Dario Chiazzolino: dalla Mole Antonelliana alla “Grande Mela” per amore del jazz

Quando si affronta il tema della «fuga di cervelli» dall’Italia, bisognerebbe tener presente anche quella di molti giovani musicisti di talento che, per maggiori opportunità o soprattutto per assenza di meritocrazia, decidono di abbandonare il nostro Paese per cercare di affermarsi all’estero. Fra questi casi c’è anche quello di Dario Chiazzolino, trentasettenne chitarrista jazz e compositore che vive stabilmente a New York dal 2016.
Il jazzista torinese suona professionalmente la chitarra dall’età di quattordici anni. Laureatosi al conservatorio “Giuseppe Verdi” di Torino con il massimo dei voti, successivamente ottiene un master di chitarra jazz presso l’Università della Musica. Nel corso della sua brillante carriera condivide palco e studio di registrazione insieme a numerosi jazzisti di statura mondiale, tra i quali: Bob Mintzer, Dave Liebman, Peter Bernstein, Andy Sheppard, Aaron Goldberg, Billy Cobham, Russel Ferrante, Roy Hargrove, Dominique Di Piazza, Antonio Faraò, Willie Jones III, Sylvain Luc, Richard Bona, Eric Harland, Greg Spero, Ugonna Okegwo, Jonathan Kreisberg, Francisco Mela. Le sue qualità artistiche sono particolarmente apprezzate in tutto il mondo, ad esempio in Francia, Spagna, Germania, Svizzera, Inghilterra, Scozia, Polonia, Finlandia, Norvegia, Olanda, Belgio, Islanda, Stati Uniti, nazioni nelle quali è ospite di rinomati jazz club e prestigiosi festival jazz. Le sue doti musicali sono riconosciute anche grazie al conseguimento di vari e importanti premi: “Best Guitarist” (Umbria Jazz Award, 2006), “Artist of the Year Award” (D-Magazine, Critics Poll, 2013), “Best Guitarist” (Guitarlist Magazine, Critics Poll, 2015), “Best Jazz Album” (“Spirit Fingers”, Soul and Jazz Magazine, Critics Poll, 2018), “Best Jazz Guitarist of the Century Award” (Jazz Guitar Magazine, Critics Poll, 2019), “Louis Armstrong Foundation Award” (2020). Anche per ciò che concerne la produzione discografica, Dario Chiazzolino è molto attivo con la pubblicazione (fra dischi da leader, co-leader, sideman e produttore) di oltre venticinque album.

Un altro aspetto fondamentale della sua attività artistica è legato alla didattica, ambito nel quale è attualmente impegnato alla “Jazz Faculty” del famoso “Borough of Manhattan Community College” (TribecaNew York), parte della più grande rete universitaria statunitense denominata “City University of New York” (CUNY), oltre a dirigere masterclass in tutta Europa e negli Stati Uniti in alcuni importanti college, università e conservatori come la “Purdue University” (Indiana) e il noto “Musicians Institute” (Los Angeles), così come le significative esperienze sempre nel ruolo di docente di chitarra presso il “Long Island Music Conservatory” (New York) e al “Music Conservatory of Westchester” (White PlainsNew York). Anche in qualità di ricercatore musicale e collaboratore didattico, Chiazzolino scrive articoli di didattica chitarristica, analisi e armonia jazz per svariate riviste specializzate, fino ad arrivare alla pubblicazione di alcuni metodi elaborati negli ultimi sei anni. Inoltre, da endorser, collabora con tantissimi marchi di strumenti musicali conosciuti in tutto il mondo.
Soffermandosi invece sul suo stile, Dario Chiazzolino è in possesso di una notevole padronanza strumentale che gli consente di esprimersi al meglio delle sue possibilità. Il suo fraseggio, carico di swing, è fluido, limpido, vibrante e lirico allo stesso tempo, assai energico e, al contempo, caratterizzato da un sopraffino senso melodico. Il tutto impreziosito da un frequente utilizzo dell’Out Playing, sua peculiarità tecnica ben definita, attraverso cui crea tensione armonica e dà libero sfogo al suo fervido estro improvvisativo. Profondo conoscitore della grammatica jazzistica, è un chitarrista poliedrico in grado di spaziare con naturalezza dal jazz alla fusion, dalla world music al contemporary jazz, generi che mettono in luce anche la sua toccante sensibilità comunicativa, sovente arricchita da un imprinting mediterraneo e da una concezione moderna della chitarra, comprendente finanche un esteso uso della poliritmia.
Dario Chiazzolino è un musicista dall’inestimabile valore che, purtroppo, come tanti suoi giovani colleghi italiani, è paradossalmente più conosciuto all’estero che nel nostro Paese. A dir la verità questo è un gran peccato, perché i fulgidi talenti come lui – senza ombra di dubbio – meriterebbero molto più spazio, visibilità e gratificazioni professionali in una nazione che, troppo spesso e ingiustamente, non valorizza al 100% le nostre eccellenze artistiche lasciando che, al netto di rinunce e sacrifici enormi, si trasferiscano altrove per inseguire i propri sogni, coltivare le loro passioni, per amore del proprio lavoro e per costruirsi una carriera degna di tale nome.

Stefano Dentice

Kenny Barron: a colloquio con l’enciclopedia del jazz

È con vero piacere che “A proposito di jazz” accoglie tra i suoi collaboratori un giovane musicista appena laureato con 110 e lode al Conservatorio di Latina. Il suo nome: Daniele Mele. Daniele, classe ’97, inizia a studiare pianoforte all’età di 13 anni. Dopo una doverosa formazione classica con il M. Ilaria Liberati intraprende gli studi Jazz presso il Conservatorio “O. Respighi” di Latina sotto la guida del M. Andrea Beneventano, dove, come si diceva si diploma con lode. Approfondisce gli studi con Andrea Rea, Roberto Bottalico, Ignasi Terraza, Kevin Harris, e si forma seguendo masterclass di Jazz e di musica classica in tutta Italia (Berklee, Siena Jazz, Arcevia Jazz, etc.).
L’inizio di questa collaborazione con il nostro blog è di quelli che lasciano il segno: si tratta, infatti, di una approfondita intervista con Kenny Barron, pianista e compositore tra i più importanti ancora sulla scena.
Nato a Filadelfia, il 9 giugno 1943, Kenny si esibisce da quando aveva quindici anni e in tutto questo arco di tempo ha saputo sviluppare uno stile personale che lo colloca tra i grandi della tastiera di tutti i tempi: ancora oggi le sue registrazioni con Stan Getz nulla hanno perso dell’originario fascino così come quelle del gruppo Sphere di cui  nel 1980 fu uno dei fondatori, con Charlie Rouse (sax), Buster Williams (basso) e Ben Riley (batteria).
E, alla grandezza dell’artista, si è sempre accompagnata una statura umana di straordinaria dolcezza: chi scrive queste note ha avuto l’opportunità di intervistarlo oramai parecchi anni fa e ne conserva un ricordo bellissimo dovuto proprio alla gentilezza e alla disponibilità dell’uomo. Gentilezza e disponibilità che dimostra appieno in questa intervista che pubblichiamo qui di seguito. (G.G.)

Ore 9:00 (New York) il giorno 25/04/2021.
-Sono molto emozionato in questo momento e la ringrazio per avermi concesso quest’intervista.
“Oh, è un piacere”.

Prima parlavo con mio padre, gli stavo dicendo che credo ci sia una grande differenza tra musica jazz e musica pop: se voglio parlare con un “nome importante” del Jazz posso avere qualche possibilità di farlo, mentre credo che se volessi parlare con un idolo del pop avrei maggiori difficoltà.
“Sì, lo penso anch’io”. (ride)

-Sì… il jazz è più popolare del pop!

“È vero”.

Mi fa piacere sapere che sta bene. Vorrei chiederle della vaccinazione, perché so che si è vaccinato: è andato tutto bene?
“Oh sì, ho avuto due dosi di Moderna. Due dosi, quindi… ora sono a posto”.

-Benissimo. Questo è un periodo assurdo!
“Sì, lo è”.

-Se non le spiace, parleremo di alcuni punti che mi interessano particolarmente. So che ha suonato in Italia ad Umbria Jazz con numerosi musicisti, e mi piacerebbe sapere quale fu la sua prima volta qui e perché.

“La prima volta in Italia fu… wow… nel 1963? ’63 o ’64, ero con Dizzy Gillespie. Sì, eravamo a Milano”.

-Era una tappa del tour che faceste in giro per il mondo?
“Sì, suonammo in Piazza Duomo e la cattedrale è incredibilmente bella. Quella fu la prima volta”.

-Le piace l’Italia?
“La amo. La gente, il popolo… non si può mangiare male in Italia. È veramente difficile!”.

È vero. E invece cosa mi dice del suo rapporto con la musica italiana? Per esempio, io sono di Napoli, nel Sud Italia. Sono cresciuto ascoltando “O sole mio” e “Tu sì ‘na cosa grande”. Conosce queste canzoni?
“Oh sì, le ho sentite tante volte. Non ho mai saputo i nomi dei compositori, ma le ho sentite tante volte”.

-Ok! Ha qualche aneddoto particolare dell’Italia, o ci sono musicisti di sua conoscenza qui?
“Ah… beh, ovviamente una delle mie persone preferite è Dado (Moroni, NdT). Abbiamo suonato insieme in duo, e numerose volte abbiamo fatto dei tour suonando la musica di Monk, eravamo quattro pianisti. A dire il vero abbiamo un progetto insieme per il prossimo anno, penso a Budapest… ho suonato con lui tante volte, e gli voglio bene. La prima volta che ho incontrato Dado è stata ad un seminario in una città vicino Genova, Nervi.

-Stava partecipando ad un seminario su di lei?
“No no, in realtà era il mio interprete!”.

-Ah, bello! (si ride)
“Siamo diventati presto amici, e lì l’ho sentito suonare per la prima volta. In realtà c’era una jam session ogni sera lì al club. Andai per sentirlo suonare e ne rimasi affascinato, è un musicista incredibile… anche con contrabbasso e batteria!

-Oh… non lo sapevo!
”Oh sì, lo assumerei! Per suonare il contrabbasso, e lo assumerei anche per suonare la batteria”.

-Interessante…
“E ho fatto una registrazione con Stefano, Stefano Di Battista, alcuni anni fa. E il contrabbassista, di cui non ricordo il nome ora…”

-Forse Rosciglione? Giorgio o Dario Rosciglione?
“Oh, no. Li conosco, padre e figlio. Era un musicista più giovane. Comunque tutti bravi musicisti”.

-Bene. Adesso mi piacerebbe parlare con lei dei tre album che amo. Il primo è “Canta Brasil”. Lo adoro! Sa, ballo salsa e bachata con la mia fidanzata…
“Ah-ah, wow!”.

Sì, ballavo prima del Covid ovviamente, ora è tutto chiuso. Ma mi piace, perciò quando ascolto questo tipo di ritmi inizio a ballare e a muovermi. Mi è davvero piaciuto quell’album, e sbaglio se affermo che è iniziato tutto con L’uomo, Dizzy Gillespie?
“Oh, più o meno; in realtà non suonavamo così tanti pezzi brasiliani… ma quell’esperienza è stata d’introduzione alla musica brasiliana: suonavamo “Desafinado”, “Samba De Uma Nota So”. Tuttavia, ciò che davvero mi avvicinò alla musica brasiliana fu ascoltare “Brasil ‘65”, sai… nel 1965! Stavo ascoltando la radio a San Francisco, quando passarono proprio quell’album e ne rimasi folgorato. C’erano chitarre eccezionali, poi Wanda De Sah, e il pianista, era il leader, Sergio Mendes… fu il gruppo che mi portò alla musica brasiliana. Da quel momento in poi ho lavorato con Stan Getz, che suonava molto questo tipo di musica, e poi ho fatto ricerche e ascoltato musica Brasiliana più datata, quella della scuola del Samba. Poi ho conosciuto Nilson Matta, Duduka da Fonseca e Romero Lubambo, e iniziammo a suonare e suonare insieme. Mi insegnarono molti ritmi differenti, e da dove provenivano… questi ritmi vengono dal Nord del Brasile, questi altri dal Sud. Iniziai a lavorare con loro. E così fondammo la band, Canta Brasil”.

-Mi scusi ma vorrei sapere qualcosa di più su Gillespie. Com’era al di fuori del mondo musicale? Ho iniziato a studiare il jazz un po’ di tempo fa, e lui è uno di quei grandi nomi che si devono necessariamente studiare, e da cui si deve prendere il più possibile.
“Fuori dal mondo musicale? Era un grande, davvero una persona cortese, anche molto divertente… fuori dal mondo musicale”.

-Non lo era durante la musica?
“Oh sì, era egualmente divertente! Ma molte persone pensavano che fosse solo apparenza, invece lui era così anche fuori dal palco. Era divertente, molto cortese e molto rispettoso”.

– Quindi il vostro tour mondiale si è tenuto tra il ’62 e il ’66. Che cosa mi dice rispetto alle tappe? Mi ha parlato di Milano, nel ’63.
“Sì, in Italia. Ma abbiamo suonato anche in altri posti: Copenaghen, in Svezia, Varsavia in Polonia, che al tempo era ancora comunista”.

-E fuori dall’Europa?
“Non abbiamo suonato fuori dall’Europa. Abbiamo fatto solo un tour europeo, e quella fu la prima volta che andai in Europa. Fu un inizio fantastico per me!”.

-Sì, posso immaginarlo! (si ride) Parliamo del secondo album, si intitola “Two as One”, l’album con Buster Williams.
“Oh Buster!”.

-E questo lavoro è di particolare importanza per gli italiani, perché è stato registrato a Perugia al Teatro Morlacchi.
“Sì”.

– Ricordo “All of You” e “Someday My Prince Will Come”, e l’ostinato di Buster… 40 secondi forse sul fa, e poi tutto il sound che si apre quando suona il Re basso e con tutte quelle frequenze che arricchiscono la musica. Meraviglioso!
“Certo”(ride)

-E Buster Williams? Com’è?
“Io amo suonare con Buster Williams. In effetti ho appena visto un video su di lui… non so se avete Amazon Prime in Italia”.

-Ce l’abbiamo.
“Si intitola “Bass To Infinity”. È tutto sulla sua vita, ci sono alcune interviste con Herbie Hancock, Lenny White… tutti suonavano insieme a Buster. Dura un’ora, è molto interessante. Sai lui è buddista, perciò parla della sua pratica e di molte altre cose. Ci conosciamo dal 1958, quando eravamo entrambi adolescenti a Philadelphia. Lo conosco da molto tempo, abbiamo lavorato molto insieme… è uno dei miei contrabbassisti preferiti in tutto il mondo”.

-Ho letto che ha suonato con… c’è qualcuno con cui non ha suonato? Ha suonato davvero con tutti!
“Sì, tutti. Le cantanti lo amano, ha lavorato con Nancy Wilson per molto tempo, e anche Sarah Vaughan. Questo video racconta anche delle prime volte in cui uscì per esibirsi, appena terminata la scuola superiore, con Gene Ammons e Sonny Stitt, e di quando ha dovuto avere il permesso da sua madre… dagli un’occhiata!”.

-Senz’altro. Sa… l’inizio della mia tesi di laurea contiene una frase su Philadelphia, e sul fatto che tutti i grandi musicisti sono di lì. È una specie di magia. (ridono)
“Non tutti, ma molti sono di lì! Io penso che una delle ragioni, prima di tutto, è che è molto vicina a New York, a solo due ore di guida. Perciò Philadelphia era una delle tappe principali per i musicisti che provenivano da New York, e io ricordo di aver visto Kenny Dorham e molte altre persone che semplicemente scendevano per andare a fare un concerto a Philly. E si può arrivare a Philadelphia per una sera, e poi tornare indietro quando il concerto è finito. Ai tempi aveva due Club principali che presentavano musicisti di fama mondiale, uno si chiamava Pep’s e l’altro Showboat. Vedevo ‘Trane, Yusef Lateef e Miles suonare lì, e molti altri. Philly era un luogo dove si lavorava, e penso sia per questa ragione che c’erano molti giovani musicisti, incluso me, che poi migliorarono con tutta quella musica attorno.

-Capisco.
“Philly aveva anche molti posti di lavoro per questi giovani musicisti, ci sono molti club in cui ho lavorato. Ed era una gran cosa, avere posti in cui suonare. Questo mi ha aiutato nella crescita, c’erano altri giovani musicisti con cui ho socializzato che sono ancora in giro! C’erano Sonny Fortune, beh lui è venuto a mancare ora, siamo cresciuti insieme… e Buster come sai. Philly era proprio un gran posto”.

-Il prossimo musicista di cui vorrei parlare è anche lui di Philly, e ora mi riferisco al terzo album, che è anche il mio preferito: sto parlando di “People Time”.
“Oh, Stan!”.

-Sì, questo album è la ragione per cui ho iniziato a studiare la sua musica e il suo modo di suonare il pianoforte. È vero che lui la considerava l’altra metà della mela, in senso musicale?
“Ehm, non lo so… così diceva! (ride) Beh, credo che per dirlo lo pensasse davvero. Musicalmente eravamo… empatici? Avevamo un approccio alla musica simile, la melodia era importante”.

-Sì! Sa Kenny, ho sempre l’impressione che quando Stan smette di suonare lei continui a suonare il sassofono ma usando il piano, e viceversa.
“Ah!” (ride)

– È incredibile! Davvero, mi sembra che siate come connessi.
“Sì, lo credo anch’io. Entrambi amavamo la liricità, e questo è importante. Stan poteva suonare una ballad e farti piangere, con il suo sound e le sue idee e la sua creatività. Quello fu un concerto interessante, specialmente in duo, lui era… beh, sono sicuro che conosci la storia”.

-La conosco.
“Era malato al tempo, quando registrammo in duo. Aveva una sorta di tumore del sangue, perciò sentiva molto dolore. Dovevamo registrare per tre sere, ma andammo avanti soltanto per due, lui non riuscì a finire l’ultima sera. Avemmo solo un altro concerto insieme dopo quell’episodio, a Parigi, e non riusciva a suonare molto. Lui suonava la melodia e io feci la maggior parte dei soli al pianoforte, e quella fu l’ultima volta che lo vidi”.

-Mi dispiace molto.
“Era marzo e io lo chiamai un mese più tardi, per sapere come stesse. Mi disse che stava bene e che avrebbe suonato per il prossimo tour, e poi a giugno… è venuto a mancare. Abbiamo perso una bella persona.

-Sì. Secondo me  Stan Getz e Paul Desmond sono due grandi sassofonisti che rimarranno nella storia del jazz
“Davvero?”.

-Sì, mi piacciono davvero tanto. Sicuramente c’è anche Charlie Parker, e tutti quei sassofonisti formidabili che sono fuori da ogni sorta di classificazione. Ma mi piacciono molto Paul e Stan per il modo che hanno di suonare.
“Quindi tu ami… il loro sound?”.

-Sì.
“Lo apprezzo. Paul aveva un sound molto morbido e snello, tenero. E una delle prime registrazioni che ho ascoltato era di Dave Brubeck e Paul Desmond, era ‘Jazz Goes To College’”.

-Sì, me la ricordo. Forse anni ’60?
“In realtà tardi anni ’50, perché ancora vivevo a Philly. Questo era uno dei miei pezzi preferiti”.

– Solo un’ultima cosa su Stan Getz… in quale occasione iniziò a collaborare con lui, a quanti anni? Ha mai rimpianto di non averlo conosciuto prima?
“Rimpiango sempre di non aver conosciuto prima le persone, ma sono lieto quando le conosco! Ricevetti una chiamata per lavorare con lui, per sostituire Chick Corea. Allora aveva una band con Stanley Clarke, Tony Williams e Chick. Mi chiamò e mi chiese di prendere il suo posto, questa fu la prima volta che lavorai con Stan. Era incredibile, suonavamo tutta la musica di Chick Corea. Penso si chiamasse “Captain Marvel Band” o qualcosa del genere. Era un piccolo tour, suonammo per poche serate soprattutto in Sud Carolina e a Baltimora. Quando partimmo Stan mi disse: “Sei davvero un musicista con esperienza”, e per me quello era un grande complimento. Per un po’ non l’ho più sentito, e poi pochi mesi dopo mi chiamò per un posto alla Stanford University”.

-Ho capito.
“Artist-in-residence. Mi chiamò per chiedermi di andare lì e suonare in alcuni concerti con lui. Da quel momento iniziammo ad andare in Europa durante l’estate perché io insegnavo alla Rutgers University e lui a Stanford, perciò non potevamo provare molto durante l’anno accademico. Ma in estate andammo a tutti i grandi festival d’Europa. Aveva una buona band, con Victor Lewis e Rufus Reid. Facemmo un paio di registrazioni a Montmartre con il quartetto, e un paio in duo. Sempre grande musica, grande scrittura. Registrammo un pezzo elettronico dal titolo “Apasionado”, in California. Mi piaceva, per me era qualcosa di diverso! C’erano gli archi e tutti i tipi di strumenti elettronici. Una grande esperienza che non avevo mai fatto prima”.

-Ok. Dato che lo ha accennato, mi piacerebbe parlare dell’insegnamento. Lei era un insegnante di pianoforte alla Rutgers University, e poi alla Julliard, la vecchia Manhattan School.
“Esatto”.

-Insegna ancora? O ha lasciato?
“No, mi sono congedato”.

-Perché, se posso chiedere?
“Beh, sto invecchiando! (ride) A un certo punto senti che hai bisogno di imparare qualcosa, ed io avevo bisogno di imparare altro. Avevo bisogno di ascoltare altre persone suonare, in un certo senso di “istruirmi”. Gli studenti erano bravi, intendo bravi davvero… che cosa avevo da dare loro? A Manhattan c’erano Gerald Clayton, Aaron Parks, era uno dei miei studenti, e molti altri… alla Julliard avevo Jonathan Batiste, alla Rutgers Terence Blanchard, Harry Allen. E tutti loro suonavano benissimo il pianoforte!”.

-Com’era un sua lezione tipo? Cosa faceva durante l’ora?
“Sostanzialmente suonavamo insieme. Ho sempre avuto due pianoforti nella mia aula. Suonavamo insieme perché questo mi permetteva di capire cosa effettivamente sapessero o non sapessero suonare. Insomma, erano al punto in cui io non avevo bisogno di dire loro “questo è un accordo di Do”, non avevano bisogno di questo da me: sapevano già come come suonare. Eravamo interessati a sottigliezze e rifiniture, e idee su tocco, frasi, cose del genere”.

-Quindi le sue lezioni erano come delle performance dal vivo, ma guidate?
“Sì, una cosa di questo tipo! Suonavamo e poi ci fermavamo, e dicevo “Ok, qui stiamo suonando una ballad, non dovete suonare così rigidamente, non c’è bisogno di suonare così tante note in questa ballad… lasciate spazio, anche il silenzio è parte della musica”, cose così. E penso che la prendessero molto seriamente”.

-Quindi… ha dei suggerimenti per diventare un buon insegnante? C’è un ingrediente speciale?
“No, non penso. Certo dipende, le persone hanno diversi modi di insegnare. Il mio modo di insegnare era quello di ascoltare i musicisti e sentire costa potevano fare, e sfidarli. Prendevamo una canzone e la suonavamo per 30 minuti, e poi facevamo un botta e risposta, per fare esercizio. E poi provavamo a sfidarci l’un l’altro, ed è un bene quando gli studenti provano a sfidare anche te. (si ride) Ho imparato molto anch’io”.

-Ok.
“Non è tipo “sono il tuo insegnante e tu fai quello che dico”, a quel livello non è così. È più uno scambio di idee. Imparo da loro, loro imparano da me”.

-Certo, grazie mille. Parliamo adesso di composizione. Lei ha composto molto: adoro “Until Then e Sunshower”, in particolare. Quanto pensa sia importante scrivere pezzi originali, che abbiano la propria firma?
“Penso sia importante, e che si debba scrivere il più possibile. Quello che cerco nella scrittura, quello che cerco di raggiungere nella composizione è… la semplicità. Non scrivo cose in 11/8, 9… non scrivo cose in tempi strani. Non sento la musica in quel modo! Alcuni musicisti lo fanno comodamente e mi piace ascoltarli, ma il mio approccio è più che altro fatto di melodie semplici, armonie che forse qualche volta sono ingannevoli… o forse non qualche volta! Per me funziona la semplicità”.

-Sì. Stavo pensando… lei reputa questo un passaggio fondamentale? Un passaggio che un musicista deve fare per sentirsi completo? O pensa che si possa saltare?
“Intendi saltare la scrittura?”.

-Sì.
“Beh, non tutti i musicisti sono compositori, alcuni di loro non scrivono. Ma, come dice qualcuno, l’improvvisazione è composizione, solo che non è scritta”.

-Infatti.
“Un musicista Jazz compone tutto il tempo… quando inizia a scrivere, quella è una composizione! (si ride) Ma molti musicisti semplicemente non sono per la scrittura, e li capisco. Io penso che sia un altro aspetto di te che dovresti esplorare”.

-Ok. Guardi, una volta ho frequentato una masterclass di Billy Childs. Secondo me è un grande compositore.

“Sì, lo è.”

-E ha detto qualcosa che io ritengo incredibile. Ha detto: “Il segreto del comporre è creare qualcosa di sorprendente, e allo stesso tempo inevitabile”.
“Sì, ok”.

-Mi suona come qualcosa del tipo: “Devi creare musica che ha dei legami con il passato, in modo che ascoltandola tu sappia dove sta andando, ma che abbia anche qualcosa di sorprendente che ne cambia la direzione”, no?
“Sì, sì, sì”.

-È d’accordo?
“Sono d’accordo. E ho ascoltato abbastanza musica di Billy Childs, è un compositore brillante”.

-Lei ricorda un buon consiglio che qualcuno le ha dato recentemente o nel passato, o un evento particolare che ha cambiato il suo modo di comporre e suonare?
“Ehm… sì! Qualcuno una volta mi diede un’idea che io poi ho provato ad applicare: prova a suonare il tuo solo nello spazio di una quinta perfetta. Tutte le tue parti di improvvisazione. Ovviamente non puoi farlo chorus dopo chorus dopo chorus, ma fai una prova. Quanto puoi suonare solo in quel piccolo spazio di una quinta perfetta?”.

-Non ho capito bene, Mr. Barron…
“Sul pianoforte, una quinta perfetta, da Do a Sol. E stai suonando una canzone, qualunque essa sia, prova a suonare tutto all’interno di quella quinta perfetta, cromaticamente”.

-Ok!
“E vedi come va. È qualcosa che puoi provare… potresti restare sorpreso. Perché qualsiasi nota tu metta insieme funzionerà contro qualsiasi accordo suonerai. Deve essere risolto, ma funziona. Questo è un consiglio che qualcuno mi diede e che ho provato. È qualcosa da ricordare”.

-Ok, ora… l’ultima parte. Oltre la musica, sono curioso rispetto alla giornata tipica di Kenny Barron. Ci sono delle cose particolari che ama fare nel tempo libero, se non suona?
“Mi piace leggere molto. Mi piace leggere romanzi”.

-Che tipo di romanzi?
“Mi piace James Patterson, romanzi gialli e cose di questo tipo”.

-Sì! Le piace Zafon? Carlos Ruiz Zafon?
“Oh, non lo conosco”.

-No? È bravo! E Dan Brown?… quello de “Il Codice Da Vinci”.

-“Oh sì sì l’ho letto! (ridono di gran gusto) L’ho letto. In realtà ho anche visto il film”.

-Sì… mi scusi, l’ho interrotta.
“No, non fa niente. Stavo dicendo che durante il Covid non c’è molto altro da fare, perché altrimenti andrei da qualche parte, ascolto musica o cose di questo tipo. Perciò questo è ciò che faccio, leggo e provo anche a cucinare!”.

-Cosa cucina?
“Schnitzel… bistecca! Cose del genere”.

-Le piace la pizza?
“La amo. E a Napoli ho mangiato la migliore pizza della mia vita.”

-Wow! Si ricorda il posto?
“No, ma era così fina… con l’aglio…non ricordo perché mi ci hanno portato. Quella fu la migliore pizza che io abbia mai mangiato. E amo anche mangiare! (si ride) Che è un male!

-No. Non è un male! Sa, quest’anno mi ha fatto realizzare appieno che ci sono anche altre cose oltre alla musica. E se si usano queste cose per nutrire il proprio “appetito musicale”, ci si sentirà più rilassati nel suonare e meglio in generale.
“Lo penso anch’io. Bisogna essere una persona a tutto tondo, il che significa fare tutto nella vita, non solo musica. Ci sono persone ossessionate dalla musica, è tutto ciò che fanno: 24 ore su 24, 7 giorni su 7. Ascoltano e praticano musica, scrivono musica 24 ore su 24, 7 giorni su 7. Vorrei essere una di queste persone, ma non lo sono. Ci sono altre cose che catturano la mia attenzione, come la politica o quanto accade nel mondo. Ora c’è il processo di Minneapolis (per la morte di George Floyd, NdT) che mi interessa”.

-Sì, anche a me.
“Succedono anche altre cose. Possono ispirare la tua musica, in un certo qual modo”.

-Sono d’accordo. Quali sono i suoi piani per il futuro? Ci sono nuovi album in cantiere, nuovi progetti?
“Non al momento. C’è un sassofonista, Greg Abate. Ha fatto delle registrazioni di… circa 15 miei pezzi, con il trio. Suona il sassofono contralto, e ha sovrainciso il sassofono e scritto una sorta di sezione di sax in alcuni dei pezzi. È abbastanza interessante! Ma penso che l’unica cosa che vorrei fare prossimamente è un solo, e poi forse un duo, con batteria o percussioni o… un violoncello! Sì qualcosa del genere. Ed è economico da produrre perché non devo pagare me stesso. (ride)”.

Kenny Barron, Udine, Teatro Palamostre, 10.04.2018 Note Nuove

-Verrà in Italia?
“Ci sono dei piani, non so se verranno cancellati o no a questo punto. Penso che a Perugia o Pescara ci potrò essere”.

-Lo spero!
“Lo spero anch’io! E ci sono altre cose… ce n’è una in una città chiamata… Merano? Non Milano, Merano”.

-Sì, nel nord Italia.
“Sì, non sono sicuro che accadrà. Ma penso che per luglio o agosto le cose miglioreranno almeno un po’, lo spero”.

-Sì, ed io sarò lì ad aspettarla! Vaccinato ovviamente, spero di poterla conoscere e abbracciarla nella vita reale.
“Ok! Grazie molte”.

Le sono molto grato, grazie mille.
“È stato un piacere!”.

Ci vediamo presto allora.
“Ok, ciao!”.

-Grazie, arrivederci!

Daniele Mele

IL MIO MILES: trent’anni senza Miles Davis (1926-1991) di Claudio Donà

Oggi, martedì 28 settembre, saranno 30 anni esatti dalla morte di Miles. Lo ricordiamo con un appassionato ricordo di Claudio Donà che ha avuto modo di conoscerlo personalmente non solo come appassionato ascoltatore ma anche come organizzatore. (Redazione)

Miles Davis è senza dubbio il jazzista che più di ogni altro ha influenzato il mio percorso musicale. L’ho incrociato in tre distinte fasi della mia vita: prima da appassionato, poi da critico musicale ed infine da organizzatore di concerti.
Ho incontrato Miles a metà degli anni ’70 come molti altri ragazzi della mia generazione passati dal rock al jazz grazie a quei giovani talenti inglesi che ci hanno preso per mano e traghettato in un mondo musicale sconosciuto quanto affascinante. Passare dai King Crimson, Soft Machine e da Ian Carr al Davis di “Bitches Brew” è   stato inevitabile   quanto   scioccante. Sono   quindi   andato   a ritroso, non senza fatica, con l’aiuto dell’unica rivista, Musica Jazz, dei pochi libri disponibili, ma soprattutto dei dischi. Dopo “Bitches Brew” e “In a Silent Way”, i miei primi album del Miles acustico sono stati “Sorcerer” e “Porgy&Bess”: un’illuminazione! Ed infine la dolorosa scoperta che Davis s’era ritirato e non suonava più…

Ho rincontrato Davis come critico del mensile Musica Jazz e del quotidiano Il Gazzettino nell’aprile 1982 a Roma. Ritornava in tour dopo un ritiro durato sette   interminabili anni. Erano previste due serate ed io avevo comperato i biglietti per   entrambe, scendendo nella capitale con un manipolo di amici appassionati. Nei successivi nove anni e fino alla sua morte non ho mai perso alcun suo concerto nel nord Italia, né le sue storiche esibizioni a Umbria Jazz, sia quella del 1984 a Terni che quella del 1985 allo stadio Curi di Perugia. Qui riuscii a infiltrarmi tra i fotografi; ero sul prato, sotto il palco ed ho visto la sua ombra passarmi vicino. Giacca damascata nera,  larghi pantaloni bianchi, tromba laccata di rosso: un’emozione indescrivibile!
Ho avuto poi la fortuna di avvicinarmi a Miles due volte come organizzatore e socio di Caligola, nel luglio 1986 a Mira (duemila persone in visibilio, ma per noi un vero e proprio “salasso economico”…) e nel febbraio 1988 alla Fenice, in un concerto promosso nell’ambito del Carnevale. A Venezia Davis s’è fermato due giorni ed  ha voluto incontrare alcuni pittori della nostra zona nel salone del palazzo dov’era ospitato.

In quegli anni la sua grande passione, dopo la musica, era la pittura; dipingeva moltissimo. Ognuno aveva portato le sue opere, ma lo colpì in particolare Luigi Voltolina, fra l’altro un mio caro amico. Ha chiesto di conoscerlo ed è passato nel suo studio prima di partire.
Occhi penetranti ed impenetrabili allo stesso tempo, bianchi su un volto nero pece,  uno sguardo capace di fulminarti: è uno dei  ritratti di Miles dipinti da Voltolina che si potevano ammirare nella sua casa di Malibù, un grande quadro ad olio citato e mostrato con orgoglio dalla figlia Cheryl nel docufilm di qualche anno fa  “The Miles Davis Story”.
L’ultimo ricordo è legato ad un incontro imprevisto, avvenuto due mesi prima della   sua scomparsa, nella suite dell’albergo in cui alloggiava, dopo il suo ultimo concerto italiano del 24 luglio 1991 a Castelfranco Veneto. Voltolina non parlava inglese, era con me al concerto e Davis aveva chiesto, attraverso il suo manager, d’incontrarlo.   Sono quindi salito nella stanza del trombettista con l’amico Luigi, nell’immeritata veste di traduttore. Le gambe mi tremavano, ma non c’è stato poi bisogno di tradurre molto, perché i due sono rimasti quasi mezz’ora a parlarsi con la pittura… Miles in mutande, su un letto pieno di fogli con schizzi e disegni. Quell’artista che sul palco   qualche ora prima m’era sembrato enorme, quasi immortale, si presentava ora come un uomo fragile e stanco, con una gamba ridotta a metà dell’altra (per i vari interventi all’anca, più volte sostituita). Sulla scena Davis, come i grandi ballerini, si trasformava,  appariva più grande di quello che era. I pantaloni sempre larghi, così come i vestiti chiassosi e luccicanti ne nascondevano la fragilità fisica, che avevo già intravisto nel 1988 alla Fenice, quand’era stato costretto dopo solo un’ora ad interrompere il concerto  – lui che di solito era invece generoso – e nessuno aveva capito perché. La band lasciata sola sul palco a inventarsi un finale non programmato e lui chiuso nel camerino, dove s’era di corsa rifugiato con il massaggiatore, per dei dolorosi crampi che sembravano non voler passare.
Quello che più mi ha colpito di Miles Davis è la sua capacità, forse unica nella storia   del jazz, di rinnovarsi mettendosi sempre in discussione, ricercando, ​attraverso il gioco, il rischio e l’errore, se mai fosse stato necessario. Quando un progetto sembrava giunto all’apice e avrebbe potuto vivere ancora a lungo sulla scia del successo  acquisito, ecco  che il trombettista lo abbandonava e prendeva un’altra strada, imprevista ed inaspettata, quasi mai facile e sicura, rimettendosi in gioco ma soprattutto mandando in crisi gli appassionati che avevano invece bisogno di certezze.
Come Pablo Picasso, Miles ha attraversato molti e diversi movimenti stilistici, anche storicamente distanti, riuscendo a rimanere sempre all’apice della creatività e del successo: il be–bop, il cool–jazz, l’hard–bop, il jazz modale, il quasi–free, il jazz   elettrico. Sono proprio i fans, spesso, a voler congelare l’artista per cercare di farne, quand’è ancora in vita ed in pieno fervore creativo, l’icona immutabile di un passato che non può più ritornare.
Prendo a prestito, per chiudere questo mio personale ricordo, alcune illuminanti riflessioni di mio fratello Massimo Donà, celebre filosofo ma anche eccellente trombettista di jazz e, come me, “davisiano sfegatato”, frasi tratte da un suo breve saggio del 2015 «La filosofia di Miles Davis» (Mimesis). “… nelle pratiche artistiche, non è mai l’opera da fungere da vero e proprio fine della creazione. I grandi creatori della storia l’hanno continuamente testimoniato… l’artista sembra interessato solo a riavviare il processo creativo; perché la natura comunque incorniciata dall’opera si darà ai suoi occhi come già da sempre “morta”. Da cui il bisogno di ricominciare e di mettersi nuovamente all’opera, di tornare a “fare”, e di re-innescare un processo produttivo…”

Claudio Donà

Con le masterclass di Roberto Gatto e Roberto Tarenzi, torna in presenza la didattica jazz di Celano Jazz Convention

Venerdì 27 agosto 2021, dalle 14 alle 17, Celano Jazz Convention torna alla didattica in presenza con due incontri di altissimo spessore. Il batterista Roberto Gatto e il pianista Roberto Tarenzi condurranno infatti due masterclass dedicate ai rispettivi strumenti, trasmettendo ai partecipanti l’importanza e il valore delle loro esperienze musicali, sia quelle più strettamente tecniche sia quelle maturate suonando dal vivo come leader di formazioni o al fianco dei più importanti protagonisti del jazz italiano ed internazionale.

Gli incontri si svolgeranno a Celano, nelle sale di Palazzo Don Minozzi. Per iscriversi, occorre prenotarsi inviando una mail all’indirizzo conferenze@celanojazzconvention.com. Il costo di iscrizione a ciascuna delle due masterclass è di 35€.

Roberto Gatto si esibirà in concerto, poi, nella serata di venerdì 27 agosto, sempre a Celano, alla guida del suo quartetto e con la presenza di Beatrice Gatto come ospite alla voce.

Roberto Gatto è sicuramente il più rinomato batterista italiano all’estero e vanta importanti partnerships con artisti del mondo del jazz e non solo. Nato a Roma il 6 ottobre 1958, il suo debutto professionale risale al 1975 con il Trio di Roma (insieme a Danilo Rea ed Enzo Pietropaoli) e da allora ha suonato in tutta Europa e nel mondo con i suoi gruppi e a fianco di artisti internazionali. È stato inoltre componente di Lingomania, una delle formazioni più importanti della storia jazz italiano. Oltre ad una ricerca timbrica raffinata e a una tecnica esecutiva perfetta, i gruppi a suo nome sono caratterizzati dal calore tipico della cultura mediterranea: questo rende senza dubbio Roberto Gatto uno dei più interessanti batteristi e compositori in Europa e nel mondo. Nella sua carriera musicale, Roberto Gatto ha collaborato come sideman con i più importanti interpreti della storia e dell’attualità del jazz internazionale: da Chet Baker a Freddie Hubbard e Lester Bowie, da Gato Barbieri a Kenny Wheeler e Randy Brecker e poi con Enrico Rava, Ivan Lins, Vince Mendoza, Kurt Rosenwinkel, Joey Calderazzo, Bob Berg, Steve Lacy e moltissimi altri.

Come leader ha registrato molti album: Notes, Fare, Luna, Jungle Three, Improvvisi, Sing Sing Sing, Roberto Gatto plays Rugantino, Deep, Traps, Gatto-Stefano Bollani Gershwin and more, A Tribute to Miles Davis Quintet, Omaggio al Progressive, The Music Next Door, Roberto Gatto Lysergic Band, Remebering Shelly, fino ai più recenti Sixth Sense, Now e My Secret Place. Nel corso degli anni ha composto musica per il cinema, in particolare insieme a Maurizio Giammarco la colonna sonora di “Nudo di donna” per la regia di Nino Manfredi, e, in collaborazione con Battista Lena, le colonne sonore di “Mignon e Partita”, che ha ottenuto cinque David di Donatello, “Verso Sera” e “Il grande cocomero”, tutti diretti da Francesca Archibugi.

Nel 1993 ha realizzato due video didattici “Batteria vol. 1 e 2”. È stato il direttore artistico di Jazz in progress presso il Teatro dell’Angelo a Roma. Per oltre dodici anni ha insegnato batteria e musica d’insieme presso i seminari di Siena Jazz. Ha frequentato il Conservatorio di Santa Cecilia a Roma e il Conservatorio de L’Aquila. Roberto Gatto è titolare della cattedra di batteria jazz al Conservatorio di Santa Cecilia a Roma.

Dopo lo studio del pianoforte classico, iniziato all’età di otto anni, Roberto Tarenzi scopre il jazz nell’adolescenza e studia con Enrico Intra e Roberto Pronzato ai Civici Corsi di Jazz di Milano, dove ottiene il diploma nel 1999, e frequenta i seminari della Berklee School a Umbria Jazz e i corsi di Siena Jazz.

Nel 1995 entra a far parte della Big Band diretta da Enrico Intra con cui incide quattro dischi e accompagna, tra gli altri, Dave Liebman, Max Roach, Bobby Watson, Bob Brookmeyer, Franco Cerri, Enrico Rava, Franco Ambrosetti. All’inizio del 2006 si trasferisce a New York per sei mesi, dove svolge un’intensa attività concertistica nei club e registra con la cantante Alice Ricciardi, Gaetano Partipilo, Franco Ambrosetti e Michele Bozza. Al ritorno dagli Stati Uniti, viene scelto assieme ad altri undici pianisti in tutto il mondo (tra cui Aaron Parks e Gerald Clayton) per partecipare al prestigioso “Thelonious Monk International Piano Competition”, esibendosi di fronte ad una giuria presieduta da Herbie Hancock e comprendente, tra gli altri, Danilo Perez e Andrew Hill. Nel 2008 si trasferisce a Roma e inizia una intensissima attività concertistica al fianco di Stefano Di Battista e Rosario Giuliani, collaborando altresì con Roberto Gatto, Maurizio Giammarco, Dario Deidda, Fabio Zeppetella, Fabrizio Bosso, Max Ionata e praticamente tutti i migliori musicisti della scena italiana.

A suo nome ha pubblicato diversi lavori discografici, tra i quali “Other Digressions”, “Trio Live”, “Love and Other Simple Matters” e “11 Little Things”, mentre con Cues Trio, formato insieme a Lucio Terzano e Tony Arco, ha inciso”Introducing Cues trio” e “Feel” con David Liebman come ospite.

Insegna stabilmente presso il Saint Louis College of Music di Roma, il Conservatorio di Latina, oltre a tenere seminari e workshop di improvvisazione.

Il percorso didattico di Celano Jazz Convention, tracciato dal direttore artistico della rassegna Franco Finucci, torna in presenza dopo aver continuato le attività online durante il periodo della pandemia. Sia l’edizione 2020 della rassegna che le iniziative promosse nel corso dell’inverno si sono tenute in rete e hanno proposto i seminari condotti da alcuni dei protagonisti più rilevanti della scena jazz italiana come Marco Di Battista, Max Ionata, Giovanni Falzone, Luca Mannutza, Marcello Di Leonardo, Ada Montellanico, Claudio Filippini, Umberto Fiorentino, Roberto Gatto e Tino Tracanna e con un ospite di assoluto rilievo internazionale come Jerry Bergonzi.

Riccardo Crimi: il fotografo AFIJ del mese di marzo – la gallery e l’intervista

Riparte, dopo una piccola pausa, la nostra rubrica dedicata all’AFIJ, Associazione Fotografi Italiani Jazz, che inizia il nuovo anno con un efficace restyling del sito web e l’inserimento dei soci Paolo Piga, Gabriele Lugli, Giuseppe Cardoni, Marco Floris, Luciano Rossetti e Riccardo Crimi tra i 30 finalisti del prestigioso Jazz World Photo, edizione 2021.
Ed è proprio quest’ultimo, Riccardo Crimi, il fotografo che abbiamo intervistato questo mese e al quale è dedicata la nuova gallery.

Riccardo Crimi

Crimi nasce in Sicilia nel 1956, ma risiede a Formia in provincia di Latina dal 1975. Si occupa di fotografia di spettacolo e di musica jazz in particolare. Collabora con diversi magazine di settore tra cui Jazzit, Musica Jazz, oltre ad alcuni web magazine. Le sue foto sono state utilizzate per diverse copertine di cd, tra cui quelle per il doppio di Paolo Fresu per EMI, Gaetano Partipilo & Urban Society, Michael Blake, Pietropaoli. Da diversi anni si occupa di corsi di fotografia, sia di gruppo sia individuali, oltre a tenere diversi workshop di fotografia musicale. Accreditato nei più importanti festival di musica jazz come Umbria Jazz nelle due date, estiva e invernale, Young Jazz e Auditorium Parco della Musica. Socio fondatore dell’AFIJ. (Marina Tuni)

Scorrendo le tue note biografiche e curiosando sul web sono rimasta davvero impressionata di quanto tu, a differenza di altri fotografi, abbia dedicato la tua intera carriera professionale quasi unicamente alla fotografia di spettacolo, al jazz in particolare. Vorresti spiegarci da che cosa scaturisce la tua scelta, partendo magari dal raccontarci come ti sei avvicinato all’arte fotografica?
«Come molti mi sono avvicinato alla fotografia da piccolo, ricordo che agli inizi fotografavo di tutto, formiche, sassi… tutto quello che stuzzicava la mia fantasia! Crescendo ho iniziato a “selezionare” i soggetti, torturando amici e parenti. Nei primi degli anni ottanta entro in una agenzia fotografica e nell’82 vengo accreditato ai concerti dei Rolling Stones e di Frank Zappa, quindi il mio primo Umbria Jazz nel 1985; lì nasce la passione pura di fotografare la musica e gli artisti che ami… che volere di più dalla vita? Poi, come spesso succede, diventa difficile conciliare lavoro e famiglia e decido di abbandonare per poi riprendere nei primi anni del 2000. Da allora non mi sono più fermato».

Osservando i tuoi scatti ho potuto cogliere aspetti peculiari della personalità di alcuni artisti, che solo ascoltando la loro musica non ero riuscita a scoprire; evidentemente riesci a creare con l’artista che stai fotografando un’interazione naturale che va oltre la superficie. Non credo basti soltanto saperli mettere a loro agio… Come entri nel mondo dei musicisti che ritrai, tirando fuori il meglio di essi – o anche il peggio, a volte?
«Penso che sia una questione di “rispetto”. Il musicista capisce che lo rispetto prima come persona poi come musicista e forse per questo nasce quella giusta alchimia che mi permette di entrare nel suo mondo intimo di “personamusicista“, dove la prima non annulla la seconda e viceversa, e come in tutti gli esseri umani convive il meglio e il peggio ed è giusto conoscere e rispettare le due facce».

-Tempo fa lessi un romanzo di Thomas Bernhard, “Estinzione”, e rimasi colpita da questa frase: «Fotografare è una passione abietta da cui sono contagiati tutti i continenti e tutti gli strati sociali, una malattia da cui è colpita l’intera umanità e da cui non potrà mai più essere guarita. L’inventore dell’arte fotografica è l’inventore della più disumana delle arti. A lui dobbiamo la definitiva deformazione della natura e dell’uomo che in essa vive, ridotti a smorfia perversa dell’uno e dell’altra». Beh, è notorio che Bernhard è un maestro dell’arte dell’esagerazione… tuttavia, queste parole sono uno spunto per dire che nell’epoca in cui tutti fotografano tutto, non è così scontato che la logica meritocratica, in qualsiasi ambito professionistico, sia sempre riconosciuta. Qual è il tuo pensiero a questo proposito?
«La fotografia, come l’arte in genere, è lo specchio della società in cui viviamo ed è giusto che sia così… poi, va anche detto che viviamo in una società che di meritocratico non ha nulla…».

Una foto ben fatta ha un’anima e soprattutto mostra l’essenza del musicista, quel filo, dicevamo, che lo unisce al suo pubblico. Spesso, quando scrivo un articolo, una recensione, mi soffermo a pensare al peso, all’impatto che ogni singola parola potrà avere in chi mi legge… È una grossa responsabilità, non trovi? Capita anche a te di pensarlo per le fotografie che scatti?
«Sicuramente si, anche se per un fotografo è diverso, ovvero non deve analizzare e riportare come un musicista ha  suonato ma quello che ha profuso sul palco: passione, amore, sofferenza e, soprattutto, se tutto questo è arrivato al pubblico».

-La musica è una fenomenale attivatrice di emozioni.. anche estetiche, se vogliamo. Esiste persino una ricerca che dice che le nostre menti hanno la capacità di elaborare una sorta di libreria musicale che riesce a richiamare, attraverso una singola emozione collegata ad un brano, una multiforme combinazione di sentimenti ad esso associati. Quando scatti una fotografia, quanto la tua mente è condizionata dal fatto che ti piaccia o meno la musica dell’artista che stai fotografando e quanto ciò influisce sul risultato finale?
«Più che la musica che suona, per me influisce molto quanto il musicista sul palco sia “personamusicista” – come dicevo prima – cioè quanto si da al pubblico».

-Immagino che tu, come un padre nei confronti dei suoi figli, ami ogni tuo singolo scatto… tuttavia, ne ricordi qualcuno di cui sei particolarmente orgoglioso?

«Quella che ancora non ho scattato e sta li ad aspettarmi.
In effetti la foto di cui vado più orgoglioso non è stata fatta da me, ma a me da Art Blakey  ad UJ nell’85!»

Marina Tuni

I nostri CD. Fiato alle ance

Due sax alto e un tenore sono sotto i riflettori in questa terna di recensioni: un artista venticinquenne, una sassofonista di marcata personalità e un solista “emerso” (più che emergente) dal sicuro avvenire. Fiato alle ance, quindi.

Elias Lapia 4tet – “The Acid Sound” – Emme Record Label
L’altosassofonista nuorese – classe 1995 – ha vinto nel 2019 il Premio Internazionale Massimo Urbani e il Premio Imaie; “The Acid Sound” è il suo primo album da solista e, come afferma Emanuele Cisi, Lapia è “un giovane altosassofonista dall’identità ben precisa, con un gusto per il suono e la ricercatezza armonica non comuni, e con un talento compositivo più che interessante”. Nonostante sia solo 25enne, si è formato in realtà importanti del jazz nazionale e internazionale: Nuoro Jazz, Umbria Jazz Clinics, Berklee Summer Program, Dipartimento di Jazz del conservatorio nazionale superiore di Parigi e in quello olandese di Den Haag. In quartetto con Mariano Tedde (piano), Salvatore Maltana (contrabbasso) e Massimo Russino (batteria), Elias Lapia dimostra una personalità formata e un suono riconoscibile. Le sue composizioni – dove modalismo e lezione bebop, swing scattante e “qualità blues” si intrecciano – evidenziano una tecnica elevatissima coniugata a quella che Cisi chiama “risolutezza espressiva”, a dimostrazione che il talento – se ben coltivato – può portare lontano e generare non solisti “imitatori” ma autentici e creativi musicisti.

Carla Marciano Quartet – “Psychosis” – Challenge Records
L’altista e sopranista (al suo quinto album) si concentra in un sentito, riuscito e palpitante omaggio al compositore Bernard Herrmann e, soprattutto, alle sue ben note colonne sonore. La Marciano, infatti, traspone episodi delle musiche di “Marnie”, Psycho” e “Vertigo” (regia di Alfred Hitchcock), “Taxi Driver (di Martin Scorsese) e “Twisted Nerve” (R.Boulting) dal linguaggio orchestrale a quello di un quartetto jazz. L’operazione si realizza senza perdere la tensione (a tratti spasmodica) e la poesia degli originali che, però, vengono “risignificati” attraverso ricercati arrangiamenti e approcci solistici spesso sperimentali. Il quartetto (con Alessandro La Corte, Aldo Vigorito e Gaetano Fasano) eccelle anche in una rilettura da “Harry Potter”, musiche targate John Williams. Ispirato e a tratti travolgente il sassofonismo di Carla Marciano.

Massimiliano Milesi – “Oofth” – Auand Records
Travolgente è di certo Massimiliano Milesi in questo suo “Oofth” con sue sette composizioni realizzate in quartetto. Milesi è allievo di Tino Tracanna e lo si è ascoltato insieme al “maestro” nel pregevole gruppo Double Cut, in cui condivideva la leadership e la composizione. È stato membro della Contemporary Orchestra di Giovanni Falzone e della Wayne Horvitz European Orchestra, nonché fondatore del Collettivo Res (Ricerca Euristica del Suono; gruppo impegnato nello sviluppo di forme improvvisative di derivazione non solo jazzistica). In “Oofth” è Milesi che traccia le direttive della musica e guida la formazione con l’originale tastierista Emanuele Maniscalco (wurlitzer piano e synth), il bassista elettrico Giacomo Papetti (che assolve anche ruoli chitarristici) e il batterista Filippo Sala. Tenorista e gruppo hanno suono e linguaggi personali che, in questo album, si dispiegano in strutture diverse da quelle “canoniche” del jazz, generando una timbrica tesa ed intensa, intrisa di elettronica e groove. Nessun ammiccamento allo “storico” jazz-rock ma una sua proiezione nella contemporaneità, frutto di una combinazione alchemica fra la dimensione acustica di sassofono e batteria e quella elettrico-elettronica di tastiere e basso (“The Slide Rock-Bolter”, “Bad Goat”). Se proprio si vuole trovare un antesignano lo si può riscontrare in varie pagine – giovanili e non – di Francesco Bearzatti.