Il jazz Festival Gubbio No Borders compie 20 anni: l’edizione 2021 tra concerti, cinema e masterclass

Compie 20 anni il Festival Gubbio No Borders, nato dalla grande passione per la musica e per il jazz grazie all’impegno e all’entusiasmo della Associazione Jazz Club Gubbio che negli anni ha ospitato nella città di Gubbio grandi nomi del panorama musicale nazionale e internazionale tra cui Benny Golson, James Senese & Napoli Centrale, Paul Wertico, Gino Paoli, Samuele Bersani, Fabrizio Bosso, Danilo Rea, Quintorigo, Maria Pia De Vito, Greta Panettieri, Giovanni Tommaso, Javier Girotto e Dado Moroni.
Una ricorrenza importante, quella del 20° anno, che verrà celebrata con una edizione festosa a partire dal giorno di Ferragosto fino al 31 agosto con un cartellone che comprenderà concerti, cinema, matinèe, street parade e masterclass, con la direzione artistica di Luigi Filippini.
Un programma ricco e multistilistico, reso possibile grazie anche alla collaborazione e al patrocinio del Comune di Gubbio, il prezioso sostegno della Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia, la partnership con la Direzione Regionale Musei Umbria e con l’IIS Cassata-Gattapone.
Ad inaugurare il Gubbio No Borders 2021, il giorno di Ferragosto, sarà la P-Funking band che alle 18.30 e alle 21.30 inonderà le vie della Città di note, invitando il pubblico a unirsi alla parata per i festeggiamenti della 20a edizione.

Lunedì 16 agosto grande attesa nella bellissima cornice del Teatro Romano per il noto sassofonista Francesco Bearzatti con il suo acclamato Tinissima 4tet e il nuovo progetto “Zorro”.
Sabato 21 agosto alle 11.30, il concerto del mattino con la band Le Scat Noir presso i suggestivi giardini pensili del Palazzo Ducale.
Lunedì 23 agosto alle 21.15 protagonista un altro grande sassofonista, Javier Girotto – un gradito ritorno al Gubbio No Borders – insieme all’ottimo pianista Natalio Mangalavite. Due raffinati artisti argentini che hanno fatto innamorare l’Italia con la loro musica, e che al Palazzo Ducale presenteranno tutto il loro universo sonoro.
Le serate di domenica 29 e lunedì 30 agosto sono dedicate al NoBorders Cinema, con la proiezione dei due film “La mélodie” di Rachid Hami e “Il concerto” di Radu Mihâileanu. Location: Il Voltone presso il Palazzo Ducale.
Martedì 31 agosto alle 21.15 si torna al Palazzo Ducale per l’ultimo concerto della XX edizione: quello della cantautrice Sara Marini con il suo progetto “Djelem do mar”.
Il 25, 26 e 27 agosto tornano al Festival le Masterclass che prenderanno avvio dalle ore 9 presso l’IIS Cassata-Gattapone.
Info per costi e iscrizioni: Associazione Jazz Club Gubbio: www.jazzclubgubbio.itgubbiojazzclub@gmail.com,  tel. 347.8283783 – 333.4192889.

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Riccardo Crimi: il fotografo AFIJ del mese di marzo – la gallery e l’intervista

Riparte, dopo una piccola pausa, la nostra rubrica dedicata all’AFIJ, Associazione Fotografi Italiani Jazz, che inizia il nuovo anno con un efficace restyling del sito web e l’inserimento dei soci Paolo Piga, Gabriele Lugli, Giuseppe Cardoni, Marco Floris, Luciano Rossetti e Riccardo Crimi tra i 30 finalisti del prestigioso Jazz World Photo, edizione 2021.
Ed è proprio quest’ultimo, Riccardo Crimi, il fotografo che abbiamo intervistato questo mese e al quale è dedicata la nuova gallery.

Riccardo Crimi

Crimi nasce in Sicilia nel 1956, ma risiede a Formia in provincia di Latina dal 1975. Si occupa di fotografia di spettacolo e di musica jazz in particolare. Collabora con diversi magazine di settore tra cui Jazzit, Musica Jazz, oltre ad alcuni web magazine. Le sue foto sono state utilizzate per diverse copertine di cd, tra cui quelle per il doppio di Paolo Fresu per EMI, Gaetano Partipilo & Urban Society, Michael Blake, Pietropaoli. Da diversi anni si occupa di corsi di fotografia, sia di gruppo sia individuali, oltre a tenere diversi workshop di fotografia musicale. Accreditato nei più importanti festival di musica jazz come Umbria Jazz nelle due date, estiva e invernale, Young Jazz e Auditorium Parco della Musica. Socio fondatore dell’AFIJ. (Marina Tuni)

Scorrendo le tue note biografiche e curiosando sul web sono rimasta davvero impressionata di quanto tu, a differenza di altri fotografi, abbia dedicato la tua intera carriera professionale quasi unicamente alla fotografia di spettacolo, al jazz in particolare. Vorresti spiegarci da che cosa scaturisce la tua scelta, partendo magari dal raccontarci come ti sei avvicinato all’arte fotografica?
«Come molti mi sono avvicinato alla fotografia da piccolo, ricordo che agli inizi fotografavo di tutto, formiche, sassi… tutto quello che stuzzicava la mia fantasia! Crescendo ho iniziato a “selezionare” i soggetti, torturando amici e parenti. Nei primi degli anni ottanta entro in una agenzia fotografica e nell’82 vengo accreditato ai concerti dei Rolling Stones e di Frank Zappa, quindi il mio primo Umbria Jazz nel 1985; lì nasce la passione pura di fotografare la musica e gli artisti che ami… che volere di più dalla vita? Poi, come spesso succede, diventa difficile conciliare lavoro e famiglia e decido di abbandonare per poi riprendere nei primi anni del 2000. Da allora non mi sono più fermato».

Osservando i tuoi scatti ho potuto cogliere aspetti peculiari della personalità di alcuni artisti, che solo ascoltando la loro musica non ero riuscita a scoprire; evidentemente riesci a creare con l’artista che stai fotografando un’interazione naturale che va oltre la superficie. Non credo basti soltanto saperli mettere a loro agio… Come entri nel mondo dei musicisti che ritrai, tirando fuori il meglio di essi – o anche il peggio, a volte?
«Penso che sia una questione di “rispetto”. Il musicista capisce che lo rispetto prima come persona poi come musicista e forse per questo nasce quella giusta alchimia che mi permette di entrare nel suo mondo intimo di “personamusicista“, dove la prima non annulla la seconda e viceversa, e come in tutti gli esseri umani convive il meglio e il peggio ed è giusto conoscere e rispettare le due facce».

-Tempo fa lessi un romanzo di Thomas Bernhard, “Estinzione”, e rimasi colpita da questa frase: «Fotografare è una passione abietta da cui sono contagiati tutti i continenti e tutti gli strati sociali, una malattia da cui è colpita l’intera umanità e da cui non potrà mai più essere guarita. L’inventore dell’arte fotografica è l’inventore della più disumana delle arti. A lui dobbiamo la definitiva deformazione della natura e dell’uomo che in essa vive, ridotti a smorfia perversa dell’uno e dell’altra». Beh, è notorio che Bernhard è un maestro dell’arte dell’esagerazione… tuttavia, queste parole sono uno spunto per dire che nell’epoca in cui tutti fotografano tutto, non è così scontato che la logica meritocratica, in qualsiasi ambito professionistico, sia sempre riconosciuta. Qual è il tuo pensiero a questo proposito?
«La fotografia, come l’arte in genere, è lo specchio della società in cui viviamo ed è giusto che sia così… poi, va anche detto che viviamo in una società che di meritocratico non ha nulla…».

Una foto ben fatta ha un’anima e soprattutto mostra l’essenza del musicista, quel filo, dicevamo, che lo unisce al suo pubblico. Spesso, quando scrivo un articolo, una recensione, mi soffermo a pensare al peso, all’impatto che ogni singola parola potrà avere in chi mi legge… È una grossa responsabilità, non trovi? Capita anche a te di pensarlo per le fotografie che scatti?
«Sicuramente si, anche se per un fotografo è diverso, ovvero non deve analizzare e riportare come un musicista ha  suonato ma quello che ha profuso sul palco: passione, amore, sofferenza e, soprattutto, se tutto questo è arrivato al pubblico».

-La musica è una fenomenale attivatrice di emozioni.. anche estetiche, se vogliamo. Esiste persino una ricerca che dice che le nostre menti hanno la capacità di elaborare una sorta di libreria musicale che riesce a richiamare, attraverso una singola emozione collegata ad un brano, una multiforme combinazione di sentimenti ad esso associati. Quando scatti una fotografia, quanto la tua mente è condizionata dal fatto che ti piaccia o meno la musica dell’artista che stai fotografando e quanto ciò influisce sul risultato finale?
«Più che la musica che suona, per me influisce molto quanto il musicista sul palco sia “personamusicista” – come dicevo prima – cioè quanto si da al pubblico».

-Immagino che tu, come un padre nei confronti dei suoi figli, ami ogni tuo singolo scatto… tuttavia, ne ricordi qualcuno di cui sei particolarmente orgoglioso?

«Quella che ancora non ho scattato e sta li ad aspettarmi.
In effetti la foto di cui vado più orgoglioso non è stata fatta da me, ma a me da Art Blakey  ad UJ nell’85!»

Marina Tuni

I nostri CD. Fiato alle ance

Due sax alto e un tenore sono sotto i riflettori in questa terna di recensioni: un artista venticinquenne, una sassofonista di marcata personalità e un solista “emerso” (più che emergente) dal sicuro avvenire. Fiato alle ance, quindi.

Elias Lapia 4tet – “The Acid Sound” – Emme Record Label
L’altosassofonista nuorese – classe 1995 – ha vinto nel 2019 il Premio Internazionale Massimo Urbani e il Premio Imaie; “The Acid Sound” è il suo primo album da solista e, come afferma Emanuele Cisi, Lapia è “un giovane altosassofonista dall’identità ben precisa, con un gusto per il suono e la ricercatezza armonica non comuni, e con un talento compositivo più che interessante”. Nonostante sia solo 25enne, si è formato in realtà importanti del jazz nazionale e internazionale: Nuoro Jazz, Umbria Jazz Clinics, Berklee Summer Program, Dipartimento di Jazz del conservatorio nazionale superiore di Parigi e in quello olandese di Den Haag. In quartetto con Mariano Tedde (piano), Salvatore Maltana (contrabbasso) e Massimo Russino (batteria), Elias Lapia dimostra una personalità formata e un suono riconoscibile. Le sue composizioni – dove modalismo e lezione bebop, swing scattante e “qualità blues” si intrecciano – evidenziano una tecnica elevatissima coniugata a quella che Cisi chiama “risolutezza espressiva”, a dimostrazione che il talento – se ben coltivato – può portare lontano e generare non solisti “imitatori” ma autentici e creativi musicisti.

Carla Marciano Quartet – “Psychosis” – Challenge Records
L’altista e sopranista (al suo quinto album) si concentra in un sentito, riuscito e palpitante omaggio al compositore Bernard Herrmann e, soprattutto, alle sue ben note colonne sonore. La Marciano, infatti, traspone episodi delle musiche di “Marnie”, Psycho” e “Vertigo” (regia di Alfred Hitchcock), “Taxi Driver (di Martin Scorsese) e “Twisted Nerve” (R.Boulting) dal linguaggio orchestrale a quello di un quartetto jazz. L’operazione si realizza senza perdere la tensione (a tratti spasmodica) e la poesia degli originali che, però, vengono “risignificati” attraverso ricercati arrangiamenti e approcci solistici spesso sperimentali. Il quartetto (con Alessandro La Corte, Aldo Vigorito e Gaetano Fasano) eccelle anche in una rilettura da “Harry Potter”, musiche targate John Williams. Ispirato e a tratti travolgente il sassofonismo di Carla Marciano.

Massimiliano Milesi – “Oofth” – Auand Records
Travolgente è di certo Massimiliano Milesi in questo suo “Oofth” con sue sette composizioni realizzate in quartetto. Milesi è allievo di Tino Tracanna e lo si è ascoltato insieme al “maestro” nel pregevole gruppo Double Cut, in cui condivideva la leadership e la composizione. È stato membro della Contemporary Orchestra di Giovanni Falzone e della Wayne Horvitz European Orchestra, nonché fondatore del Collettivo Res (Ricerca Euristica del Suono; gruppo impegnato nello sviluppo di forme improvvisative di derivazione non solo jazzistica). In “Oofth” è Milesi che traccia le direttive della musica e guida la formazione con l’originale tastierista Emanuele Maniscalco (wurlitzer piano e synth), il bassista elettrico Giacomo Papetti (che assolve anche ruoli chitarristici) e il batterista Filippo Sala. Tenorista e gruppo hanno suono e linguaggi personali che, in questo album, si dispiegano in strutture diverse da quelle “canoniche” del jazz, generando una timbrica tesa ed intensa, intrisa di elettronica e groove. Nessun ammiccamento allo “storico” jazz-rock ma una sua proiezione nella contemporaneità, frutto di una combinazione alchemica fra la dimensione acustica di sassofono e batteria e quella elettrico-elettronica di tastiere e basso (“The Slide Rock-Bolter”, “Bad Goat”). Se proprio si vuole trovare un antesignano lo si può riscontrare in varie pagine – giovanili e non – di Francesco Bearzatti.

Il Pianista emerito: il sofferto coming out di Keith Jarrett che non potrà più suonare…

La notizia dei guai di salute di Keith Jarrett ha sollevato nel mondo ondate di emozione e sollecitato analisi critiche su un importante e amatissimo artista. Con l’augurare al pianista di Allentown una pronta guarigione, la presente valutazione prende le mosse da due aspetti che esulano dall’ambito strettamente jazzistico: il rapporto con il pubblico e l’approccio al repertorio classico.

Giuseppe Cardoni – Keith Jarrett – UmbriaJazz 2004

Di Keith Jarrett tutti ricordano l’atteggiamento verso le platee, la comunicazione non verbale e, in senso lato, il personaggio. (Mi scuseranno coloro che ne parlano già al passato, ma io non riesco a coniugare questo musico se non al presente). Lui che sul palco canta e grida come un ossesso non tollera rumori, è capace di abbandonare stizzito la sala al minimo cenno d’indisciplina e giunse al punto di apostrofare la platea di ‘Umbria Jazz’ con un epiteto (‘assholes’) non proprio sinonimo di kaloskagatói e tutto per aver disobbedito – alcuni – all’ordine di non registrare il con- certo col telefonino.
Jarrett antipatico e intollerante? Al di là della componente narcisistica, credo che egli ponga, e intenda superare, un problema importante e da troppi sottovalutato e lo faccia senza ipocrisie.
Si tratta della scarsa comunicazione tra artista e pubblico. L’arte non dovrebbe essere un banale scambio di oggetti tra donatore e acquirente ma un processo di liberazione interiore che permette a chi ascolta di divenire consapevole della propria forza e libertà, e a chi crea di liberare le sue intuizioni più riposte appoggiandosi alla piattaforma energetica generata insieme al pubblico, in quel luogo, in quel momento.
Il concerto si fa in due, si tratta di una trasformazione, di un ciclo di produzione, di un’alchimia possibile, tra l’altro, soltanto in sala da concerto, non nello “streaming” propugnato da finti amanti dell’arte musicale, che filtra e adultera il messaggio ostacolando irrimediabilmente lo scambio.
Lo “streaming” corrisponde alla visione napoleonica dell’arte come ‘instrumentum regni’. Il grande rito borghese, la liturgia chiesastica di Jarrett invece, criticata da molti come deriva autoritaria dell’ evento-concerto, è un fatto altamente etico e ad altezza d’uomo. L’esperienza del processo creativo, rivissuta dal pubblico, può e deve sensibilizzare lo spirito individuale. Sono intollerante  io, sembra chiedere Jarrett, che pretendo la concentrazione generale, o tu che ostacoli il medesimo processo al quale hai pagato per assistere? Jarrett può a volte mancare di equilibrio, mai però ha suonato con sciatteria di fronte al pubblico: questa sarebbe vera arroganza. E in  fondo anche la presunta arroganza di Miles che suonava con le spalle rivolte al pubblico non era altro, per mio conto, che una richiesta plateale di alzare l’asticella della comunicazione. Artisti di questa fatta aspirano a una fratellanza, non basta un pubblico che dica semplicemente: io c’ero. Educazione, recita il dizionario, “è condur fuori l’uomo dai difetti originali della rozza natura, instillando abiti di moralità e buona creanza”. Vale per chi la musica crea come per chi l’accoglie. Gli argomenti di Keith Jarrett sono solidi e contenuti nei dischi, disponibili a tutti, basta ascoltare.


Se la sua colpa è di dir la verità senza patteggiamenti lo perdono volentieri. Per tutto il resto c’è la Muzak.
Da decenni Keith Jarrett ha messo la propria enorme fama al servizio della grande repertorio concertistico. Ha registrato opere di vari autori, da Haendel a Pärt a Hovhaness favorendo di fatto una meritevole operazione culturale che ha attecchito, come era logico e auspicabile, soprattutto all’interno della comunità del jazz. Ho visto con i miei occhi jazzofili di stretta osservanza acqui- stare a scatola chiusa i dischi dei Concerti di Mozart con Russell Davies solo perché al pianoforte suonava Jarrett. Ma come sono, alla fine, queste registrazioni? Risultano paragonabili a quelle di Pollini, Richter, Ashkenazy? Per provare a rispondere, sarebbe bene rinunciare a paragoni insensati. Il ‘jazz’ più che un genere è un complesso approccio alla musica, quindi all’esecuzione e investe varie forme dell’agire. Come le lingue hanno i loro ‘argot’ il jazz ha una sua pronuncia, sincopata e accentata, un vero e proprio testo nel testo. La fraseologia del jazzista è appuntita, predilige la tensione, feconda l’instabilità laddove nell’estetica del pianoforte classico, particolarmente in Mozart, è importante l’opposto, l’uguaglianza, il controllo dinamico e il jeu perlè. È ostacolo non piccolo da superare per lo strumentista che voglia scollinare da un genere all’altro senza rotolare a valle. Ma c’è un altro problema, lo scoglio – non trascurabile pure – dell’ornamentazione, ossia della realizzazione degli abbellimenti, fioriture melodiche che presidiano i fraseggi specialmente delle opere classiche e pre-classiche.

Non è più accettabile oggi porgere un’ornamentazione casuale seguendo semplicemente l’istinto, anche chi suona lo strumento moderno deve ‘abbellire’ con cognizione di causa per non cadere in un analfabetismo stilistico di ritorno. Sicuramente tra i jazzisti che si avvicinano al non facile repertorio classico (penso a Corea, a John Lewis, al nostro Stefano Bollani) Keith Jarrett è il più convincente sotto il profilo tecnico come dello stile. Diciamo subito che suo lavoro di trasformazione della pronuncia jazz in fraseggio ‘classico’ è impressionante e si spiega sia con una facilità digitale miracolosa che con un istinto mimetico di prim’ordine. Immaginate un attore haitiano che reciti in perfetto italiano, o uno italiano brillare nel teatro kabuki. Casomai è strano sentire, come mi capita ogni tanto, che egli in questi repertorî “stravolge” e “sperimenta”. Se c’è una critica infatti che si può rivolgere alle sue incisioni “classiche” è casomai l’estrema, talvolta eccessiva timidezza dell’approccio interpretativo. Il suo famoso Bach, ad esempio, è preciso ma convenzionale, privo di una fisionomia davvero riconoscibile. Le sue ornamentazioni non vanno molto oltre i suggerimenti delle vecchie edizioni di Casella e Mugellini e le esecuzioni, in particolare quelle cembalistiche come le “Goldberg”, sono molto compassate.

I contrasti tra i tempi veloci e gli adagi risultano non di rado smussati, l’avvicendarsi delle varie situazioni un poco uniforme e la noia serpeggia qua e là. Anche le danze delle Suites Francesi si somigliano un po’ tutte. È come se il pianista, intimidito dagli autori affrontati, scegliesse di stare sempre al di qua del testo senza prendersi, diversamente da quanto avviene nei mirabili soliloqui improvvisati in pianoforte solo, alcun rischio. Anche Liszt, quando trascrisse per pianoforte le Sin- fonie di Beethoven dopo aver ricevuto la tonsura e gli ordini minori in Vaticano, non osò reinventare quelle opere come era solito fare e, intimidito forse dallo spirito del Maestro, quasi una divinità, le richiuse nel chiostro di “partitions de piano” fedeli come immagini allo specchio. Il corretto Bach jarrettiano è quindi, sul piano strettamente artistico, un’occasione perduta poiché  dall’enorme immaginazione di questo artista era lecito attendersi uno sguardo più rivelatore,  anche se restano letture rispettabili.
I dischi più convincenti invece, oltre a quelli che includono le sue proprie composizioni,
sono dedicati al repertorio novecentesco, Shostakovich in testa, ma anche il bell’album con il concerto di Barber e il terzo Bartok. Mi pare che tra il suono un po’ piccolo e nervoso di Jarrett, tra la sua koinè e il fecondo sincretismo intrinseco a quelle musiche si generi un’elettricità particolare che rende avventuroso l’ascolto. Il suo spazio improvvisativo restituisce qualcosa dell’ispirazione primigenia di questi lavori. Qui lo scattante pianismo di Keith si può anche prendere qualche rivincita su letture più blasonate, sempre restando entro il recinto di un approccio testuale filologico nel quale l’interprete non osa mai sovrapporsi autobiograficamente al testo.
Al Jarrett pianista classico può andare allora a pieno titolo una laurea “honoris causa” ma non direi, tutto sommato, che egli sia in quest’ambito un enfant terrible, piuttosto uno studente modello e un po’ secchione. Meglio così. Chi mi conosce sa quanto io stimi e ammiri Chick Corea, genio e sopra tutto poeta… ma soffrii le pene dell’inferno ad ascoltare una sua cadenza scombiccherata durante un Concerto di Mozart, peraltro tutto sbagliato stilisticamente! Non bisogna essere fedeli per forza ai pentagrammi, la musica, Dio ne scampi, non è un prontuario però, come si diceva più sopra a proposito della relazione tra artista e pubblico, il vero peccato mortale non sta nelle note sbagliate ma nella scarsa comunicazione tra testo e interprete. Ciò che ravvisai in quella deludente lettura di Corea fu proprio un’incompletezza espressiva, un non capirsi o non volersi capire. Ecco, di simili fraintendimenti linguistici nelle interpretazioni jarrettiane non vi è traccia.


È un gran merito. Chiaramente, a uno sguardo più generale, esiste il rischio opposto e fin peggiore, che il testo divenga un algido Totem, come purtroppo avviene in certe esecuzioni su strumenti d’epoca, rigide come militari passati in rassegna però fedeli alla lettera.
Il discorso qui ci porterebbe lontano. Non esistono verità ma canoni che non devono perdere di vista la stella polare di una chiara linea espressiva, pena il fallimento su tutta la linea.
Il canone jarrettiano, pur con i distinguo sopra esposti, è persuasivo, i gangli di comunicazione attivi ed ha in più una sua insostituibile funzione, torno a dire, nel rivolgersi a una specifica comunità di ascoltatori e appassionati. D’altronde se è vero, come credo, che nei sincretismi e non nella purezza troveremo buona parte della migliore musica del futuro, l’annessione della tradizione classica è una medicina naturale contro i suoni mercificati. Jarrett l’ha capito e messo in pratica. Non di molti artisti, anche in un lungo periodo di tempo, si può affermare una tale originalità e un tal carattere fondamentale, una visione così ampia.

Massimo Giuseppe Bianchi

Giuseppe Cardoni: il fotografo AFIJ del mese di ottobre – la gallery e l’intervista

Continua la nostra rubrica dedicata all’AFIJ, Associazione Fotografi Italiani Jazz (qui il link alle gallery della rubrica) e il mese di ottobre ci porta in Umbria a conoscere Giuseppe Cardoni.

Giuseppe Cardoni

Ingegnere, dirigente d’azienda, negli anni Settanta si avvicina alla fotografia che, da quel che vedo, è per lui un processo che fa affiorare l’essenza della “cosa sensibile”, l’eidos dell’essere umano; le sue immagini, infatti, non perseguono criteri puramente estetici ma sprigionano emozioni profonde, che rimangono fissate nella mente di chi le guarda.
Cardoni di generi ne percorre molti: dal ritratto alla fotografia sportiva, dalla fotografia di musica e spettacolo al reportage, con una spiccata predilezione per il B/N. Ha fatto parte del Gruppo Fotografico Leica e frequentato Maestri della fotografia italiana quali Gianni Berengo Gardin – che, parlando dell’iconicità della Leica ha detto: “che c’entri qualcosa il mito è indubbio, ma è un amore di gioventù ed è rimasto tale” – Piergiorgio Branzi, Mario Lasalandra. È coautore, con il giornalista RAI, Luca Cardinalini, del libro fotografico “STTL La terra di sia lieve” (Ed. DeriveApprodi,Roma, 2006); insieme a Luigi Loretoni  nel 2008 ha pubblicato il fotolibro “Miserere”,  nel 2011 “Gubbio, I Ceri” e nel 2014 “Kovilj” (tutti Ed. L’Arte Grafica). Sempre nel 2014 ha pubblicato “Boxing Notes” (Edizionibam) reportage sul mondo della boxe. Si è dedicato per alcuni anni alla fotografia di eventi musicali, è coautore del libro “I colori del Jazz”(Federico Motta Editore, 2010) e nel 2019  ha pubblicato il libro fotografico “Jazz Notes” (BAM Stampa Fine Art by A. Manta). Nel 2020 ha pubblicato “Vita e Morte – Rapsodia Messicana”. Ha esposto i propri lavori in numerose mostre sia personali che collettive in Italia e all’estero e ha vinto (o è arrivato in finale) numerosi concorsi nazionali e internazionali; negli ultimi quattro anni ha conseguito questi importanti risultati in più di settanta contest. (MT)

Un paio d’anni fa, leggendo il libro di Helena Janeczek “La ragazza con la Leica” (premio Strega 2018), mi sono appassionata alla storia di Gerda Taro, tra le prime donne-reporter di guerra, morta a 26 anni sotto i cingoli di un carro armato durante la guerra civile spagnola. Sono rimasta affascinata dalla sua personalità rivoluzionaria ma anche dal fatto che, insieme al suo compagno Endre Friedmann, “costruì” la figura del leggendario fotografo Robert Capa. Le foto più belle di quell’epoca, e non solo di quella… erano scattate con l’altrettanto leggendaria Leica, che anche tu usi. Ci racconti com’è iniziato il tuo amore per questa particolare macchina fotografica?
«La scelta e poi la completa adozione è dipesa direttamente dal genere di fotografia che mi interessa maggiormente cioè il reportage, o meglio, raccontare delle storie. Quando ancora utilizzavo una reflex (a pellicola, il digitale non era ancora arrivato) fotografando insieme ad un amico che utilizzava Leica M (telemetro) mi sono reso conto dei vantaggi di discrezione e prontezza dovute alla silenziosità dell’otturatore, alle piccole dimensioni e alla visione “in diretta” grazie al mirino a telemetro che evita l’attimo cieco del movimento di sollevamento dello specchio. L’elevata qualità delle ottiche contribuì a rafforzare la scelta. Nel mio caso, la scelta dello “strumento” fu essenzialmente tecnica e indipendente da fascinazioni mitiche. Essendo interessato “all’istantanea” e meno alla fotografia “in posa” questo mezzo mi consentiva maggiormente di essere meno notato e di non “perturbare la scena”(credo che queste siano le motivazioni che hanno spinto negli anni tantissimi grandi fotografi interessati alla fotografia umanistica a fare questa scelta). Di fondo comunque sono convinto che come per uno scrittore non importa se scrive con una matita, una penna, una macchina da scrivere o un computer così anche per un fotografo, essendo la fotografia un linguaggio, quello che conta sono i contenuti, ciò che si ha da dire e come si dice, piuttosto che lo strumento utilizzato».

Altra cosa che mi ha incuriosito molto, approfondendo le tue note biografiche, sono i tuoi splendidi reportage (divenuti in seguito libri) in Italia e in Messico, rigorosamente in B/N, una sorta di viaggio iconografico nell’Ars Moriendi.
“Ars Moriendi” è anche il titolo di alcuni testi, scritti a seguito della pandemia di peste nera che si abbatté sull’Europa dal 1347al 1353, che portò non solo sofferenza e morte ma anche rivolte popolari. Al di là delle impressionanti analogie con il periodo che stiamo vivendo a causa del Coronavirus, ti devo confessare un’altra consonanza: nel mio peregrinare per il mondo non c’è stato viaggio in cui io non abbia visitato i cimiteri più importanti, da New Orleans a Parigi, da Roma al Tennessee, ma anche quelli minuscoli, nelle Pievi della mia amata Carnia. Lo diceva Foscolo, ma ci credo anch’io, che la civiltà dei popoli si misura attraverso il culto dei morti. Hai piacere di raccontarci che cosa ti spinge ad interrogarti, soprattutto mediante le immagini che catturi, su una questione imprescindibile come la morte, materia culturale e antropologica?
«Mi hai fatto una domanda da niente…! Sarei tentato di cavarmela rispondendoti sinteticamente: perché mi sento vivo e amo la vita! Oppure…”perché come ci insegna proprio la cultura Messicana il mondo dei vivi e quello dei morti si toccano fino a coincidere”.
Tentando di argomentare, facendomi aiutare da Freud,  credo che la contrapposizione e l’interazione tra Eros e Thanatos  (eros come pulsione energetica e vitale piuttosto che come libido) ci riguardi tutti. Tutti desideriamo la felicità, ma i limiti imposti dalla natura e dalla società spesso ci rendono difficile raggiungere la meta. Ritengo che questa lotta continua (tra gli istinti di vita e la consapevolezza della morte) insieme alle situazioni in cui viviamo contribuisca a determinare i nostri stati d’animo e i nostri sentimenti. Ed è proprio questo, nei pochi casi in cui mi riesce, che con il linguaggio fotografico mi interessa raccontare: emozioni, sentimenti».

-Tu sei anche un bravissimo fotografo di jazz, ho letto di te una magnifica definizione: “la sua Leica si muove improvvisando come uno strumento musicale”. Una foto ben fatta ha un’anima e soprattutto mostra l’essenza del musicista, quel filo, dicevamo, che lo unisce al suo pubblico. Spesso, quando scrivo un articolo, una recensione, mi soffermo a pensare al peso, all’impatto che ogni singola parola potrà avere in chi mi legge… È una grossa responsabilità, non trovi? Capita anche a te di pensarlo per le fotografie che scatti?
«Non sento una responsabilità istantanea, specifica “nel momento dello scatto”. Sento una grandissima responsabilità “di fondo” nel mio approccio alla fotografia nel rispetto delle persone che incontro e magari fotografo e nell’onestà del non mistificare o travisare le realtà che viviamo o che osserviamo diventandone interpreti o testimoni. Ma credo che questo si possa estendere per ogni nostra attività».

-La musica è una fenomenale attivatrice di emozioni anche estetiche, se vogliamo. Esiste persino una ricerca che dice che le nostre menti hanno la capacità di elaborare una sorta di libreria musicale che riesce a richiamare, attraverso una singola emozione collegata ad un brano, una multiforme combinazione di sentimenti ad esso associati. Quando scatti una fotografia, quanto la tua mente è condizionata dal fatto che ti piaccia o meno la musica dell’artista che stai fotografando e quanto ciò influisce sul risultato finale?
«Sono interessato a realizzare fotografie con una forte connotazione personale, che correlino la mia interiorità con la realtà che ho di fronte o sto vivendo. Quindi la musica può essere importante, come possono essere anche importanti altri “segnali” quali un atteggiamento, uno sguardo, una luce particolare, un espressione, un gesto, in altri termini, ciò che riesce a provocarmi un emozione o un interesse».

-Immagino che tu, come un padre nei confronti dei suoi figli, ami ogni tuo singolo scatto… tuttavia, ne ricordi qualcuno di cui sei particolarmente orgoglioso?

«Sono orgoglioso soprattutto del mio impegno per questa disciplina che pur non essendo la mia professione mi ha aiutato e mi aiuta a vivere più intensamente.
Premettendo che di scatti veramente “buoni” non ne ho fatti molti, nei lavori o tematiche trattate ho qualche fotografia che preferisco rispetto alle altre o magari ricordo con piacere quelle che hanno vinto importanti premi internazionali ma la mia vera scommessa è di riuscire a realizzare fotografie o meglio ancora racconti fotografici che mi sopravvivano in modo da segnare un futuribile punto a favore nella dialettica esistenziale di cui abbiamo parlato precedentemente».

Marina Tuni

Jimmy Cobb: il grande batterista se n’è andato in povertà

Il ricordo del batterista Giampaolo Ascolese

Carissimo Jimmy,
anche tu sei andato via e, spero, sia andato in un mondo migliore, che si chiami Paradiso o Inferno o Purgatorio, questo non lo so, ma la cosa importante è che sia un mondo migliore di questo, dove i grandi musicisti come te siano riconosciuti davvero per la loro grandezza e per le gioie che hanno dato alla Musica.

Jimmy Cobb

Poco prima di morire avevi sommessamente ma fermamente lanciato un grido di dolore perché non potevi più sostenere la tua famiglia con la tua stupenda musica, perché eri infermo e non potevi più suonare.

Hai chiesto aiuto e noi musicisti, sbigottiti, abbiamo cercato di aiutarti almeno psicologicamente, se non economicamente, poiché noi certo non abbiamo i mezzi, o per lo meno la maggior parte di noi.

Dovrebbe essere lo Stato in cui si vive, la Nazione a cui una persona “appartiene” ad occuparsi dei grandi Artisti e sicuramente io nulla so dell’America da questo punto di vista ma, ad esempio, qui in Italia non abbiamo alcuna possibilità di aiutare i grandi artisti, a qualsiasi arte essi appartengano.

Posso ricordare innumerevoli casi, come, ad esempio Salvo Randone, da tutti considerato uno dei nostri più grandi attori, morto fra gli stenti, e, molto più vicino a me, Nicola Arigliano, che è finito in una clinica privata, grazie al sostegno dei parenti più stretti e degli amici, perché le strutture sanitarie pubbliche non potevano assicurargli le terapie necessarie.

Ma gli esempi possono essere infiniti e quindi, spero vivamente che ora ti rifarai abbondantemente di tutti i sacrifici che hai dovuto affrontare, specialmente alla fine della tua vita, perché, per fortuna, quando eri giovane, ed anche dopo, la vita ti ha sorriso e ti sei potuto esprimere come il grandissimo batterista che eri.

Nel mio piccolo conservo il ricordo che ho di te, quando, dopo il concerto che feci con il Quartetto di Eddy Palermo a Perugia, in occasione di “UmbriaJazz 1985”, mi fermasti e mi facesti dei grandi complimenti, dicendo che io, oltre ad essere un batterista di Jazz “sapevo fare anche altro”, perché con Eddy suonavamo molti brani  latini e “fusion”.

Ecco, ora ti chiedo scusa se io non mi sono subito inginocchiato ai tuoi piedi, perché all’inizio non ci ho creduto, e forse non avevo nemmeno capito chi tu fossi, non ti ho riconosciuto subito… l’ho capito dopo, me lo hanno detto, quando non ti ho più visto e ti ho cercato… e non ti ho più trovato e le vicissitudini della vita non ci hanno più fatto incontrare.

Volevo ringraziarti poi anche perché, con “Kind of Blue” hai segnato il tempo, gli anni del mio primo amore, ascoltando continuamente il disco nei momenti più belli e poi anche perché, con il tuo tempo di spazzole su “All Blues”, hai definito la regola finale di come si debba suonare in 6/8 con le spazzole, e questa regola non si discute.., si impara.

Grazie Jimmy, e buona musica !!!

Giampaolo Ascolese