I nostri CD.
EVA E IL JAZZ. DISCHI AL FEMMINILE
Non è una novità che il jazz italiano si arricchisca sempre più di apporti al femminile generalmente in ruoli di leader o coleader e non sempre solo canori. Ciò avviene in rassegne come, ad esempio, la recente Women for Freedom in Jazz (con Zoe Pia e Valeria Sturba in apertura di un cartellone molto nutrito) o quella storica di Lucca Jazz Donna. La constatazione si può estendere anche al mercato discografico sul quale forniamo, a seguire, un succinto aggiornamento su alcune produzioni recenti redatto all’insegna della varietà di album sicuramente degni di segnalazione.
Chiara Pelloni, “Eve”, Caligola Records
Debutto discografico per Chiara Pelloni, con Eve, album a marchio Caligola Records, che “racconta” di una donna in un viaggio verso la Spagna le cui tappe sono costituite da otto canzoni: un’interprete di sé stessa, essendo anche “liricista” oltre che autrice musicale di brani eseguiti con Matteo Pontegavelli (tr.), Alvaro Zarzuela (tr.ne), Francesco Salmaso (sax ten.), Lorenzo Mazzochetti (p), Francesco Zaccanti (cb) e Riccardo Cocetti (dr.), formazione ben assortita che “pedina” il canto con discrezione. Ed una voce, quella della Pelloni, che lascia insinuare venature pop sul sostrato armonico costruitole attorno con un gusto che è tutto jazzistico. Ne vengon fuori pezzi eterei come “Eve” e “Rebirth”, intimi come “First Peace”, ballad intense come “Blue Colored Streets” e “Please Love Me Too”, latin moderati come “Vega” e poi “Memories of You” omonimo della song di Benny Goodman, infine l’accorata “Quello che conta”. Dunque il suo approdo biennale nei Paesi Baschi, dove si è perfezionata con Deborah Carter, non ci ha restituito souvenir di cante hondo o similia. Chiara è ripartita da lì portandosi appresso un bagaglio di “canzoni di viaggio” in cui ha saputo descrivere stati d’animo ed emozioni prima ancora che paesaggi e skilines. Just like the jazz.
Marta Giuliani, “Up on A Tightrope”, Encore Music
Sarebbe forse più opportuno tradurre “Up on A Tightrope”, titolo del primo album da leader di Marta Giuliani, come La corda tesa e non Sul filo del rasoio. La vocalist marchigiana presenta infatti nove propri brani in cui, più che la tensione, è la ricerca di equilibrio ad esser protagonista. Un po’ come Il funambolo che lei canta, su testo di Giovanni Paladini che firma anche “Il cielo dei Rojava” : “non è magia, non è pazzia / questo sogno che / sopra un filo va / alto sulle ali”. L’idea espressa è quella di un percorso graduale che compie con degli amici con cui condivide lo spirito creativo e il senso del procedere con un’incertezza che, alla prova dei fatti musicali, si fa sicurezza. Ed è quella da cui traspare l’impronta di fertile autrice di partiture, di testi poeticamente validi – a partire dall’iniziale “Fleeting Beauty” – e di arrangiamenti dalle soluzioni armoniche spesso inedite, di interprete avvezza all’improvvisazione “senza fili”, di bussola del combo formato da Nico Tangherlini al piano, Gabriele Pesaresi al contrabbasso e Andrea Elisei alla batteria, rete protettiva per Marta, trapezista della voce. Da sentire, in proposito, le elucubrazioni virtuosistiche di “Colibri’ e, in “So What if I Fall?”, i raddoppi voce-tastiera. Ma piacciono anche la sospensione aerea di “Clouds”, il solo nervoso del piano. Pregevole la traduzione in musica di “Beneath The Mask” del poeta afroamericano Paul Laurence Dunbar.
Battaglia – Arrigoni – Caputo – Di Battista, “Questo Tempo”, Da Vinci Jazz
Nei festival di poesia in genere la forma di dialogo fra musica e poesia più praticata è il reading, pronipote del settecentesco “recitativo accompagnato” laddove si declama mentre scorrono note musicali a commento della declamazione. Per contro in molte performances musicali accade che sia la musica a prevalere lasciando l’intermezzo poetico a far da corollario. L’unione paritetica fra le due arti, sperimentata ab initio dagli antichi greci, trova ancora oggi delle occasioni di sperimentazione. Ed è quanto fatto da Stefano Battaglia in seno al Laboratorio Permanente di Ricerca Musicale a Siena Jazz. Un risultato, incentrato nello specifico sul gemellaggio fra Improvvisazione e poesia, è l’album Questo Tempo, della Da Vinci Jazz, in cui quattro musicisti si cimentano davanti a una breve antologia poetica novecentesca e contemporanea di matrice femminile con l’intento di “sonorizzarla” e “vocalizzarla”. Protagonisti del lavoro, oltre al ricordato pianista, la cantante Beatrice Arrigoni, il vibrafonista Nazareno Caputo e il batterista Luca Di Battista. Un’operazione avventurosa, quella di congiungere parametri musicali e metriche versicolari ma soprattutto due tipi di ispirazione, appunto poetica e musicale, che nell’ordinarietà seguono iter autonomi. Il quadrivio improvvisativo incrocia disinvoltamente il proprio comporre istantaneo a liriche di Chandra Livia Candiani, Amelia Rosselli, Margherita Guidacci, Paola Loreto, Laura Pugno, Anna Maria Ortese dando così luogo ad una galleria di “poete” in cui, saltato il passaggio del testo scritto, le liriche si adagiano su un letto naturale di suono e canto, gioia e pathos, antico e moderno, disteso loro dalla musicista bergamasca che ha eletto e riletto Questo Tempo: che è, scrive Laura Pugno, “lana bianca che cade dalle mani / non si chiude il vestito / la sabbia nella mente ha formato la perla / e non ha luce”.
Paola Arnesano – Vince Abbracciante, “Opera!”, Dodicilune Records
L’opera lirica in formato cameristico, priva cioè di apparato scenico, sfavillio dei costumi, movenze attoriali dei cantanti, tessitura corale presuppone, da parte di interpreti e pubblico, una concentrazione mirata sulla musica “sola”, spoglia della cornice di “spettacolo totale” propria di quel tipo di messinscena. Il che, con i limiti del caso, alla fine può anche rivelarsi un’esaltante estrapolazione del momento compositivo. Dal canto loro i jazzisti che vi si confrontino senza voler sconfinare nella provocazione o ancor più nella dissacrazione, si trovano di fronte alla necessità di effettuare una scelta sul limite entro cui contenere la novità dell’arrangiamento, la libertà interpretativa e la creatività dell’improvvisazione senza incorrere nel peccato di lesa … Melodia. La vocalist Paola Arnesano e il fisarmonicista Vince Abbracciante, nell’album Opera! edito da Dodicilune Records, contemperano il rispetto dello spirito originario della partitura con il loro specifico approccio jazz. Dal corposo “songbook” operistico il duo ha prelevato musiche di Rossini Donizetti Bellini Verdi Leoncavallo Cilea Puccini, divinità dell’Olimpo melodrammatico, e seguendo le stecche di un ventaglio che va dal (pre)romanticismo al verismo alle suggestioni espressive del primo novecento, le ha riproposte con gusto personale ed accorto dosaggio delle componenti in campo. La Arnesano – musicista ferrata in latin e ben vocata per gli standards – ed Abbracciante – nomen omen se si pensa all’abbraccio multistyle della sua fisarmonica – hanno avvolto un involucro canoro/sonoro pertinente sia pure con alcune “zone franche” a mò di antiossidanti pietre filosofali che rimodellano arie immortali. Si va da un balcaneggiante “Io Son Docile” tratto dal “Barbiere”, alla rarefatta “Ecco Respiro Appena” ripresa dalla “Adriana Lecouvreur”, da “O Mio Babbino Caro”, fonte “Gianni Schicchi”, reso a swing, al pathos di “Vesti la Giubba”, maschera tragica di “Pagliacci”. E’ un altalenare fra i colori tenui di “Ieri Son Salita Tutta Sola” dalla “Butterfly” ed il volteggiare vocale su base sincopata di “Sempre Libera Degg’io” da “La Traviata” che è anche un inno alla varietà del Repertorio Lirico Nazionale e nel contempo alla sua unicità. C’è spazio per il walzer a tinte folk di “Mercè, Dilette Amiche” da “I Vespri Siciliani” ed il “Quando Men Vo” da “La Bohème” trasformato in chanson. Fra le chicche l’aria “Di Tal Amor Che Dirsi” da “Il Trovatore” in cui le volute belcantistiche si rivelano legittime antenate del vocalese e, dalla “Tosca”, le due perle “Vissi D’arte” ed “E Lucean le Stelle”. Non potevano mancare la “Norma” con “Casta Diva” e “Lucrezia Borgia” con “Il Segreto Per esser Felici” a completare quest’omaggio ad una nostra tradizione tuttora pulsante.
Vanessa Tagliabue Yorke, “The Princess Theatre”, Azzurra Music
The Princess Theatre di Vanessa Tagliabue Yorke (Azzurra Music) è album che vanta un legame ideale con il piccolo (meno di 300 posti) Teatro della Principessa della 39ma strada a New York, una struttura che, un paio d’anni dopo l’apertura nel 1913 e per un buon quadriennio, ospitò shows in formato “medium” a confronto dei reboanti musical di Broadway. Fu allora che, a causa della ristrettezza degli spazi, Jerome Kern fu obbligato a formulare melodie con le orchestrazioni di Frank Sadler scritte per ensembles non numerosi, forgiando così quell’innovativo e snello teatro musicale “americano” dell’epoca che si associa al team autoriale Kern, Guy Bolton, P.G. Wodehouse. Quello che la vocalist rievoca, a distanza di un secolo e passa e dopo due anni di pandemia, è il senso della spazialità ridotta, che non è angustia, e che “costringe” a pensare la musica in modo più raccolto e introspettivo. Ed è con questi occhiali che va interpretata la tracklist in cui accanto a brani di Strayhorn (“A flower is a Lovesome Thing”), Carmichael (“Stardust”), Green (“I Cover The Waterfront”), Kern (“The Way To Look Tonight”), Kitchings-Herzog jr (“Some Other Springs”), la Tagliabue “liricizza” Strayhorn (“Ballad for Very Tired and Very Sad Lotus Eaters”) o “musicalizza” Yeats (“Aedh Wishes for the Cloths of Heaven”). Va da sé che il disco non è costruito in laboratorio ma è il live del concerto tenutosi a Malcesine (VR) lo scorso 19 dicembre 2021 in cui figura al piano l’esperto Paolo Birro, peraltro coautore di “Leon”, con gli interventi della tromba di Fabrizio Bosso in “I’ve Stolen” e “Dream” e nel citato pezzo ripreso da Yeats dove il trombettista figura come coautore. Non c’è di che scegliere fra la Tagliabue autrice di “Ever” o “Don’t Leave Me” con la jazzista che completa il quadro armonico, elegante e forbito, di un pianista del livello di Birro. Tutto è al suo posto, quello ottimale per la dimensione del Princess Theatre in quel 1915-18, al riparo dai lontani venti di guerra che ancora oggi come allora soffiano e che la buona musica riesce a placare.
Sonia Spinello – Roberto Olzer, “Silence”, Abeat
L’assenza di suono, come dimostrato da John Cage, non esiste. E neanche la pausa musicale, di per sé, è sinonimo di vuoto totale. Per questo un album che si denomini Silence, come quello della vocalist Sonia Spinello e del pianista Roberto Olzer editato da Abeat, prefigura comunque delle note o comunque delle vibrazioni che giungono al “pianoforte segreto” del nostro orecchio. E non è luogo di afasie nientificazioni o rumori ma vi fluiscono semmai consonanze sussurrate, accennate, sviluppate, interagite con il violino di Eloisa Manera e il violoncello di Daniela Savoldi oltre al soprano di Massimo Valentini in “Consequences” ed al bansuri di Andrea Zaninetti in “Tell Me”. Questo lavoro, che nasce sulla scia dei cd Abeat “Steppin’ Out” e “Wonderland”, premiato in Giappone nel 2017 come miglior album vocale dalla rivista “Critique Magazine”, nel collocarsi fra le fenditure di world music, ambient jazz e classico-moderna, regala delle occasioni di “copertura” armonica del silenzio mantenendone l’aura sullo sfondo. A voler sceverare fra la dozzina di brani del compact non si può non sottolineare la bellezza di “Softly”, i colori intimi di “Silence”, la poeticità di “Attimi”, ma è tutto il mondo sonoro evocato dai musicisti a far da contrappunto al silenzio per il sound unico di questo disco candidato, ancora una volta, a proiettarsi sul proscenio internazionale.
Barbara Casini, “Hermanos”, Encore Music
Gli Hermanos della cantante Barbara Casini, nell’album edito da Encore, sono il sassofonista Javier Girotto, il chitarrista Roberto Taufic e il pianista Seby Burgio. Fior di musicisti che partecipano all’esecuzione, oltre che con il proprio strumento, con interventi mirati come la quena di Girotto in “Hurry” dell’uruguagio Fattoruso e in “Tonada de Luna Llena” del venezuelano Simòn Diaz, la voce di Taufic in “Pasarero” di Carlos Aguirre, di Rosario, e in “Maria Landò” di Granda e Calvo in cui si sentono le claps di Burgio. Ma gli Hermanos di una Casini in gran spolvero di latin imbevuto da sempre nelle corde vocali li vediamo anche nella figura stratosferica del brasiliano Milton Nascimento che ha scritto “Milagre dos Peixes” con Fernando Brant e che il 4et interpreta mirabilmente in chiusura al disco. Una “squadra” di fuoriclasse con Taufic, nato in Honduras ma cresciuto in Brasile, l’italo-argentino Girotto e il siciliano Burgio che si affianca alla musicista fiorentina con in spalla il background di retaggi conoscenze e abilità, con intatto il proprio schietto versante jazz, ed un repertorio ricercato, vedansi “La Puerta” del messicano Luis Demetrio, “Candombe de la Azotea” e “La Maza” del grande Silvio Rodriguez. Non manca il “suo” Toninho Horta con “Viver de Amor” (cofirmata Bastos) e “Zamba de Carnaval” dell’argentino Cuchi Leguizamòn. Autori che configurano un orizzonte su cui la Casini impregna linee melodiche che tratteggiano il continente centrosudamericano senza cesura fra mpb e spanish tinge.
Juan Esteban Cuacci – Mariel Martinez y La Maquina del Tango, “Aca Lejos”, Caligola Records
Che tango ci sarà dopo il … tango? La domanda è abbastanza scontata quando è riferita a generi musicali circoscritti che potrebbero avere espresso il meglio di sé e toccato il “picco” artistico con maestri come Piazzolla per il tango. Eppure, parlando sempre di tango, se lo si slega dal contesto storico in cui si è sviluppato e lo si vede come una sorta di archetipo, allora ci si renderà conto che sono tuttora possibili operazioni che non siano di mera facciata ma che abbiano un carattere rigenerante. Dalla rivoluzione del nuevo tango alla evoluzione del tango contemporaneo: prendiamo Aca Lejos, album del pianista Juan Esteban Cuacci e della vocalist Mariel Martinez y La Maquina del Tango prodotto in Italia da Caligola Records. Intanto il repertorio registra classici tangueri di Gardel, V. Esposito, Troilo, S. Piana etc. accanto a composizioni dello stesso Cuacci, motore della “macchina” che procede su binari (i tempi, ovviamente). A riprova della possibile convivenza e coesistenza del nuovo e delle rispettive radici. C’è poi la formazione con prevalenza femminile figurandovi la violista Silvina Alvarez e la contrabbassista Laura Asènsio Lopez unitamente al batterista Lauren Stradmann. Ancora, il climax. Pare molto più attenuato e dolce quel nostalgico “pensiero triste che si balla” grazie al canto della Martinez, virtualmente proiettato in avanti verso spazi sonori dischiusi, come un gaucho che scopre praterie prima sconosciute. Difficile, fra i tredici brani, stabilire un ordine di preferenze. E c’è dell’altro, sentiamo il lavoro vicino, “nostro” non solo per la radice di nomi che ricorrono – R. Calvo, L. Nebbia, A. Le Pera, J.M. Contursi – ma soprattutto per le forti tracce di melos sia pure corroborato da dna (poli)ritmico africano e da una persistente componente autoctona.
Amedeo Furfaro