Il Pianista emerito: il sofferto coming out di Keith Jarrett che non potrà più suonare…

La notizia dei guai di salute di Keith Jarrett ha sollevato nel mondo ondate di emozione e sollecitato analisi critiche su un importante e amatissimo artista. Con l’augurare al pianista di Allentown una pronta guarigione, la presente valutazione prende le mosse da due aspetti che esulano dall’ambito strettamente jazzistico: il rapporto con il pubblico e l’approccio al repertorio classico.

Giuseppe Cardoni – Keith Jarrett – UmbriaJazz 2004

Di Keith Jarrett tutti ricordano l’atteggiamento verso le platee, la comunicazione non verbale e, in senso lato, il personaggio. (Mi scuseranno coloro che ne parlano già al passato, ma io non riesco a coniugare questo musico se non al presente). Lui che sul palco canta e grida come un ossesso non tollera rumori, è capace di abbandonare stizzito la sala al minimo cenno d’indisciplina e giunse al punto di apostrofare la platea di ‘Umbria Jazz’ con un epiteto (‘assholes’) non proprio sinonimo di kaloskagatói e tutto per aver disobbedito – alcuni – all’ordine di non registrare il con- certo col telefonino.
Jarrett antipatico e intollerante? Al di là della componente narcisistica, credo che egli ponga, e intenda superare, un problema importante e da troppi sottovalutato e lo faccia senza ipocrisie.
Si tratta della scarsa comunicazione tra artista e pubblico. L’arte non dovrebbe essere un banale scambio di oggetti tra donatore e acquirente ma un processo di liberazione interiore che permette a chi ascolta di divenire consapevole della propria forza e libertà, e a chi crea di liberare le sue intuizioni più riposte appoggiandosi alla piattaforma energetica generata insieme al pubblico, in quel luogo, in quel momento.
Il concerto si fa in due, si tratta di una trasformazione, di un ciclo di produzione, di un’alchimia possibile, tra l’altro, soltanto in sala da concerto, non nello “streaming” propugnato da finti amanti dell’arte musicale, che filtra e adultera il messaggio ostacolando irrimediabilmente lo scambio.
Lo “streaming” corrisponde alla visione napoleonica dell’arte come ‘instrumentum regni’. Il grande rito borghese, la liturgia chiesastica di Jarrett invece, criticata da molti come deriva autoritaria dell’ evento-concerto, è un fatto altamente etico e ad altezza d’uomo. L’esperienza del processo creativo, rivissuta dal pubblico, può e deve sensibilizzare lo spirito individuale. Sono intollerante  io, sembra chiedere Jarrett, che pretendo la concentrazione generale, o tu che ostacoli il medesimo processo al quale hai pagato per assistere? Jarrett può a volte mancare di equilibrio, mai però ha suonato con sciatteria di fronte al pubblico: questa sarebbe vera arroganza. E in  fondo anche la presunta arroganza di Miles che suonava con le spalle rivolte al pubblico non era altro, per mio conto, che una richiesta plateale di alzare l’asticella della comunicazione. Artisti di questa fatta aspirano a una fratellanza, non basta un pubblico che dica semplicemente: io c’ero. Educazione, recita il dizionario, “è condur fuori l’uomo dai difetti originali della rozza natura, instillando abiti di moralità e buona creanza”. Vale per chi la musica crea come per chi l’accoglie. Gli argomenti di Keith Jarrett sono solidi e contenuti nei dischi, disponibili a tutti, basta ascoltare.


Se la sua colpa è di dir la verità senza patteggiamenti lo perdono volentieri. Per tutto il resto c’è la Muzak.
Da decenni Keith Jarrett ha messo la propria enorme fama al servizio della grande repertorio concertistico. Ha registrato opere di vari autori, da Haendel a Pärt a Hovhaness favorendo di fatto una meritevole operazione culturale che ha attecchito, come era logico e auspicabile, soprattutto all’interno della comunità del jazz. Ho visto con i miei occhi jazzofili di stretta osservanza acqui- stare a scatola chiusa i dischi dei Concerti di Mozart con Russell Davies solo perché al pianoforte suonava Jarrett. Ma come sono, alla fine, queste registrazioni? Risultano paragonabili a quelle di Pollini, Richter, Ashkenazy? Per provare a rispondere, sarebbe bene rinunciare a paragoni insensati. Il ‘jazz’ più che un genere è un complesso approccio alla musica, quindi all’esecuzione e investe varie forme dell’agire. Come le lingue hanno i loro ‘argot’ il jazz ha una sua pronuncia, sincopata e accentata, un vero e proprio testo nel testo. La fraseologia del jazzista è appuntita, predilige la tensione, feconda l’instabilità laddove nell’estetica del pianoforte classico, particolarmente in Mozart, è importante l’opposto, l’uguaglianza, il controllo dinamico e il jeu perlè. È ostacolo non piccolo da superare per lo strumentista che voglia scollinare da un genere all’altro senza rotolare a valle. Ma c’è un altro problema, lo scoglio – non trascurabile pure – dell’ornamentazione, ossia della realizzazione degli abbellimenti, fioriture melodiche che presidiano i fraseggi specialmente delle opere classiche e pre-classiche.

Non è più accettabile oggi porgere un’ornamentazione casuale seguendo semplicemente l’istinto, anche chi suona lo strumento moderno deve ‘abbellire’ con cognizione di causa per non cadere in un analfabetismo stilistico di ritorno. Sicuramente tra i jazzisti che si avvicinano al non facile repertorio classico (penso a Corea, a John Lewis, al nostro Stefano Bollani) Keith Jarrett è il più convincente sotto il profilo tecnico come dello stile. Diciamo subito che suo lavoro di trasformazione della pronuncia jazz in fraseggio ‘classico’ è impressionante e si spiega sia con una facilità digitale miracolosa che con un istinto mimetico di prim’ordine. Immaginate un attore haitiano che reciti in perfetto italiano, o uno italiano brillare nel teatro kabuki. Casomai è strano sentire, come mi capita ogni tanto, che egli in questi repertorî “stravolge” e “sperimenta”. Se c’è una critica infatti che si può rivolgere alle sue incisioni “classiche” è casomai l’estrema, talvolta eccessiva timidezza dell’approccio interpretativo. Il suo famoso Bach, ad esempio, è preciso ma convenzionale, privo di una fisionomia davvero riconoscibile. Le sue ornamentazioni non vanno molto oltre i suggerimenti delle vecchie edizioni di Casella e Mugellini e le esecuzioni, in particolare quelle cembalistiche come le “Goldberg”, sono molto compassate.

I contrasti tra i tempi veloci e gli adagi risultano non di rado smussati, l’avvicendarsi delle varie situazioni un poco uniforme e la noia serpeggia qua e là. Anche le danze delle Suites Francesi si somigliano un po’ tutte. È come se il pianista, intimidito dagli autori affrontati, scegliesse di stare sempre al di qua del testo senza prendersi, diversamente da quanto avviene nei mirabili soliloqui improvvisati in pianoforte solo, alcun rischio. Anche Liszt, quando trascrisse per pianoforte le Sin- fonie di Beethoven dopo aver ricevuto la tonsura e gli ordini minori in Vaticano, non osò reinventare quelle opere come era solito fare e, intimidito forse dallo spirito del Maestro, quasi una divinità, le richiuse nel chiostro di “partitions de piano” fedeli come immagini allo specchio. Il corretto Bach jarrettiano è quindi, sul piano strettamente artistico, un’occasione perduta poiché  dall’enorme immaginazione di questo artista era lecito attendersi uno sguardo più rivelatore,  anche se restano letture rispettabili.
I dischi più convincenti invece, oltre a quelli che includono le sue proprie composizioni,
sono dedicati al repertorio novecentesco, Shostakovich in testa, ma anche il bell’album con il concerto di Barber e il terzo Bartok. Mi pare che tra il suono un po’ piccolo e nervoso di Jarrett, tra la sua koinè e il fecondo sincretismo intrinseco a quelle musiche si generi un’elettricità particolare che rende avventuroso l’ascolto. Il suo spazio improvvisativo restituisce qualcosa dell’ispirazione primigenia di questi lavori. Qui lo scattante pianismo di Keith si può anche prendere qualche rivincita su letture più blasonate, sempre restando entro il recinto di un approccio testuale filologico nel quale l’interprete non osa mai sovrapporsi autobiograficamente al testo.
Al Jarrett pianista classico può andare allora a pieno titolo una laurea “honoris causa” ma non direi, tutto sommato, che egli sia in quest’ambito un enfant terrible, piuttosto uno studente modello e un po’ secchione. Meglio così. Chi mi conosce sa quanto io stimi e ammiri Chick Corea, genio e sopra tutto poeta… ma soffrii le pene dell’inferno ad ascoltare una sua cadenza scombiccherata durante un Concerto di Mozart, peraltro tutto sbagliato stilisticamente! Non bisogna essere fedeli per forza ai pentagrammi, la musica, Dio ne scampi, non è un prontuario però, come si diceva più sopra a proposito della relazione tra artista e pubblico, il vero peccato mortale non sta nelle note sbagliate ma nella scarsa comunicazione tra testo e interprete. Ciò che ravvisai in quella deludente lettura di Corea fu proprio un’incompletezza espressiva, un non capirsi o non volersi capire. Ecco, di simili fraintendimenti linguistici nelle interpretazioni jarrettiane non vi è traccia.


È un gran merito. Chiaramente, a uno sguardo più generale, esiste il rischio opposto e fin peggiore, che il testo divenga un algido Totem, come purtroppo avviene in certe esecuzioni su strumenti d’epoca, rigide come militari passati in rassegna però fedeli alla lettera.
Il discorso qui ci porterebbe lontano. Non esistono verità ma canoni che non devono perdere di vista la stella polare di una chiara linea espressiva, pena il fallimento su tutta la linea.
Il canone jarrettiano, pur con i distinguo sopra esposti, è persuasivo, i gangli di comunicazione attivi ed ha in più una sua insostituibile funzione, torno a dire, nel rivolgersi a una specifica comunità di ascoltatori e appassionati. D’altronde se è vero, come credo, che nei sincretismi e non nella purezza troveremo buona parte della migliore musica del futuro, l’annessione della tradizione classica è una medicina naturale contro i suoni mercificati. Jarrett l’ha capito e messo in pratica. Non di molti artisti, anche in un lungo periodo di tempo, si può affermare una tale originalità e un tal carattere fondamentale, una visione così ampia.

Massimo Giuseppe Bianchi

I NOSTRI CD. Miatto, Piccioni, Scandroglio, Bardoscia: quando il basso vola alto.

Lorenzo Miatto – “Civico 19” – Caligola Records
Si può dire “il volare del basso” se un basso “vola alto”? Sì, probabilmente.
È quando, in altri termini, uno strumento come il basso elettrico rifugge dal ruolo di mero accompagnatore per librarsi improvvisativo e liberarsi in canto solistico per, appunto, “volare alto”. Questo espediente retorico è utile per meglio connotare il debutto discografico del giovane bassista veneto Lorenzo Miatto con l’album “Civico 19” (Caligola). Gli è a fianco il chitarrista Nicola Privato nell’attuare una coppia aperta agli scambi di ruolo, melodico e di sfondo armonico, per una sezione bass/guitar sorretta dalla bacchetta-misurino di Niccolò Romanin.  L’atmosfera, all’inizio di fusion sericea, si fa man mano più pastosamente sostanziosa. Il contesto è di un jazz non scevro da echi pop e rock in cui le composizioni del leader sono arrangiate in modo da esaltare la cantabilità tipica del basso elettrico, in un certo senso più opalescente rispetto allo strumento che ne è il fratello maggiore, quantomeno per stazza, il contrabbasso. Oltretutto un mirato uso di reverberi e vibrati ne rafforza l’affinità elettiva con la chitarra in una giostra di suoni variopinti e tempi sempre cangianti quasi uscissero imprevisti e insoliti dal compact, porta girevole di dodici tracce, emotive prima ancor che musicali.

Dario Piccioni – “Limesnauta” – Caligola Records
Ancora un debutto a marchio label Caligola col contrabbassista Dario Piccioni.
Il suo disco,”Limesnauta” è un neologismo che riassume un’autodefinizione della personalità del Nostro, cioè un navigatore del confine; verrebbe da aggiungere che è un esploratore del suono, un ‘traversatore’ di stili (nel cd appaiono le tablas di Daniele Di Pentima e l’oud di Stefano Saletti) un condensatore di ricami e richiami (a Renaud Garcia-Fons, per i sapori spanish dell’orchestrare e forse a Gary Peacock per il gusto nel ‘modaleggiare’). La bellezza del jazz è anche questa: il divagare dell’immaginazione di chi ascolta e intravede legami col proprio archivio mnemonico per confrontarli con chi oggi li maneggia e rimaneggia il processo di trasformazione e fusione di materiali preesistenti e nuovi, da solista o in gruppo. Già perché la fucina di Vulcano ha propri aiutanti! E così Piccioni si avvale del timone pianistico di Vittorio Solimene e col motore ritmico del batterista Ivan Liuzzo veleggia su una musica between/on/no borders in cui il contrabbasso si installa senza brontolii contando fra gli altri dell’ausilio “navigato” di Eugenio Colombo al sax e della voce, carezzevolmente erratica, di Veronica Marini.

Michelangelo Scandroglio – “In The Eyes of the Whale” – Auand
La Auand ci regala, con “In The Eyes Of The Whale”, ancora un contrabbassista in bella evidenza. Si tratta del ventitreenne toscano Michelangelo Scandroglio, reduce dall’affermazione del Conad Jazz Contest ad Umbria Jazz 2019 e vincitore del bando Mibac “Nuova generazione jazz” che si propone, prima facie, in veste di compositore dei 7 brani originali in scaletta oltre che come virtuoso. Verrebbe da capovolgere il motto “dimmi con chi suoni e di dirò chi sei” in “dimmi chi sei e ti dirò con chi suoni” nel senso che la scelta dei partners è quanto mai in linea con l’amalgama sonoro prefigurato da Scandroglio dalla sua collodiana “balena” che accoglie e lascia passar fuori, dal proprio grembo, elettrici spruzzi di energia.  Militano infatti nella formazione il pianista Alessandro Lanzoni, il trombettista Hermon Mehari e il batterista Bernardo Guerra. Come dire un fior fiore di musicisti di nuova generazione, in tutto (magnifici) sette se vi si considerano gli ospiti Michele Tinto e Logan Richardson (alto sax) unitamente al londinese Peter Wilson (chitarra). Si avverte, nel suo background, la mano del didatta Ares Tavolazzi in un collocarsi fra rock pop e jazz contemporaneo che ne costituisce la specifica distintiva cifra artistica. In Scandroglio Mente (compositiva) e Cervello (bandlearistico) si coniugano alla Technè ovvero ad un tocco sapiente e sicuro sullo strumento. Cosa che nel jazz non guasta mai!

Marco Bardoscia – “The Future is A Tree” – Tûk Music
“The Future Is A Tree” (Tûk Musik) è l’interessante album del contrabbassista salentino Marco Bardoscia inciso con il collaudato trio completato dai corregionali William Greco al pianoforte e Dario Congedo alla batteria. Il lavoro si incentra sul Tempo inteso come cronologia ma anche frazione, scansione, struttura organizzata per lo zampillio dell’espressione musicale. La suite iniziale, divisa in Estate-Autunno-Inverno-Primavera, pur non essendo una rivisitazione vivaldiana, presta il fianco a possibili analogie: il respiro dell’atmosfera estiva, le mezze tinte autunnali, la chiusa pensosità invernale, la leggerezza primaverile. Ma la sua “quattro stagioni” non è né bucolica né arcadica a causa della costante contaminazione di terra mare e natura nel mondo odierno.L’artista scevera in jazz le proprie preoccupazioni sull’emergenza climatica del pianeta mentre guarda alle prospettive future delle nostre comunità, dei nostri figli. È dunque il suo un non-viaggio che lo porta ad enucleare, da fermo, i propri moti d’animo attraverso la musica, che è lirica, ispirata all’albero, quello che nella cover è costruito con rustiche matite dalla punta rossa, una pianta che rinvia idealmente a quella di Tranströmer che “prende vita dalla pioggia come un merlo in un frutteto”. I successivi cinque brani sviluppano in varietà di note la riflessione sulla gravità degli effetti del cambiamento climatico che l’uomo, dopo averli causati, non intende anzi non riesce ad arginare, come lo stregone che non sa esorcizzare gli spiriti del male che ha evocato.
Un jazz dunque impregnato di contenuti, quello di Bardoscia, che è anche un’ulteriore rivendicazione ed “espropriazione” del ruolo di prim’attore che il contrabbasso si è saputo conquistare sulla scia di Mingus, Pastorius ed altri capostipiti.
Insomma jazz bass e doublebass, dopo decenni in retrovia, son sempre più alla ribalta anche nel contemporary jazz di casa nostra. Come l’anatroccolo che finalmente può brillare di luce propria e pavoneggiarsi con gli altri per la propria avvenenza.

Dalla Russia a Umbria Jazz il virtuosismo controcorrente di Greta Panettieri

Un’artista dal vissuto intenso e sempre controcorrente. Vincitrice di una prestigiosa borsa di studio, si afferma negli Stati Uniti e poi conquista il pubblico italiano e gli spettatori di La7 con le sue reinterpretazioni magistrali tra jazz, pop, rock e musica popolare brasiliana. Cantante e compositrice dalla musicalità e virtuosismo innati, è reduce dal suo terzo tour sold out in Russia e dal 29 dicembre al 1 gennaio torna live a Umbria Jazz con il suo ultimo album “With Love”, ripercorrendo anche le tappe dei suoi precedenti 5 album realizzati tra Stati Uniti e Italia.

Poche artiste possono vantare la sua stessa capacità interpretativa ed espressiva, e le sue incredibili doti vocali. Dal 29 dicembre al 1 gennaio, torna live in Italia Greta Panettieri, protagonista di 8 concerti nell’edizione Winter del festival Umbria Jazz, al Palazzo dei Sette di Orvieto.
Cantante, compositrice e strumentista. Ma soprattutto un’artista singolare, dalla personalità unica, tanto armoniosa quanto “sgretolata” – così come recita il titolo del suo penultimo album “Shattered”. Reduce dal grandissimo successo del terzo tour in Russia in poco meno di un anno, dove ha collezionato una lunga serie di sold out, Greta Panettieri si è affermata prima negli Stati Uniti dove ha firmato un contratto con la DECCA/Universal e ha collaborato con grandi della musica mondiale come Larry Williams, Diane Warren, Curtis King, Terri Lynn Carrington, Mitch Forman, Robert Irvin III, Curtis King, Toninho Horta ed è stata invitata ad aprire le date del tour europeo di Joe Jackson.
In Italia ha conquistato il pubblico del jazz e gli spettatori di LA7 dapprima con le sue personalissime reinterpretazioni di grandi artisti (il suo album “Non Gioco Più, dedicato a Mina, svela il suo incredibile virtuosismo vocale, a partire dal celebre e sfidante brano “Brava”, scritto da Bruno Canfora proprio per esaltare le doti tecniche e espressive della “tigre di Cremona”). Mentre varie edizioni dei Jazzit Awards la consacrano come una delle migliori cantanti jazz italiane, il suo animo musicale si sfaccetta in più direzioni, che riesce a fare proprie con uno stile inconsueto e di grande eleganza: i suoi brani originali con sapienza esprimono il suo amore anche per il rock, il free, il pop, l’elettronica, la musica popolare brasiliana e la musica d’autore italiana.
La sua carriera in Italia vede grandi collaborazioni: Sergio Cammariere, Gegè Telesforo per cui ha scritto anche dei testi, il grande Toquinho che l’ha invitata in diversi tour, il trombettista Fabrizio Bosso, Claudio “Greg” Gregori, Ainè, la New Talents Jazz Orchestra e la Perugia Jazz Orchestra, esibendosi nei più grandi teatri e jazz festival e italiani con moltissimi sold out.
Insieme a lei sul palco di Umbria Jazz, il pianista, compositore – e suo fedele producer – Andrea Sammartino, il bassista Daniele Mencarelli, il batterista Alessandro Paternesi e, grande special guest, il sassofonista Max Ionata, amatissimo in Giappone e in Russia oltre che in Italia. Sul palco, i brani del suo ultimo album “With Love”, e le tappe fondamentali dei suoi precedenti 5 album realizzati tra Stati Uniti e Italia.

Un’artista a tutto tondo e una donna dal vissuto intenso e sempre controcorrente. A vent’anni rifiuta una prestigiosa borsa di studio per il Berklee College of Music di Boston e si trasferisce a New York, dove inizia una vita avventurosa all’insegna del suo grande amore per il canto, che riconosce come il suo principale strumento espressivo dopo aver studiato violino e pianoforte. Nel 2015 la casa editrice Edizioni Corsare decide di raccontare la sua storia in una biografia a fumetti: la Graphic Novel “Viaggio in Jazz”, oggetto di molti incontri nelle scuole e di una mostra al Medimex di Bari.

Un’artista dall’attitudine molto privata, e per questo ancora da scoprire nonostante le sue apparizioni televisive e radiofoniche, i 6 dischi, i continui sold out e un largo stuolo di fan. Impossibile, dunque, non approfondire il personaggio: www.gretapanettieri.com.

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In mostra i grandi del jazz internazionale ritratti su metallo da Chioccia-Tsarkova

Arrivano a Roma dopo i grandi consensi suscitati al Newport Jazz Festival, il North Sea Jazz di Rotterdam, il Birdland di New York e Umbria Jazz i dipinti del “duo” Chioccia-Tsarkova, che su lastra di metallo hanno riportato la forza, il carattere e la sinestesia musicale dei più grandi jazzisti del passato e del presente. Da Enrico Rava a Eric Dolphy, da Gil Scott Heron a Wayne Shorter e Massimo Urbani: in mostra da venerdì 15 novembre all’AlexanderPlatz Jazz Club di Roma una serie di opere che incarna lo spirito del jazz, fondendo pittura e materia in una jam session di significati.
Olga Tsarkova e Massimo Chioccia lavorano insieme da oltre 20 anni e hanno collaborato con vari festival nazionali e internazionali: autori del poster 2014 del Newport Jazz Festival, hanno stretto sinergie anche con il North Sea Jazz di Rotterdam, il Charlie Parker Jazz Festival di New York e con Umbria Jazz firmandone diverse locandine.
Le loro opere sono state ospitate da diversi jazz club internazionali, tra cui il Birdland e The Jazz Gallery di New York, il Blue Note di Milano, e l’AlexanderPlatz Jazz Club dove saranno nuovamente in mostra, fino al 1 dicembre, a vent’anni dalla prima esposizione.

Gli orari per visitare la mostra coincidono con quelli di apertura del club: dal lunedì alla domenica dalle ore 20 in poi: per maggiori info è possibile visitare il sito web www.alexanderplatzjazz.come la Pagina Facebook del locale https://www.facebook.com/alexander.platz.37/ oppure la Pagina Facebook dei due artisti https://www.facebook.com/ChiocciaTsarkova/ e di Massimo Chioccia https://www.facebook.com/massimo.chioccia.

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I NOSTRI CD. Curiosando tra le etichette (parte 4)

CNI

La Compagnia Nuove Indye viene fondata all’inizio degli anni ’90 da Paolo Dossena, storico produttore musicale, paroliere e compositore italiano. Nel corso della sua attività la Compagnia Nuove Indye ha avuto una particolare attenzione verso la musica etnica e dialettale, lanciando artisti come gli Almamegretta o gli Agricantus, senza comunque trascurare altri artisti di assoluto rilievo come Sud Sound System, Enzo Avitabile, Nidi d’Arac, A3 Apulia Project, Maurizio Capone, Bandorkestra, Alessandro Gwis.

Agricantus – “Akoustikòs Vol.I”
Agrigantus è uno dei gruppi in assoluto più significativi che abbiano attraversato la storia della musica italiana negli ultimi decenni. Siamo alla fine degli anni settanta, quando un gruppo di ragazzini di grande talento sperimenta suoni nuovi che non somigliano a niente di conosciuto in quanto coniugano i canti e gli strumenti della tradizione siciliana con le tradizioni africane, dando corpo tangibile alla teoria della musica quale ‘linguaggio universale’. Linguaggio che viene man mano arricchito con riferimenti non solo alla tradizione mediterranea ma anche a quella sudamericana, asiatica e mediorientale. Da quest’inizio il gruppo con gradualità si fa conoscere ottenendo unanimi consensi di pubblico e di critica anche al di fuori dei confini nazionali. Pur vivendo numerose trasformazioni, Agricantus ha comunque conservato una propria precisa identità non scalfita neanche dal fatto che per alcuni periodi ha osservato un rigoroso silenzio da cui sono riemersi solo mesi fa con questo eccellente album. Identità che si sostanzia, come si accennava, nella grandissima capacità di convogliare in un unicum input provenienti dalle più diverse realtà. Non è quindi un caso che la storia discografica di Agricantus abbia oggi un nuovo inizio con la CNI, che, come si diceva, si è da sempre contraddistinta per dare spazio alle più importanti band di world music che il nostro paese abbia prodotto. Questo nuovo lavoro vede nel rinnovato gruppo la splendida voce di Anita Vitale, accanto a musicisti che abbiamo imparato a conoscere nel corso degli anni quali Mario Rivera al contrabbasso, Giovanni Lo Cascio batteria e percussioni e il sempre toccante contributo degli strumenti arcaici di Mario Crispi (a cui “A proposito di jazz” ha dedicato una lunga e illuminante intervista). Risultato: un album di assoluta originalità, modernità, degno di essere ascoltato con grande attenzione.

Bandorkestra – “Best Seller”
Ogni volta che mi accingo ad ascoltare un nuovo album di Bandorkestra mi sorge un dubbio: riuscirà anche questa volta la band di Marco Castelli a trasmettermi le stesse emozioni, la stessa straordinaria energia, la ventata di sano ottimismo dell’ultimo ascolto? Questa volta il dubbio era ancora più forte in quanto l’album è stato concepito e realizzato per celebrare i quindici anni di attività artistica del gruppo, una ricca antologia, quindi, in cui sono stati raccolti quindici brani – compresi alcuni inediti – che, nel loro insieme, compendiano efficacemente il percorso artistico di Castelli e soci. Percorso artistico declinato attraverso una concezione musicale assolutamente originale, in grado di transitare da un terreno all’altro senza la minima difficoltà sì da affrontare un repertorio quanto mai variegato: dal jazz allo swing, dallo ska al boogie-woogie, dal latin al reggae… e via di questo passo. Il tutto riuscendo a ben coniugare scrittura e improvvisazione, arrangiamenti istantanei e logica organizzazione. E se ascoltando gli album di Bandorkestra si riesce a mala pena a stare fermi, figuratevi qual è il clima che questa straordinaria band riesce ad instaurare nelle esecuzioni dal vivo. Quindi anche in questo “Best Seller” ritroviamo la solita possente sezione di fiati sorretta da una ritmica tritatutto, senza però tralasciare qualche residua finezza nell’esposizione dei temi e nel dipanarsi degli assoli. I brani, come avrete capito, sono tutti assai godibili anche se ci piace segnalarvi uno degli inediti, il medley “Lotta Love Medley” in cui “Whole Lotta Love” dei Led Zeppelin sfuma in “Come Togheter” dei Beatles e poi in “Happy” di Pharrel Willams. Dal punto di vista solistico, da ascoltare con attenzione l’assolo di Pietro Tonolo in “Anelli” che dimostra, se pur ce ne fosse bisogno, il perché Tonolo sia a ben ragione considerato uno dei migliori sassofonisti e non solo a livello nazionale.

Alessandro Gwis – “#2”
Alessandro Gwis è pianista completo nell’accezione più vera del termine in quanto coniuga una tecnica eccellente con uno stile personale determinato dalle influenze derivanti dalla musica classica, dal rock, dal tango, dal jazz fino alla musica elettronica. Si è fatto le ossa soprattutto con gli “Aires Tango” ma poi ha intrapreso una sua strada finora ricca di successi. Nel 2006 pubblica il suo primo album da leader intitolato semplicemente “Alessandro Gwis” con Luca Pirozzi al contrabbasso e basso elettrico e Andrea Sciommeri alla batteria e percussioni. Ed è con questa stessa formazione (con l’aggiunta di Luciano Biondini all’accordion) che il pianista romano si ripresenta al pubblico del jazz: “#2” propone tredici brani tutti a firma dello stesso Gwis (da solo o con gli altri componenti del trio) che testimonia in modo inequivocabile la raggiunta maturità del pianista anche come compositore. Le composizioni originali sono tutte ben scritte, equilibrate, ottimamente eseguite e soprattutto con un perfetto equilibrio tra parti scritte e parti improvvisate. Equilibrio talmente ben raggiunto che cinque brani (“The Blessed Sadness Of Fall”, “The Baloonatic”, “Ibo”, “The Flood”, “Wind Rose Glitches”) sono esplicitamente indicati come “free improvisations recorded in studio” ma nell’economia generale dell’album si fa fatica a distinguerle dalle altre. I tre si muovono all’insegna di un’empatia frutto di una intensa e fruttuosa collaborazione fra i tre. Così, anche quando il pianista introduce elementi “elettronici”, o al trio si aggiunge l’accordion di Luciano Biondini (“Don’t blame Gwis”) il clima generale non cambia e la musica scorre fluida, libera – se mi consentite l’espressione – sempre caratterizzata da una linea melodica perfettamente riconoscibile.

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Emme Record Label

Il marchio nasce nel 2010 ma ha alle spalle oltre un decennio di esperienze professionali legate all’organizzazione, direzione artistica, Management & Booking. Emme Produzioni Musicali si caratterizza per il fatto di essere una delle pochissime realtà europee capaci di fornire tutti i servizi produttivi, discografici e manageriali, necessari a diffondere nel miglior modo un progetto artistico.

Bonora – “Enkidu”
“Enkidu” è l’album d’esordio di Bonora, un sestetto composto da giovani musicisti provenienti da Veneto, Toscana, Emilia Romagna e Marche: Francesco Giustini (tromba, flicorno), Leonardo Rosselli (sax tenore, sax soprano), Daniele Bartoli (chitarra elettrica), Alberto Lincetto (pianoforte, tastiere), Alberto Zuanon (contrabbasso), Stefano Cosi (batteria). Se dal punto di vista del repertorio (composto interamente da composizioni originali) il gruppo si muove su terreni non proprio nuovi, viceversa dal punto di vista esecutivo si nota una certa originalità. In effetti il sestetto evidenzia una buona conoscenza del mondo musicale riuscendo a enucleare elementi sia dal jazz più tradizionale, sia dal free, sia dal rock (soprattutto per quanto concerne la sezione ritmica), elementi che confluiscono in una visione unitaria andando così a costituire un linguaggio personale che costituisce l’elemento caratterizzante il gruppo. Così mentre i fiati sembrano rifarsi più esplicitamente al mondo del jazz, batteria e contrabbasso forniscono, come già sottolineato, un supporto che sottende una profonda conoscenza del rock. Il tutto si sposa tranquillamente, senza alcuna discrasia ad ulteriore dimostrazione che linguaggi diversi possono fondersi in un unicum di livello a patto che i musicisti siano all’altezza della situazione. E non c’è dubbio che questi giovani artisti, di cui sentiremo spesso parlare, all’altezza della situazione lo siano già.

The Sycamore – “Seamless”
Album d’esordio per il collettivo Sycamore, band nata nel 2015, dall’unione di sei musicisti di origine umbra, ovvero Andrea Angeloni al trombone, Leonardo Radicchi al sassofono, Alessio Capobianco e Ruggero Fornari alla chitarra, Pietro Paris al contrabbasso e Lorenzo Brilli alla batteria. Il loro primo EP, registrato nel novembre 2016 e ottimamente accolto dalla critica internazionale, ha consentito loro di partecipare al Conad Jazz Contest 2017, esibirsi a Umbria Jazz e vincere il primo premio della Giuria Popolare. Questo “Seamless” si lascia ascoltare per almeno due buoni motivi: la linea melodica che caratterizza tutti i brani e la bravura dei musicisti considerati sia singolarmente sia nel collettivo. In effetti, pur essendo al loro esordio discografico, i sei musicisti evidenziano un buon interplay che li porta a interagire con fluidità. Di qui un colloquio costante, una ripartizione degli spazi equa ed equilibrata. Intendo dire che non c’è un solista che svetta sugli altri, ma è un gioco collettivo in cui si inseriscono di volta in volta gli assolo dei sei musicisti. I quali si fanno apprezzare anche come autori dal momento che tutti gli otto brani in programma sono scritti dagli stessi componenti il sestetto, comunque legati da un idem sentire che contribuisce non poco all’omogeneità dell’album. Tra le varie composizioni degna di menzione l’apertura, “La spinara”, ottimo esempio di quell’interplay cui prima si faceva riferimento e “Dark Lights” una suggestiva ballad tutta giocata sul dialogo tra chitarra acustica e clarinetto basso.

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Green Corner

Ecco un’altra etichetta che si è imposta sul mercato grazie ad una scelta precisa: riproporre alcuni capolavori del passato con un catalogo assai vasto in cui figurano artisti di assoluto livello: da John Coltrane a Duke Ellington, da Miles Davis a Bill Evans… e via di questo passo.

Duke Ellington & John Coltrane
Questo doppio album contiene le registrazioni effettuate da Ellington e Coltrane a Englewood Cliffs il 26 settembre del 1962 nella duplice versione stereo e mono. Si tratta delle uniche incisioni realizzate assieme da Duke Ellington e John Coltrane. Per l’occasione, i due “giganti del jazz” sono accompagnati dal bassista e dal batterista dei rispettivi gruppi (che si sono alternati sulle tracce), Aaron Bell e Sam Woodyard (dalla sezione ritmica di Duke), e Jimmy Garrison e Elvin Jones (dalla sezione ritmica di Trane). A ciò si aggiungono, come bonus, quattro brani correlati a Ellington, eseguiti da piccoli gruppi guidati da Coltrane in diverse sessioni, cinque altre versioni di Ellington dei brani dell’album e una versione in quartetto di John Coltrane di “Big Nick”, la sua unica composizione originale dell’album. Ciò premesso, non credo ci sia molto da aggiungere sulla qualità della musica. Si tratta, come nel costume della Green Corner, di grande musica al di là di qualsivoglia etichetta, una musica che pone in evidenza non solo la grandezza esecutiva di due straordinari giganti, ma anche la qualità compositiva di Ellington, uno dei più grandi musicisti che il secolo scorso abbia annoverato. Dal canto suo Coltrane stupisce per la maturità con cui si confronta con un artista già grande: non dimentichiamo che nel 1962 Ellington è già un grande della musica mentre Coltrane solo nel 1960 ha costituito il suo primo gruppo da leader dopo aver militato nei gruppi di Thelonious Monk e Miles Davis. Insomma Coltrane è ancora considerato una promessa… ma che ha già al suo arco una quantità infinita di frecce che nell’arco di pochi anni lo condurranno nell’Olimpo del jazz.

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Labirinti sonori

L’etichetta discografica Labirinti Sonori – Music for Heart and Mind – è stata creata nel 2006 da Stefano Maltese. L’intento è quello di gestire la propria musica con il maggior controllo possibile e allo stesso tempo dare spazio alle produzioni musicali di musicisti che si esprimono con linguaggi personali, lontani dai cliché che mortificano la creatività. A parte i dischi realizzati dallo stesso Maltese e dai musicisti a egli più vicini, il catalogo di Labirinti Sonori annovera anche John Tchicai, Keith Tippett, Steve Lacy.

Roberta Maci – “I’m On The Way”
La multistrumentista Roberta Maci (sax soprano, sax tenore, sax alto, flauti, percussioni, voce) nonostante la giovane età (classe 1992), ha già raggiunto notevoli risultati che si sostanziano in questo primo album da leader alla testa del NBS Quartet, con Stefano Maltese (sax, flauto e percussioni), Giovanni Arena (contrabbasso) e Antonio Moncada (batteria e percussioni)
cui si aggiunge il pianista inglese Alex Maguire conosciuto per le sue collaborazioni con alcuni musicisti attivi nell’ambito del free jazz quali Elton Dean, Sean Bergin et Michael Moore. In questo album d’esordio la Maci evidenzia anche le sue capacità compositive dal momento che sugli undici brani in programma ben sette sono suoi con accanto due composizioni di Stefano Maltese e una a testa per Alex Maguire e Roscoe Mitchell (la ben nota “Odwalla” a chiudere il CD). L’album è apprezzabile da diversi punti di vista. Innanzitutto come strumentista la Maci è artista matura, ben consapevole dei propri mezzi espressivi e perfettamente in grado di maneggiare l’enorme percorso musicale che ha condotto il jazz dalle origini fino alle più moderne espressioni dei nostri giorni, senza dimenticare le musiche della propria terra, la Sicilia. Anche dal punto di vista compositivo le valutazioni non possono che essere positive: le sue creature sono ben costruite, equilibrate, con un filo logico che risulta ben individuabile nella ricerca di un linea melodica a tratti suadente a tratti più sfuggente.

Stefano Maltese – “Redder Level”
Questo doppio album racchiude le registrazioni effettuate il 7 gennaio 2018 durante il “Labirinti Sonori Siracusa Jazz Festival”. Il multistrumentista siciliano è alla testa del suo “Sonic Mirror Quartet” completato da Roberta Maci di cui abbiamo parlato in precedenza, Fred Casadei al contrabbasso e il fido Antonio Moncada batteria e percussioni. In programma 12 pezzi tutti scaturiti dalla penna del leader. Conosciamo Stefano Maltese oramai da tanti anni e non abbiamo alcuna difficoltà ad affermare che si tratta di uno dei jazzisti più originali, genuini, consequenziali e coerenti che il mondo del jazz possa vantare. Da quanto è apparso sulle scene nazionali e internazionali è rimasto sempre fedele al suo modo di essere, alla sua musica che nulla a che fare né con il facile ascolto, né con le mode passeggere, né tanto meno con inutili sperimentazioni fini a sé stesse. Il suo linguaggio è rigoroso, frutto di studi intensi e di una concezione “corale” della musica per cui l’esecuzione è sì frutto di una straordinaria intesa e di uno sviluppo complessivo senza però trascurare le capacità dei singoli che vengono esaltate attraverso il giusto spazio dato ad ogni assolo; si ascolti ad esempio la Maci al sax soprano in “Endless Circless” e al sax alto in “Way To Nowhere” dedicato a John Tchicai con il quale Maltese ha avuto modo di collaborare (registrando tra l’altro in duo nel 2010 l’album “Men From Windy Land”) mentre la sezione ritmica si fa particolarmente apprezzare in “We Everywhere”. Dal canto suo Maltese è l’anima pulsante del gruppo, il leader che impronta di sé ogni brano sia con la sicura conduzione sia con assoli sempre particolarmente centrati.

I Floors in concerto al TrentinoInJazz!

TRENTINOINJAZZ 2019
e
Lagarina Jazz
presentano:

Giovedì 20 giugno
ore 18,00
Montura Alp Station C/O Montura Bistrò
Isera (TN)

Swing2Wedding: Aperitivo Jazz

Ingresso libero

ore 21,30
Cortile Palazzo De Probizer C/O Ristorante Casa del Vino
Isera (TN)

FLOORS

Prenotazione obbligatoria al numero 3421330005
ingresso 10 Euro, con posti limitati a 60

Giovedì 20 giugno, per il secondo appuntamento estivo del TrentinoInJazz 2019 – VIII Edizione, si apre la sezione Lagarina Jazz Festival con un concerto imperdibile: quello dei Floors! A Isera (TN), dopo l’aperitivo in jazz, arriva il trio composto da Filippo Vignato (trombone), Francesco Diodati (chitarra) e Francesco Ponticelli (contrabbasso). Vignato è stato segnalato come “Miglior nuovo talento” del Top Jazz 2016, Diodati vanta al proprio attivo lavori interessanti come leader e dal 2014 è componente del New Quartet di Enrico Rava, Ponticelli è nuovo per il pubblico trentino, non per la scena italiana, dove è attivissimo.

Quella con trombone, chitarra e contrabbasso è una combinazione particolarmente suggestiva, che dà modo alla creatività di spaziare su più piani di livello: diversi “Floors”, appunto. La cosa riesce bene quando i protagonisti sono musicisti giovani e di fervido talento, come Vignato, Diodati e Ponticelli. Loro stessi affermano: “Il nome della band vuole evocare una musica stratificata, con uno sguardo al minimalismo e alla ricerca poliritmica, ma allo stesso tempo fortemente ancorata alla melodia”. Geometrie astratte, dunque, che si incontrano con una schietta intenzione comunicativa. L’itinerario di Floors, iniziato nel 2017, ha fatto tappa nel 2018 a Umbria Jazz e si è rinnovato quest’anno in un tour che ha toccato cinque Paesi europei.

Prossimo appuntamento: domenica 23 giugno Sarah Stride Duo a Rovereto (TN).