melodica che appare così l’elemento caratterizzante la poetica del leader. In effetti in primo piano ascoltiamo spesso la chitarra di Dominic che però mai oscura i compagni di viaggio che hanno così la possibilità di mettere in luce le proprie potenzialità. Si ascolti ad esempio “Clandestin”: introduce Miller quasi subito raggiunto da Karlzon; dopo un minuto ecco la sezione ritmica su cui si staglia un bellissimo assolo del pianista. Ed è ancora Karlzon in primo piano nel successivo “Altea”: spetta a lui il compito di accelerare il ritmo introducendo così una sorta di novità che però non si allontana minimamente dal clima generale. Ripreso immediatamente in “Mi Viejo” un brano che Miller dedica alla figura del padre con una dolce melodia non a caso eseguita dalla chitarra in solo. L’album si chiude con “Lone Waltz” un episodio che si pone come una sorta di resumé di quanto ascoltato fino al quel momento, con il quartetto impegnato in momenti di “insieme” davvero notevoli.

Bobo Stenson – “Sphere” – ECM

Tra i pianisti di maggior prestigio che il jazz europeo abbia saputo offrire agli appassionati, c’è sicuramente lo svedese Bobo Stenson che, ad onta della sua non giovanissima età (classe 1944) continua a deliziare il pubblico con i suoi dischi. Quest’ultimo “Sphere” è nel suo genere una dimostrazione di come debba essere inteso il jazz oggi: non più una musica connotata da parametri specifici, da regole che nessuno ha scritto, ma un modo di interpretare sé stessi e la realtà che ci circonda lasciandosi andare alle emozioni, all’estro del momento. Ovviamente per incamminarsi su questa strada occorrono una eccellente preparazione tecnica, una perfetta consapevolezza dei propri mezzi espressivi, una visione molto larga di ciò che la musica significa e rappresenta. A ciò si aggiunga, se si suona in trio (come in questo caso), la capacità di saper guidare con mano ferma i propri compagni di viaggio. Ecco, al riguardo la maestria di Stenson risaltare evidente ove si tenga conto del fatto che il batterista Jon Fält e il contrabbassista Anders Jormin – suoi abituali compagni di viaggio – riescono a seguirlo in ogni momento: si ascolti al riguardo “Unquestioned answer – Charles Ives in memoriam” un brano di Jormin dedicato alla memoria del compositore americano Charles Ives (1874-1954), perfettamente riuscito in ogni sua più sfuggevole nuance. E questo clima etereo, quasi di indeterminatezza, si ascolta, si percepisce in tutto l’album con il trio che si muove speditamente sulle ali di una interazione sempre presente. Tra gli altri brani particolarmente incisivo “Kingdom of coldness”, a firma di Jormin; tra le tante astrazioni cui si faceva rifermento, questo è il brano probabilmente più terreno che non a caso si configura come una ballad in cui, manco a dirlo, Stenson distilla ogni singola nota a disegnare una linea melodica suggestiva.

Stefania Tallini, Franco Piana – “E se domani” -Alfa Music
Stefania tallini vocalist e Franco Piana trombettista, flicornista e nell’occasione anche vocalist e percussionista sono due artisti che “A proposito di jazz” ha sempre seguito con grande attenzione sottolineandone la invidiabile statura artistica. Statura che viene vieppiù evidenziata da questo album in duo, una formula, quindi, molto, molto pericolosa che può essere affrontata con successo solo da artisti veramente tali. L’album presenta un titolo assai significativo ma allo stesso tempo ingannevole: si potrebbe credere che i due abbiano scelto un programma basato sulle canzoni e, invece, nove dei quattordici brani sono composizioni originali che ben descrivono le capacità compositive dei due, mentre gli altri cinque si rivolgono al pop italiano, al Brasile, al jazz e al songbook statunitense. Il risultato è eccellente e per una serie di motivi facilmente identificabili. Innanzitutto la scelta del repertorio e la bellezza dei temi originali; in secondo luogo le capacità dei due che si integrano alla perfezione grazie anche ai sapidi arrangiamenti della pianista che rendono difficile distinguere tra parti scritte e parti improvvisate. Non a caso è la stessa Tallini a sottolineare come si tratti di “un disco nato nella più totale spontaneità e naturalezza, a seguito di una serie di concerti attraverso cui il nostro duo è cresciuto sempre più, rivelandone l’incredibile feeling e intesa, musicale e umana». Concetto ripreso da Piana: «Per me – afferma – è un’esperienza nuova che mi fa molto piacere condividere con una grande artista, sensibile e musicale come Stefania Tallini. Un disco in cui ritorno un po’ alle mie origini…come quando da bambino, non avendo ancora la tromba, mi divertivo a cantare i soli dei miei jazzisti preferiti, accompagnandomi con qualsiasi oggetto potesse essere percosso: in pratica un percussionista «scattante» inconsapevole”.

Gianluigi Trovesi, Stefano Montanari – “Stravaganze consonanti” – ECM
Titolo al limite dell’illogico per una musica che, viceversa, di logica ne ha molta. Responsabili del progetto il multistrumentista Gianluigi Trovesi e Stefano Montanari nella veste di concertmaster a guidare un ensemble di 12 musicisti. In repertorio 15 brani, alcuni scritti da Trovesi (uno assieme a Fulvio Maras alle percussioni), gli altri si rifanno direttamente ad alcuni autori del passato quali Henry Purcell, esponente del barocco inglese seicentesco, Giovanni Maria Trabaci, anch’egli esponente del barocco ma italiano (1575-1647), Guillaume Dufay (1400-1474), Giovanni Battista Buonamente (1595-1642), Andrea Falconieri (1586-1656) e Josquin Desprez (1450?-1521). Insomma un parterre di autori davvero straordinario, sicuramente difficili da attualizzare con un linguaggio che, come si evince nel titolo, sia da un canto coerente con le premesse autoriali, dall’altro originale nella sua esplicazione. Impresa, quindi, particolarmente difficile, ma sfida vinta compiutamente grazie soprattutto alla genuina “follia” dei musicisti coinvolti che sono riusciti a ricreare un clima in cui potessero coesistere repertorio classico, improvvisazione jazz e melodie popolari; così non è certo un caso se i brani dell’album si concatenano e si sovrappongono con estrema naturalezza, senza che per un solo attimo l’album perda la sua coerenza intrinseca. Quasi inutile, eppure doveroso, sottolineare che la riuscita dell’album è dovuta anche alla bravura dei musicisti (alcuni dei quali fanno parte dell’Accademia Bizantina di Ravenna) che hanno accompagnato i due capofila, pronti a seguire le volontà dei leaders attuando anch’essi un linguaggio ”stravagante”.

Ralph Towner – “At First Light” – ECM
“First Light” è anche il titolo di un album del 1971 inciso da Freddie Hubbard, un album spumeggiante in cui il trombettista da un assaggio delle sue eccezionali qualità strumentali…e non solo. Ecco, chi si aspetta di trovare qualcosa del genere anche in questo album, ne resterà profondamente deluso. Tanto esuberante, estroverso è Freddie Hubbard, tanto intimista, raccolto è Ralph Towner anche in quest’ultimo album, registrato a Lugano nel 2022. Nell’occasione Towner suona esclusivamente la chitarra classica a sei corde e presenta un repertorio di undici brani di cui otto sue composizioni e tre classici del jazz quali il traditional “Danny Boy, il sempre verde “Make Someone Happy” di Jule Styne e “Little Old Lady” di Hoagy Carmichael.. L’intero disco si sviluppa brevemente – all’incirca 45 minuti – ma del tutto sufficienti a lumeggiare la statura del personaggio. A 83 anni suonati, Ralph nulla ha perso delle caratteristiche che già molti anni fa lo resero personaggio unico nel suo genere: artista scevro da qualsivoglia esibizionismo, sempre in possesso di una tecnica personale (unica la delicatezza del tocco) e perfettamente funzionale all’esposizione delle proprie idee, con uno stile contrassegnato dall’amore per alcuni grandi del passato come Gershwin, Coltrane e Bill Evans (influenze che appaiono chiaramente anche in questo lavoro). Tra i brani degni di menzione la title-track sospesa tra presente, passato e futuro, la splendida seppure brevissima “Argentinian Nights” e la conclusiva “Empty Stage” dall’atmosfera malinconica così come suggerisce l’eloquente titolo.

Frederik Villmow – “Momentum” – Losen
In questo suo nuovo album, il batterista Frederik Villmow è alla testa di un quintetto molto ben equilibrato. In effetti le caratteristiche fondamentali del CD sono illustrate dallo stesso leader nelle note che accompagnano la musica: innanzitutto la volontà di tutti i musicisti di salvaguardare la propria identità sia come strumentista sia come compositore senza incidere sull’omogeneità del tutto; in secondo luogo la gioia di suonare assieme improvvisando. Non a caso ad eccezione di “Eternity” per tutti gli altri brani è stata sufficiente la prima take. Ciò premesso, occorre sottolineare come il clima generale si avvicina molto al free storico: spesso il brano non è stato nemmeno provato e basta un cenno del leader per iniziare a suonare dopo di che tutto è lasciato all’empatia che regna in studio. Un esempio probante al riguardo è “B-flat” della pianista Olga Konkova. Viceversa altri pezzi – come “Ali kurerer gruff”, “Momentum” e Eternity” presentano un tema scritto e sono basati su una certa struttura ritmica. Come già sottolineato a proposito dell’album “Fish & Fowl” del chitarrista austriaco Edi Kohldorfer inciso per la ATS, l’album si rivolge ad una fetta ben precisa degli appassionati di jazz i quali ancora oggi prediligono le improvvisazioni collettive. Per tutti gli altri crediamo che l’ascolto sia piuttosto duro…ma se si ha la pazienza di arrivare alla fine del disco probabilmente si avrà modo di apprezzare anche questo genere pur nella sua precisa collocazione storica e politica.

Gerlando Gatto

Christian McBride: la mia passione è suonare il contrabbasso

Nell’odierna realtà jazzistica se c’è un personaggio che riesce a racchiudere tutte quelle qualità che fanno di un buon musicista un eccezionale artista questi è sicuramente Christian McBride. Strumentista portentoso, compositore e arrangiatore di sicuro livello, didatta coscienzioso (con la moglie, la cantante Melissa Walker, diplomata anche come educatrice, crea a Montclair, New Jersey, una scuola la Jazz house Kids), sembra mai accontentarsi e così nel marzo 2016 viene nominato direttore artistico del Newport Jazz Festival. Il tutto condito da una serie di riconoscimenti ufficiali tra cui ben otto Grammy.

Originario di Filadelfia, classe 1972, ha un aspetto imponente: alto, massiccio, con una bella voce profonda e leggermente roca all’apparenza non sembra certo il tipo con cui vorresti avere qualche incontro ravvicinato del terzo tipo. Ma quando lo incontri e gli parli, l’impressione cambia radicalmente: Christian è persona squisita, gentile, comprensivo, che parla volentieri e non elude alcuna domanda.

Cominciamo da un fatto che mi incuriosisce parecchio. Lei è molto giovane eppure ha già fatto davvero tante, tante cose. Tournée, didattica, produzione, composizione, direzione di big band, tecnica straordinaria sullo strumento…e potrei continuare. Cosa preferisce fare?
“Innanzitutto vorrei precisare che non sono così giovane. Ad oggi sono cinquant’anni. Quel che ho fatto non è stato tutto pianificato, è venuto così dove mi ha portato la mia anima. Quando sono andato a vivere a New York per la prima volta, trentadue anni fa, volevo solo suonare con i miei eroi e molto di questo è successo. Per quanto concerne ciò che è venuto dopo, ho solo proseguito lungo il cammino. Comunque tornando alla sua domanda preferisco suonare il basso…e non sto scherzando. Da sempre suonare il contrabbasso è la mia passione, ciò che realmente mi riempie il cuore di gioia. Io davvero mi auguro che tutti i musicisti abbiano queste stesse possibilità, di sentirsi felici quando suonano il proprio strumento”.

Data questa sua passione per il contrabbasso, lei preferisce suonarlo nell’ambito di un’orchestra o di un combo?
“Per me è assolutamente lo stesso. Metto lo stesso impegno, la stessa passione e mi diverto allo stesso modo sia se suono all’interno di una big band, sia che mi trovo a far parte di un trio o un quartetto”.

Cosa ricorda di una delle sue prime collaborazioni, quella con Bobby Watson parecchi anni fa, se non sbaglio nel 1989?
“Ero alle primissime settimane di college quando qualcuno mi ha detto ‘ehi c’è uno strano tipo che ti sta cercando, ma non sappiamo il suo nome’. Così me ne sono andato a seguire la successiva lezione ma altri studenti mi hanno ripetuto che qualcuno mi stava cercando. Così quando sono andato a pranzo, seduto ad un tavolo leggendo un giornale l’ho visto: era Bobby Watson che già conoscevo. Appena sono entrato e l’ho visto, l’ho salutato calorosamente e lui mi ha risposto: ‘ehi, ti stavo cercando; che fai questo fine settimana? Ho un regalo per te. Suoniamo al Birdland con James Williams che suona il piano, Victor Lewis alla batteria”. Cosa ricordo di questo episodio? Che ero molto, molto spaventato. Quel pomeriggio abbiamo provato e poi è andato tutto bene. Sono rimasto nella band di Bobby Watson per due anni”

Così poco? Io avevo letto che avevate suonato assieme per più tempo…
“No, con la stessa band sono rimasto due anni. Poi, sai come succede, se uno si fa un nome finisce con il suonare con un sacco di gente. E ovviamente a me è capitato anche in seguito di suonare con Bobby. Ma nello stesso tempo ho avuto modo di suonare con altri grandissimi musicisti quali, tanto per fare qualche nome in ordine cronologico, ho lavorato dapprima con Ray Hargrove, quindi con Benny Golson, e poi con Freddie Hubbard. Tra il 1989 e il 1992 ho fatto molti concerti con diversi leader”.

Un altro dei grandi musicisti cui Lei è particolarmente affezionato è sicuramente Chick Corea. Come ricorda questo artista?
“Lui è stato una delle persone più straordinarie, meravigliose che io abbia incontrato nel corso della mia vita. Certo era un grande compositore, un grandissimo pianista, ma soprattutto una bellissima persona”.

In che senso?
“Abbiamo collaborato per ben ventisei anni e in questo lungo periodo mai una volta l’ho visto rivolgersi male verso qualcuno, essere sgarbato…insomma era davvero una brava persona, una persona per bene: nel mondo ci sarebbe bisogno di molte più persone come lui. Da un punto di vista più strettamente musicale, Chick mi spronava sempre a comporre aggiungendo che lo facevo bene. Ma egualmente io mi sentivo in imbarazzo davanti a lui in quanto, mi creda, Chick Corea è stato uno dei compositori più illuminati del secolo scorso”.

Chick a parte, qual è la collaborazione che ricorda con più piacere?
“Quella con James Brown, l’eroe della mia infanzia. Suonare con lui per me è stato come realizzare un sogno. Quando mi ha chiamato io ero, in un certo senso, più che preparato…conoscevo ogni suo pezzo, conoscevo tutto ciò che aveva fatto nel corso della sua carriera. Quindi nel momento in cui, quando festeggiava il suo 64simo compleanno, nel corso di una sorta di jam session mi chiamò sul palco, ero letteralmente al settimo cielo. Poi ho prodotto uno dei suoi ultimi spettacoli ed è stata un’esperienza unica, straordinaria, meravigliosa”.

Bene. E cosa pensi di Marvin Gaye?
“Anche lui è una leggenda. Ci sono molti cantanti r&b, soul che sono anche eccellenti musicisti jazz. Herbie Hancock racconta questa bella storia di quando entrando in uno studio di registrazione ha incontrato per la prima volta Marvin Gaye che intonava magnificamente al pianoforte “Maiden Voyage” (Uno dei brani più conosciuti di Hancock ndr). Non so se Winton Marsalis, entrando in uno studio, potrebbe incontrare John Legend che intona uno dei suoi brani. Mi piace moltissimo anche Stevie Wonder: lui è il re”

Cosa pensa del cd. ‘modern jazz’?
“Onestamente devo dire che non lo amo particolarmente. Bisogna però intendersi meglio. Oggi per modern jazz si intende la musica suonata per lo più da ventenni. In realtà molti giovani suonano mescolando ad esempio suoni acustici con l’elettronica, cosa certo non nuova, e alle volte devo ascoltare questa musica anche due volte per entrarci dentro ma ciò mi piace. Insomma in linea di massima questo tipo di espressione non mi soddisfa pienamente anche se devo riconoscere che ci sono cose interessanti”.

Pensa sia possibile parlare oggi di jazz americano, jazz europeo, jazz italiano?
“Non sono molto bravo ad operare simili distinzioni. Io penso che il jazz è jazz: il jazz è nato in America e da lì tutto deriva, anche la musica improvvisata europea, anche quella asiatica seppure innervata da elementi tratti dalle culture locali. Ciò non toglie, ovviamente, che ci siano eccellenti musicisti di jazz in tutto il mondo”.

Cosa conosce del jazz made in Italy?
“Tete Montoliou, Michel Petrucciani…”

Mi scusi ma l’uno è spagnolo e l’altro di origine italiana ma francese…
“Stefano Di Battista…”

Sì con lui ci siamo, e poi?
“Il contrabbassista Giuseppe Bassi che è un mio caro amico e poi naturalmente Paolo Fresu”.

Perché lo stato della popolazione afroamericana negli States è sempre così complessa, per usare un eufemismo?
“Io penso che in tutto il mondo, ma particolarmente negli Stati Uniti, ci sia un problema di razza e allo stesso tempo di classe sociale, di soldi. Se tu sei ricco nessun problema; viceversa i bianchi che sono poveri hanno gli stessi problemi dei neri poveri, degli asiatici poveri, dei latini poveri. A ciò si aggiunga il razzismo verso la gente di colore che negli States è ancora forte. E’ molto difficile che quanti hanno tanti soldi si prendano cura di chi è realmente povero. Questa è la grande sfida da affrontare subito”.

Personalmente Lei ha avuto brutte esperienze in tal senso?
“Certo che sì. Ogni cittadino americano di colore tra i sedici e i settantacinque anni potrebbe raccontare episodi del genere. Io stesso più volte sono stato fermato dalla polizia ho sempre reagito nel migliore dei modi, educatamente, salutando cordialmente. Ma non sempre funziona: io sono grande, grosso e nero e ciò basta per suscitare qualche sospetto, per pensare che sia violento. Per non parlare dell’enorme problema costituito dalla presenza delle armi che andrebbero bandite perché gli americani quando si parla di armi è come se diventassero bambini”.

Pensa che in Europa sia diverso?
“Onestamente non lo so. Uno dei miei più cari amici che vive a Roma da quattro anni, Greg Hutchinson, mi racconta che non importa dove vai, qualcuno ti guarderà sempre in modo sciocco. Per quanto concerne moleste della polizia e razzismo non so come sarebbe in Europa; conosco molti musicisti neri che hanno lasciato l’America tra gli anni ’40 e ’50 e sembrano felici

Qual è il suo album che preferisce?
“Francamente è difficile rispondere. Comunque, pensandoci meglio, credo che le mie preferenze vadano al primo album, “Gettin’ to It”, per la Verve nel 1995 con Roy Hargrove tromba e flicorno, Joshua Redman tenor saxophone, Steve Turre  trombone, Cyrus Chestnut  piano, Lewis Nash  batteria, Ray Brown e Milt Hinton  basso on ‘Splanky’ “.

Qual è la musica che preferisce suonare oggi?
“Tutta, purché sia buona musica. Voglio essere cittadino del mondo”.

Gerlando Gatto

I nostri cd: il jazz, musica d’insiemi

Il jazz, musica d’insiemi, ma forse è meglio dire insieme per non creare ambigue assonanze con … l’insiemistica. Insieme di creatività, talento, “possesso” dello strumento, istantaneità interpretativa, capacità relazionale, qualità che sono a loro volta un “insieme” di altri elementi. Nelle note seguenti la musica d’insieme presa ad oggetto è quella di una rosa dei nuovi album incisi da organici più o meno infoltiti. Sono progetti diversi fra di loro, inoltre le formazioni cambiano a seconda di strumentisti e strumenti. Altra differenza, di tipo lessicale, è fra collettivi ed ensemble, i  primi più “paritari” nella relazione che avviene collettiva/mente, le seconde con una netta prevalenza della figura di bandleader, non il conductor autoritario della felliniana “Prova d’orchestra” ma un coach che “organizza” il suono indirizzandone le componenti verso un dato obiettivo. Nel jazz i maggiori spazi concessi all’improvvisazione rispetto ad altri generi musicali fanno si che chi “coordina” debba tenere sempre stretto il timone e sott’occhio la bussola. Come il capitano di una nave che riesce a domare in ogni frangente i flutti marini.

Gerardo Pepe – “Orchestrando piano” – Caligola Records.
Le composizioni di grandi pianisti jazz hanno dell’ineffabile negli iter creativi. Su quelli compositivi, non afferenti al solo inconscio, ci si può peraltro esprimere anche in rapporto, più o meno stretto, con lo stile pianistico. Gerardo Pepe, in Orchestrando piano (Caligola Records), testando l’orchestrabilità di sei brani scritti da altrettanti maestri del piano, ne ha perscrutato l’attitudine ad essere eseguite da un organico di piccola orchestra di dodici musicisti sulla base di suoi riarrangiamenti. “Nigerian Marketplace” di Oscar Peterson è il primo pezzo ad esser stato selezionato per la band comprendente Andrea Salvato (fl.), Daniele D’Alessandro (cl.), Federico Califano (alto s.), Giacomo Casadio (t. sax), Francesco Milone (b.sax), Antonello Del Sordo e Matteo Pontegavelli (tr.), Roberto Solimando (tr.ne), Saverio Zura (guit.), Filippo Galbiati (p.), Filippo Cassanelli (cb.) e Dario Rossi (dr.). A seguire “ We See” di Monk autore replicato in “Ask Me Now”. Va detto che finalità dichiarata di questo lavoro d’esordio del jazzista gravinese è il rendere omaggio ad alcuni grandi pianisti afroamericani proponendone una personale rilettura con sul leggio gli spartiti di  ”Song For My Father” di Horace Silver e “Passion Dance” di Alfred McCoy Tyner. Nello schieramento orchestrale da lui assemblato il pianoforte comprime il proprio protagonismo pur rimanendone perno essenziale secondo cooordinate rispettate anche in “Remembering Charles”, a sua firma, che chiude la tracklist a ridosso di “Three Bags Full” di Hancock. Non solo dunque una sinopsi tratta dal Real Book pianistico per organici allargati; e non un mero make up e neanche uno stravolgente trattamento chirurgico bensì una reinterpretazione coerente con i modelli, a dimostrazione di quanta potenzialità possiedano tuttora alcune gemme  di capiscuola del piano jazz moderno e contemporaneo.

Pietro Pancella Collective, “Music of Henderson Shorter Coltrane vol. 1” Abeat Records
Pietro Pancella Collective licenzia per Abeat Music of Henderson Shorter Coltrane vol. 1. Un progetto ambizioso questo del contrabbassista abruzzese,  figlio d’arte del pianista Tony Pancella,  se si pensa che il primo brano in tracklist, “Black Narcissus”,  venne inciso dal sassofonista Joe Henderson nel ‘77 con figure iconiche come Kuhn al piano, Jenny-Clark al basso, DeJohnette ed Humair alla batteria! Ma il ricercare nuove skyline musicali fa parte del bagaglio di un jazzista che si rispetti.  E poi se i partners si chiamano Giulio Gentile (pf), Christian Mascetta (guit.), Manuel Caliumi (alto) e Michele Santoleri (dr.) allora il salto non sarà mai più lungo della gamba. Il 5et si è prima impadronito, a seguito di lungo rodaggio, delle partiture  hendersoniane. Quindi ha ricongiunto i moduli del prefabbricato sulle stesse fondamenta sagomandoli per mezzo di arrangiamenti, assegnati secondo l’abbinamento Pancella-Henderson, Gentile-Shorter, Mascetta-Coltrane.  Tale procedere per assimilazione-architettura si ripete anche nei due brani di Shorter, “Witch Hunt” e “Nefertiti”, quest’ultima  registrata per il quintetto di Miles Davis, composizione fra le più eseguite fra quelle esposte nel cd.  Analogamente dicasi per le coltraniane “Lonnie’s Lament” e “Resolution-Pursuance” (da A Love Supreme).  Il gran lavorio sulle punte di chitarra e sax ha prodotto risultati interessanti, vedansi assoli e “strappi” che gli stessi intessono con piano e ritmica in “Afro Centric”, tratto da “Power To The People” di Henderson. La triarchia nera ha dettato stilemi jazzistici che il Collective ha fatto propri senza l’assillo di semplificare il complesso né di complicare il semplice.  Con lo scopo dichiarato di rendere un omaggio che non fosse solo richiamo, citazione o mero strizzare l’occhio agli originali bensì riformulazione aggiornata di un linguaggio musicale che ” trascende le parole” (Coltrane).

Marco Luparia, Masnä, L’autre collectif.
Il batterista Marco Luparia presenta in Masnä (L’autre collectif) un lavoro discografico in sestetto  con  Clement Merienne al pianoforte, piano preparato (e Bontempi), Sol Lèna-Schroll all’alto sax, Hector Lèna-Schroll alla tromba, Federico Calcagno ai clarinetti e Pietro Elia Barcellona al contrabbasso.  La radice etimologica dal dialetto piemontese di Masnä è il termine bimbo. Si spiegano così le foto infantili sulla cover di questo album grondante nostalgia ideato nel quieto borgo di San Martino di Rosignano, ai piedi delle Alpi, al di qua dalla Savoia francese. Un habitat bucolico che ha ingenerato la ricerca del tempo perduto attraverso brusii fruscii rumeurs dimenticati. Essi tornano a rivivere rielaborati nell’incontro con altri musicisti con cui esplorare i canoni, da un punto di vista radicale, di antiche tradizioni quali il gagaku giapponese, il gamelan indonesiano, la musica carnatica indiana e quella sacra europea. Per una musica a/formale, di forme/non-forme, in cui la ricerca affida all’improvvisazione il ruolo-guida di riconnessione dei frammenti di un passato che gli anni hanno decostruito con il loro trascorrere. Le cinque composizioni su sette (Flock, Knup, Rapid Eye Movement, Teaper, Harm) dello stesso Luparia oltre “Etude  Campanaire” di Lèna-Schroll e “Wuh” di Calcagno, sono il frutto di un “fucina” musicale che, sotto il segno della temporalità  divisa da un ritmo spesso “concreto”, diventa  narreme di vissuto, placenta in cui nuotano i sogni che il soggetto narrante  interpreta.

Massimo Pinca – “Singing Rhythms, Pulsin Voices” – Dodicilune Records.

E’ un grand ensemble di nove elementi quello che il contrabbassista Massimo Pinca ha riunito per l’album Singing Rhythms, Pulsing Voices, prodotto da Dodicilune Records, label leccese come lui. Il lavoro, concepito nel mezzo della pandemia, è stato registrato tramite sovraincisioni tranne che per il Geneva Brass,  quintetto di ottoni che ha inciso direttamente in studio. Alle note del gruppo vanno assommate quelle del  4et  con Nicola Masson ai sax tenore e soprano, Gregor Fticar al rhodes, Paolo Orlandi alla batteria oltre a Pinca che si è alternato a basso elettrico contrabbasso e rhodes. Il collante principale delle due formazioni è dato dalla “voce pulsante”  di una scrittura che ha intessuto trame sonore “tono su tono”, non nel senso di tonalità, ma di coerenza timbrica e cromatica degli strati compositivi con gli spazi di libertà espressiva. Pinca, giunto a quest’esperienza overdubbing dopo il “solo” di Fragments (NBB Records 2021), è riuscito, in nove brani per un totale di un quarto d’ora di musica, nell’opera di incarnare un sound  naturale  anche ad un ascolto  pan  pot,  grazie anche all’apporto di musicisti che ne hanno condiviso l’approccio classico-jazz “ ed hanno inserito le loro meravigliose  tessere in un mosaico ad essi invisibile”. Il disco è stato realizzato con il contributo del dipartimento di cultura di Ginevra, città adottiva di Pinca.  Del Geneva Brass fanno parte  Baptiste Berlaud e Lionel Walter (tr. fl.), Cristophe Sturzenegger (horn), David Rey (tr.ne), Eric Rey (tuba).

Bertazzo/Francesconi  New Project Orchestra – “Playing  With Jimmy. A Tribute to Jimmy Van Heusen” – Caligola Records.                   
Non hanno più “l’acre odore di sigaretta” le canzoni di Jimmy van Heusen, “latecomer”, secondo Alec Wilder, affermatosi cioè più avanti rispetto ai primi grandi songwriter del 900, anche per ragioni anagrafiche.  All’autore della musica di “Here’s That Rainy Day”, “All The Way”,  “Darn That Dream” sono  state nel tempo dedicate diverse compilation fra cui quella del Reader’s Digest, in cui è partner di scrittura Johnny Burke (Timeless Favorites: Sunday Monday or Always. The Songs of Burke & Van Heusen), “blocco” che si affianca all’altro relativo alla collaborazione con il lyricist Sammy Cahn, a proposito del quale va segnalato almeno lo storico l.p. Emi di Frank Sinatra del ’91 (Sinatra Sings the Songs of Van Heusen & Cahn).   La sua discografia si arricchisce oggi di un titolo italiano,  Playing with Jimmy. A Tribute to Jimmy Van Heusen, di Francesca Bertazzo  Hart e Michele Francesconi  New Project Orchestra, edito da Caligola Records. Un lavoro dal giusto groove in cui ci si sposta a piacimento dall’atmosfera metropolitana alla traditional, dal soffuso al ritmicamente portante. Gli arrangiamenti, firmati dal pianista-direttore Michele Francesconi e dalla chitarrista-vocalist  Francesca  Bertazzo Hart, vengono dipanati con duttilità dai musicisti:  Trettel, tr./ Grata, tr.ne. /Menato, a.sax-cl. / Zeni, t.sax. / Beberi, t.sax b. cl. / Pilotto cb.b. / oltre al batterista Mauro Beggio in qualità di ospite. Focus dunque puntato su una categoria non certo sopravvalutata quale quella degli autori di song, nello specifico su un autore che brilla in melodiosità specie sui tempi pari, eccelle per sofisticate misure armoniche, spicca in ritmicità.  Caratteristiche che il disco “illustra” in undici brani, individuati fra le varie centinaia a firma di siffatto “Grande Artigiano” oltre a un paio scritti dalla leader, eseguiti esaltandone al meglio la “jazzabilità”.

Mario Rosini / Duni Jazz Choir- “Wavin’ Time” –  Abeat Records.
Wavin’ Time è l’album che Abeat pubblica con Mario Rosini  e il Duni Jazz Choir.  Dove il DJC, nato nel 2015 nelle classi del conservatorio Duni di Matera, con sezione soprani (Ceo/Rotunni/Lombardi), contralto  (Colangelo/ Razem/ Carrieri) e tenori (Schiavone/Giammarelli) non canta a cappella. Sottostanno infatti ai cori chitarra (Ruggiero), basso (Laviero), batteria (Parente), percussioni (Lampugnari, Ciaravella), sax (Menzella), trombe (Santoruvo, Todisco), trombone (Fallacara), flauto (Di Caterino) assortiti a seconda delle situazioni, spazianti dal cool fino al pop internazionale, per come delineate dal pianista nonché direttore ed arrangiatore Rosini.  Varia la tracklist di cover ed original.  Oltre a “A New Sunrise” in cui appare la firma di Rosini così come in “Ti sento così (per Sofia)” e “Wavin’ Time”, vi si ritrova una convincente versione corale di “Giant Steps” (un Coltrane vocalizzato è rintracciabile già in Lambert Hendrix & Bavan).  C’è poi “Four Brothers” di Giuffre, e si è in pieno vocalese stile Manhattan Transfer; ed ancora “Quando quando quando”, hit straincisa da vocalist che vanno da Humperdick  alla  Furtado. A  seguire un tuffo nel Motown con un paio di brani di Stevie Wonder – “Don’t You Worry ‘Bout A Thing” e “Love Collision” –  ed il gustoso paragrafo italiano.  Quest’ultimo comprende,  oltre al citato successo di Tony Renis, “E la chiamano estate” di Bruno Martino e Franco Califano ed “I cieli in una stanza” dove si celebra il “matrimonio” fra l’evergreen di Gino Paoli e il soundtrack di  “Metti, una sera a cena” di Morricone con un arrangiamento che interseca sottilmente i due temi.  Da rimarcare in positivo “Black or White” di Michael Jackson (con B. Bottrell) di cui Mario Crescenzo dei Neri per Caso, nelle note di copertina, sottolinea l’iniziale “sentore progressive” che richiama verso il finale “la “salsa brava” della storica Fania All-Stars (la Motown latino-americana della musica Salsa)”.  Il disco reca il logo del Premio 2022 di “La Musica di Sofia”, assegnato da Guido Di Leone per conto della famiglia Bratta.

Amedeo Furfaro

Grand Prix de l’Académie du jazz le donne trionfano

Leïla Olivesi, Samara Joy et Diunna Greenleaf sono state insignite, nelle diverse categorie, del “Grand Prix” 2022 dell’Académie du jazz en France nel corso della solita prestigiosa cerimonia tenutasi all’inizio di marzo nel club Pan Piper à Paris. Questa tradizionale cerimonia annuale della prestigiosa istituzione che il prossimo anno festeggerà i suoi70 anni di esistenza, era presieduta per l’ultima volta da François Lacharme che, dopo 18 anni di leale servizio, lascia il posto a Jean-Michel Proust, sassofonista nonché direttore artistico di vari festival tra cui Jazz au phare sur l’île de Ré e Paris Guitar Festival à Montrouge, nella banlieue parigina.

Venendo allo svolgimento della cerimonia, il premio Django Reinhardt (con il sostegno della Fondation BNP Paribas) che viene attribuito al (alla) musicista francese dell’anno è stato attribuito alla pianista, direttrice d’orchestra e compositrice Leïla Olivesi. In tal modo la Olivesi diventa la sesta jazz-woman insignita di questo prestigioso riconoscimento dopo Airelle Besson (tromba – 2014), Cécile McLorin Salvant (voce – 2017), Sophie Alour (saxophone – 2020), Géraldine Laurent (sax – ex-æquo en 2008) et Sophia Domancich (piano – 1999).

Una meritatissima conferma per la giovane new-yorkese di 23 anni Samara Joy che dopo aver vinto quest’anno due Grammy Awards (migliore nuova artista e miglior album di jazz vocale), ha ottenuto anche il premio francese relativo al Jazz vocale per il suo album “Linger Awhile” votato da una cinquantina di membri dell’Académie già dalla fine dello scorso anno, quindi ben prima dei Grammy.

Infine, ultima rappresentante del genere femminile, la cantante di Blues Diunna Greenleaf, venuta espressamente da Houston (Texas) e immediatamente ripartita con in tasca il “premio Blues” per il suo album “I Ain’t Playin” (Little Village). Nonostante gli evidenti impegni, la Diunna ha trovato il tempo di esibirsi in un mini-concerto di grande spessore.

Nelle categorie puramente strumentali il “Gran Premio” per il miglior disco dell’anno è andato al magnifico quartetto composto da Joshua Redman, Brad Mehldau, Christian McBride e Brian Blade grazie all’album  “Long Gone” (Nonesuch/Warner Music).

Il premio per il miglior disco registrato da musicista di casa è andato al contrabbassista Stéphane Kerecki per l’album “Out Of The Silence” (Outnote/Outhere Distribution) ;  il premio per il miglior inedito è stato attribuito a Mal Waldron per “Searching In Grenoble : The 1978 Solo Piano Concert” (Tompkins Square Records) mentre quello per il Jazz classico a  Dany et Didier  Doriz/Michel e César Pastre per il loro omaggio familiare “Fathers & Sons – The Lionel Hampton/Illinois Jacquet Ceremony” (Frémeaux & Associés).

Se il premio al miglior musicista europeo è andato al trombonista tedesco Nils Wogram che che suona regolarmente con Michel Portal, un nuovo premio denominato “Prix Evidence” è stato istituito per mettere in primo piano dei giovani talenti, premio andato questa prima volta alla formazione del chitarrista svizzero d’origine honduregna Louis Matute, grazie al suo disco “Our Folklore” (Neuklang).

Didier Pennequin
Membro dell’Académie du Jazz en France