Tanta bella musica… per tutti i gusti!

Mentre il Paese tenta faticosamente di uscire da una crisi terribile indotta dalla pandemia, il mondo della musica dà evidenti segni di ripresa declinata attraverso una serie di manifestazioni che interessano un po’ tutte le regioni. Oggi, quindi, vi segnaliamo alcuni di questi festival che ci appaiono particolarmente degni di attenzione. E iniziamo con qualcosa che ci porta fuori dal nostro ambito d’interesse abituale (la musica jazz) per andare in un campo che altre volte abbiamo frequentato: la musica classica.
Venerdì 23 luglio ha avuto inizio, ad Acquasparta, il Festival Federico Cesi diretto con mano sicura e competente da Annalisa Pellegrini, brillante e ben nota musicista; diplomata in conservatorio nel 1996 e in Canto Lirico nel 2001, la Pellegrini ha completato la sua preparazione con il Master Internazionale in Direzione di Coro di Musica Sacra con il massimo dei voti nel 2002, e il Diploma Accademico in Canto Barocco conseguito nel 2005, specializzandosi altresì in Vocalità Infantile con il Maestro C. Boldy. Pensato insieme a Stefano Palamidessi, che ne è il direttore organizzativo, il Festival si svolge sia in provincia di Terni sia in provincia di Perugia con la collaborazione dei Comuni di Acquasparta, Sangemini Montecastrilli, Spello e Trevi e la diocesi di Orvieto Todi. Chiusura il 9 settembre con l’esecuzione de “Il martirio di San Terenziano” un oratorio inedito di Antonio Caldara su testi di Giuseppe Piselli del 1718.
La manifestazione si caratterizza da un lato per l’ampio spazio lasciato ai giovani, dall’altro per una certa varietà di programma: così, ad esempio, il 30 luglio si avrà la possibilità di ascoltare a Spello una delle jazz-ladies del panorama italiano, Marcella Carboni, impegnata in un solo all’arpa, mentre il 9 settembre ad Acquasparta si esibirà il tenore Mark Milhofer accompagnato da Marco Scolastra al pianoforte in un programma significativamente intitolato “Caruso il mito”.

Restando nell’ambito della musica colta, segnaliamo tre importanti eventi che si avvarranno entrambi della partecipazione di Annalisa Pellegrini: il 28 luglio farà parte come soprano del quartetto vocale impegnato nei canti gregoriani, il 21 agosto sarà il soprano solista nel programma “Il suono dei sensi – Fascinazioni barocche” mentre nel già citato concerto di chiusura ricoprirà il ruolo dell’Angelo.
I concerti si svolgeranno all’aperto, saranno totalmente gratuiti ed ovviamente serviranno a focalizzare l’attenzione su territori già di per sé splendidi.
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E torniamo adesso su terreni che ci sono più congeniali.
Il 19 agosto si apre presso la Certosa di Padula Il Festival jazz sotto la direzione artistica di Maria Pia De Vito, che si chiuderà il 27. A dar fuoco alle polveri saranno Javier Girotto & Aires Tango, formazione che non ha certo bisogno di ulteriori presentazioni dato il prestigio acquisito in ogni dove. Questo concerto presenta un ulteriore elemento di interesse in quanto al gruppo si unirà Peppe Servillo il quale ha già collaborato con Girotto.
Il 23 sarà la volta della grande pianista Rita Marcotulli impegnata in un programma significativamente intitolato “I Caraviaggianti”. Si tratta di una sorta di viaggio tra le figure seducenti e dure del Caravaggio. Un concerto quindi di strumenti ed arie che giocano con la classica, il jazz, la musica contemporanea e l’elettronica. Accanto alla pianista suoneranno Mieko Miyazaki (koto e voce), Israel Varela (voce e percussioni), Michele Rabbia (percussioni e electronic sound), Tore Brumborg (sax), Michel Benita (contrabbasso) e Marco Decimo (violoncello).
Il giorno dopo il quartetto del trombettista Fabrizio Bosso con Julian Over Mazzariello al pianoforte, Jacopo Ferrazza al contrabbasso e Nicola Angelucci alla batteria.
Il 25 il celebrato “Zorro” del sassofonista e clarinettista Francesco Bearzatti con Giovanni Falzone alla tromba, Danilo Gallo al basso elettrico e Zeno De Rossi alla batteria.
Il 26 altro concerto di assoluto rilievo con Luca Aquino alla tromba che racconta le grandi storie della boxe; accanto a lui Antonio Jasevoli alla chitarra elettrica, Pierpaolo Ranieri al basso elettrico ed elettronica, special guest Manu Katche alle percussioni e batteria; visual art di Mimmo Paladino e testi di Giorgio Terruzzi.
Il giorno successivo sarà la volta del pianista Giovanni Guidi in quartetto con Stefano Carbonelli chitarra elettrica, Nicolò Francesco Faraglia chitarra elettrica, Federico Negri e Giovanni Iacovella batteria.
A chiudere il 27 agosto un duo d’eccezione costituito da Gianluca Petrella trombone e elettronica e Pasquale Mirra vibrafono.
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E chiudiamo con il Festival di Termoli alla sua settima edizione in programma dal 28 luglio al 1 agosto. Il Festival è organizzato dall’Associazione culturale Jack e trova nella meravigliosa Piazza Duomo un palcoscenico straordinario.

Franco D’Andrea – ph Angelo Salvin

In apertura Franco D’Andrea incontro DJ Rocca in un set di straordinaria intensità.
Il 29 doppio concerto con Luca Ciarla Solorchestra e il duo formato da Luca Aquino tromba e Giovanni Guidi al pianoforte.
Il 30 il quartetto del trombettista Flavio Boltro cui farà seguito il giorno dopo Enzo Favata “The Crossing”.
Chiusura il 1 agosto con Davide Shorty & Straniero Band –  Fusion Tour.

Gerlando Gatto

I NOSTRI CD. Il jazz italiano omaggia Morricone

Cari amici, prima di andare in vacanza, “A proposito di jazz” vi propone una serie di album, italiani e stranieri, che vale la pena ascoltare. E si comincia con tre eccellenti CD dedicati al cinema.

Stefano Di Battista – “Morricone stories” – Warner

Questo del sassofonista Stefano Di Battista è il primo dei tre album dedicati al cinema che viene ospitato nella nostra abituale rassegna discografica. L’album è particolare in quanto Di Battista, ben coadiuvato da Fred Nardin al pianoforte, Daniele Sorrentino al contrabbasso e il fantastico André Ceccarelli alla batteria, dedica questa sua ultima impresa discografica a Ennio Morricone, uno dei più grandi musicisti italiani degli ultimi tempi, al quale era legato da profonda e sincera amicizia. E lo fa nel modo migliore, vale a dire tralasciando i brani più noti, quelli che tutti conosciamo, per far ricorso ad alcune vere e proprie perle del Maestro che purtroppo non sempre godono di grande popolarità. Così l’unico brano universalmente conosciuto è “Metti una sera a cena” dall’omonimo film del 1969 diretto da Giuseppe Patroni Griffi, con Lino Capolicchio e Florinda Bolkan magnifici interpreti. Di Battista ce lo ripropone in una versione swingante in cui il sassofonista si produce in uno degli assolo più riusciti dell’intero album, che nulla toglie all’originaria bellezza del pezzo. Toccante, così come l’originale, “Tema di Deborah” da “C’era una volta in America” mentre in “Gabriel’s Oboe” da “Mission” Di Battista sostituisce il suo sax soprano all’originario oboe, con risultati straordinari nel mantenere sempre e comunque l’originaria bellezza della scrittura ‘morriconiana’. E questa sorta di devozione si avverte anche nel modo in cui la musica viene eseguita: niente muscolose esibizioni di bravura, niente arrangiamenti particolarmente sofisticati, insomma nessun escamotage per stupire l’ascoltatore, ma solo il piacere di suonare una musica evidentemente amata e profondamente vissuta. Splendida, e come poteva essere diversamente, anche l’interpretazione di “Flora” un pezzo che Morricone scrisse appositamente per Di Battista. Il disco è stato preceduto dai tre singoli “Peur sur la ville” (uscito il 29 gennaio), “Cosa avete fatto a Solange?” (uscito il 26 febbraio) e “Gabriel’s Oboe” (uscito il 19 marzo).

Marco Fumo – “Il mio Morricone” – Oradek

Ecco il secondo album dedicato a Morricone, firmato da Marco Fumo che more solito si esprime in solitudine. Anche questa volta la scelta dei brani è ben meditata: per la successione dei brani è stato scelto l’ordine cronologico mentre per i contenuti è lo stesso Fumo a venirci incontro nelle note che accompagnano l’album. Così i quattro preludi (“Cane bianco”, “Star System”, “Metti una sera a cena”, “Indagine”) e le quattro canzoni (“Il deserto dei tartari”, “Le due stagioni della vita”, “Got mit Uns” “Il potere degli angeli”) più “Nuovo cinema Paradiso” sono stati scelti in quanto da sempre fanno parte del repertorio di Fumo così come “scelta obbligata” è stata anche quella di “Rag in frantumi”, scritto da Morricone nel lontano febbraio 1986 ed espressamente dedicato proprio a Marco Fumo. Interessante sottolineare come Fumo mai abbia inciso le musiche di Morricone avendole, invece, eseguite spesso dal vivo (eccezion fatta per il già citato “Rag in frantumi” presente in vari album del pianista). Insomma un CD profondamente sentito, a dimostrazione di come Morricone fosse amato anche dai suoi colleghi e di quanto profondo, in particolare, fosse il legame che intercorreva tra Morricone e Fumo. “Questo – conclude le sue note Marco Fumo – è quello che sento e posso fare, dal cuore”. Dal punto di vista prettamente musicale, lo stile di Fumo è oramai riconoscibile: una assoluta conoscenza della letteratura pianistica – in particolar modo jazzistica – un sound fresco ma incisivo frutto di una solida preparazione di base, doti interpretative non comuni. Così, sotto le sue sapienti mani, i brani di Morricone rivivono letteralmente imponendosi all’attenzione anche dell’ascoltatore più distratto.

Renzo Ruggieri, Mauro De Federicis – “Ciak” – Vap

Il terzo album in qualche modo dedicato al cinema è questo “Ciak” che vede impegnati Renzo Ruggieri alla fisarmonica e Marino De Federicis alla chitarra. Si tratta di un duo ampiamente collaudato che ha già inciso un album, “Terre” (2008), e che si è esibito con successo in Finlandia e Austria, oltre che in diversi festival italiani. Adesso tornano a presentarsi al pubblico del jazz con questo nuovo album composto da cinque brani per un totale di circa ventisette minuti di musica comunque di eccellente qualità. Il fatto è che Renzo Ruggieri si è oramai imposto all’attenzione del pubblico internazionale come uno dei migliori fisarmonicisti non solo italiani e può vantare una certa parsimonia nell’entrare in sala di registrazione: tutti i suoi album conservano uno standard qualitativo molto elevato grazie al fatto che Renzo decide di incidere un disco solo se ha qualcosa da dire. Dal canto suo Mauro De Federicis può esibire una preparazione di base di assoluto rispetto e una continua frequentazione con l’olimpo del jazz testimoniato dalle collaborazioni con nomi prestigiosi quali Dee Dee Bridgewater, Paolo Fresu, Bob Mintzer, tanto per fare qualche esempio. In questo album, dedicato al cinema, i due hanno scelto di eseguire due composizioni originali e tre brani di assoluto spessore come “Il postino” di Luis Bacalov, Riccardo Del Turco e Paolo Margheri, “La gita in barca” di Piero Piccioni e “Speak Softly Love” di Rota tratto da “Il Padrino”. Una scelta coraggiosa non fosse altro che per aver tralasciato quel Morricone cui viceversa sono dedicati i due precedenti album. Particolarmente interessante il modo in cui i due attualizzano le atmosfere proprie di giganti del cinema dedicando loro due brani, “De Niro” (Marino De Federicis) e “Fellini” (Ruggieri). Comunque il pezzo che più mi ha toccato è stato “Il Postino” il cui originario pathos è stato perfettamente riproposto. E devo dire che in questo tipo di riletture Ruggieri è davvero un maestro: basti dire che ogni qualvolta lo ascolto eseguire “Caruso” mi è difficile contenere la commozione.

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Claudio Angeleri – “Music from the Castle of Crossed Destinies” – Dodicilune

Conosco e apprezzo oramai da molti anni Claudio Angeleri e non credo di sbagliare di molto se affermo che questo album è uno dei migliori che il pianista bergamasco abbia prodotto nel corso della sua oramai lunga carriera. A coadiuvarlo in questa ennesima fatica un gruppo di eccellenti musicisti: Giulio Visibelli (sax soprano, flauto), Paola Milzani (voce), Virginia Sutera (violino), Michele Gentilini (chitarra elettrica), Marco Esposito (basso elettrico), Luca Bongiovanni (batteria, percussioni) e, nel brano “Two or three stories”, Gabriele Comeglio (sax alto). Oltre al celebrato “Round about Midnight” di Monk, l’album consta di otto composizioni dello stesso Angeleri liberamente tratti dal breve romanzo fantastico “Il castello dei destini incrociati” di Italo Calvino. “L’idea di realizzare un nuovo progetto intorno alla letteratura di Italo Calvino – afferma lo stesso Angeleri – scaturisce da un invito del MIT Jazz Festival di Musica Oggi al Piccolo Teatro di Milano nello scorso novembre 2019. Lo spettacolo è stato poi replicato a gennaio al Blue Note, per essere messo in scena a luglio alla rassegna che ha significato la ripresa dal vivo dopo il lockdown a Bergamo”. E di certo bisogna avere una fervida immaginazione e soprattutto molto coraggio per trasporre in musica la scrittura non facile e mai banale di Italo Calvino. Di qui una musica ricca di colori in cui non sempre è facile distinguere le parti improvvisate da quelle scritte. Una musica in cui i vari strumenti diventano essi stessi voci narranti sì da rappresentare, – spiega ancora Angeleri – “per il loro carattere sonoro specifici personaggi”. Come si evince da queste poche note un compito davvero difficile che solo un musicista maturo, perfettamente consapevole dei propri mezzi espressivi, in possesso di una solida preparazione non solo come strumentista, poteva pensare di intraprendere e di traghettare alla meta con successo.

Nik Bärtsch – “Entendre” – ECM

Per chi ancora non conoscesse questo straordinario pianista e compositore svizzero, ecco un’ottima occasione per colmare questa lacuna. Nel panorama jazzistico internazionale oggi Bärtsch è personaggio imprescindibile tale e tanta è l’importanza che man mano va assumendo grazie anche ad alcune produzioni discografiche di eccellente livello. E’ questo il caso di “Entendre” declinato attraverso sei originali tutti composti da Nik e tutti eseguiti al piano solo. Lo stile dell’artista è assolutamente personale in quanto risultato da molti anni di continue sperimentazioni in cui Bärtsch ha cercato – e trovato – una soddisfacente sintesi tra jazz, minimalismo, poliritmie. Molti dei brani (quasi tutti intitolati Modul + numero, secondo consuetudine di Bärtsch) sono già stati presentati in altri album ma il pianista li rivisita apportando modifiche non di poco conto. Così ora tralascia precedenti climi jazz-rock per affidarsi unicamente alle sonorità dello strumento, ora si affida al giuoco minimalista alla ricerca con grande personalità di sottili variazioni timbriche. Il tutto completato da straordinarie capacità interpretative che portano l’artista a misurarsi anche sul piano dell’espressività. Si ascolti con attenzione l’apertura di “Modul 5” già proposto in “Llyrìa” (2010): la ricerca spazio-temporale in cui Bärtsch inserisce il suo pianismo è assolutamente straordinaria e mai conosce un attimo di stanca pur articolandosi su poche note che comunque delineano un quadro ben preciso. L’album si chiude con lo splendido “Déjà-vu, Vienna”, il pezzo più breve di “Entendre” (5:15), dal vago sapore impressionistico e dalla riconoscibile linea melodica elemento non certo usuale nelle concezioni di Bärtsch.

Enzo Carniel, Filippo Vignato – “Aria” – Menace

E’ davvero un piacere presentare questi due giovani straordinari musicisti che ancora non sono molto conosciuti dal pubblico italiano, ma la cui collaborazione era forse scritta negli astri dal momento che ambedue sono nati nel 1987. Enzo Carniel è un pianista francese dedito allo studio dello strumento sin da giovanissimo; sale agli onori della cronaca nel 2019 quando incide, con il gruppo House Of Echo, l’album ‘Wallsdown’. Filippo Vignato è a ben ragione considerato l‘astro nascente del trombonismo jazz italiano; anch’egli ha cominciato a studiare musica sin da bambino (a dieci anni) e oggi può vantare uno stile e una tecnica assolutamente personali. Ad onta delle difficoltà notoriamente insite in un duo, soprattutto se due artisti si cimentano per la prima volta in un organico del genere, questo “Aria” evidenzia una profonda empatia, un’intesa che trova la sua ragion d’essere nell’idem sentire dei due musicisti. Così il dialogo si svolge su binari sicuri anche se non banali, mai dando così all’ascoltatore l’impressione del ‘già sentito’ o peggio ancora di moduli predefiniti. Il risultato è un sound del tutto particolare determinato anche dall’uso del Fender Rhodes e dei sintetizzatori, la visione di un universo musicale multicolore, in cui i due artisti improvvisano continuamente essendo perfettamente in grado l’uno di capire le intenzioni dell’altro, in un susseguirsi si input, di stimoli, di processi creativi che si susseguono senza soluzione di continuità. Il tutto impreziosito da una riuscita ricerca sulle linee melodiche che costituiscono l’ossatura stessa dell’intero repertorio, otto brani tra cui spicca per intensità emotiva “Aria” la composizione che apre l’album in acustica per chiuderlo in versione elettronica. L’album, uscito il 16 aprile scorso per l’etichetta franco-giapponese Menace è stato anticipato da due singoli: la title-track Aria uscito il 5 febbraio e Babele uscito il 10 marzo.

Vittorio Cuculo Quartet – “Ensemble” – Wow Records

Lo stato di maturità del jazz italiano è dimostrato, seppur ce ne fosse ancora bisogno, dal proliferare di nuovi talenti. Tra questi c’è senza dubbio alcuno il ventisettenne sassofonista romano (alto e soprano) Vittorio Cuculo al suo secondo album. Il titolo è determinato dal fatto che il quartetto capitanato da Cuculo incontra i sassofoni della Filarmonica Sabina “Foronovana” con risultati eccellenti ma di cui parleremo tra poco. Il quartetto comprende, altre al leader, Danilo Blaiotta al pianoforte, Enrico Mianulli al contrabbasso, Gegè Munari alla batteria e in veste di special guest Lucia Filaci che interpreta con coraggio e bravura la cover di “Brava”, il pezzo di Bruno Canfora portato al successo da Mina. Il resto del repertorio è costituito da sei brani standard appartenenti alla tradizione jazz frutto della verve compositiva di alcuni grandi quali Charlie Parker, Errol Garner, Juan Tizol, Thelonius Monk, Rogers & Hart e due composizioni originali di Roberto Spadoni. Ciò detto vediamo più da vicino la musica proposta. Si tratta di un jazz mainstream che si rifà chiaramente agli stilemi del bop e dell’hard-bop interpretato con efficacia dal gruppo nel suo complesso che ben si amalgama con i fiati della Filarmonica, dando vita ad un sound particolare. Ovviamente sempre in primo piano il leader che data la scelta del repertorio comunica apertamente l’intento di volersi confrontare con un certo tipo di jazz sebbene avvalendosi di nuovi arrangiamenti, firmati da Riccardo Nebbiosi, Mario Corvini, Roberto Spadoni e Massimo Valentini. Ora che un giovane musicista scelga di suonare bop, ci sta tutto…ci mancherebbe altro. Solo che ci piacerebbe ascoltare Cuculo anche in contesti diversi in cui magari le eccelse capacità tecniche non sono poi così fondamentali.

Joe Debono Quintet – “Acquapazza” – Anaglyphos

Dino Rubino alla tromba e al flicorno, Rino Cirinnà al sax tenore, Joe Debono al pianoforte, Nello Toscano al contrabbasso e Paolo Vicari alla batteria sono i componenti del Joe Debono Quintet. Prodotto dall’etichetta discografica Anaglyphos Records e supportato da Malta Arts Fund – Arts Council Malta, la tracklist del CD è formata da otto composizioni originali del pianista, e da “Innu Lil San Guzepp”, un inno di San Giuseppe composto dal compositore maltese Carlo Diacono all’inizio del ventesimo secolo. In un momento come l’attuale, in cui il jazz si sta praticamente frammentando in moltissimi rivoli, in cui non sempre è facile trovare tracce di un passato anche se non remoto, questo album ci riporta in piena atmosfera jazz, senza equivoci di sorta. Il linguaggio di tutti è perfettamente in linea con le migliori tradizioni della musica afro-americana senza per ciò peccare di pedissequa imitazione. Ottima la ricerca sul sound come dimostra l’impasto sonoro determinato dalle parti suonate all’unisono da sassofono e tromba, sempre ben sostenute da una eccellente sezione ritmica. E al riguardo non si può non sottolineare da un canto la conferma a livelli straordinari di un musicista come Dino Rubino (che forse molti non lo sanno ma suona benissimo anche il pianoforte) e la rapida ascesa di Paolo Vicari batterista giovane ma già in possesso di una buona tecnica. Ovviamente più che positivo l’apporto di Rino Cirinnà sassofonista di vaglia e di Nello Toscano contrabbassista siciliano tra i più validi a livello nazionale. Bisogna comunque dare atto a Joe Debono, pianista e compositore maltese, di aver saputo costituire un quintetto capace di produrre un jazz elegante, raffinato, con un repertorio assolutamente confacente alle caratteristiche dei singoli musicisti. Si ascolti al riguardo “Gigi”, brano dolcissimo introdotto dallo stesso Debono e ben sviluppato dai fiati.

Alessandro Deledda – “La linea del vento” – Le Vele

Undici brani originali declinati attraverso una interpretazione per piano solo. Con questo album Alessandro Deledda, jazzista sardo che abita a Perugia, abbandona la strada tracciata in precedenza sia con l’elettro-jazz di “Conception & Contamination” del 2011 assieme a Simone Alessandrini, sax e Mirko Ferrantini, dj, ritmiche, sia con il CD del 2014, “Morbid Dialogues” in cui era alla guida di un quartetto di chiara impronta jazzistica con Francesco Bearzatti al sassofono, Silvia Bolognesi al contrabbasso e Ferdinando Faraò alla batteria. Infatti questa volta si presenta al pubblico nella duplice veste di compositore (il repertorio è tutto da lui scritto) ed esecutore. Il risultato è apprezzabile: le composizioni sono ben strutturate, con una bella linea melodica, e inserite in un ambito in cui le sensazioni più intimiste sembrano prevalere sul resto. Non a caso alcuni titoli – “Ginevra”, “Sulla strada di casa tua”, “L’Aquilone”, “Gino e l’ulivo” – sembrano riferirsi ad esperienze direttamente vissute dal musicista. Così ad esempio “Madreterra” è un esplicito omaggio alla terra natia mentre “Ginevra”, afferma Deledda, “è la storia di una cagnolina, chiamata Ginevra che ritrova nella sua nuova famiglia il suo sorriso, abbandonato nel bosco con le sue fragilità, per andare a vivere fedele una nuova melodia”. Dal punto di vista esecutivo lo stile pianistico di Deledda rifugge sia da qualsivoglia sperimentazione sia da passaggi particolarmente complessi e arditi per frequentare terreni più aperti alla comprensione, in cui i riferimenti al jazz si mescolano con quelli alla popular music.

Massimo Donà – “Magister Puck” – Caligola

A solo un anno da “Iperboliche distanze”, ecco tornare sulle scene discografiche il filosofo–trombettista Massimo Donà (nell’occasione anche chitarrista e rapper), alla testa di un ampio organico in cui spiccano i nomi del sassofonista Michele Polga e del batterista Davide Ragazzoni, quest’ultimo unico musicista presente, insieme al leader, in ogni traccia del Cd; in un solo brano (“E chi no”) è possibile ascoltare anche Francesco Bearzatti. Questo nuovo album, “Magister Puck”, si sostanzia, quindi, di colori, atmosfere assai diversificate pur mantenendo una sua coerenza di fondo. Ecco, quindi, in apertura “Topi in terrazza” di chiara impronta funky così come “Tagology” che non a caso presenta quasi lo stesso organico del pezzo di apertura con, oltre al leader, Michele Polga al sax tenore, Maurizio Trionfo alla chitarra, Stefano Olivato basso e clavinet, Davide Ragazzoni batteria, assente, quindi, Bebo Baldan al sintetizzatore. Più influenzato dal pop, seppure di classe, “I’m in Love” impreziosito dalla voce di Paola Donà e con un bell’assolo, vagamente davisiano, del leader. Anche “Magister Puck’s Theory” sembra seguire le orme del precedente “I’m in Love” prima di trasformarsi in un incalzante rap dal testo significativamente ironico. Nel brano decisamente più lungo dell’intero album, “E chi no”, si rinnova la collaborazione tra Massimo Donà e David Riondino che frutti succosi aveva già dato nel precedente album dello stesso trombettista, “Iperboliche distanze”, dedicato alla figura del grande filosofo veneto Andrea Emo. Il disco si chiude con una registrazione del 1989, “Irrisoluzione cromatica”, ad opera di un sestetto di chiara derivazione davisiana post ’69.

Cettina Donato, Ninni Bruschetta – “I siciliani – Vero succo di poesia” – Alfa Music

Pochi anni fa ero stato fin troppo facile profeta nel prevedere che Cettina Donato sarebbe divenuta una delle punte di diamante del jazz mady in Italy. Ciò perché sin dall’inizio l’artista messinese mostrava una completezza straordinaria essendo allo stesso tempo, pianista preparata, compositrice assai feconda, capace direttrice anche di grosse formazioni. Il tutto è ben compendiato in questo ultimo album in cui si fortifica quella stretta collaborazione che oramai va avanti da qualche tempo tra Cettina e l’attore, regista anch’egli siciliano, Ninni Bruschetta. I due sono reduci dai successi teatrali de “Il mio nome è Caino” di Claudio Fava, i quali, dopo aver interpretato un testo di impegno civile servendosi solo di voce e pianoforte presentano adesso il volto poetico e letterario dell’isola. Di qui l’album “I siciliani”: otto pezzi originali scritti dalla Donato con testi dello scrittore siciliano Antonio Caldarella scomparso nel 2008, interpretati da un gruppo con Dario Cecchini (clarinetto basso, sax soprano e baritono), Dario Rosciglione (contrabbasso e basso elettrico), Mimmo Campanale (batteria e percussioni) con l’aggiunta degli archi della B.I.M. Orchestra e dell’attrice e cantante Celeste Gugliandolo (che interpreta “Le siciliane”). Tutti gli altri brani sono affidati alla voce spesso roca e graffiante di Bruschetta che si amalgama in maniera straordinaria con il pianismo della Donato e più in generale con il sound dell’ensemble. Come sottolineato in apertura, la Donato trova quindi terreno fertile per evidenziare tutte le sue capacità, di strumentista, di compositrice, di arrangiatrice e di direttrice d’orchestra, in un alternarsi di atmosfere che forse solo un siciliano doc può capire sino in fondo. Una musica che sottolinea alcune peculiarità di una terra tanto straordinaria quanto ancora oggi ben difficile da vivere.

Ganelin, Kruglov, Yudanov – “Access Point” –Losen Records

Ecco un trio di assoluto livello internazionale composto da Slava Ganelin al pianoforte, tastiere, live electronics e percussioni, Alexey Kruglov sax alto e soprano, Oleg Yudanov batteria e percussioni, vale a dire tre dei migliori esponenti del free jazz russo. Quindi un organico non usuale caratterizzato dalla mancanza del contrabbasso, impegnato in un repertorio di sei brani interamente scritto dai tre. Registrato il 13 novembre del 2017, l’album rappresenta uno dei migliori esempi di free jazz realizzato in Europa in quest’ultimo decennio. La cosa non stupisce più di tanto ove si consideri la statura artistica del russo Ganelin già noto al pubblico del jazz per il suo fantastico trio con Tarasov e Chekasin. Questa volta a completare il trio sono due altri jazzisti ma il risultato finale non cambia granché. Nato nel 2012 il trio frequenta il terreno della libera improvvisazione in cui non esistono strutture predefinite che viceversa si creano nel momento stesso in cui si suona, quindi in quello strettissimo lasso di tempo che passa dall’idea musicale all’esecuzione. Quasi inutile sottolineare come la musica sia caratterizzata da una forte energia creativa che trova in Ornette Coleman il suo nume tutelare e che mai conosce un attimo di stanca con i tre musicisti che riescono a ritagliarsi spazi appropriati alle loro grandi possibilità. Il clima generale dell’album è perfettamente disegnato sin dal primo brano, quando dopo una sorta di introduzione a tempo lento il sassofonista prende in mano le redini del gruppo e si lancia in una trascinante improvvisazione, seguito a ruota da Ganelin mentre Yudanov sorregge il tutto con precisione; a circa 2:40 Ganelin si sostituisce a Kruglov mantenendo un clima incandescente che non muta quando a circa tre quarti dell’esecuzione Kruglov passa al sax soprano. E sarà poi questa l’atmosfera che si respirerà durante tutto l’arco dell’album.

Vijay Iyer – “Uneasy” – ECM

Nato ad Albany da genitori indiani di etnia dravidica Tamil, Vijay a cinquant’anni viene giustamente considerato uno dei migliori pianisti jazz oggi in esercizio. Considerazione conquistata grazie ad un talento cristallino e ad una personalità molto forte che è riuscita a coniugare un profondo sapere extra-musicale (è laureato in matematica e fisica alla Yale, insegnante ad Harvard, esperto in psicologia cognitiva con specifico riferimento alla capacità psico-fisica di relazionarsi ai vari linguaggi musicali) con una straordinaria dedizione alla musica essendo giunto al ventiquattresimo disco da leader, senza considerare le moltissime composizioni eseguite anche da formazioni non jazzistiche. In questo “Uneasy” Vijay suona in trio con Linda May Han Oh, contrabbassista di origine malese ma cresciuta in Australia e poi negli States e Tyshawn Sorey alla batteria, personaggio ben apprezzato sia nella musica classica sia nel jazz. In repertorio dieci composizioni tutte scritte dal pianista eccezion fatta per “Night and Day” di Cole Porter e “Drummer’s Song” di Gery Allen. Il clima nel cui ambito si muove Iyer è quello bop e post-bop, quindi un jazz sanguigno che si rifà alle radici più autentiche della musica afro-americana e che proprio per questo necessita di una profonda conoscenza della materia. Conoscenza che sicuramente non manca nel bagaglio dell’artista, il cui pianismo si svolge solido per tutta la durata dell’album validamente supportato da batteria e contrabbasso precisi e propositivi nella loro costante azione. Non si esagera affermando che tutti i brani meritano un attento ascolto anche se lo standard “Night and Day” si fa particolarmente apprezzare per come l’artista riesce a personalizzare il brano senza alcunché perdere né dell’originaria riconoscibilità né tanto meno della sua splendida linea melodica. Particolarmente interessante anche “Entrustment, brano di profonda suggestione, intimista, a chiudere nel modo migliore un album assolutamente consigliato.

Sinikka Langeland – “Wolf Rune” – ECM

Il Kantele è lo strumento tipico della musica folkloristica finlandese e Sinikka Langeland è specialista di questo strumento nonché cantante folk di Finnskogen, la « foresta finlandese » norvegese. In questo sesto album targato ECM, Sinikka, diversamente da altri album, si appalesa in splendida solitudine utilizzando ben tre tipi di kantele, a cinque, a quindici e a trentanove corde, facendoci così apprezzare le innumerevoli sfaccettature dello strumento. Nella maggior parte dei brani Sinikka si esprime anche vocalmente, il tutto ad elaborare un’espressività che questa volta nulla ha da spartire con il linguaggio jazzistico, restando, comunque, sulla scorta di un’estetica che nella ECM ha trovato la sua più completa estrinsecazione. Insomma una musica tutta giocata su melodie ampie, ariose, spesso evocative, alle volte venate da quella sorta di dolce malinconia che attraversa le atmosfere nordiche. Una profondità d’ispirazione che caratterizza oramai le realizzazioni della Langeland, ispirazione che specie se, come chi scrive, conosci quei luoghi, non può non toccarti nel profondo. Dal punto di vista testuale, Sinikka ha tratto ispirazione da molte fonti: ecco quindi il drammaturgo Jon Fosse accanto al filosofo e mistico del tredicesimo secolo Meister Eckhart… e ancora il poeta norvegese Olav H. Hauge. In tale contesto suggerire un brano in particolare è impresa quanto mai ardua anche se la title track appare degna di particolare attenzione: brano molto delicato ed intimista racconta l’inverno, ovvero quello stato della natura in cui tutto pare fermarsi prima del risveglio primaverile. Per raccontarci tutto ciò l’artista alterna l’archetto al pizzichio delle dita sullo strumento e chiude il brano con la sua voce che si alza stentorea sull’accompagnamento strumentale.

Giovanni Maier, Massimo De Mattia – “Tilt – Improvised Concerto for Flute and Chamber Orchestra” – Artesuono

Ecco una preziosa realizzazione della Artesuono concepita per festeggiare la sua duecentesima produzione discografica: un cofanetto in edizione limitata di 300 copie, numerate a mano, contenente un CD audio, le tavole con le partiture pittoriche realizzate da Giovanni Maier, e le foto delle registrazioni scattate da Luca D’Agostino.
L’album è stato registrato dal vivo al teatro Revoltella di Trieste il 19 e 20 giugno 2019 durante il festival “Le Nuove Rotte del Jazz 2019”. Ora, al di là della bellissima confezione, la musica che viene proposta è di altissimo livello essendo stata concepita ed eseguita da due dei nostri migliori improvvisatori quali il flautista Massimo De Mattia e Giovanni Maier quest’ultimo nelle vesti anche di conduttore dell’organico comprendente musicisti e allievi del Conservatorio ‘G. Tartini’ di Trieste: Angelica Groppi, Rachele Castellano e Giovanni Dalle Aste (Viola), Simone Lanzi (Contrabbasso), Iva Bobanović (Chitarra classica), Piercarlo Favro (Chitarra), Anna Talbot (Arpa), Luigi Vitale (Vibrafono, Percussioni). Qui siamo nel campo della totale improvvisazione: la prassi esecutiva è quella della “conduction” per cui Maier fornisce agli esecutori una serie di comandi che fanno evolvere il flusso musicale in un senso piuttosto che in un altro. Certo questa tecnica produrrebbe frutti amari se non ci fossero artisti in grado di ben interpretarla: ecco Massimo De Mattia credo che sia in senso assoluto uno dei migliori del nostro Paese; improvvisatore dotato di una eccezionale musicalità è in grado di assorbire nella propria musica (e gliel’ho sentito fare personalmente) l’inaspettato cinguettio di un uccello così come il risuonare delle campane. Notevole anche il ruolo del vibrafonista Luigi Vitale che alterna un ruolo da solista a quello di rinforzo dell’orchestra. Partendo da queste premesse è facile capire come l’album, per chi sa ascoltare con orecchie e mente ben aperte, è da gustare nella sua interezza.

Michael Mantler – Coda, Orchestra Suite – ECM

Album davvero particolare questo di Michael Mantler, che si inserisce nel solco tracciato dal precedente album “Jazz Composer’s Orchestra Update” osannato dalla critica internazionale. Questa volta Mantler compie un’operazione ancora più audace; sceglie, nell’ambito della sua larga produzione, alcuni brani che considera particolarmente significativi e li riarrangia in forma di suite per farli eseguire da un’orchestra comprendente musicisti jazz e classici. Così i brani che ascoltiamo provengono dai seguenti album: “13 and ¾”, “Cerco un paese innocente”, “Alien”, “Folly Seeing All This”, “For Two” e “Hide And Seek”. Il risultato è semplicemente spettacolare grazie anche ai solisti di vaglia presenti in orchestra: Maximilian Kanzler acclamato come uno dei migliori giovani percussionisti e vibrafonisti del momento; il chitarrista Bjarne Roupé, membro fondamentale della Mantler’s Chamber Music and Songs Ensemble; il pianista austriaco David Helbock che a soli 37 anni è già un’icona della scena jazz europea… per non parlare dello stesso leader che si fa apprezzare, more solito, come eccellente trombettista. A tutto ciò si aggiunga la preziosa opera dell’Orchestra nel suo insieme (ben 26 elementi) e si avrà un quadro più preciso del perché si è definito spettacolare l’esecuzione di questa compagine. Tra i membri dell’orchestra da segnalare la presenza della croata violoncellista Asja Valcic che aveva già collaborato con Mantler nell’incisione dell’album “Jazz Composer’s Orchestra Update”. Coda è stato registrato al “Vienna’s Porgy & Bess Studio” nel settembre del 2019, e missato presso gli studi La Buissonne in Francia.

Mike Melillo – “In Free Association” – Notami

Il pianista americano Mike Melillo pubblica il suo nuovo album “In Free Association”, tratto da un radio-concerto effettuato nella primavera del 1974 in quartetto con Roy Cumming (contrabbasso), Glenn Davis (batteria) e Harry Leahey (chitarra). Essendo oggi impossibile ammirare ancora questo gruppo data la dipartita di Harry Leahey, l’ascolto di queste registrazioni, finora inedite, risulta ancora più interessante. La genesi del combo viene riassunta brevemente dallo stesso Melillo nelle note che accompagnano l’album. Apprendiamo, così, che inizialmente si trattava di un trio (senza Leahey) per cui Melillo componeva pezzi orchestrali e da camera sperimentali, Nel ’71, con l’arrivo di Leahey, il trio è diventato un quartetto che ha avuto un buon successo grazie alla qualità della musica proposta e che ritroviamo in questo album. In repertorio sei brani di cui tre scritti dal leader e gli altri tre vere e proprie perle del jazz come “Criss Cross” di Thelonious Monk, “Mimi” di Rodgers e Hart e “What’ll I Do” di Irving Berlin. Il tutto a costituire un insieme omogeneo e di grande livello. In effetti quello proposto dal gruppo è un Jazz senza se e senza ma, un jazz che si rifà agli stilemi del bop e dell’hard-bop con un Melillo che mette in evidenza le sue doti migliori. Un pianismo sorretto da una formidabile tecnica di base, che affronta con eguale bravura sia temi particolarmente complessi e sorretti da un ritmo veloce come “Criss Cross” e “See Hunt and Liddy” in cui si fa apprezzare anche la chitarra di Harry Leahey, sia brani più melodici come “A Little Piece” dello stesso Melillo e “What’ll I Do”. Impeccabile la sezione ritmica. Infine una notazione di carattere tecnico: nonostante si tratti di una ripresa da trasmissione radiofonica, la resa complessiva è più che accettabile.

Stephan Micus – “Winter’s End” – ECM

Ascoltare la musica del tedesco Stephan Micus (classe 1953) è come addentrarsi in una foresta incantata, impreziosita da episodi di rara bellezza. Episodi determinati dalle sorprese che in ogni sua avventura questo personaggio ci propone. In qualunque contesto si abbia la fortuna di incontrare l’arte di Micus, la mente vaga ben al di là del contingente, alla ricerca di un approdo che mai risulta facile trovare, e ciò indipendentemente dalla preparazione musicale di ciascuno. Siamo trasportati in un mondo “altro” in cui le certezze vacillano alla ricerca di un qualche appiglio sonoro che ci restituisca punti fermi, conoscenze a cui rifarsi. In effetti la musica di Micus non ammette di essere incasellata in un genere ben preciso per cui si mantiene ben lontana da qualsivoglia proposta commercialmente allettante. Più sopra si accennava alle sorprese che ogni volta il musicista ci riserva: questa volta la novità consiste nell’utilizzo di due strumenti presentati da Micus per la prima volta: il chikulo e il tongue drum. Il primo, come spiega lo stesso Micus nelle note di copertina, è uno xilofono basso del Mozambico utilizzato in gruppi che solitamente comprendono una dozzina di xilofoni, mentre il tongue drum è una scatola di legno originaria dell’Africa che può essere suonata con le mani o con le bacchette. Ora detta così non ci sarebbe alcunché di strano … salvo il fatto che Micus non è solo un compositore e un sorprendente polistrumentista ma un etnomusicologo costantemente in evoluzione e in viaggio, soprattutto in Asia e in Africa, con l’intento di scovare e studiare strumenti desueti, talvolta addirittura dimenticati. Una volta trovati, li modifica con nuove accordature prima di adoperarli, con risultati strabilianti. È impressionante il numero di strumenti che padroneggia, strumenti che si ascoltano nelle musiche originali di tutti i continenti. Ciò detto risulta facile immaginare la musica di quest’ultimo album in cui Micus, come al solito in assoluta solitudine, ci racconta a modo suo il fluire della vita attraverso il succedersi delle stagioni. Un album sicuramente impegnativo ma altrettanto certamente di sicuro interesse.

Mirabassi – Di Modugno – Balducci – “Tabacco e caffè” – Dodicilune

Così come nello sport non basta assemblare ottimi giocatori per fare una buona squadra, così nella musica non è detto che tre pur bravi musicisti riescano a produrre qualcosa di buono. Certo che se poi i tre musicisti rispondono ai nomi di Gabriele Mirabassi al clarinetto, Nando Di Modugno alla chitarra e Pierluigi Balducci alla chitarra basso le probabilità di ascoltare dell’ottima musica aumentano… e di tanto. Ed in effetti ottima musica è quella che si ascolta in questo “Tabacco e caffè” registrato sei anni dopo “Amori sospesi” che vedeva impegnato lo stesso trio. La linea ispirativa rimane sostanzialmente la stessa: una sorta di viaggio sulla rotta Mediterraneo, America del Sud attraverso un linguaggio originale in cui coesistono jazz, folk, tradizione classica. E non è certo un caso che in repertorio figurino nove brani di cui quattro composizioni originali rispettivamente di Mirabassi (“Espinha de truta”), Di Modugno (“Salgado”) e Balducci (“Tobaco y cafè” e “La ballata dei giorni piovosi”) e cinque riletture di brani più o meno celebri di Toninho Horta (“Party in Olinda”), Henry Mancini (“Two for the road”), Egberto Gismonti (“Frevo”), Guinga (“Ellingtoniana”) e della conclusiva “Choro bandido” firmata da Edu Lobo e Chico Buarque. Indipendentemente dal pezzo affrontato, l’interpretazione rimane calda, oseremmo dire intimista, con i tre che dialogano piacevolmente, in piena rilassatezza senza un solo momento in cui il trio sembra spinto verso lidi che non siano comuni ai tre. Interessanti le note di copertina di Gabriele Mirabassi in cui il clarinettista illustra l’importanza del tabacco e del caffè considerati vizi ma che in realtà “più di tutto sono modi di stare insieme. In Italia poi, veri fondamenti della cultura nazionale”.

Dino Plasmati, Antonio Tosques, Guitar Quartet – “On Air” – Caligola

Dino Plasmati chitarra, Antonio Tosques chitarra, Bruno Montrone organo e Marcello Nisi batteria sono i protagonisti di questa nuova produzione firmata Caligola. Particolarmente impegnativo il programma dal momento che comprende una serie di brani ‘storici’ con un solo pezzo originale scritto da Plasmati, “Boundless Energy”. Come recita il nome del gruppo, a indirizzare il tutto sono le due chitarre di Plasmati e Tosques suonate con tecnica tradizionale, senza cioè l’ausilio dell’elettronica, e questa “guida” si avverte ben certa per tutta la durata dell’album anche se non mancano, ovviamente, momenti in cui in primo piano sale l’Organo Hammond nelle sapienti mani di Bruno Montone; è il caso dell’original cui si faceva riferimento. Per il resto i due leader guidano il gruppo con mano sicura per nell’affrontare temi che sulla carta mal si prestano ad interpretazioni chitarristiche: è il caso ad esempio del brano d’apertura, “Airegin”, scritto da Sonny Rollins. Ma da questo punto di vista le sorprese non mancano: ecco quindi la convincente disinvoltura con cui eseguono “Your own Sweet Way” di Dave Brubeck o la delicatezza con cui cesellano “I’ve Accustomed to Her Face” di Loewe Lerner complice anche il bel lavoro di Montrone all’Hammond. O ancora la pertinenza di linguaggio con i ritmi sudamericani di “When Sunny Gets Blue” di Fisher-Segal, in cui si apprezza anche l’eccellente supporto di Nisi alla batteria. A chiudere una convincente interpretazione del colemaniano “Turnaround” eseguito dai due chitarristi senza sezione ritmica.

Emanuele Sartoris, Daniele Di Bonaventura – “Notturni” – Caligola

Ancora un duo e ancora bella musica. Protagonisti Emanuele Sartoris al pianoforte e Daniele Di Bonaventura al bandoneon. Vista la struttura dell’organico, si poteva temere una certa staticità dell’album a discapito del possibile interesse dell’ascoltatore. Pericolo assolutamente evitato dai due artisti che invece sfoggiano una verve fantastica dando vita a otto composizioni originali scritte dai due singolarmente o in cooperazione, che tengono desta l’attenzione dalla prima all’ultima nota. Merito da un canto della bellezza dei temi tutti caratterizzati da un’accurata ricerca melodica, dall’altro dalla perizia strumentale dei due che pur non sfoggiando alcuna particolare ricercatezza tecnica, suonano comunque con grande partecipazione e intensità. Doti che non si affievoliscono – anzi – quando decidono di reinterpretare due notturni di Chopin vale a dire il Notturno op.9 n.1 e il Notturno op.9 n.2, che non a caso aprono e chiudono l’album. Insomma un disco più che interessante scaturito dall’incontro tra il pianoforte di Emanuele Sartoris, musicista che ben conosce anche la musica classica, e il bandoneon di Daniele di Bonaventura, uno dei maggiori interpreti internazionali dello strumento. Un disco che sembra quasi invitarci ad una sorta di viaggio interiore alla scoperta di ciò che è veramente importante. E ci piace chiudere questa breve presentazione citando le parole con cui il violoncellista di fama internazionale Mario Brunello conclude le sue preziose note di copertina: “Un viaggio slow, un cammino nel vissuto della musica, a cui si aggiungono le improvvisazioni e l’ispirazione di due formidabili e coraggiosi musicisti che hanno il talento sincero per avvicinarsi ed addentrarsi nella magica atmosfera dei Notturni”.

Thomas Strønen, Ayumi Tanaka, Marthe Lea – “Bayou” – ECM

Album d’esordio per questo trio composto dal batterista Thomas Strønen, dalla pianista Ayumi Tanaka e dalla clarinettista, vocalist, percussionista Marthe Lea. L’album si inserisce in quella corrente che a partire dagli anni ’70 ha portato il jazz norvegese ai massimi livelli delle scene jazzistiche internazionali. Vale a dire una musica che si rifà al patrimonio folkloristico delle popolazioni nordiche (in particolare norvegesi) declinata attraverso un linguaggio che incorpora elementi tratti dal jazz, dalla musica classica e ovviamente dal folk. Non a caso in programma ci sono dieci brani tutti scritti dai tre musicisti ma tutti basati sul folk norvegese. Quindi una musica delicata, intimista, che affronta spazi aperti quali sono quelli che si aprono alla nostra mente quando pensiamo ai paesaggi nordici. Ascoltare l’intero album è un’esperienza singolare tanto che ad un certo punto è come se il concetto spazio-temporale si perda per assorbici totalmente nell’atmosfera creata dai tre musicisti che denotano, improvvisando costantemente, un affiatamento non comune. D’altro canto la genesi del gruppo spiega la ragione di tale empatia: dapprima si trattava di un duo composto da pianista e batterista cui in un secondo tempo si è aggiunta Marthe Lea. I tre si sono, quindi, trovati assieme alla “Oslo’s Royal Academy of Music” dove per ben due anni hanno provato assieme ogni settimana alla ricerca di un quid che permettesse loro di suonare musica improvvisata. Evidentemente questo quid l’hanno trovato e così è nato questo “Bayou” frutto come afferma lo stesso Strønen di quelle esperienze: “Noi suonavamo sempre liberamente – afferma – mescolando elementi di musica classica contemporanea, folk, jazz, a seconda di come ciascuno di noi era ispirato al momento. Alle volte la musica era molto calma, delicata e minimalista: suonando assieme si sono generate alcune speciali esperienze”: Quelle stesse esperienze che si avvertono ascoltando l’album.

Trøen, Arbesen Quartet – “Tread Lightly” – Losen

La sassofonista norvegese Elisabeth Lid Trøen (eccellente anche al flauto) si presenta alla testa di un quartetto con Dag Arnesen al piano, Ole Marius Sandberg al basso e Sigurd Steinkopf alla batteria. Il repertorio è costituito da dieci brani di cui otto scritti dalla leader e due dal pianista. Due le linee direttrici dell’album: da un canto la ricerca della linea melodica, dall’altro la capacità di improvvisare sulla stessa. Per rendersi conto, ad esempio, della capacità dei quattro di tener fede a quanto sopra detto basta ascoltare “Just Thinking”: il brano si apre su tempo lento con una linea perfettamente riconoscibile ma dopo l’esposizione del tema con la Trøen al flauto ecco un assolo di pianoforte che si avventura nelle pieghe del brano per scoprirne e lumeggiarne ogni più nascosto anfratto mentre sul finale si riascolta il flauto della leader. “Sarah’s Bounce” si apre a tempo di marcia sospinta dalla batteria di Steinkopf il quale, nello scorrere del brano, dimostra di poter avere anche un approccio melodico allo strumento. In ogni caso il pallino resta nelle mani di sassofonista e pianista che dimostrano di essere complementari nel loro linguaggio dato che le sortite solistiche dell’una vengono riprese ed rilanciate a tutto tondo dall’altro. Altro brano particolarmente interessante “Partysvensken” che si distacca piuttosto nettamente dalle atmosfere degli altri brani data la sua vicinanza, in alcuni momenti, agli stilemi del free jazz. L’album si chiude con “Denne” il pezzo che maggiormente richiama le atmosfere nordiche grazie soprattutto ad un meditativo assolo del pianista; di rilievo anche l’assolo del bassista Ole Marius Sandberg. Ma a proposito di atmosfere nordiche, l’ascoltatore più attento non potrà non rilevare qua e là, spiccate influenze della musica popolare norvegese che tanta importanza ha avuto sulla musica di quel Paese grazie ad artisti quali Jan Garbarek e Terje Rypdal.

Blues Connection – “Italian Way to Feel Blues” – Notami

E’ con vero piacere che vi segnalo questo “Italian Way to Feel Blues” non solo per la validità del progetto ma anche perché è presente un musicista a cui sono legato da particolari legami affettivi, un organista che ho conosciuto quando ancora abitavo in Sicilia (quindi primissimi anni ’70) e che ancora a mio avviso non ha ottenuto i riconoscimenti che merita. Sto parlando di Pippo Guarnera nell’occasione non solo all’organo Hammond ma anche al pianoforte. Oltre a lui e ovviamente al leader Vince Vallicelli alle percussioni, troviamo Nahuel Schiumarini alla chitarra elettrica, Andrea Valeri alla chitarra acustica, Roberto Luti al dobro e Felice Del Gaudio al basso. Come si può facilmente intuire da quanto sin qui detto, la musica è trascinante con tutti gli artisti in grado di ritagliarsi importanti spazi di improvvisazione. Ecco quindi Pippo Guarnera primeggiare all’organo in “Art” di Vallicelli, per lasciare successivamente spazio alle chitarre di Schiumarini e Valeri nonché al dobro di Roberto Luti, il tutto sorretto da una metronomica sezione ritmica con batteria e basso che non sbagliano un colpo. Insomma musica che fa battere il classico piedino sia che si affrontino temi originali (ben sette sui nove proposti dall’album) sia che si rileggano pagine importanti come “After Hours” di Avery Parrish standard jazz tra i più eseguiti che venne registrato per la prima volta dal suo stesso autore con la Erskine Hawkins Orchestra, il 10 giugno 1940 o “Windy e Warm” di John D. Loudermilk considerato a ben ragione un classico del fingerstyle, ripreso da artisti di assoluto livello quali Chet Atkins, Doc Watson e Tommy Emmanuel.

Musica senza barriere: esce “Blu” del professore d’orchestra e multistrumentista Igor Caiazza

Sabato 15 maggio esce con Abeat Records “Blu”, l’album di Igor Caiazza, illustre professore d’orchestra che ha collaborato in Europa con i più grandi direttori come Muti, Abbado, Boulez, Maazel, Barenboim e Dudamel, e con compagini importanti come l’Orchestre de l’Opéra National de Paris, Orchestra e Filarmonica del Teatro Alla Scala, Orchestre National De France, Wiener Symphoniker, Philhamonia Orchestra di Londra, Mahler Chamber Orchestra.

Compositore e arrangiatore, percussionista classico e jazzista, Igor Caiazza ha scritto questo album con un grande desiderio di libertà rispetto ai rigidi canoni delle classificazioni tra i generi musicali. E, da un’aulica perfezione insita nell’essere musicista classico, è scaturita una ricerca gioiosa di un sound aperto, teso alla comunione tra i diversi stili e alla condivisione con l’ascoltatore.
Per colmare quel distacco emotivo che soprattutto i generi più colti e di nicchia impongono tra musicista e pubblico, Caiazza ha fortemente voluto accanto a sé grandi esponenti del jazz italiano, tra cui il trombettista Fabrizio Bosso e il sassofonista Javier Girotto: raffinati interpreti che sanno parlare direttamente all’anima di chi li ascolta. Le 8 composizioni presenti in “Blu” – disponibile in streaming e nei digital store al link https://backl.ink/146071115 – hanno indubbiamente una struttura jazzistica, contengono improvvisazioni e sono interpretate da jazzisti, ma l’aspetto è quello della canzone, di una musica più popolare, influenzata altresì dalla classica e da tutti i generi che accompagnano la vita di Igor Caiazza.

La carriera sinfonica di altissimo livello e le molteplici collaborazioni con grandi artisti come Bobby McFerrin, Placido Domingo, Lang Lang, Stefano Bollani, Mika, Zucchero, Elio, Andrea Bocelli, hanno influenzato il suo approccio alla musica.
Nel suo ensemble – completato dagli eccellenti Giacomo Riggi (Harpejjj), Gabriele Evangelista (contrabbasso), Amedeo Ariano (batteria), Carlo Fimiani (chitarra), Fabien Thouand (oboe), Marlene Prodigo (violino), Valentina Del Re (violino), Livia de Romanis (violoncello) – ha voluto riportare la concezione orchestrale della collettività, dove la performance individuale è utile soltanto in funzione dell’insieme. Così, dominando l’impulso di protagonismo, la musica diventa il reale centro dell’attenzione.
“Sono un percussionista, e quindi multistrumentista per definizione. Mi sento a disagio se etichettato o associato a uno strumento musicale in particolare – un vibrafono, una marimba, una batteria – cerco piuttosto di condividere la musica e le mie composizioni a prescindere dal
mezzo, e anzi se possibile preferisco utilizzare ogni volta uno strumento diverso.”

Dopo le esperienze discografiche in ambito orchestrale con Decca, Sony, Deutsche Grammophone e RAI arriva l’album “Blu” e dunque il sodalizio con una delle etichette di spicco del panorama jazz: Abeat Records.
“Il più freddo dei tre colori primari, il Blu domina il senso dell’udito, è il simbolo dello spazio, dell’armonia e dell’equilibrio. Rappresenta il mare, il cielo, il ghiaccio, è il colore della grande profondità e spinge all’introspezione, alla sensibilità, alla calma.”

Fabrizio Bosso: trumpet
Javier Girotto: soprano sax
Igor Caiazza: vibraphone
Giacomo Riggi: harpejji, melodica, e.piano
Gabriele Evangelista: double-bass
Amedeo Ariano: drums
Featuring Carlo Fimiani (guitar), Fabien Thouand (oboe), Marlene Prodigo (violin), Valentina Del Re (violin), Livia de Romanis (cello)

Recorded at LoaDistrict Studio, Roma Sound Engineer: Andrea Cutillo
Mixing: Andrea Cutillo at Auditorium Novecento, Napoli Mastering: Bob Fix

CONTATTI
www.igorcaiazza.com
Ufficio Stampa (Italy): Fiorenza Gherardi De Candei – www.fiorenzagherardi.com
email: info@fiorenzagherardi.com – tel. +39.328.1743236
Label: http://www.abeatrecords.com/catdetail.asp?IDprod=354

Udin&Jazz ricorda il grande Chick Corea, scomparso il 9 febbraio, che fu per due volte ospite del Festival ed era già in programma a GradoJazz 2021

Cari amici, come sicuramente saprete ci ha lasciato il pianista Chick Corea, grande maestro del jazz contemporaneo. Nei prossimi giorni A Proposito di Jazz pubblicherà due diversi interventi, più approfonditi, dei nostri autori Massimo Giuseppe Bianchi e Marina Tuni.
Oggi, riceviamo e rilanciamo la nota di Udin&Jazz, lo storico festival internazionale che nel 2020 ha compiuto trent’anni, al quale il grande pianista partecipò due volte (a Udine) mentre una terza era già programmata per l’estate 2021 a Grado. Purtroppo, non sarà così…
Ne parla il direttore artistico Giancarlo Velliscig. (Redazione)

Il Festival Internazionale Udin&Jazz ricorda il geniale pianista Chick Corea, scomparso il 9 febbraio per una rara forma di cancro, scoperta solo di recente, che fu ospite per due volte a Udine, la prima il 29 giugno del 1997 al Palasport Carnera con il vibrafonista Gary Burton e la seconda nel 2015, quando si esibì al Castello di Udine, il 31 luglio, in occasione dei 25 anni del Festival. Molti ricordano ancora quest’ultimo, indimenticabile concerto, durante il quale il folto pubblico accompagnò con un canto corale i brani più noti del grande jazzista, in un trasporto empatico davvero intenso e coinvolgente; Chick invitò altresì sul palco, per suonare assieme a lui, alcuni pianisti presenti casualmente tra il pubblico, a dimostrazione della sua rara umanità e del desiderio di creare un libero scambio artistico, privo di distinzioni, doti che lo hanno sempre contraddistinto.
Il direttore artistico di Udin&Jazz, Giancarlo Velliscig, lo ricorda così:
Chick Corea se n’è andato in silenzio e in fretta, inaspettatamente, tant’è che avevamo stabilito poche settimane fa con il management americano un’altra sua partecipazione a Udin&Jazz, in una data fissata per metà luglio 2021 a Grado. Siamo dunque doppiamente sconvolti dalla notizia così improvvisa e tragica.
Ci lascia un musicista eccelso, musicalmente ricco e generoso che nelle molteplici sue straordinarie escursioni tra classicità e modernità, ha saputo lasciare un’impronta personale e profonda nell’integrazione di stili e generi, influenzato dalle profonde radici latine (la famiglia ha origini calabresi), con cui ha interpretato in mille progetti diversi la musica degli ultimi 60 anni.
Deve la sua grandezza ad esperienze straordinarie vissute accanto a personaggi come Miles Davis e poi Herbie Hancock, Pat Metheny, Michael Brecker, Miroslav Vitouš…, per poi divenire leader di memorabili formazioni nella jazz-fusion come i Return to Forever, e di più intimi trii o quartetti, contribuendo a far emergere accanto a sé talenti assoluti del jazz contemporaneo; rimarranno poi nella storia le sue composizioni e i raffinati arrangiamenti per grandi formazioni e big band, su tutte la mitica Spain, entrata nel repertorio di ogni grande formazione jazz internazionale.
Venne a Udine la prima volta al Palasport Carnera con il suo amico Gary Burton nel 1997 per un duo pianoforte-vibrafono di una ricchezza e fascino che molti ancora ricordano. Tornò per il venticinquennale di Udin&Jazz, nel 2015 al Castello a Udine, in una serata per pianoforte solo, intima e memorabile per la moltitudine di spettatori che rimasero ancora una volta affascinati dalla tecnica e dalla sensibilità e disponibilità di un artista così grande e sempre così vicino al suo pubblico, con una simpatia e innata cordialità che, sia sul palco sia dietro le quinte, non sempre abbiamo riscontrato nelle grandi star della musica internazionale.
Una grande perdita, artistica e umana”.

Crediti fotografici: Luca A. d’Agostino / Phocus Agency che ringraziamo.

I nostri CD

Cari Amici,
archiviato questo Natale piuttosto atipico, per usare un eufemismo, ci accingiamo ad affrontare il nuovo anno con molte speranze e pochissime certezze. Ma, dal momento che dovremo trascorrere ancora molto tempo tra le mura di casa, vi propongo una serie di album che vale la pena ascoltare.
Buona Musica e Buon Anno.

AB Quartet – “I bemolli sono blu” – TRJ records
L’AB Quartet è un gruppo costituito da Antonio Bonazzo (pianoforte), Francesco Chiapperini (clarinetto e clarinetto basso), Cristiano Da Ros (contrabbasso), Fabrizio Carriero (batteria e percussioni). L’album prende le mosse da un obiettivo esplicitamente dichiarato da Bonazzo: elaborare, in occasione del centenario dalla morte di Claude Debussy nel 2018, un progetto basato su arrangiamenti di musica di questo compositore francese.
E il titolo viene proprio da una frase di Debussy che in una lettera parla della sua visione della musica legata principalmente ad aspetti extramusicali come il colore. Di qui un repertorio di sette brani originali. Come al solito quando un album dichiara un intento si pone la classica domanda: obiettivo raggiunto? Onestamente mi risulta difficile fornire una risposta. Comunque è innegabile che i temi scelti si facciano ascoltare con attenzione così come è innegabile che in alcuni passaggi risulti evidente l’influenza di Debussy. Pertinente è anche il linguaggio adoperato dal gruppo il che non stupisce ove si tenga conto che il gruppo affonda le proprie radici nella tradizione classica. Proprio per questo i brani sono prevalentemente scritti anche se non mancano ampi spazi per le improvvisazioni singole e collettive. Un esempio di quanto sin qui detto lo si trova già nel primo brano, “Moon”; il riferimento è al “Clair de Lune” vagamente richiamato nella linea melodica per lasciare subito il posto ad una reinterpretazione cesellata dal pianoforte di Bonazzo, mentre i clarinetti di Chiapperini creano un impasto strumentale dalle timbriche originali, con batteria e contrabbasso a intessere un impianto ritmico molto più sostenuto rispetto all’originale.

Tiziana Bacchetta – “Driving Home for Christmas” – G.T.
Un’indispensabile premessa: io non amo particolarmente gli “album di Natale” per cui mi sono accinto ad ascoltare questo album con una buona dose di scetticismo. Ma poi, nota dopo nota, minuto dopo minuto, ho cambiato radicalmente idea tanto da poter affermare che questo è un CD di sicuro livello. E ciò per una serie di motivi che cercherò di elencare non in ordine di importanza. La scelta del repertorio: la vocalist romana, ad eccezione dei ben noti “Have Yourself a Merry Little Christmas” di Martin -Blane e “White Christmas” di Irving Berlin, ha preferito presentare brani, tutti musicalmente validi e raffinati ma assai meno battuti. Ovviamente ciò non sarebbe stato sufficiente; ecco quindi arrangiamenti sapidi, ben studiati e curati in ogni minimo aspetto con un gruppo affiatato in cui spicca l’individualità di Giacomo Tantillo, trombettista e flicornista siciliano di Palermo che passo dopo passo si avvia a diventare una certezza del panorama jazzistico nazionale. A questo punto sarebbe ingiusto non citare gli altri componenti il gruppo, vale a dire Raffaele Cervasio chitarra, Arturo Valente piano e Rhodes, Carlo Bordini batteria e Guerino Rondolone basso. Ma, com’è fin troppo ovvio, il merito principale dell’ottima riuscita dell’album è della leader, Tiziana Bacchetta. Giunta al suo terzo album, l’artista dà prova di grande maturità sfoggiando notevoli capacità interpretative supportate da un voce ben educata che riesce a transitare senza sforzo alcuno attraverso atmosfere assai differenziate. Ecco quindi il bruciante blues “Christmas Tears” portato al successo da Freddy King uno dei più talentuosi chitarristi del blues elettrico contemporaneo e interpretato dalla Bacchetta con trasporto e una voce ruvida il giusto, ecco la “Title Track” un brano bellissimo di Chris Rea, fino alla conclusione con l’evergreen “White Christmas” di Irving Berlin. Insomma una bella musica che ci accompagna verso le prossime festività, una sorta di raggio di luce in un panorama piuttosto plumbeo.

Michel Benita – “Looking at Sounds” – ECM
L’etichetta Ecm dedica meritoriamente due album alla scena francese, questo di Michel Benita e un altro di Matthieu Bordenave di cui ci occupiamo qui di seguito. In “Looking at Sounds” il contrabbassista franco-algerino Michel Benita si presenta in quartetto con il connazionale Philippe Garcia alla batteria, lo svizzero Matthieu Michel al flicorno e il belga Jozef Dumoulin, specialista del piano elettrico. L’album è giocato su due elementi: una raffinata ricerca timbrica e melodica, e la prevalenza del sound collettivo rispetto all’assolo. Il repertorio si compone di undici pezzi scritti in massima parte dallo stesso Benita da solo o in collaborazione con altri, cui si aggiungono due brani famosi, “Inutil Paisegem” di Antonio Carlos Jobim e Louis Olivera, e “Never Never Land” di Styne, Comden, Green. L’intro affidata al leader è una sorta di manifesto dell’intera poetica dell’album: la linea melodica, suggestiva e cantabile, disegnata dal flicorno di Matthieu Michel, viene costantemente supportata dal basso e dalla batteria di Garcia, in questo caso con mirabile gioco di spazzole, mentre Demoulin si limita a sottolineare alcuni passaggi contribuendo, però, in maniera determinante a creare quella particolare timbrica che costituisce una caratteristica dell’album. E il clima intimista, di rara suggestione si avverte per tutta la durata dell’album anche se non mancano episodi particolari come “Cloud To Cloud” declinato sul filo di una improvvisazione collettiva e il conclusivo “Never Never Land” in cui il leader, in splendida solitudine, si produce in uno dei più centrati assolo dell’album. Gustosa, infine, l’interpretazione di “Inútil Paisagem”.

Roberto Bindoni Unquiet Quartet – “Mediterranean Cowboy” – Alfa Music
E’ uscito di recente l’album d’esordio dell’Unquiet Quartet di Roberto Bindoni; il chitarrista (eccellente anche al pianoforte, strumento che però in questa occasione non usa) è accompagnato da Matteo Cuzzolin al tenore, Marco Stagni al contrabbasso e Filip Milenkovic alla batteria. Si tratta di una prova particolarmente impegnativa per Bidoni il quale si presenta anche come autore dell’intero repertorio, nove brani che riescono a ben catalizzare l’attenzione dell’ascoltatore. La linea stilistica oscilla tra il jazz modale e quelle atmosfere nordiche che abbiamo imparato ad apprezzare nel corso degli ultimi decenni grazie ad artisti quali Jan Garbarek o Jan Balke tanto per fare qualche nome. Le atmosfere sono quindi in linea di massima pacate, con una riconoscibile linea melodica e un ritmo sostanzialmente lento, ragionato, il tutto impreziosito da arrangiamenti ben scritti sia che riguardino le parti completamente scritte sia che facciano un passo indietro per lasciare spazio all’improvvisazione, terreno su cui si muove particolarmente bene il sax tenore di Cuzzolin (lo si ascolti in “Unquiet Place” e nel già citato “Kamikaze”). Particolarmente suggestivo “Encanto” con il leader in bella evidenza. Certo, come si accennava si tratta di un disco d’esordio per cui i margini di miglioramento ci sono, ma già a questo punto è un bel sentire.

Matthieu Bordenave – “La traversée” – ECM

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Ecco il primo album da leader del sassofonista francese Matthieu Bordenave in trio con il tedesco Florian Weber al pianoforte e lo svizzero Patrice Moret al contrabbasso. In programma nove brani tutti composti dallo stesso sassofonista. Come espressamente dichiarato dallo stesso leader, l’idea musicale che ha ispirato l’album è quella del trio formato da Jimmy Giuffre, Paul Bley e Steve Swallow circa sessanta anni addietro ma ancora oggi attualissima. Di qui una musica allo stesso tempo moderna nel sound e nella ricerca di un linguaggio vicino alla musica contemporanea ma allo stesso tempo fortemente ancorata al passato. E la cosa si spiega assai bene ove si tenga conto che Bordenave può vantare una preparazione anche classica. L’album oscilla, quindi, tra questi due poli in una sorta di camerismo particolarmente attento allo spazio e alle sfumature che evidenzia al meglio le potenzialità dei tre artisti. Così se il sax del leader rimane costantemente in primo piano, con un sound non particolarmente robusto ma personale, pianoforte e contrabbasso non si limitano ad una funzione di supporto fornendo un contributo importante anche nella costruzione della linea portante; si ascolti al riguardo il sontuoso assolo di Patrice Moret in “Ventoux” o quello di Weber nel successivo “Incendie blanc”. Insomma nonostante la mancanza di una qualsivoglia percussione, la ‘traversata’ del trio solca mari non sempre placidi, alla costante scoperta di nuovi orizzonti.

Yilian Canizares – “Erzulie” – Planeta Y
Questo è uno dei pochi album che vi consiglierei di ascoltare più e più volte tale e tanta è la ricchezza di contenuti in esso racchiusa. La violinista, cantante e compositrice cubana Yilian Canizares si conferma una delle artiste più originali apparsa sulla scena musicale degli ultimi anni grazie ad una concezione musicale che le consente di accorpare una formazione di base classica e i ritmi, le melodie, le danze della sua madre patria. E tutto ciò si appalesa con grande semplicità nell’album in oggetto, registrato a New Orleans ma che in realtà prende vita da un viaggio nel 2017 ad Haiti. Quì Yilian ha avuto modo di confrontarsi con i Boukman Eksperyans, band storica che prende il nome da Dutty Boukman, un sacerdote vodou che condusse una cerimonia religiosa nel 1791, considerata l’inizio della rivoluzione haitiana. Non a caso l‘album è dedicato a “Erzulie”, divinità del pantheon vudu che personifica l’essenza della femminilità e la sensualità. In effetto l’intento della Canizares è più ampio: “raccontare la storia dell’Africa attraverso i suoi figli creoli: Haiti, Cuba e New Orleans […] musica che deriva quindi da un legame che non è morto malgrado tutto ciò che è successo storicamente”. Accanto all’artista cubana troviamo un quartetto di musicisti di nazionalità e culture musicali diverse, The Maroons, altro riferimento alla storia libertaria caraibica, che allineano Paul Beaubrun (chitarrista e vocalist haitiano), Childo Tomas (basso, cori e kalimba dal Mozambico), Charlie “BKVK” Burchell (batteria e tastiere, statunitense di New Orleans) e Inor Sotolongo (percussionsta cubano). A questi si aggiungono svariati ospiti a tromba, contrabbasso, organo, tastiere, percussioni, violoncello e flauto, a costituire una formazione straordinaria. L’album si apre con la romanticamente coinvolgente “Habanera” e si chiude con “Yeyé” cantata in dialetto yoruba (o lucumi), così come “Yemayá” mentre nella title track e in “Noyé” l’artista utilizza il creolo haitiano. Un’ultima notazione tutt’altro che secondaria: nel brano “Libertad” sono inserite le voci campionate di tre donne di epoche diverse particolarmente significative in merito alle tematiche trattate: Simone de Beauvoir, Malala e Nina Simone.

Donatello D’Attoma – “Oneness” – Dodicilune
Donatello D’Attoma è uno dei pianisti più interessanti che si pone nella linea stilistica tracciata da alcuni grandi della tastiera, Thelonius Monk in primis e, andando più indietro nel tempo, Bill Evans. In questo album il pianista si presenta in trio con il siciliano Alberto Fidone al contrabbasso e il romano Enrico Morello alla batteria. In programma otto brani di cui ben sette dovuti alla penna del leader che quindi si dimostra anche prolifico e valente autore. La chiusura è invece affidata ad una composizione, guarda caso, di Thelonious Monk, “Coming On Thwe Hudson”. Il trio è affiatato, ben guidato e ricco di interventi solistici che impreziosiscono ogni esecuzione. Intendiamoci: nessuna dimostrazione muscolare o interventi tesi a stupire l’ascoltatore, ma grande attenzione all’espressività e quindi alla volontà di trasmettere la tensione emotiva che i tre avvertono, in un costante equilibrio tra pagina scritta e istintiva improvvisazione. In particolare D’Attoma evidenzia una solida tecnica di base cementata sia dagli studi classici sia dalla profonda conoscenza della letteratura jazzistica; di qui un rigoroso controllo di ogni elemento dell’esecuzione con un pianismo solido, raffinato, essenziale ben supportato dai compagni d’avventura che, seguendo la lezione di Evans, ricoprono un ruolo tutt’altro che marginale. E ciò appare evidente sin dal primo brano, “Fluorescent Light”, in cui i tre si muovono empaticamente, caratteristica che viene conservata per tutta la durata dell’album. I brani sono tutti godibili e ben articolati come in una sorta di percorso che mai perde d’intensità.

Elina Duni, Rob Luft – “Lost Ships” – ECM
Registrato nello studio La Buissonne nel sud della Francia nel febbraio del 2020, questo album, in quattro lingue – albanese, francese, inglese, salentino- vede la cantante svizzero albanese Elina Duni ed il chitarrista britannico Rob Luft (la cui collaborazione risale al 2017) coadiuvati da Matthieu Michel al flugelhorn (lo si ascolti particolarmente in “Brighton”) e Fred Thomas piano e batteria. A scanso di equivoci, in questo caso il jazz appare marginale ma l’album è notevole e vale quindi la pena segnalarlo. Il programma, pur essendo assai variegato, presenta come temi centrali quelli dell’emigrazione e della difesa della natura declinati attraverso brani tradizionali, composizioni originali e due canzoni rese famose rispettivamente da Frank Sinatra e Charles Aznavour. In un cartellone siffatto appare evidente come molteplici debbano essere stati gli input ed è la stessa Duni a confermarlo: «Ci sono canzoni – afferma – che hanno influenze del passato, con il suono dell’Albania ed il folclore mediterraneo sempre presenti, ma volevamo esplorare anche altre radici musicali: ballate jazz senza tempo, canzoni francesi, canzoni popolari americane…. ». Comunque l’album, come si accennava, è di assoluto livello grazie soprattutto alla maestria di vocalist e chitarrista, l’una sempre più convincente nell’interpretazione di tematiche assai delicate, l’altro in grado di sottolineare ogni passaggio con rara discrezione e altrettanta pertinenza. Così la musica acquista attimo dopo attimo sempre più consistenza, sorretta da un’intesa non comune come evidenziato nel brano in inglese, “The Wayfaring Stranger”. Il controllo delle dinamiche è assoluto così come la capacità di ricondurre ad un unicum le quattro voci melodiche. Infine una perla di raffinatezza la chiusura con “Hier Encore” di Aznavour presentata in duo, chitarra e voce.

Erodoto Project – “Mythos Metamorphosis” – Cultural bridge
Bob Salmieri sax tenore e soprano, ney, turkish klarinet, Alessandro de Angelis grand piano, Rhodes piano, Maurizio Perrone contrabbasso, Giampaolo Scatozza batteria e Carlo Colombo percussioni sono i responsabili dell’“Erodoto Project” giunto alla sua terza tappa attraverso i miti e le leggende del Mediterraneo. Dopo “Stories: Lands, Men And Gods” (2016) e “Molòn Labè” (2017) arriva “Mythos Metamorphosis” in cui il gruppo è affiancato dal Mirò String Trio, al secolo Fabiola Gaudio violino, Lorenzo Rundo viola e Marco Simonacci violoncello. In repertorio undici originali composti da Salmieri e De Angelis declinati attraverso l’avventura di Ulisse che affronta e resiste alle lusinghe delle sirene. Ecco quindi richiamate le leggende di Aci e Galatea, di Ifi e Iante, della Sibilla Cumana…via via fino al brano di chiusura dedicato a “Leucosya”, una delle tre sirene che, secondo la mitologia greca, viveva sugli scogli della baia di Salerno assieme a Partenope e Ligea. Essendo questo il quadro di riferimento, è chiaro che la musica prodotta dovesse in qualche modo riferirsi alle varie culture che dal Mediterraneo traggono linfa vitale. E così è stato. Ancora una volta Salmieri e compagni tengono fede alle premesse e ci regalano una musica di grande intensità caratterizzata da suadenti linee melodiche, armonizzazioni semplici ma non per questo banali e una tavolozza timbrica impreziosita, nell’occasione, dal trio d’archi i cui arrangiamenti sono stati curati da Alessandro de Angelis. Insomma un jazz senza etichette, non ascrivibile ad uno stile piuttosto che ad un altro, ma una musica libera che prende per mano l’ascoltatore e lo trasporta in un altrove impossibile da etichettare.

Marco Fumo – “Reflections” – Odradek Records
Merco Fumo è personaggio ben noto ed apprezzato nell’ambiente jazzistico. La sua padronanza strumentale e la sua profonda conoscenza del lessico jazzistico ne fanno personaggio di assoluto rilievo. E questo album ne è l’ennesima conferma in quanto riesce ad evidenziare, come meglio non si potrebbe, i numerosi legami – ora palesi ora più nascosti – tra l’universo euro-colto e la musica afroamericana. In un flusso rapido e spesso trascinante scorrono quindi alcuni degli autori che hanno fatto la storia della musica tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento sulle due sponde dell’Oceano Atlantico. Da Scarlatti a Joplin, da Stravinsky a Nazareth, da Debussy a Ellington tanto per fare qualche nome. Ovvero dal ragtime, dal choro, dal tango, dal blues, dallo stride piano…al jazz e alla musica classica europea in un confronto tutt’altro che banale, alla scoperta di consonanze spesso inaspettate. E’ quanto si nota, come si legge nelle note che accompagnano l’album, ascoltando il “Tango” di Stravinsky risalente al 1940 e il “Café de Barracas” di Eduardo Arolas del 1920: la concezione delle masse sonore presenta molti punti di contatto nel pensiero dei due compositori. Più evidente, è ovvio, il rapporto tra il ragtime di Scott Joplin e lo stride piano di James P. Johnson. E di questi esempi se ne possono fare molti altri costituendo per l’appunto questo il punto focale della ricerca di Marco Fumo il quale ama sottolineare come nella sua vita abbia “frequentato sempre tutta la musica, indistintamente” non facendosi mai limitare “da barriere o pregiudizi”.

Danilo Gallo, Dark Dry Tears – “Hide, Show Yourself!” – PMR
Dopo lo splendido album “Thinking Beats Where Mind Dies” del 2016, il quartetto “Dark Dry Tears” si ripresenta al pubblico del jazz con un organico leggermente diverso in quanto al posto di Francesco Bearzatti figura Massimiliano Milesi (sax tenore e soprano e clarinetto) mentre rimangono al loro posto Francesco Bigoni (sax tenore e clarinetto), Jim Black (batteria) e ovviamente Danilo Gallo al basso elettrico. In programma tredici brani tutti composti da Gallo. Ciò detto rimane sostanzialmente identica la cifra stilistica del gruppo che evidenzia ancora una volta i suoi punti di forza nell’intenso dialogo tra i due fiati, nell’incessante straordinario supporto ritmico di Jim Black (a mio avviso uno dei migliori batteristi oggi in circolazione) e nella sapiente direzione di Gallo che si fa valere non solo per l’apporto ritmico ma anche per la spinta propulsiva forniti dal suo strumento. Quanto al ruolo dei fiati, lo stesso appare evidente sin dal primo brano per proseguire, senza soluzione di continuità, fino al pezzo di chiusura. Interessante notare come l’uso del sax soprano da parte di Milesi conferisca un sapore nuovo alla tavolozza timbrica del gruppo che presenta una compattezza, una omogeneità tutt’altro cha facili da raggiungere. I quattro si muovono in perfetta simbiosi, senza un attimo di incertezza ad interpretare le sapienti composizioni di Gallo la cui raffinatezza è soprattutto evidente nelle introduzioni e nelle chiusure dei singoli brani. Si ascolti al riguardo come il basso elettrico introduca l’intero album nel brano “Demolition” caratterizzato in seguito da un trascinante crescendo.

Keith Jarrett – “Budapest Concert” – 2 CD – ECM
Di recente su questi stessi spazi il nostro Massimo Giuseppe Bianchi si è occupato di Keith Jarrett esaminandone due aspetti: il rapporto con il pubblico e l’approccio al repertorio classico. Venuti a conoscenza del fatto che il pianista non potrà più suonare in pubblico, ogni suo album, per quanto registrato anni addietro, assume una particolare valenza. E’ il caso di questo “Budapest Concert” inciso il 3 luglio del 2016 alla Béla Bartok Concert Hall e declinato attraverso due CD, nel primo una serie di improvvisazioni di durata medio lunga, nel secondo ancora improvvisazioni questa volta di durata inferiore e due standard “It’s A Lonesome Old Town” di Tobias e Kisco e “Answer Me, My Love” di Winkler e Rauch. Come spesso gli capitava durante le sue performances, Jarrett preferisce mettere subito in chiaro le sue intenzioni. Ecco quindi la “Part I” sicuramente la più complessa e meno melodica dell’intero programma, in cui l’artista si lancia nelle sue ardite improvvisazioni. E tutto il primo CD, corrispondente alla prima parte del concerto, ripercorre un identico canovaccio vale a dire un pianismo allo stesso tempo lucido e imperscrutabile, vorticoso e meditativo, che comunque si lascia attrarre da quell’area culturale vicina alla musica accademica in special modo del Vecchio Continente. Il discorso cambia nel secondo disco caratterizzato sin dall’inizio da una atmosfera più raccolta, intimista e da una più avvertibile cantabilità. Fino alla degna chiusura con due standard rappresentati con dolce partecipazione. E’ sicuramente questo il Jarrett che il pubblico ama di più, quell’artista che raccoglie in sé il portato di ogni stile pianistico e che, se in stato di grazia, è capace di inanellare una serie infinita di spunti melodici come nessun altro. Ed un esempio probante si ha proprio in questo secondo CD in cui ogni singola esibizione è sugellata da una caldo applauso del pubblico senza che la tensione cali per un solo attimo: lo spettatore è definitivamente conquistato così come noi che ascoltiamo l’album comodamente accovacciati in poltrona.

Anja Lechner, François Couturier – “Lontano” – ECM
Dopo il felice debutto nel 2014 con “Moderato cantabile” sempre firmato ECM, la violoncellista tedesca e il pianista francese tornano in sala di incisione per dar vita a questo “Lontano” articolato su sedici brani sia originali sia dovuti ad autori di aree ed epoche diverse, da Ariel Ramirez a Giya Kancheli, da Anouar Brahem a Henri Dutilleux. Come si può facilmente desumere dall’organico, si tratta di una musica dall’impianto cameristico. Quel che fa la differenza rispetto ad altre registrazioni del genere è da un canto la statura artistica dei due artisti, dall’altro la scelta del repertorio. Ascoltando l’album sin dalle primissime note si ha netta la sensazione di ascoltare musicisti in grado di coniugare una preparazione classica con il linguaggio improvvisativo proprio del jazz. Di qui un suono, una timbrica, un gioco di colori molto vicini alla tradizione cameristica europea. D’altro canto non mancano pagine in cui la capacità di improvvisare prende il sopravvento sulla pagina scritta. Funzionale a tutto ciò la scelta di un repertorio che tende quasi ad annullare qualsiasi distanza temporale tra i vari brani nell’intento – del tutto riuscito – di evidenziare come la buona musica non conosca limiti di tempo. Così, dopo i primi tre brani di impronta “colta”, il ben noto e struggente “Alfonsina y el mar” di Ariel Ramirez. E questa particolare capacità di attualizzare alcune partiture appare altresì evidente, come chiarito nel libretto che accompagna l’album, in almeno altri quattro brani: in “Memory of a Melody” ci si richiama all’aria dalla Cantata BWV 105 di Bach, in “Hymne” si avverte l’influenza di Gurdjieff, in “Postludium” fa capolino l’arte del pianista e compositore ucrainoValentin Silvestrov mentre nella title track si omaggia Federico Mompou esplicitamente ricordato nel già citato “Moderato cantabile”.

Gianni Lenoci – “Wild Geese” – Dodicilune
Quando Gianni Lenoci ci lasciò improvvisamente, su questi stessi spazi ebbi modo di sottolineare come la sua dipartita lasciasse un vuoto difficilmente colmabile. E questo album, postumo, registrato nel 2017, ne è l’ennesima conferma. Lenoci era artista di indubbio talento che trovava i suoi punti di forza da un canto in una grande capacità improvvisativa declinata attraverso composizioni originali sempre indirizzate verso una sperimentazione mai fine a sé stessa, dall’altro nell’estremo rispetto degli altri, dei suoi colleghi che lo portava ad eseguire le composizioni altrui senza alcunché perdere dell’originario fascino. In questa sua ultima fatica discografica, Lenoci è in trio con Pasquale Gadaleta al basso e Ra-Kalam Bob Moses alla batteria. In repertorio nove composizioni scritte da alcuni grandi del jazz: quattro a testa da Carla Bley e Ornette Coleman, una da Gary Peacock. L’album produce una duplice sensazione: il piacere di ascoltare alcuni standard che restano nella storia della musica e allo stesso tempo l’ammirazione per come Lenoci e compagni siano capaci di riavvolgere il nastro, scomporre i nove brani e ripresentarli secondo una logica nuova, personale, che lascia intravedere, quasi in filigrana, la profonda conoscenza della musica interpretata. E a mio avviso due sono i brani che meglio illustrano quanto sin qui detto, “Latin Genetics” e il conclusivo “Ida Lupino”, senza alcunché togliere alla maestria con cui il trio affronta tutti i brani in programma, a partire dal sontuoso “And now the queen” cui fa seguito “Job Mob“ impreziosito da un Gadaleta in grande spolvero e con un Lenoci quasi a richiamare atmosfere proprie del free. Pezzi che ci introducono alla parte centrale dell’album costituita da tre brani tutti di lunghezza superiore ai dieci minuti. Insomma un album straordinario che merita di essere ascoltato anche da chi non si professa particolarmente amante del jazz: sono sicuro che piacerà anche a costoro.

Ivano Nardi – “Homage to Kandinsky” –
Il batterista Ivano Nardi può a ben ragione essere considerato personaggio storico del jazz italiano e romano in particolare. Sulla scena oramai da parecchi anni, ha collaborato con alcuni bei nomi del panorama internazionale (Massimo Urbani fra tutti e poi Mario Schiano, Marco Colonna, Steve Lacy, Evan Parker, Don Cherry e Lester Bowie) sviluppando uno stile percussivo affatto personale che oscilla tra free jazz e improvvisazione totale. In questa ultima fatica discografica si presenta in quartetto con Eugenio Colombo (sax e flauti), Roberto Bellatalla (contrabbasso) e Giancarlo Schiaffini (trombone). L’Album, come evidenziato dallo stesso titolo, trae ispirazione dai quadri del pittore russo nell’intento di rievocare, attraverso le note, i tratti caratteristici di Kandinsky, dalle armonie dei colori alla vividezza del tocco; di qui le improvvisazioni che assumono titoli quali Giallo indiano, Rosso, Giallo 1, Giallo 2, Grigio scuro, Blu ecc. In buona sostanza la materia indagata a fondo dall’artista russo viene trasformata in materia sonora ora attraverso i solo del leader ora con le improvvisazioni collettive del gruppo che ci riportano ad atmosfere proprie degli anni ’70. Il tutto viene esplicitato ulteriormente da una frase dello stesso Nardi laddove afferma, cito testualmente, che “continuo a leggere e ad approfondire cose che riguardano l’arte tutta: so che non basta una vita a raccogliere tutti questi stimoli!”.

Novotono – “Wood (Wind) at Work” – Autrecords
Sotto l’insegna dei “Novotono” incontriamo il progetto dei fratelli Adalberto ed Andrea Ferrari con il nuovo album uscito qualche mese fa. Per chi non conosca ancora questi due artisti sottolineiamo che si tratta di improvvisatori di alto livello specialisti di tutta una serie di strumenti a fiato: clarinetto basso, alto sax e baritone sax Andrea, Eb tubax, clarinetto basso, clarinetto, alto sax, soprano sax, contrabbasso clarinetto Adalberto. Già la struttura stessa dell’organico fa capire come ci si trovi dinnanzi ad una musica particolare, spesso giocata sull’aspetto timbrico ma che non trascura il lato melodico né quello ritmico. I due musicisti, fidando su capacità improvvisative non comuni, affrontano terreni spesso disagevoli inerpicandosi su chine pericolose da cui comunque escono sempre bene. Così ad esempio è davvero esemplare il modo in cui i due riescono a rendere vivo il dialogo tra gli strumenti in “Melodie Per Un Burattino Di Legno”, dialogo che sembra non risentire della mancanza di parole per rendersi esplicito nella sua natura più profonda, mentre in “Gegheghè” si abbandona questa atmosfera intima per tuffarsi in un clima rockeggiante. Ma, come si accennava, non si trascura gli spetti ritmici e melodici: ecco, quindi, “Old Durmast” caratterizzato da un andamento ritmico inusuale, a tratti sghembo ma affascinante e “Contratuba Seguoia” con una bella linea melodica ben individuabile, interrotta quasi a metà del brano da un lacerto sonoro assolutamente straniante, dopo di che il pezzo si avvia a conclusione riprendendo l’originario schema. Bella la chiusura con “Wooden Toys” scritto con piacevole ironia. Insomma un album di non facile ascolto ma di sicuro interesse da cui si ricava una importante lezione: l’improvvisazione è stato, è e sarà un elemento imprescindibile della musica jazz.

Enrico Pieranunzi – “Time’s Passage” – abeat
Enrico Pieranunzi è uno di quei non molti musicisti che mai sbaglia un colpo. Ogni qualvolta decide di entrare in sala di incisione è perché ha qualcosa da dire e solitamente si tratta di qualcosa di interessante. Anche questo album registrato nel maggio del 2019, non sfugge alla regola. Il pianista-compositore romano si presenta, questa volta, alla testa di un quintetto con il grande batterista francese Dedè Ceccarelli, il compagno di tante avventure Luca Bulgarelli al contrabbasso e basso elettrico, e due ospiti di lusso quali Andrea Dulbecco al vibrafono e Simona Severini alla voce; in programma nove brani di cui sei scritti dallo stesso leader, in epoche assai diverse e due standard dovuti alle penne di David Mann e Bob Hillard l’uno, e di Arthur Hamilton e Johnny Mandel l’altro. Già dalle prime note della title track si intuisce quale sarà l’andamento dell’album: una musica oscillante tra il jazz da camera e lo swing canonico. Ecco così la delicata “Time’s Passage” impreziosita dai delicati volteggi di un Dulbecco particolarmente brillante cui fa seguito il “Valzer” espressamente dedicato ad Apollinaire con testo in francese. Con “Biff” le atmosfere virano decisamente verso uno swing più accentuato impreziosito dalle improvvisazioni dei quattro musicisti (esclusa la Severini che non figura in questo brano). E così fino all’ultimo brano, “Vacation from The Blues”. Una curiosità: nel disco c’è una doppia versione del brano “In the wee small hours of the morning” portata al successo da Frank Sinatra, una con l’ensemble e una piano e voce. Questa scelta piuttosto anomala, come spiega lo stesso Pieranunzi, è dovuta al fatto che la Severini “ha cantato così bene in entrambe le versioni di questo delicato standard americano, ha espresso il mood della canzone con tanto feeling e fascino narrativo che non me la sono sentita di togliere una delle due versioni. Meritano assolutamente di essere ascoltate entrambe”. E come dargli torto?

Dino Rubino – “Time of Silence” – Tuk Music
Dino Rubino è senza dubbio alcuno uno dei più fulgidi talenti emersi negli ultimi due decenni. Il trombettista, flicornista, pianista, compositore siciliano si è costruito una solida reputazione passo dopo passo, mai bruciando i tempi e mai accontentandosi dei traguardi raggiunti. Da un po’ di tempo incide per la Tuk Music e con l’etichetta di Paolo Fresu sta sfornando degli album davvero eccellenti. Quest’ultimo lo vede alla testa di un quartetto con Emanuele Cisi al sassofono tenore, Paolino Dalla Porta al contrabbasso e Enzo Zirilli alla batteria. In programma dieci brani tutti originali di Rubino che si esprime al pianoforte imbracciando il flicorno solo in un brano, “Settembre”, a chiusura del programma. Spesso ci si interroga circa la pertinenza del titolo dell’album con la musica proposta. Ebbene, in questo caso, il nesso c’è ed è evidente. In un momento in cui chi strepita più forte sembra avere la meglio (e non solo in musica) Rubino sceglie una strada diversa, una strada che privilegia la melodia che non deve essere gridata, basta sussurrarla. E’ una sorta di afflato poetico quello che scaturisce dalle note del siciliano, una musica raffinata, elegante ma tutt’altro che leziosa o banale. Prendendo spunto proprio dal silenzio quale dimensione non secondaria, Rubino guida il gruppo con un pianismo che si fonde senza alcuna forzatura con il resto del gruppo a conferma di una intesa completa. Si ascolti, ad esempio, in “Claire” il modo in cui, dopo un bell’assolo del leader, Cisi raccoglie il testimone per dialogare con il pianoforte in una sorta di botta e risposta affascinante. Così come in “Karol”, i due trovano modo di integrarsi alla perfezione evidenziando le rispettive potenzialità. Potenzialità che nel caso di Rubino sono particolarmente evidenziate in “Owl in the Moon” impreziosito da un assolo pianistico coinvolgente nella sua semplicità. Infine come non segnalare l’ultimo brano, il malinconico “Settembre”, in cui Rubino si esprime magnificamente al flicorno. Al di là della musica, bella la cover dovuta all’artista svizzero Stephan Schmitz.

Terje Rypdal – “Conspiracy” – ECM
Conosco personalmente Rypdal da più di 40 anni e fin dall’inizio l’ho considerato uno dei veri, pochi in novatori che hanno illuminato la scena jazzistica internazionale negli ultimi decenni. A mio avviso una delle caratteristiche che fanno davvero grande un musicista è la riconoscibilità: tu ascolti poche note di sassofono e riconosci Charlie Parker così come ti basta qualche accenno pianistico per individuare Keith Jarrett; egualmente sono sufficienti poche note di chitarra amplificate in un certo modo per individuare tutto un mondo: quello per l’appunto di Terje Rypdal. Registrato a Oslo nel febbraio dello scorso anno in quartetto con Ståle Storløkken keyboards, Endre Hareide Hallre basso elettrico e Pål Thowsen batteria, l’album si articola in sei composizioni del leader che attraversano un po’ tutto il suo spettro compositivo. L’aggancio a quel jazz-rock degli anni ‘70 e ’80 appare evidente ma il tutto viene reinterpretato alla luce di una modernità che si respira evidente mai dando l’impressione del deja-vu. Così se il brano d’apertura “As if the Ghost… was Me?” (“Come se fossi io, il fantasma?”) velato da sottile ironia ripercorre situazioni care al Rypdal che tutti conosciamo, ecco che già in “What was I thinking” ascoltiamo un chitarrista più pensoso, più intimista a dialogare con il basso. Più legata a stilemi rockeggianti la title-track (con evidente richiamo alla Mahavishnu Orchestra) mentre tutta la seconda parte del breve album (appena una trentina di minuti) presenta una musica più evocativa, descrittiva, melodica, oserei dire malinconica a dimostrazione di come, contrariamente a quanto asserito da qualche pur illustre collega, non si tratti di un album quasi routinario ma di una realizzazione fortemente pensata e voluta da una artista che non ha perso un’oncia della sua creatività. Per concludere si ascolti con attenzione la splendida ballad “By His Lonesome”.

Dino Saluzzi – “Albores” – ECM
Tutte le volte che ho ascoltato Dino Saluzzi dal vivo ne ho sempre ricavato una forte iniezione di energia, una carica di vitalità che non sembra risentire del trascorrere del tempo. Ad onta dei suoi ottantacinque anni Saluzzi è sempre in piena attività, tanto che da poco è uscito questo suo nuovo disco. Album tra l’altro assai particolare in quanto dopo più di trent’anni il maestro argentino torna ad incidere in totale solitudine, con nove sue composizioni. Ed è ancora una volta un piccolo capolavoro. Saluzzi prosegue lungo il suo cammino, con la sua musica che è allo stesso tempo astrazione allo stato puro e narrazione di una memoria che si perde nel tempo. Di qui i riferimenti a persone a lui care e a paesaggi e scorci di natura che fanno parte del suo essere. Il tutto eseguito con uno strumento, il bandoneon, che egli ha portato a livelli di espressività mai raggiunti fino ad oggi. Certo c’è sempre Astor Piazzolla ma il linguaggio adoperato dai due è completamente diverso sì da renderne impossibile un qualsivoglia raffronto. Ma torniamo ad “Albores” che si apre con un omaggio al compositore georgiano Giya Kancheli (“Adios Maestro Kancheli”) la cui musica ha già inciso insieme al celebre violinista lettone Gidon Kremer. Immancabili i riferimenti alla musica andina che viene trasposta in un universo sonoro senza tempo (“La cruz del Sur”) così come inevitabile, lo struggente ricordo del padre (“Don Caye – Variaciones sobre obra de Cayetano Saluzzi”). Senza trascurare i rimandi ad una Buenos Aires d’altri tempi: si ascolti “Segun me cuenta la vida” una milonga ma nello stile di Saluzzi e il successivo “Intimo”. L’album si conclude con “Ofrenda – Toccata”, un brano di rara suggestione in cui misticismo e devozione coesistono a conclusione di un viaggio intriso di nostalgia, bellezza, corporeità e spiritualità a cui tutti noi siamo invitati.

The Auanders – “Text (us)” – Auand
Era il 2011 quando su un palco a New York, per festeggiare i dieci anni della Auand, prese forma l’idea di formare una sorta di all-star costituita da artisti dell’etichetta pugliese. Nel corso degli anni il progetto è stato presentato in molte città con organici differenti mentre dal punto di vista discografico siamo adesso al secondo capitolo. Questa volta il lavoro è frutto di una residenza di una settimana ad Arezzo presso il Cicaleto, con un programma di 8 brani originali commissionati ad hoc ad alcuni dei musicisti più attivi che collaborano con la Auand. Ecco quindi un tentetto base – Mirko Cisilino tromba e corno francese), Michele Tino (sax alto e flauto), Francesco Panconesi (sax tenore), Beppe Scardino (sax baritono e clarinetto basso), Filippo Vignato (trombone), Glauco Benedetti (tuba), Francesco Diodati (chitarra), Enrico Zanisi (pianoforte, rhodes, synth e glockenspiel), Francesco Ponticelli (basso e basso elettrico) e Stefano Tamborrino (batteria, percussioni e voce) cui si affiancano in veste di ospiti Sara Battaglini (voce), Francesco Bearzatti (clarinetto), Stefano Calderano (chitarra), Simone Graziano (rhodes) ed Evita Polidoro (voce). Il titolo – Text(Us)(“Scrivici un messaggio”) – contiene di per sé una della carte vincenti dell’etichetta di Bisceglie, vale a dire la voglia di entrare in contatto e in empatia con l’ascoltatore . Dal punto di vista prettamente musicale l’album risulta interessante soprattutto per le modalità di esecuzione: il gruppo, pur essendo numeroso, si muove con grande scioltezza evidenziando una notevole intesa sia nelle parti d’assieme sia nei momenti in cui vengono lasciati spazi ai molti solisti. Il tutto reso possibile da centrati arrangiamenti attraverso cui gli artisti trovano, per l’appunto, modo di esprimere le proprie potenzialità. Notevoli, da questo punto di vista, le sortite, tanto per citare qualche nome, di Francesco Bearzatti in “Song to the Unborn”, Filippo Vignato in “One Week”, oltre alle splendide voci di Sara Battaglini e Evita Polidoro.

Tingvall Trio – “Dance” – Skip Records
Martin Tingvall (pianoforte), Omar Rodriguez Calvo (basso) e Jürgen Spiegel (batteria) sono i protagonisti di questo convincente album registrato per la “Skip Records”. La formazione ha oramai acquisito una solida reputazione confermata da quest’ultima fatica discografica. Tingvall e compagni prendono per mano l’ascoltatore e lo conducono in un immaginario viaggio attorno al mondo a ritmo dei vari stili di danza. Il tutto interpretato sempre con pertinenza e alla luce di un’empatia che il trio ha evidenziato in tutti gli album fin qui incisi. Quest’ultimo “Dance” è declinato attraverso tredici brani tutti scritti dal leader e arrangiati collegialmente dal trio in modo davvero assai curato come si evidenzia sia dalle intro sia dalle chiusure dei vari brani. Si parte con un esplicito richiamo al Giappone cui fa seguito la title track caratterizzata da una suadente linea melodica ben disegnata dal leader con i tamburi a sottolineare un clima arcaico, senza tempo. In “Spanish Swing”, “Cuban SMS” e “Bolero” è l’anima latina a prevalere grazie ad una caratterizzazione ritmica particolarmente centrata in “Bolero” mentre in “Arabic Slow Dance” si avvertono i profumi dell’Oriente con una significativa introduzione di Calvo impegnato poi in un fitto dialogo con il leader per tutta la durata del brano. “Ya Man” tratteggia un’atmosfera diversa dal resto dell’album in quanto siamo in pieno clima reggae con una forte tappeto ritmico intessuto da Calvo e Spiegel nel cui ambito si inserisce il pianismo di Tingvall. Se questi sono i brani in cui maggiormente si avverte il sapore della “danza” non mancano mezzi più meditativi e introspettivi come il conclusivo “In memory…”.
Oltre al CD e all’uscita digitale, sarà presto disponibile anche una stampa vinile da 180 gr.

Dominik Wania – “Lonely Shadows” – ECM
Dopo i successi ottenuti con il Maciej Obara Quartet (“Unloved”, “Three crowns”, ambedue targati ECM)), il pianista polacco Dominik Wania si misura con un ‘piano solo’ registrato nel novembre del 2019 a Lugano, ma che comincia a prendere forma già alcuni anni addietro dopo le registrazioni del citato “Unloved”. Per quanti seguono il jazz con buona attenzione non sarà sfuggito il valore di questo pianista che coniuga un background di tipo classico con capacità improvvisative proprie del jazz-man. Forte di queste caratteristiche Wania affronta la prova più difficile e importante della sua carriera e ne esce a fronte alta. In undici brani tutti di sua composizione e tutti affidati all’improvvisazione del momento, il pianista ci offre una sorta di summa delle sue capacità compositive e interpretative. La sua musica, tutt’altro che di facile ascolto, presenta evidenti richiami a Satie, Ravel e Messiaen; il tocco è leggero, fluido; grande l’attenzione per il dettaglio acustico; solida la concezione architettonica delle composizioni nonostante sia praticamente impossibile individuare chiare linee melodiche o qualsivoglia pattern ritmico. Insomma, come già accennato, siamo nel campo dell’improvvisazione totale che l’artista maneggia con disinvoltura e con originalità mai proponendo qualcosa di banale. Tra i vari brani da segnalare “AG76” un omaggio all’artista polacco Zdzisław Beksiński (1929-2005) le cui distopiche e surreali immagini hanno fortemente influenzato Wania il quale per eseguire il brano ha ricercato una timbrica delicata e nebbiosa, mentre “Indifferent Attitude” si differenzia dagli altri pezzi per essere molto vicino ad atmsfere tipiche del free jazz storico.

Marcin Wasilewski Trio, Joe Lovano – “Arctic Riff” – ECM
Incontro al vertice tra uno dei più grandi sassofonisti degli ultimi decenni e un trio polacco di tutto rispetto guidato dal pianista Marcin Wasilewski e completato da Slawomir Kurkiewicz al contrabbasso e Michail Miskiewicz alla batteria. Quasi inutile sottolineare la grande versatilità di Lovano che riesce a mantenere intatta la propria individualità indipendentemente dal contesto in cui si trova ad operare. Dal canto suo il trio polacco conferma quanto di buono aveva già evidenziato anche nelle collaborazioni con il trombettista anch’egli polacco Tomasz Stanko. In repertorio composizioni dei due leader, un brano di Carla Bley e uno di Joe Lovano cui si aggiungono alcune improvvisazioni collettive. Il quartetto si muove, quindi, su coordinate piuttosto differenziate. Così, ad esempio, nella doppia versione di “Vashkar” di Carla Bley mentre nella prima dopo una breve introduzione di Lovano, Wasilewski si impossessa del tema per svilupparlo alla sua maniera dopo di che interviene ancora Lovano il tutto mantenendosi nei limiti di una visitazione piuttosto letterale, nella seconda prevale un maggior spirito improvvisativo. Ben strutturate le melodie del pianista che si avvalgono di un Lovano in gran spolvero specie in “Fading Sorrow” mentre in “L’Amour Fou” è il batterista a mettersi in particolare luce; splendido il brano finale, “Old Hat”, una suggestiva ballad impreziosita dagli assolo dei due leader che si iscrive di diritto nelle grandi tradizioni del jazz. Nelle improvvisazioni collettive è tutto il quartetto a marciare all’unisono grazie soprattutto al sassofonista che, come si accennava, è riuscito ad inserirsi perfettamente nel già rodato meccanismo del trio polacco.

I NOSTRI CD

Jon Balke – “Discourses”- ECM
Jon Balke è artista che mai delude ed anche questa sua ultima fatica discografica si mantiene su livelli di classe elevata. More solito, l’artista lascia prevalere l’espressività, i contenuti di ciò che si vuole comunicare, rispetto a qualsivoglia muscolare dimostrazione di tecnica strumentale Di qui un pianismo scarno, elegante, assai curato nel suono e integrato da interventi di elaborazione elettronica, quali «riverberi e riflessi del mondo che vengono distorti». Prima accennavo ai contenuti: in questo album il musicista nordeuropeo ha voluto altresì trasmettere un messaggio ben preciso, da lui stesso esplicitato con le seguenti parole: “Mentre nel 2019 il clima politico si inaspriva, con discorsi sempre più polarizzati, la mancanza di dialogo mi ha indirizzato verso i termini che costituiscono i titoli delle singole tracce”. Ma al di là degli enunciati e dei singoli titoli, la musica riesce a rispecchiare quanto dichiarato? A mio avviso sì: la musica di Balke accoglie in sé una serie di spunti, di idee anche contraddittorie così come avviene nel mondo reale. Ecco quindi espliciti riferimenti ad un certo romanticismo (“The facilitator”, “The container”) mescolarsi con influssi impressionisti (“The how”) senza dimenticare da un lato il grande J.S.Bach dall’altro il jazz nelle sue forme più attuali. Insomma una sorta di moderno caleidoscopio a riflettere in maniera perfetta il mondo interiore di un artista che nel corso di una lunga carriera ha sempre guardato al futuro, mai soffermandosi sui traguardi raggiunti.

Paolo Benedettini – “Re: Connections” – Double Record
Il contrabbassista Paolo Benedettini può vantare un ricchissimo e significativo curriculum a cominciare dal lungo periodo trascorso a New York dove è stato membro stabile del trio del compianto batterista Jimmy Cobb insieme al pianista Tadataka Unno; sempre negli States ha collaborato con molti altri artisti tra cui Harold Mabern, Joe Magnarelli, Joe Farnsworth, Eric Reed, e per le tournée europee Joe Farnsworth, Eric Alexander e David Hazeltine. Rientrato da poco in Italia ha firmato questo “Re: Connections” che sta ad indicare proprio il ritorno e quindi la riconnessione con il passato. Passato che si avverte pure nella scelta dei compagni d’avventura dal momento che il chitarrista Marco Bovi e il pianista Nico Menci hanno accompagnato spesso Benedettini nelle fasi iniziali della sua carriera. L’album è notevole; d’altro canto un artista del calibro di Ron Carter non si sarebbe speso a scriverne le liner notes se non fosse stato assolutamente convinto della musica proposta dal contrabbassista, e non si sarebbe spinto a dichiarare, cito testualmente, “La sua versione del mio brano “For Toddlers Only” vi stenderà, così come ha fatto con me”. Tra gli altri brani degni di menzione “Chovendo Na Roseira”, uno standard brasiliano di Jobim presentato in modo allo stesso tempo pertinente e originale, e “Il “Coro a bocca chiusa” della “Madama Butterfly di Puccini, uno dei due espliciti riferimenti alla musica lirica (l’altro è “Entr’acte I”, derivato dalla Carmen di Bizet).

Mauro Bottini – “By Night” – ACP
In “By night”, il sassofonista Mauro Bottini si presenta in compagnia di Cristiano Coraggio alla batteria, Marco Massimi al basso e Antonino Zappulla alle tastiere (pianoforte, Fender Rhodes e Organo), cui si aggiunge in un solo brano – “Rome by Night” scritto da Bottini – la pregevole chitarra di Rocco Zifarelli. L’album è dedicato alla notte, un momento particolare nella vita di tutti noi, ma ancora più particolare per i musicisti che di notte spesso vivono, suonano e quindi evidenziano la propria personalità. Personalità, nel caso di Bottini, delineata da tempo a disegnare un artista maturo, perfettamente conscio delle proprie possibilità e che, proprio per questo, non esita ad esibirsi nella triplice veste di sassofonista, leader e compositore. Insomma, già dall’ascolto di questo album, si può avere una visione chiara della bravura di Bottini che ci restituisce un quadro della “notte” a tinte variegate così come deve essere, in cui ad atmosfere fusion (si ascolti Rocco Zifarelli nel brano d’apertura), a tratti anche funk si alternano dolci ballad, il tutto caratterizzato da una fruttuosa ricerca sulle linee melodiche. Al riguardo da segnalare soprattutto “My Princess”, composta ancora da Bottini mentre sotto il profilo ritmico da ascoltare con particolare attenzione “If” di Antonino Zappulla.

Max De Aloe – “Just For One Day – The music around David Bowie” – barnum
Armonicista di grande sensibilità e dotato di un sound affatto personale, Max De Aloe si ripresenta alla testa del suo quartetto, stabile oramai da più di dieci anni, con Roberto Olzer al pianoforte, Marco Mistrangelo al contrabbasso e Nicola Stranieri alla batteria.
In repertorio tredici brani che rappresentano un viaggio attorno alla musica di David Bowie, una vera e propria icona del rock internazionale, con l’aggiunta di cinque pezzi composti dallo stesso armonicista. De Aloe affronta il non facile repertorio alla sua maniera, ovvero con sensibilità, eccellente senso melodico, grandi capacità architettoniche e quel suono che, come accennato in precedenza, costituisce la specialità della casa. Di qui una musica sorprendente che lungi dal caratterizzarsi come semplice riproposizione di brani già noti, tende a reinventarli secondo la personalissima visione del leader, in un momento particolare come l’attuale. In effetti è lo stesso Max, nelle note di copertina, ad informarci di come nei giorni in cui avrebbero dovuto essere in studio di registrazione, si è ritrovato vittima del Covid 19, allettato per più di un mese. La convalescenza è stata lunga e non senza problematiche cosicché sarebbe stato meglio attendere ancora un po’ prima di registrare. Ma De Aloe voleva registrare il prima possibile in quanto ciò che l’affascina nella musica “non è l’idea di perfezione ma la sua visceralità, autenticità e urgenza espressiva” Così il 20 luglio scorso è entrato in studio di registrazione e i risultati stanno lì a dimostrare quanto avesse ragione! Particolarmente toccante l’interpretazione di “Lazarus”, considerata a ben ragione la canzone simbolo del testamento musicale di Bowie

Massimiliano Génot, Emanuele Sartoris – “Totentanz – Evocazioni Lisztiane” – Dodicilune
Un duo pianistico impegnato in un repertorio originale ma esplicitamente ispirato alla musica di Franz Liszt, ad eccezione dei brani di apertura e chiusura dovuti rispettivamente a Génot e Sartoris, e al già citato Listz. Come si evidenzia da quanto detto, un esperimento già tentato nel mondo del jazz con esiti alterni in quanto collegare jazzisti al mondo classico è impresa certo non facilissima. Questa volta la sfida presenta due incognite in più: innanzitutto l’eterogeneità del duo in quanto mentre Massimiliano Génot è artista ben affermato nel mondo della musica classica, Emanuele Sartoris è pianista jazz; in secondo luogo “Totentanz”, opera non molto conosciuta, è stata scritta per pianoforte e orchestra. I due pianisti affrontano le complesse partiture con l’intento non di riprodurle sic et simpliciter, ma di fornirne una propria originale visione che si appalesa, particolarmente in due brani: “Toten-Rag” in cui il pensiero di Liszt viene declinato in termini di ragtime mentre in “Hispanic Barbarian Fantasy” i due pianisti tendono a sottolineare come la musica colta europea dell’ottocento e del novecento sia stata fortemente influenzata dalle musiche ispaniche a loro volta debitrici delle tradizioni arabe. Insomma come acutamente osserva Paolo Fresu nelle note di copertina, “un’opera senza confini capace di abbattere le tante barriere che il macabro mondo odierno edifica”.

Maurizio Giammarco – “Only Human” – PMR
Conosco Maurizio Giammarco da oltre quarant’anni per cui posso affermare, senza tema di smentita, che si tratta di una delle persone – al di là della statura artistica – intellettualmente più oneste che mi sia capitato di conoscere. Ed è in questo solco che si inscrive anche “Only Human” inciso con “Halfplugged Syncotribe” vale a dire la nuova versione espansa a quintetto del trio Syncotribe, già attivo da un quinquennio; il gruppo risulta quindi formato, oltre che dal leader, da Luca Mannutza il quale affianca all’organo anche il piano acustico e quello elettrico, da Paolo Zou, giovane chitarrista romano, dal bassista Matteo Bortone e dal batterista Enrico Morello. In repertorio nuove composizioni appositamente pensate per questo gruppo da Giammarco e presentate a gennaio scorso nell’ambito della rassegna Recording Studio. Il concerto è diventato per l’appunto questo “Only Human” che, come dichiara lo stesso Giammarco, “viene incontro a un sentimento d’insofferenza, ovvero quella che provo di fronte all’uso generalizzato e irresponsabile degli strumenti di comunicazione di massa”. Il titolo “Only Human” fa riferimento quindi al “risveglio di un nuovo umanesimo”. Di qui una musica non sempre facile, alle volte sghemba, caratterizzata come sempre da una indiscussa originalità, da un notevole equilibrio fra tradizione e sperimentalismo e da una ricca tavolozza sonora e timbrica dovuta soprattutto a Luca Mannutza e Paolo Zou che – dichiara ancora Giammarco – “suona la chitarra in modo differente da come solitamente la suonano i chitarristi di jazz, usando gli effetti e tutto il potenziale dello strumento”.

Bruno Marini – “4” – Arte Sonora
“Love Me or Leave Me” – Arte Sonora
Due gli album del baritonista veronese Bruno Marini in scaletta questa volta. In “4” il leader è accompagnato da Marcello Tonolo al piano, Marc Abrams al contrabbasso e Valeri Abeni alla batteria. In repertorio sei brani composti dallo stesso Marini (quattro) e da Tonolo (due), registrati a Verona nel luglio del 1985, già comparsi su LP e ora ripubblicati, dopo 35 anni, su CD. Si tratta, insomma, come sottolineato nella stessa copertina dell’album, di “historical tapes”. In realtà queste sono le prime tracce incise dal quartetto dopo un certo lasso di tempo speso a suonare in club e festival. Già allora il gruppo appariva ben rodato, in grado di produrre musica di eccellente livello, sempre in bilico tra pagina scritta e improvvisazione, grazie sia all’intesa tra i musicisti, sia alla bravura dei singoli; non a caso l’album venne registrato in soli cinque giorni.
Anche “Love me or leave me” contiene “historical tapes” dal momento che è stato registrato e pubblicato su LP solo due anni dopo il già citato “4” vale a dire nel 1987. Il sassofonista questa volta è in trio con Charlie Cinelli al contrabbasso e Alberto Olivieri alla batteria, quindi senza uno strumento armonico. In repertorio oltre agli otto brani contenuti nell’LP, “The Lady Is A Tramp” di Rodgers e Hart come bonus track. Alle prese con brani che fanno parte del song-book jazzistico come “Thelonious” di Monk, la title track di Donaldson e Kahn e “Bye Bye Blackbird” di Henderson e Dixon, Marini se la cava egregiamente denotando, già all’epoca, una raggiunta maturità suffragata da una grande padronanza tecnica e una buona capacità improvvisativa. Tra i brani da segnalare i due original di Marini, “Blue Mob” e “All the Things You Could Be”, che si rifanno piuttosto apertamente alle atmosfere disegnate da Gerry Mulligan nei primissimi anni ’50.

Mos Trio – “Metamorfosi” – Emme Record
Disco d’esordio per il “mOs trio” pubblicato il 10 aprile 2020 dall’etichetta Emme Record Label. Protagonisti Giuseppe Santelli al pianoforte, altresì autore di tutti i brani eccezion fatta per il celeberrimo “Take Five” di Dave Brubeck, Renzo Genovese al basso elettrico e Simone Ritacca alla batteria. A mio avviso la forza del trio si basa su due pilastri: da un canto il sapersi muovere tra diversi stili ma con un occhio sempre attento alla tradizione, dall’altro la profonda intesa che si è instaurata fra i tre e che li porta ad improvvisare ben sapendo che i compagni d’avventura non si perderanno per strada. Di qui una musica variegata che passa con disinvoltura, ma senza sbavature, dal jazz propriamente detto (si ascolti ad esempio il brano d’apertura “La strada del ritorno” con un Ritacca in evidenza) ad atmosfere latin-jazz come quelle disegnate in “Nostalgia” con una dolce linea melodica; dai suadenti ritmi dispari di ”Flowing” alla title track che, dopo un assolo di batteria, si apre ad una dolce melodia espressa dal pianoforte di Santelli ben sostenuto soprattutto da Renzo Genovese, il tutto con un occhio rivolto a certe forme della musica classica; dalla spagnoleggiante “A Toledo” al clima onirico di “My Thoughts” fino alla conclusiva “Take Five” la cui esecuzione è corretta…anche perché dire qualcosa di nuovo nell’interpretazione di questo pezzo è impresa molto, ma molto difficile, al limite dell’ impossibile.

Benjamin Moussay – “Promontoire” – Ecm
Novità in casa Ecm, l’incisione per piano solo del francese Benjamin Moussay che avevamo imparato a conoscere grazie alle registrazioni con il conclamato clarinettista Louis Sclavis (“Sources” 2012, “Salt and Silk melodies” 2014, “Characters On A Wall” pubblicato nel settembre del 2019, tutti e tre targati ECM) e con il nostro Francesco Bearzatti (“Dear John“ maggio 2019). Con “Promontoire” Moussay offre la sua più intima e personale proposta, caratterizzata da un profondo lirismo e da una non comune intensità espressiva. Registrato tra il gennaio e l’agosto del 2019, l’album presenta dodici composizioni originali dello stesso pianista, tutti di durata inferiore ai 5 minuti, e tre addirittura al di sotto dei due minuti. Quindi da un lato l’intenzione dell’artista di non battere vie conosciute, avventurandosi nella creazione dell’intero repertorio; dall’altro l’esposizione di un pianismo fatto di brevi frasi, essenziale, a tratti quasi minimalista e purtuttavia con due sostanziali punti di riferimento: Bill Evans e Keith Jarrett. Moussay si mantiene sempre in un difficile equilibrio tra l’improvvisazione propria del linguaggio jazzistico ed un occhio attento alle più moderne espressioni della musica colta. In questo senso vanno lette alcune sue composizioni quali, ad esempio, “Théa” che forse non a caso chiude l’album. Tra gli altri brani di particolare interesse “L’oiseau d’or” probabilmente il brano più prettamente jazzistico dell’intero album.

Francesca Naibo – “Namatoulee” – Aut records
Tanto straniante quanto interessante questo album d’esordio della chitarrista veneta, milanese d’adozione, Francesca Naibo, che si esprime in assoluta solitudine. L’artista è giunta a questa prima fatica discografica dopo essersi fatta conoscere grazie alle collaborazioni con personaggi quali Marc Ribot e George Lewis. Straniante, dicevo, perché qui siamo davvero nell’apoteosi del sound. In effetti trovare in questa musica una qualsivoglia traccia melodica è impresa quanto mai difficile; si trascurano le parole e si va al di là di qualsivoglia schema predefinito. In compenso l’ascoltatore è immerso in un’orgia di suoni in cui la Naibo appare come una sorta di deus ex machina capace di padroneggiare questa materia incandescente in cui la libera improvvisazione di chiara matrice jazzistica e propria soprattutto delle avanguardie afroamericane si confronta e dialoga con le più acute sperimentazioni in campo sonoro proprie della colta musica contemporanea. In buona sostanza si tratta di una sfida aperta che la Naibo affronta forte di una solidissima preparazione tecnica e, probabilmente quel che più conta, con una straordinaria lucidità che le consente di andare avanti per la sua strada alla ricerca di forme espressive assolutamente nuove ed originali. Qualcuno ha voluto paragonare la Naibo alla Mary Halvorson, parallelismo a mio avviso forse un po’ troppo frettoloso: aspettiamo e vediamo quel che succede!

Chiara Pastò – “The Other Girl” – Velut Luna
Devo onestamente ammettere che questo album mi ha molto stupito: mi era stato presentato quasi come un disco di musica leggera ed ho invece scoperto un CD raffinato, concepito molto bene, registrato in maniera superlativa (così com’è consolidato costume della Velut Luna e del produttore Marco Lincetto) e che sfugge a qualsivoglia criterio di classificazione …certo escludendo la musica colta e quella contemporanea. Protagonista una vocalist di sicuro spessore quale Chiara Pastò, che può vantare una solida preparazione di base: canto, violino, pianoforte imparati appena adolescente, quindi il conservatorio di Vicenza dove studia con importanti personalità del jazz italiano quali Francesca Bertazzo, Salvatore Maiore, Piero Tonolo, Mauro Beggio, Paolo Birro. I primi passi professionali nel 2018 quando firma un contratto di esclusiva con la casa discografica Velut Luna con cui nel 2019 incide il suo primo disco. Ed ecco ora questo “The Other Girl” in cui la vocalist mette sul tappeto tutto il suo patrimonio musicale in cui è facile individuare echi di Joni Mitchell, Pearl Jam, Fred Bongusto, Mango, Luigi Tenco, Milva, Ornella Vanoni, Francesco De Gregori, Steve Wonder e Dee Dee Bridgewater. Una ricchezza di orizzonti che le consente di affrontare un repertorio non facilissimo composto in massima parte da brani originali con l’eccezione di “Lontano, lontano” di Luigi Tenco e “Cry Me A River” di Arthur Hamilton. Ben coadiuvata da un ensemble di eccellenti professionisti e da un’orchestra d’archi e da ottimi arrangiamenti curati in massima parte da Fabrizio Castania, la Pastò si esprime con grande coerenza lungo tutto l’album, evidenziando una timbrica originale e una grande capacità di interpretare i testi (per altro notevoli) in lingua italiana.

Oscar Pettiford – “Baden-Baden 1959, Karlsruhe 1958” – Jazz Haus
Oscar Pettiford fu uno dei più influenti contrabbassisti della storia del jazz tanto da definire uno stile esecutivo preso a modello da molti strumentisti, senza contare che fu tra i primi ad introdurre il violoncello nel jazz quando i postumi di una frattura al braccio non gli consentivano di suonare il contrabbasso. Questo album lo coglie in un momento particolare della sua carriera. Siamo negli ultimi anni ’50 quando Joachim-Ernst Berendt lo convince a recarsi in uno studio di registrazione di Baden-Baden alla testa di una band che comprende alcuni dei migliori jazzisti europei dell’epoca, come il chitarrista Attila Zoller, il trombettista Dusko Goykovich, il pianista Hans Hammerschmid, il clarinettista Rolf Kühn, mentre da Parigi arrivano il batterista Kenny Clarke e il sassofonista Lucky Thompson. Questa straordinaria formazione incide una decina di brani che sono puntualmente riprodotti in questo album unitamente ad altri sei brani registrati con una formazione leggermente modificata. La musica è davvero di alta qualità: vi consiglio di ascoltare soprattutto “But Not For Me” di George Gershwin impreziosito dal duetto di Pettiford con Goykovich, “The Nearness of You” in cui Hans Koller al sax tenore illustra il tema per poi lasciare campo libero al contrabbasso mentre in “All the Things You Are” Pettiford dimostra la sua straordinaria abilità di violoncellista in veste solistica.

Ferdinando Romano – “Totem” – Losen Records
Il contrabbassista Ferdinando Romano, al suo esordio discografico da leader, è presente da tempo sulla scena jazzistica (in particolare lo ricordiamo con la Rainbow Jazz Orchestra e l’Arcadia Trio assieme a Leonardo Radicchi sax e clarinetto e Giovanni Paolo Liguori batteria). Accanto a questa attività di strumentista jazz Romano affianca una solida formazione classica maturata con il diploma presso il Conservatorio “Luigi Cherubini” di Firenze e il Conservatorio della Svizzera Italiana di Lugano. Proprio grazie a questa preparazione ha avuto modo di segnalarsi anche come compositore in ambito classico-contemporaneo. Tutto ciò si avverte in questo album sia sul repertorio (otto composizioni tutte di Romano) sia sulla prassi esecutiva che vede all’opera un settetto completato da Ralph Alessi alla tromba, Tommaso Iacoviello al flicorno, Simone Alessandrini ai sax (alto e soprano), Nazareno Caputo al vibrafono e marimba, Manuel Magrini al piano e Giovanni Paolo Liguori alla batteria. Tutte le composizioni appaiono ben strutturate, caratterizzate da una intensa ricerca sul piano contrappuntistico e corredate da originali impianti ritmo-armonici e da una tavolozza timbrica di assoluta pertinenza. Ovviamente l’ottima riuscita dell’album è dovuta anche alla presenza di ottimi solisti tra cui, ancora una volta, si segnala Ralph Alessi la cui tromba disegna alcuni dei passaggi più interessanti dell’intero album. Tutto ciò senza dimenticare il fondamentale apporto del leader che si mette in luce già a partire dal brano d’apertura “The Gecko” in un trascinante dialogo con la marimba di Nazareno Caputo, mentre nel successivo “Evocation” il contrabbassista si esprime in splendida solitudine.

John Scofield – “Swallow Tales” – ECM
Come enunciato chiaramente nel titolo, questo album è un esplicito omaggio che il chitarrista di Dayton dedica all’amico e mentore Steve Swallow, con la riproposizione di nove brani del bassista. L’incisione, effettuata in uno studio di New York, risale al marzo del 2019 e Scofield suona in trio con Bill Stewart alla batteria e lo stesso Steve Swallow al basso. Insomma un incontro al vertice tra alcuni dei massimi esponenti del jazz di oggi, dal batterista Bill Stewart già compagno di Scofield in quella prestigiosa band che tanti successi ottenne tra il ’90 e il ’95, a Swallow prestigioso strumentista e compositore già compagno d’avventura di nomi assai prestigiosi come Carla Bley, Jimmy Giuffre, João Gilberto, Chick Corea, Gary Burton, Jack DeJohnette…per finire con Scofield unanimemente considerato uno dei massimi esponenti della chitarra jazz. Che tra Scofield e Swallow ci sia una profonda amicizia e una reciproca profonda stima non c’è alcun dubbio e questo legame, profondo, si avverte nell’album in oggetto. I due dialogano perfettamente, alternando improvvisazione e scrittura, con una levità non comune sicché la musica scorre fluida tanto da poter apparire, ad un ascolto superficiale, semplice. Citare qualche brano, particolarmente meritevole, è impresa impossibile dato che tutti meritano un ascolto attento…tuttavia se proprio devo farlo, mi piacerebbe che ascoltaste con mente e cuore aperto “Away” un vero e proprio gioiellino di grazia e capacità esecutiva.

Ermanno Maria Signorelli – “Silence” – Caligola
Accade, alle volte, che ammirato un artista sulla scena ce ne facciamo un’ idea che poi viene smentita quando il personaggio lo conosciamo da vicino, nella vita reale. Ecco, con Ermanno Maria Signorelli ciò non può accadere. Lo conosco da molti anni e nonostante ci siamo visti poche volte, lo sento particolarmente vicino in quanto la sua musica è lo specchio del suo essere. Lui è una persona gentile, colta, misurata, mai sopra le righe e mai banale…così la sua musica è fresca, originale, misurata, sempre rivolta ad esprimere l’animo dell’artista piuttosto che la sua preparazione tecnica, scevra da qualsivoglia esercizio muscolare. A questa sorta di regola non fa eccezione «Silence», secondo album di un trio nato nel 2004 e completato da Ares Tavolazzi al contrabbasso e Lele Barbieri alla batteria. Il CD esce sei anni dopo «3» (Blue Serge) e presenta sette composizioni originali del leader, uno standard (“Nardis” di Miles Davis) e la rivisitazione, assolutamente straordinaria, della celeberrima “Arietta” di Edvard Grieg. Ascoltando l’album si ha la netta sensazione di essere trasportati in un altrove dove il sussurrare, il non alzare i volumi, l’intimità la fanno da padroni, clima determinato anche dal fatto che, come loro consuetudine, i tre suonano rigorosamente acustico. Non a caso lo stesso leader, napoletano di nascita ma padovano d’adozione, scrive nelle note di copertina: “Dove tutti urlano non c’è voce che basti per farsi sentire; nella valle solitaria un usignolo è concerto”. E’ una musica, quindi, assolutamente originale che denota quanto tutti e tre gli artisti siano attenti a ciò che li circonda dandone un’interpretazione assolutamente personale.

Giannicola Spezzigu – “Voices of the Stones” – Caligola
Il batterista Marcello Molinari è leader di un quartetto attivo oramai da qualche tempo e dalla sua posizione ha lanciato il progetto di realizzare un disco a nome di ciascuno dei suoi componenti, che possono così esprimere le proprie potenzialità sia come leader, sia come compositori, Questa volta tocca al contrabbassista sardo, ma bolognese d’adozione, Giannicola Spezzigu, con Claudio Vignali al pianoforte e Andrea Ferrario al sax tenore a completare il quartetto, cui si aggiunge come special guest il trombettista Arne Hiorth in “Dimension of Emptiness”. In repertorio otto brani di cui sei composti dallo stesso Spezzigu e due da Andrea Ferrario. Il clima prevalente è quello di un ricercato lirismo che pervade tutti i pezzi ad eccezione del blues di “Souls Around”, di Andrea Ferrario, giocato su ritmi più accesi. Notevole “A Short Story” che evidenzia la bravura del leader che privilegia la bellezza e pienezza del suono al fraseggio molto articolato mentre nel già citato “Dimension of Emptiness” la tromba del norvegese Arne Hiorth (già accanto ad artisti di fama mondiale come Mari Boine, Anja Garbarek e Bjørn Eidsvåg) dà al tutto un tocco di preziosa struggente malinconia; notevole in questo brano anche l’assolo del leader.

Antonella Vitale – “Segni Invisibili” – Filibusta
Una Vitale inedita quella che si ascolta in questa nuova produzione. Dopo aver cantato jazz senza se e senza ma per lungo tempo, la vocalist romana si è concessa una sorta di evasione ma con esiti che non esito a definire più che positivi. Quindi cambio di organico: non più il quartetto di sole donne ma un quintetto completato da Gianluca Massetti piano e tastiere, Andrea Colella contrabbasso, Francesco De Rubeis batteria e percussioni e Danielle Di Majo sax soprano, alto e flauto. Mutamenti sostanziali anche nel repertorio: niente più standard jazzistici ma una serie di composizioni della stessa Vitale tenuti per lungo tempo nel cassetto con l’aggiunta di due splendidi brani tratti dal repertorio pop italiano, “Tu non mi basti mai” di Lucio Dalla e “Per me è importante” di Zampaglione, Triolo, Pesce, portato al successo da Tiromancino; quest’ultimo pezzo è stato registrato nel periodo del lockdown insieme a Massetti nelle rispettive case. Al cospetto di un repertorio per lei inedito, la Vitale ha scelto di immergersi totalmente nell’universo musicale che l’ha accompagnata nel corso della sua vita, quindi non solo jazz, ma anche rock, pop di qualità, musica d’autore, musica classica… servendosi di una vocalità sempre al servizio di una sincera espressività. Bisogna aggiungere che un tale risultato non sarebbe stato possibile senza gli ottimi arrangiamenti di Gianluca Massetti e senza la bravura dei singoli musicisti che hanno trovato, tutti, il giusto spazio. Così da apprezzare Colella in “Amara” chiuso da una pertinente citazione dall’Adagietto della Sinfonia n.5 di Mahler, la Di Majo superlativa nella title track mentre l’apporto ritmico di De Rubeis è stato preciso e spesso trascinante. Comunque in primo piano resta la Vitale particolarmente brava, a mio avviso, nel rendere bene un piccolo capolavoro quale “Tu non mi basti mai” e perfettamente in palla in tutte le altre esecuzioni.

We Kids Quintet – “We Kids Quintet” – abeat
I “Kids” del ‘patriarca’ Stefano Bagnoli cambiano ancora volto ma questo non ha influito sul livello qualitativo della famiglia. E così anche quest’ultimo CD si iscrive di diritto tra le tante belle cose realizzate dal batterista, nell’occasione affiancato da Giuseppe Vitale (pianoforte), Stefano Zambon (contrabbasso), e da due indiscussi talenti da lui scoperti di recente, i fratelli siciliani, Matteo Cutello (tromba) e Giovanni Cutello (sax), particolarmente efficace quest’ultimo in “Work 3”. In repertorio dieci brani, più un bonus track, tutti scritti dai componenti il gruppo. Realizzato con il sostegno di MiBACT e SIAE nell’ambito del programma “Per chi crea”, l’album è stato registrato presso Il Pollaio Studio (Ronco Biellese) nei primi giorni del gennaio di questo 2020. Le tracce del disco si ascoltano tutte d’un fiato, in quanto la musica ti cattura sin dal primo istante tale e tanta è l’energia che il gruppo riesce a sprigionare. La tecnica esecutiva è impeccabile, la bravura dei singoli manifesta in ognuno degli assolo che si ascoltano, ottimo il materiale su cui il quintetto si misura: composizioni originali, ben studiate in cui pagina scritta e improvvisazione si bilanciano correttamente. Tra tutti continua a spiccare il leader, Stefano “Brushman” Bagnoli, efficace sia dietro i tamburi, sia nel dirigere il gruppo, sia nel fornire allo stesso due dei migliori brani del disco, “Epigrafe” in apertura e “Salieri” in chiusura prima del bonus track.
Senza dimenticare, come si accennava in precedenza, la scoperta dei fratelli siciliani che conferma le sue doti anche di eccellente talent scout.

Martin Wind – “White Noise” – Laika Records
E’ uscito il 28 agosto l’undicesimo album del contrabbassista e compositore tedesco, Martin Wind, da 25 anni sulla scena newyorkese. Edito dalla Laika Records, “White Noise” vede accanto al contrabbassista due grandi personaggi del jazz europeo quali il chitarrista Philip Catherine ed il flicornista e trombettista olandese Ack van Rooyen. In repertorio otto brani composti in prevalenza da Wind e van Rooyen cui si aggiungono alcuni standard di Kenny Wheeler, Cole Porter, Jimmy Van Heusen e Jule Styne. Il trio, orfano di uno strumento armonico, si muove lungo una direttrice ben chiara: eliminare qualsivoglia esibizione di mero tecnicismo, suonare quasi per sottrazione a enfatizzare un concetto che viene esplicitato dallo stesso leader: “Il silenzio è diventato sempre più un lusso, con “White Noise” ho voluto creare un polo acustico opposto. Una sorta di oasi sonora in cui il pubblico può rilassarsi e godere la musica fino alla sua massima espressione”. Obiettivo raggiunto? Direi proprio di sì. Intendiamoci: nulla di particolarmente nuovo sotto il sole, ma una musica “melodica” eseguita con sincera partecipazione dai tre artisti i cui strumenti si fondono in un unicum spesso di rara bellezza. Si ascolti, ad esempio, la title track caratterizzato da un clima di soffusa malinconia in cui spicca una superba prestazione di Philip Catherine che fa cantare la sua chitarra con effetti di riverbero e distorsione.