I nostri CD

I NOSTRI CD

a proposito di jazz - i nostri cd

Jon Balke Siwan – “Hafla” – ECM
A distanza di tanti secoli ancora sopravvive il mito di Al-Andalus ovvero di quella Spagna medievale musulmana, in cui sotto la guida di colti principi arabi, musulmani, ebrei e cristiani vivevano tutti insieme senza distinzione alcuna di razza e/o di religione. Ecco, questo mito viene ora riattualizzato dalla musica di Siwan, il collettivo musicale transculturale e trans-idiomatico guidato dal tastierista e compositore norvegese Jon Balke, giunto al suo terzo album dedicato alla materia in oggetto. Questa volta uno accanto all’altro troviamo un musicista kemençe turco (Derya Turkan), un maestro iraniano del tombak (Pedram Khavar Zamini), un batterista norvegese di aperte vedute (Helge Norbakken), una nutrita sezione di archi specialisti del barocco guidata da Bjarte Ejke e una cantante algerina, Mona Boutchebak, che interpreta testi e di Wallada bint al-Mustakfi, la principessa omayyade di Cordoba dell’XI secolo e di altri poeti a lei contemporanei quali Ibn Zaydun (1003-1071, suo appassionato amante)  e Ibn Sara As-Santarini (1043-1123). L’album non si presta ad un semplice ascolto né tanto meno ad una facile lettura. Si tratta di musica complessa, caratterizzata da un contesto in cui le parole hanno un peso spesso importante, e da un inusuale impasto sonoro determinato dalla coesistenza di strumenti che appartengono a mondi culturali diversi. Il leader tenta di assemblare il tutto con l’ impegno e la passione che gli sono propri, anche se il risultato non sempre è dei migliori.

Flavio Boltro, Fabio Giachino – “Things to Say” – Cam Jazz
Suonare in duo è sempre molto impegnativo, forse più della prova in solitario. Il fatto è che quando ci si esibisce in due occorre che i musicisti si conoscano molto bene e riescano così a precedere le intenzioni l’uno dell’altro sì da assicurare alla musica una fluidità che non conosce intoppi. Ecco, tutto ciò lo si ritrova in questo album interpretato da due grandi jazzisti italiani. Flavio Boltro (classe 1961) è artista oramai maturo che ha raggiunto una perfetta padronanza dello strumento il che gli consente di evidenziare un bel suono, pieno, ricco supportato da un fraseggio mai fine a se stesso e da una indubbia capacità di intonare suadenti linee melodiche. Giachino (classe 1986) è un pianista che ha conquistato pubblico e critica grazie ad uno stile raffinato in cui sottile ironia e padronanza della dinamica si coniugano mirabilmente, il tutto declinato con una personale dimensione dello spazio (lo si ascolti in “Prelude to Salina”). In programma un repertorio tutto composto da original a firma soprattutto di Fabio Giachino il che conferma vieppiù la maturità di questo pianista. Di qui una musica che scorre fluida caratterizzata spesso da notevole intensità emotiva e soprattutto da una perfetta intesa tra i due musicisti che, pur proveniendo da ambienti diversi, riescono a fondere le loro esperienze in un unicum raffinato. Ed è una sensazione che si percepisce immediatamente sin dall’ascolto del primo brano in programma, “Piccola Nina” di Flavio Boltro, sino a quel “Spicy Blues” ancora di Boltro che chiude l’album.

Avishai Cohen – “Naked Truth” – ECM

Tra le stelle di primaria grandezza che rifulgono nel panorama jazzistico internazionale, un suo posto di rilievo ce l’ha sicuramente il trombettista israeliano Avishai Cohen. Registrato negli Studios La Buissonne a Pernes-les-Fontaines nel Sud della Francia, nel settembre del 2021, sotto la produzione ECM, l’album ci consegna un Cohen sotto certi aspetti inediti. Abbandonate le atmosfere “elettriche” del precedente album, il trombettista si consegna al suo pubblico in estrema sincerità, con una musica tutta giocata sul coté dell’intimismo e declinata attraverso otto parti di una lunga suite intitolata “Naked Truth” e da un brano conclusivo, “Departure”. Avishai suona con la perizia che ben conosciamo ma è l’atmosfera generale dell’album che, come si diceva, lo proietta in una luce diversa. Perfettamente coadiuvato da Yonathan Avishai al piano, dal bassista Barak Mori e dal batterista Ziv Ravitz, il leader disegna una sorta di percorso che si snoda coerentemente quasi illustrando vari stati d’animo. Così si passa da pezzi di chiara impronta crepuscolare a frammenti in cui la tromba pare schiarirsi e aprirsi ad orizzonti più rosei fino a sfiorare il clima tipico delle ballad.
Da sottolineare come, accanto al leader, suona uno splendido Yonathan Avishai il cui pianoforte si pone come autentico alter-ego del leader prendendo egli stesso in mano il pallino del discorso (si ascolti al riguardo la convincente Part.V).
Come si accennava, il disco si chiude con la poesia “Departure”, dell’autrice israeliana Zelda Schneurson Mishkovsky (1914.1984), recitata dallo stesso Cohen sul tappeto strumentale degli altri musicisti.

Claudio Cojaniz – “Orfani” – Caligola

Poeta della tastiera. Così mi sento di definire Claudio Cojaniz dopo l’ascolto di questo bell’album registrato nell’aprile del 2021 a Treviso dall’oramai rodato quartetto del pianista completato da un sempre straordinario Alessandro Turchet al contrabbasso (a mio avviso uno dei migliori bassisti italiani), Luca Colussi alla batteria e Luca Grizzo percussioni. In repertorio sette composizioni dello stesso Cojaniz. Conosco Claudio oramai da tanti anni ma francamente non so dire con precisione a quali “orfani” si riferisce. Orfani di cosa? Di chi? Personalmente ho avvertito, comunque, nella musica di Cojaniz una sorta di dolore di fondo, di grande malinconia come se l’artista volesse farci riflettere sui tanti guai che in questo momento affliggono l’umanità. Certo, non ci si riferisce alla guerra ché l’album è stato inciso prima, ma resta egualmente la sensazione di un disagio, di un modo di vedere una realtà che non ci piace più di tanto. Ecco, penso che in questo caso il riferimento al blues, non tanto come struttura, ma come musica che rispecchia uno stato d’animo, sia assolutamente presente. E la cosa non stupisce più di tanto ove si tenga presente da un canto la lunga militanza di Cojaniz nell’ambito del jazz (il suo pianismo è ancora una volta coerente, del tutto idoneo alle sue volontà espressive), dall’altro i frequenti richiami africaneggianti che il musicista ha già fatto nei precedenti lavori. Insomma un artista che dimostra, ancora una volta, una profonda conoscenza del linguaggio jazzistico non solo dal punto di vista musicale ma anche da ciò che questo linguaggio ha rappresentato – e ancora oggi rappresenta – per le popolazioni di colore negli States…e non solo.

Lorenzo De Finti Quartet – “Mysterium Lunae” – Losen

Strano ma vero, un quartetto italiano che incide per una etichetta norvegese e non è la prima volta dato che il pianista Lorenzo De Finti ha già inciso per la Losen altri due album. Ma veniamo a quest’ultimo “Mysterium Lunae” registrato a Torino nei primi tre giorni del luglio 2021. Per quest’ultima fatica discografica, il gruppo si è arricchito di un prestigioso elemento, il trombettista e flicornista Alberto Mandarini unanimemente considerato musicista a 360 gradi. A completare il gruppo Stefano Dall’Ora al basso e Marco Castiglioni alla batteria. In programma sei brani firmati congiuntamente da De Fanti e Dall’Ora. De Finti è musicista di larga esperienza avendo suonato in orchestre sinfoniche, nella celebrata Instabile Orchestra e accanto a Paolo Conte in molte tournées. Ciò gli ha permesso di elaborare un proprio stile caratterizzato da un sound originale e dalla capacità di scavare a fondo in ogni composizione per trarne ogni possibile implicazione. E tutto ciò si evince dall’ascolto dell’album in oggetto che si apre con la composizione forse più interessante, “Mysterium Lunae”, che si richiama espressamente all’antica metafora per cui un oggetto freddo può diventare fonte di bellezza riflettendo, però, una luce più grande proveniente da qualcos’altro. Ecco quindi questo vero e proprio richiamo alla speranza, sentimento che nel corso della pandemia (periodo in cui è stato registrato il CD) purtroppo è andato quasi perso. Ma i quattro non si limitano a focalizzare uno stato d’animo ché l’album prosegue con una serie di atmosfere cangianti grazie all’attento uso dei colori e delle dinamiche che appaiono già patrimonio consolidato del quartetto.

Joey DeFrancesco – “More Music” – Mack Avenue
Non c’è dubbio alcuno che tra quanti suonano ancora oggi l’organo Hammond Joey DeFrancesco sia tra i più bravi. Ma il nostro non si limita a maneggiare con maestria l’organo dal momento che suona bene anche la tromba, il sax tenore, le tastiere e il piano. E ce ne dà prova in questo album in cui presenta undici composizioni (ben dieci a sua firma) in cui, accompagnato da una ritmica composta da Michael Ode alla batteria e Lucas Brown chitarra, organo e tastiere, si diverte ad evidenziare il suo multistrumentismo. E lo fa già in apertura interpretando alla tromba il brano “Free” che, a scanso di equivoci, nulla a che vedere ha con il free jazz. Eccolo ancora alla tromba nel blues “Where to Go”, mentre nelle due ballads, “Lady G” ed “Angel Calling”, si misura con il sax tenore… ma tutto ciò non sarebbe stato sufficiente senza un brano cantato… e voila “And If You Please”, cosicché in alcuni brani l’Hammond B3 viene suonato da Lucas Brown, anch’egli polistrumentista di assoluto livello. Da quanto sin qui detto risulta abbastanza evidente come tutto l’album sia all’insegna della gioia di suonare, di poter eseguire senza tema di essere criticati la musica che piace. Certo, se ci si dovesse poi chiedere in quale veste preferiamo Joey, la risposta non può che essere una ed una sola: all’organo Hammond di cui DeFrancesco rimane uno straordinario interprete, capace di trarre dallo strumento tutta una serie di nuances, di sfumature che pochi altri sanno imitare.

Kit Downes – “Vermillion” – ECM
Dopo i suoi due precedenti album per ECM, “Dreamlife of Debris” del 2019 e “Obsidian” del 2017 in cui suonava un organo da chiesa a canne, il musicista inglese Kit Downes si ripresenta alla testa di un classico piano-trio coadiuvato dallo svedese Petter Edh già ammirato nel trio di Django Bates al contrabbasso e il britannico James Maddren alla batteria. In realtà al momento della registrazione di questo album, i tre si conoscevano già bene avendo suonato assieme sotto l’insegna di Trio Enemy. Questo “Vermillion” risente molto della formazione musicale del leader: abituato a frequentare quasi indistintamente territori classici, moderni e jazzistici, il pianista infonde alla sua musica uno spirito affatto particolare che la pone piuttosto lontana da ciò che normalmente si immagina debba essere un trio di jazz. In effetti qui non troviamo una continua pulsazione ritmica, né linee melodiche facilmente identificabili ma un flusso costante di musica tutta giocata su toni meditativi. Ovviamente – Evans insegna – non c’è alcuna gerarchia fra i tre strumenti che dialogano su un piano di assoluta parità alla ricerca di un’espressività interiore che mai viene meno. Di qui la sensazione, non si sa bene quanto veritiera, che la scrittura la faccia da padrona sull’improvvisazione. Insomma una sorta di viaggio introspettivo declinato attraverso dieci composizioni di pianista e contrabbassista e la cover di Jimi Hendrix, “Castles Made of Sand” tratto da “Axis: bold as Love” del 1967che chiude meravigliosamente l’album.

Mathias Eick – “When We Leave” – ECM
Il trombettista Mathias Eick è uno di quei musicisti che mai ti delude. Ogni suo album è una summa di quel che oggi dovrebbe rappresentare, a nostro avviso, la figura del jazzista, vale a dire un musicista che pur conoscendo perfettamente la tradizione, volge lo sguardo al futuro. E lo fa con la piena consapevolezza dei propri mezzi espressivi. Ingredienti, questi, che si ritrovano appieno in “When We Leave” registrato a Oslo nell’agosto 2020 da un organico piuttosto ampio guidato da Mathias Eick (nell’occasione anche alle tastiere) e completato da Andreas Ulvo al piano, dal bassista Audun Erlien, da Hakon Aase violino e percussioni, dai due batteristi e percussionisti Torstein Lofthus e Helge Andreas Norbakken e dal chitarrista Stian Carstensen il cui apporto risulta tutt’altro che secondario. Come abbiamo già avuto modo di apprezzare nei suoi precedenti lavori, la musica di Eick si mantiene su atmosfere intimiste, malinconiche, declinata attraverso il fitto colloquio dei musicisti che sembrano aderire perfettamente a quelle che sono le linee guida dettate dal leader. Di qui una insieme di linee melodiche sempre riconoscibili, un perfetto controllo del ritmo ben supportato da una sezione quanto mai precisa ed efficiente, ed un gioco sulle dinamiche che spesso si fa apprezzare per la sua originalità. Tra i vari strumentisti precedentemente citati, da sottolineare ancora una volta la prova del violinista Hakon Aase che oltre ad eseguire spesso il tema all’unisono con la tromba del leader, si produce in pregevoli assolo. Ma il fulcro di tutto è sempre lui, Mathias Eick il cui strumento si staglia sempre preciso, puntuale, così come le sue capacità compositive dato che tutti i brani dell’album sono dovuti alla sua penna.

Antonio Flinta – “Secrets of a Kiri Tree” – Autoprod.
Sono passati circa due anni da quando, discutendo con Antonio Flinta, gli chiesi come mai non si fosse ancora cimentato al piano-solo dopo una intensa carriera. Antonio mi rispose che l’avrebbe fatto solo se si fosse sentito pronto. Il momento è arrivato ed ecco questo “Secrets of a Kiri Tree” in cui il pianista cileno ci spinge a guardarci nel profondo, a riscoprire quel che abbiamo dentro, anche se per farlo probabilmente abbiamo bisogno di qualcuno che si spinga in tal senso. E per ottenere tale scopo Flinta sceglie un repertorio tanto vasto quanto difficile. Ecco quindi Paco de Lucia con “Cancion de amor”, accanto a George Fragos (“I Hear a Rhapsody”), la straordinaria Violeta Parra (“Gracias a la vida”) assieme al gigante del jazz Thelonious Monk (”’Round Midnight”) il tutto completato da tre originals di Antonio. A nostro avviso il meglio dell’album lo si ritrova nelle composizioni dello stesso pianista. Scevro da qualsivoglia preoccupazione se non quella di lasciarsi andare al proprio istinto, Flinta inanella una serie di improvvisazioni davvero notevoli in cui mai si perde il filo del discorso tanto è solida la base su cui l’artista costruisce i suoi edifici musicali. Così risulta quanto mai arduo distinguere le parti improvvisate da quelle scritte, ammesso poi che la cosa abbia un minimo di importanza. Così il pianismo di Flinta scorre fluido sicuro, lucido, essenziale, mai sovracaricato di orpelli inutili e pur tuttavia sempre in grado di incuriosire l’ascoltatore. Quanto agli altri brani, abbiamo particolarmente apprezzato la versione di “Gracias a la vida” che conserva intatta la sua dolce e malinconica linea melodica.

Tord Gustavsen – “Opening” – ECM
Ancora un piano-trio questa volta di marca norvegese. A costituirlo sono infatti il pianista Tord Gustavsen, il contrabbassista Steinar Raknes (responsabile anche di un sapiente e sobrio uso dell’elettronica) e il batterista Jarle Vespestad ovvero tre dei migliori musicisti che il panorama jazz norvegese possa oggi offrire. E il risultato è in effetti di grande rilevanza. Certo non scopriamo in questa sede lo straordinario talento del pianista, ma fa immenso piacere constatare come uno dopo l’altro tutti i lavori di Tord si mantengano su un livello di assoluta eccellenza. In programma, questa volta, dodici brani di cui nove a firma del leader cui si aggiungono un brano traditional e due pezzi firmati rispettivamente da Geir Tveitt – figura centrale del movimento culturale norvegese negli anni ’30 – e da Egil Hovland, compositore classico che si formò studiando tra gli altri con Aaron Copland e a Firenze con Luigi Dallapiccola. E da queste poche note si può già comprendere quanto ampio sia l’universo musicale di riferimento di Gustavsen e quindi dell’intero trio. Di qui una musica saldamente ancorata al patrimonio norvegese, e nordico più in generale. Ecco quindi la rivisitazione, già al secondo pezzo, di un brano abbastanza celebrato in Svezia, “Visa från Rättvik” (Vista dalla città di Rättvik), già inserito da Jan Johansson – uno tra i più grandi pianisti svedesi di cui Gustavsen ha dichiarato di sentire l’influenza – nell’album del 1964, “Jazz pa Svenska”, album che all’epoca vendette la stratosferica cifra di 250.000 copie. Gustavsen stravolge il pezzo rendendolo praticamente suo e lo stesso fa per tutta la durata dell’album mai offrendo musica banale o scontata. Si ascolti, ad esempio, il suo modo di intendere il tango in “Helensburgh Tango”, lontano che più non si potrebbe dalle atmosfere tipiche tanguere. Splendida la versione di “Var Sterk, Min Sjel” assolutamente rispettosa dell’originale del già citato Egil Hovland.
Roberto Laneri – “Musica finta / Blue Prints” – Da Vinci Classics
Roberto Laneri – “South of No Border” – Black Sweat Records
Il polistrumentista Roberto Laneri si ripresenta con due album registrati rispettivamente nel 1998 e in un arco temporale che va dal 2014 al 2018. Ma procediamo con ordine. “Musica finta / Blue Prints”, registrato come si diceva nel 1998 ma pubblicato solo nei primi mesi del 2020, va inquadrato correttamente grazie al sottotitolo “A Study in Metamusicology”. Si tratta, cioè, di un album assai complesso, di lettura difficile, in cui Laneri – come egli stesso afferma, suonando al sax soprano alcuni rags di Scott Joplin ha provato ad introdurre dei cambiamenti nel testo, dapprima minimi, poi sempre più articolati, fino ad arrivare alla composizione di pezzi autonomi e paralleli, da suonarsi assieme ai pezzi originali. “L’effetto di questa estremizzazione – aggiunge Laneri – è paragonabile alle prospettive impossibili di Escher, oppure ai disegni tridimensionali generati al computer, dai quali possono emergere immagini complementari eppur assai diverse da quelle immediatamente apparenti”. Fin qui le premesse metodologiche. Ma il risultato musicale? Laneri presenta composizioni originali, unite a quelle di Schumann, Schubert ma anche Joplin e Jelly Roll Morton. Quindi linguaggi differenti ricondotti ad unità per una sorta di opera di ampio respiro divisa in cinque capitoli. Per questa impresa Laneri (sax soprano, sampling e sound treatment) ha chiamato accanto a sé la pianista Maria Jolanda Masciovecchio e Alan Ferry come spoken voice.
“South of No Border” (come si diceva registrato tra il 2014 e il 2018 ma anch’esso pubblicato poche settimane fa) vede Roberto Laneri (clarinetto, clarinetto basso, sax sopranino, sax soprano e alto, didjeridoo, shruti box, voce e percussioni) alla testa di un gruppo comprendente Giuppi Paone voce, Raffaela Siniscalchi voce, Eleonora Vulpiani chitarra, Luigi Polsini contrabbasso e Laugi Marino zarb. Contrariamente al primo album, in questo caso il repertorio è come una sorta di finestra affacciata sulle musiche del mondo. Ecco, quindi, dopo l’apertura affidata alle melodie orientaleggianti di “Malia” (scritta da Laneri), il choro brasiliano “Tico-Tico no fubá” (scritto da Zequinha de Abreu nel 1917, accanto al bolero cubano “Contigo En La Distancia” scritto dal cantautore César Portillo de la Luz quando aveva 24 anni nel 1946, il tutto impreziosito da 4 original del leader. A confronto con un tale repertorio, Laneri dà ancora una volta prova non solo della sua indiscussa preparazione tecnica ma anche della profonda conoscenza del panorama musicale internazionale. Le sue interpretazioni risultano, quindi, assolutamente pertinenti: traendo feconda ispirazione da svariate tradizioni, riesce a produrre una sintesi che non conosce confini geografici grazie ad una concezione visionaria della musica senza barriere. Insomma un disco originale nella concezione e nell’esecuzione.

Roberto Magris – “Match Point” – JMood /
Roberto Magris – “Duo & Trio” – JMood
Tra i musicisti che riescono a conservare un alto livello delle proprie produzioni, lavorando in ambedue le sponte dell’Atlantico, c’è sicuramente il pianista Roberto Magris di cui segnaliamo due nuove uscite. Il primo – “Match Point” – registrato a Miami l’8 dicembre del 2018, è stato a ben ragione considerato da critici statunitensi come uno degli album più interessanti pubblicati negli ultimi mesi.  “Match Point” vede il pianista triestino alla testa di un quartetto dai mille colori completato dal cubano Alfredo Chacon al vibrafono e percussioni, dal batterista Rodolfo Zunica proveniente dal Costa Rica e dallo statunitense Dion Kerr al basso. In repertorio otto brani equamente divisi tra composizioni dello stesso Magris e brani di giganti della tastiera quali Richard Kermode tastierista americano, noto soprattutto per essersi esibito con Janis Joplin, Malo e Santana, McCoy Tyner, Thelonious Monk, Randy Weston. Da quanto sin qui detto è già possibile avere un’idea della musica che Magris ci propone, una musica che, saldamente ancorata alla produzione, presenta quel tocco di “latino” che impreziosisce il tutto. Al riguardo basti ascoltare “Caban Bamboo Highlife” di Randy Weston, uno dei jazzisti preferiti da Magris, con Chacon e Zuniga in grande evidenza.
In “Duo & Trio” Magris adotta una formula diversa esibendosi in sei brani in duo con il sassofonista Mark Colby e in cinque pezzi in gruppo con Elisa Pruett al basso, Brian Steever alla batteria mentre Pablo Sanhueza alle congas  è presente solo in “Melody for C” di Sonny Clark e “Samba Rasta” di Andrew Hill. Per il resto i compositori visitati da Magris fanno parte dell’Olimpo della musica quali Elmo Hope, Bernstein, Ray Noble, Shuman, Kurt Weill; il tutto completato, come al solito, da alcune composizioni dello stesso Magris. L’ascolto dell’album lascia pienamente soddisfatti per almeno due ordini di motivi: innanzitutto la straordinaria maestria di Roberto Magris che, dall’alto della sua immensa preparazione pianistica, affronta con estrema disinvoltura partiture assai diversificate tra di loro (eccolo intimista e toccante in “Old Folks”, classico nell’accezione più completa del termine in “Cherokee”, trascinante improvvisatore in “Melody for C”); in secondo luogo per la scelta di collaboratori sempre di livello. Da segnalare, in questa occasione il lavoro del sassofonista Mark Colby che sia al tenore sia al soprano evidenzia una forte personalità scevra da qualsivoglia intento di stupire chi ti ascolta.

Dino & Franco Piana Ensemble – “Reflections” –Alfa Music

Attualmente l’ensemble diretto dalla premiata ditta “Dino & Franco Piana” è una delle migliori formazioni del jazz attuale. Ciò anche perché nel suo ambito, oltre ai citati leader, figurano artisti di grande spessore quali la pianista Stefania Tallini, il bassista Dario Deidda e il batterista Roberto Gatto. In quest’ultima fatica discografica il gruppo è affiancato dalla B.i.m. Orchestra mentre il repertorio comprende dieci brani di cui ben sei composti da Franco Piana (altresì flicornista e arrangiatore del gruppo), altri due original dovuti rispettivamente a Lorenzo Corsi e Stefania Tallini e due standard, “Skylark” di Hoagy Carmichael e “Embraceable You” di George Gershwin. Il progetto nasce durante il lockdown dalle riflessioni dei due leader che hanno focalizzato l’attenzione sulle molteplici possibilità d’espressione che i vari organici possono offrire. Di qui il far ricorso, per ogni brano, ad un organico diverso. Si inizia così da “Skylark”, suonato dal trombone di Dino Piana in solo, passando poi a brani in duo – trio – quartetto – quintetto – sestetto, fino ad arrivare ad arrangiamenti per quartetto d’archi (B.i.m. Orchestra), 4 flauti, piano e flicorno. Come le precedenti prove dei Piana, anche questo album entra di diritto tra i migliori album di jazz italiano pubblicati negli ultimi mesi in quanto la bellezza dei temi è supportata e valorizzata da arrangiamenti ben strutturati e altrettanto ben eseguiti da una formazione che presenta anche individualità di tutto rispetto. Senza dimenticare i due leader – di cui comunque spesse volte abbiamo tessuto le lodi – bisogna sottolineare l’apporto di Stefania Tallini che si conferma jazzista a tutto tondo capace sia di sviluppare suadenti linee melodiche sia di imporre un ritmo preciso e coinvolgente (la si ascolti in “D and F”). Ma la citazione di questo brano è solo un esempio ché tutto l’album merita di essere ascoltato.

Valentina Ranalli, Enrico Pieranunzi – “Cantare Pieranunzi” – Alfa Music
Enrico Pieranunzi Quintet – “The Extra Something” – Cam Jazz
Quasi contemporaneamente sono usciti due pregevoli album che vedono impegnato Enrico Pieranunzi. Nel primo – “Cantare Pieranunzi” – il pianista romano si presenta nella triplice veste di leader dello Youth Project (con Giuseppe Romagnoli al basso, Cesare Mangiocavallo alla batteria e Giacomo Serino alla tromba), compositore e arrangiatore. Il tutto al servizio della vocalist Valentina Ranalli. La genesi dell’album è assai particolare e ce la illustra lo stesso Pieranunzi nelle note che accompagnano il CD: in buona sostanza “Cantare Pieranunzi” è il frutto della tesi di laurea in canto jazz presso il Conservatorio Santa Cecilia di Roma di Valentina Ranalli che ha presentato un lavoro incentrato su pezzi del pianista, cui ha aggiunto le parole in italiano, inglese, francese e napoletano. Incuriosito dall’iniziativa e dopo aver ascoltato la vocalist, Pieranunzi decide di mettere il tutto su disco e bene ha fatto dal momento che l’album è di assoluto livello. Le undici tracce contenute nell’album sono interpretati dalla Ranalli con sincera partecipazione dialogando intensamente con il pianoforte di Enrico: si ascolti, ad esempio, “You Know”. Ma è tutta la performance della cantante che convince e che fa ottimamente sperare per il suo futuro; fra i pezzi da segnalare “Suspension points” fatto di poche note ma di tanta emozione, e “Persona” in cui la Ranalli si trova particolarmente a suo agio esprimendosi nella lingua della sua terra, il partenopeo.
Completamente diverso il secondo album – “The Extra Something” – registrato live il 13 e 14 gennaio 2016 al Village Vanguard da un quintetto che vedeva il pianista romano in compagnia di Diego Urcola tromba e trombone (semplicemente straordinario nella title tracke), Seamus Blake sax tenore (particolarmente convincente in “Atoms”), Ben Street basso e Adam Cruz batteria. E per quanti seguono il jazz non c’è bisogno di altre parole per sottolineare il valore assoluto della band. Valore assoluto che si evidenzia in tutto il repertorio, sette brani tutti composti dal pianista. Pieranunzi, come spesso gli capita, è in uno stato di grazie e conduce il gruppo con mano sicura, del tutto consapevole dell’intesa che ha raggiunto con i compagni di viaggio. Dal punto di vista compositivo non scopriamo certo oggi il suo senso della struttura che mai l’abbandona, per cui se consideriamo tutti questi elementi si capisce bene perché il ben noto Brian Morton abbia incluso Enrico tra “i più significativi musicisti contemporanei”. Nelle note di copertina Pieranunzi dedica espressamente questo terzo CD Live at The Village Vanguard a Lorraine Gordon in memoriam, senza la quale né questo né i precedenti due si sarebbero potuti realizzare. Ricordiamo per inciso che il pianista romano è forse l’unico musicista italiano nella veste di leader ed uno dei pochissimi europei ad aver suonato nel leggendario jazz club a forma di diamante aperto da Max Gordon nel 1935 al 178 Seventh Avenue South di Manhattan.

Serena Spedicato – “Io che amo solo te” – Dodicilune

Non sempre la bellezza della confezione corrisponde alla bontà del contenuto. In questo caso, la Dodicilune ha realizzato qualcosa di eccellente affidando alla vocalist Serena Spedicato (utilizzata anche come splendida voce narrante) un repertorio per noi italiani impossibile da dimenticare, all’interno di una confezione sobriamente elegante. In realtà Serena Spedicato e lo scrittore Osvaldo Piliego avevano dato vita a questo loro progetto originale come concerto/spettacolo con la regia di Riccardo Lanzarone, che solo successivamente è approdato alla forma libro/cd. Così la Dodicilune ci presenta un prezioso libretto, con la grafica di Marina Damato, autrice delle foto con Maurizio Bizzochetti, e i testi inediti di Osvaldo Piliego che accompagnano dodici brani tra i più belli e rappresentativi del cantautorato italiano, rielaborati in una forma nuova grazie agli arrangiamenti del fisarmonicista Vince Abbracciante coadiuvato da Nando Di Modugno (chitarra classica) e Giorgio Vendola (contrabbasso). Le canzoni proposte appartengono tutte alla cd. “scuola genovese” vale a dire Luigi Tenco, Fabrizio De André, Gino Paoli, Sergio Endrigo, Umberto Bindi, Bruno Lauzi. In buona sostanza tutto il lavoro ruota attorno ai cantautori che sono cresciuti e si sono formati in quel di Genova, ove sul finire degli anni Cinquanta si sviluppò un movimento culturale e artistico che rivoluzionò il mondo della canzone italiana. Ed è proprio questo clima che si respira ascoltando l’album. Molte le positività del lavoro: le centrate interpretazioni della vocalist che evidenzia una musicalità ed una sensibilità non comuni, i testi intelligenti che aiutano (soprattutto i più giovani) a capire ciò che si ascolta, ma soprattutto gli arrangiamenti di Vince Abbracciante che oramai non ne sbaglia una. Misurarsi con dei veri e proprio mostri sacri della musica non è certo impresa facile: ebbene il fisarmonicista ha affrontato l’impresa con passione e professionalità regalandoci degli arrangiamenti che, senza alcunché togliere al fascino originario, hanno rivestito i brani di una patina jazzistica pertinente ed affascinante. Ovviamente più che positiva anche l’apporto di Nando Di Modugno e Giorgio Vendola per un album di sicuro rilievo.

Andrés Thor – Hereby – Losen
Siamo veramente grati alla norvegese Losen Records per la possibilità che ci offre di far conoscere al pubblico italiano dei veri e propri talenti che, non avendo ancora raggiunto fama internazionale, difficilmente raggiungono le nostre platee. E’ il caso del chitarrista islandese Andrés Thor che, giunto al suo settimo album da leader, si presenta al pubblico alla testa di un trio completato dall’altro islandese Magnús Trygvason Eliassen batteria e dal francese Nicolas Moreaux contrabbasso. Quello di Thor è un fraseggio molto personale, pulito, chiaro, senza alcuna pretesa di sperimentalismo o di sensazionalismo. La sua idea di guidare il trio si avvicina molto alla lezione impartita da Bill Evans con Scott LaFaro. Quindi una formazione che si muove su basi paritetiche in cui ognuno può improvvisare ed esprimere la propria personalità all’interno di una cornice ben delineata dalle nove composizioni tutte a firma dello stesso Thor. Da un punto di vista prettamente chitarristico, Thor è chiaramente ispirato da tre grandi esponenti della chitarra jazz – Jim Hall, John Scofield e Pat Metheny – mentre sotto un profilo più generale tra i suoi maggiori interessi figurano rock band come i Led Zeppelin e i Doors nonché Jimi Hendrix e John Coltrane. Come si nota un universo di riferimento assai ampio che Thor dimostra di aver assorbito molto bene soprattutto nel modo in cui costruisce le sue composizioni, dotate tutte di un eccellente senso architettonico e ben arrangiate. Da sottolineare che mentre nei primi sette brani Andrés utilizza la chitarra elettrica, negli ultimi due imbraccia lo strumento acustico senza che ciò influenzi minimamente l’omogeneità dell’album.

Mark Turner – “Return From The Stars” – ECM
Registrato a New York nel novembre del 2019, questo album vede impegnato un quartetto piano-less guidato dal sassofonista Mark Turner e completato da Jason Palmer alla tromba, Joe Martin al contrabbasso e Jonathan Pinson alla batteria. L’album si inserisce in quella nuova corrente musicale che si allontana molto dal jazz mainstream per inserirsi in ciò che si può definire “musica moderna” tout court. Ma, a questo punto, qualcuno potrebbe chiedersi: si tratta ancora di jazz? Lasciamo ad altri la risposta a questo inutile quesito per soffermarci su un altro interrogativo molto più pregnante: si tratta di musica di qualità o no? La risposta non può che essere positiva: si, si tratta di musica di qualità dal momento che risponde ad alcuni requisiti facilmente individuabili. Intendiamo riferirci, innanzitutto, alla natura delle composizioni: Turner scrive benissimo, con perfetto senso delle proporzioni, lasciando ad ognuno dei suoi collaboratori il giusto spazio pur essendo comunque in condizione di ricondurre il discorso ad unità; il tutto corroborato dalla capacità di creare una omogeneità di fondo. Ma ciò sarebbe stato inutile se ad interpretare queste complesse partiture non ci fossero stati dei musicisti completi, preparati. Si ascolti, ad esempio, con quanta pertinenza il trombettista segua il leader nelle sue escursioni o di come il batterista riesca ad inserire il suo drumming nelle complesse trame disegnate dal leader mentre il basso non perde un colpo nel supportare il ritmo del gruppo. Insomma un disco tutto da gustare, per palati raffinati.

Cristina Zavalloni  – “Parlami di me” – Egea

“Parlami di me” è il suggestivo titolo di questo nuovo album dedicato alle musiche di Nino Rota, all’anagrafe Giovanni Rota Rinaldi, scomparso nel 1979 e a ben ragione considerato, a livello mondiale, uno dei massimi esponenti dei compositori che hanno dedicato la loro vita al cinema. Basti ricordare le colonne sonore di quasi tutti i film di Fellini nonché le colonne sonore del Padrino e Il padrino – Parte II vincendo, per quest’ultimo, il Premio Oscar alla migliore colonna sonora. Evidentemente il connubio tra jazz e musiche da film non è certo una novità eppure ogni nuovo album del genere va ascoltato con la massima attenzione data la delicatezza della materia. In effetti estrapolare tale musiche dal contesto per cui sono nate e farne un qualcosa a sé stante è impresa tutt’altro che banale. A cimentarsi con questo difficile compito è ora una delle nostre migliori vocalist, Cristina Zavalloni, accompagnata da quattro musicisti di assoluto livello quali Gabriele Mirabassi al clarinetto, Cristiano Arcelli al sax soprano (nonché responsabile degli ottimi arrangiamenti), Massimo Morganti al trombone e Manuel Magrini al pianoforte, cui si aggiunge il ClaraEnsemble, sestetto costituito da flauto, contrabbasso, due violini, viola e violoncello. Un organico, quindi, piuttosto ampio che si attaglia perfettamente sia alla voce della Zavalloni sia agli arrangiamento di Arcelli. La vocalist entra quasi in punta di piedi nell’universo di Nino Rota, ma subito dopo se ne appropria, lo fa suo e lo reinterpreta con chiavi sempre originali pur nulla perdendo dell’originario fascino. Così riascoltiamo alcune perle del Maestro che hanno stupendamente accompagnato le immagini volute dai più grandi registi italiani da Fellini a Visconti, da Wertmuller a Zeffirelli…Il repertorio dell’album si completa con l’unica canzone scritta integralmente, dalla Zavalloni, “Prova tu”, che si integra perfettamente nel discorso generale portato avanti da “Parlami di me”.

Gerlando Gatto

Presentata al Teatro La Fenice di Venezia la stagione concertistica “Musica con le Ali” 2022

Coltivare giovani talenti e implementare le loro potenzialità e creatività, trasformandole in opportunità per il futuro. Questa, succintamente, la mission di “Musica con le Ali”, sodalizio milanese di patronage artistico che nasce per volere di Carlo Hruby, che ne è presidente, in seno alla Fondazione “Enzo Hruby”.
Venerdì 18 marzo, nelle Sale Apollinee della Fenice di Venezia, stupendamente tappezzate di damasco in stile neoclassico, è stata presentata la quarta edizione della stagione concertistica “Musica con le Ali 2022”, realizzata con l’importante partenariato della Fondazione Teatro La Fenice. Il ricco calendario prevede otto appuntamenti: 24 marzo, 14 aprile, 19 maggio,16 giugno, 6 e 13 ottobre, 10 novembre e 1 dicembre, tutti programmati di giovedì, con inizio alle ore 18. I concerti proposti hanno un nobile denominatore comune, ovvero fornire un’importante esperienza di crescita ai giovani interpreti emergenti, grazie anche al confronto con  alcune figure di spicco della musica classica.
Ha aperto la serie di interventi Fortunato Ortombina, Sovrintendente e Direttore Artistico del Teatro La Fenice – «la casa dei veneziani, nonché il Teatro più bello del mondo» – esprimendo profonda soddisfazione per il rinnovarsi di questa brillante interazione tra impresa e istituzione, essenziale per il futuro della musica, «entità sovrana sulla terra e linguaggio universale che s’impara prima ancora di iniziare a parlare».

Andrea Erri – Direttore Generale del Teatro, parla del rapporto fecondo instauratosi con Musica con le Ali, che condivide il ruolo di funzione sociale della Fenice, non un luogo d’élite ma una struttura aperta e accogliente per i 340.000 visitatori e spettatori che hanno ammirato la bellezza del teatro e premiato le sue proposte artistiche. «Far lavorare i giovani talenti con musicisti di esperienza – afferma Erri – significa trasferire competenze, in una staffetta ideale tra artista affermato e in erba ma con grandi potenzialità per il futuro. Le ali sono uno strumento per volare ma anche per proteggere», richiamando il nome dell’associazione e le sue nobili finalità di patronage artistico.
In chiusura, i ringraziamenti di Carlo Hruby nei confronti dei vertici del Teatro, nel quale Musica con le Ali ha trovato una calorosa e sincera accoglienza per un progetto che ha visto la sua genesi proprio alla Fenice e che posegue grazie ad un’attenta e lungimirante condivisione, in cui il concerto è solo uno tra i tanti strumenti messi a disposizione dall’associazione, che comprendono la partecipazione a festival e rassegne, la produzione di incisioni discografiche con le principali label, il fattivo supporto nella comunicazione e nella promozione dei giovani interpreti anche tramite Radio MCA, la web radio nata nel 2020 e dedicata alla musica e all’arte. I giovani artisti, le cui candidature provengono da Conservatori, Fondazioni e Scuole di Musica, vengono così presi per mano e guidati in un percorso di crescita professionale per valorizzarne il talento, che fornirà loro un prezioso biglietto da visita per intraprendere una carriera internazionale ad alto livello. L’azione di patronage si esaurisce nel momento in cui l’artista sarà in grado di volare con le proprie ali… ali vere e non di cera come quelle di Icaro, che si sciolsero al calore del sole… (Non rammaricarti mai per la tua caduta, o Icaro del volo senza paura. Perché la più grande tragedia di tutti è non provare mai la luce che brucia…O. Wilde)

Entrando nel dettaglio, si parte giovedì 24 marzo con il violinista Gennaro Cardaropoli – fresco vincitore dell’autorevole Premio ICMA (International Classical Music Awards) come “Migliore Giovane Musicista dell’Anno”ed anche del prestigioso 1st Grand Prize all’Arthur Grumiaux International Violin Competition, unico vincitore italiano nella storia del concorso – e la pianista Ludovica De Bernardo, che presenteranno l’iridescente e vibrante Sonata n. 1 per violino e pianoforte op. 13 di Gabriel Fauré, suo capolavoro di età giovanile, Humoresque in sol minore di Ottorino Respighi, il più lungo dei Cinque pezzi per violino e pianoforte, i plastici affreschi sonori della Sonata per violino e pianoforte op. 22 di Giuseppe Martucci e il signorile virtuosismo del compositore polacco Henryk Wieniawski nel suo Tema e Variazioni.
Ricordiamo ai nostri lettori che Cardapopoli e De Bernardo si esibiranno anche martedì 22 marzo alle ore 18.30 al Ridotto dei Palchi “A. Toscanini” del Teatro alla Scala (info: tel. 02.38036605, info@musicaconleali.it), nel concerto inaugurale dell’edizione 2022 della rassegna “Il Salotto Musicale”, frutto dell’accordo tra l’Associazione Musica con le Ali e il Museo Teatrale alla Scala di Milano.
Il variegato cartellone prosegue il 14 aprile con la performance del TulipDuo formato dalla violista Eleonora de Poi e dal pianista Massimiliano Turchi, tributo alla temperie romantica e ad alcuni dei suoi compositori simbolo quali Schumann, Glazunov, Schubert e Fauré.
Il 19 maggio sarà la volta di un abbinamento decisamente intrigante, e tutto all’insegna della bellezza, tra contrabbasso e arpa. Le protagoniste saranno Valentina Ciardelli e Anna Astesano che sapranno coinvolgere il pubblico in un nuove avventure musicali con trascrizioni tratte da Puccini e Ravel e presentando una composizione originale della Ciardelli in anteprima assoluta.

Il 16 giugno il celebre violinista padovano Federico Guglielmo, che la stampa americana ha definito “la nuova stella nel panorama della musica antica”, affiancherà le giovani musiciste, sostenute da Musica con le Ali, Simona Ruisi (viola) e Maria Salvatori (violoncello) in un repertorio nel segno del classicismo con sonate di Beethoven, Schubert e Sinigaglia.
Debutto importante il 6 ottobre per il Duo David, ovvero Francesco Angelico (violoncello) e Giulia Russo (pianoforte) che si esibiranno in sonate di Debussy e Rachmaninov con un’autentica chicca: la riscoperta (finalmente!) del compositore napoletano Mario Pilati, di cui interpretano la Sonata in Re del 1929, dal fascino prepotente, edita per la prima volta proprio dal duo in un recente progetto discografico.

Il 13 ottobre si va nella direzione della forma sonata classica per violino e pianoforte con la violinista Fabiola Tedesco e la pianista Martina Consonni, in un personale omaggio a Beethoven, a Richard Strauss e allo spagnolo Joaquín Turina.
Il penultimo appuntamento, il 10 novembre, sarà incentrato sull’incontro tra il clarinetto di Clara Ricucci e il pianoforte di Federico Pulina, impegnati in una lettura dialogica di brani di Weber, C. Schumann, Widor e Busoni.
La stagione concertistica “Musica con le Ali” 2022 non poteva concludersi in modo migliore, il primo dicembre, con l’imperdibile concerto di una tra le pianiste di fama internazionale più ecletticamente crossover della sua generazione (è del 1986), la veneziana Gloria Campaner, qui assieme alla giovane violinista Sara Zeneli con un repertorio di brani del post-romantico César Auguste Franck e dell’eccentrico e innovativo Maurice Ravel.

In questi anni, Musica con le Ali ha saputo ben radicarsi nel tessuto cittadino stringendo importanti rapporti di collaborazione con la Scuola Navale Militare Francesco Morosini e con il Master MaBAC dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, offrendo inoltre tariffe vantaggiose ai residenti nella Città Metropolitana di Venezia e agli studenti.
I biglietti della stagione concertistica sono acquistabili presso la biglietteria del Teatro La Fenice e in prevendita presso le biglietterie Vela Venezia Unica.
Biglietteria online: www.teatrolafenice.itwww.events.veneziaunica.it
Biglietteria telefonica: Tel.  041 2722699
Prezzi dei biglietti: Sale Apollinee €20. Riduzioni: residenti e over 65 €16; studenti €10
Abbonamenti: intera stagione €120; tre concerti nelle Sale Apollinee €50; abbonamento sostenitore €170.
Per informazioni: Tel. 02.38036605; info@musicaconleali.itwww.musicaconleali.it

Marina Tuni

My Favourite Things… le cose che preferisco: Jazz in Friuli Venezia Giulia 2021

My Favourite Things… le cose che preferisco: Jazz in Friuli Venezia Giulia 2021, part 1 – di Flaviano Bosco

In barba alle più catastrofiche previsioni che volevano il mondo dello spettacolo in ginocchio per le restrizioni dovute all’epidemia, le proposte musicali in Friuli Venezia Giulia negli ultimi 12 mesi sono andate moltiplicandosi a dismisura. Per quanto riguarda soprattutto il jazz non si era mai visto un tale fermento, i circuiti tradizionali di sale da concerti e locali si possono considerare paradossalmente saturi tanta è l’offerta. La risposta del pubblico, tenuto conto del momento, è sempre stata assolutamente straordinaria dimostrando tutta un’autentica passione per un genere musicale generalmente considerato “difficile”.
Il successo delle varie rassegne che prenderemo in considerazione è dovuto anche alla tenacia di associazioni e di organizzatori che da decenni operano sul territorio e che hanno “educato” e cresciuto un proprio pubblico con proposte sempre di alto livello, regalando la possibilità anche a chi risiede alla “periferia dell’impero” ma in diretta connessione con le realtà centroeuropee, di gustare le star internazionali e la musica più raffinata sulla scena mondiale.
Basta mettere insieme i vari cartelloni che si susseguono ininterrottamente durante l’anno in regione per capire quanto sia apprezzata la musica dal vivo. Certo non è possibile contare su centinaia di migliaia di potenziali spettatori come succede nelle metropoli, ma gli appassionati friulani, giuliani e gli amici d’oltre confine, austriaci e sloveni, garantiscono un seguito attento e fidelizzato.
Certo permangono delle problematiche e zone d’ombra particolarmente evidenti come quelle causate dalla cecità di alcune amministrazioni comunali che, per motivi biecamente strumentali e ideologici, cercano inutilmente in ogni modo di boicottare alcune manifestazioni; si è fatta più evidente la carenza di spazi adeguati per l’ascolto e per le esibizioni, i luoghi ci sono ma, inspiegabilmente, qualcuno preferisce tenerli chiusi o riservati ai pochi eletti; manca quel coordinamento a livello regionale tra i vari enti e associazione che potrebbe rendere omogenea e competitiva una proposta unitaria per quanto riguarda la musica e, in generale, il mondo dello spettacolo. Se esistesse una qualche forma di coordinamento le proposte e le risorse che il Friuli Venezia Giulia è già in grado di mettere in campo anche dal punto dell’attrattiva turistica non avrebbero uguali e nemmeno rivali almeno a livello nazionale. Un’amministrazione lungimirante della cultura, in questo senso, potrebbe essere un vero volano anche per l’economia locale di straordinaria forza trainante anche per gli altri settori. Qualcuno comincia ad accorgersene ma non si è ancora fatto abbastanza.
Senza fare troppe polemiche comunque è il caso di spendere qualche parola almeno sulle tre rassegne più blasonate, le prime due (Udin&Jazz e Il Volo del Jazz) ormai radicate, vincenti e per così dire storiche, che da anni si ripetono stagione dopo stagione con grande capacità di rinnovamento e di crescita; l’ultima nata (Estensioni), invece, è stata la più bella sorpresa dimostrando che con impegno, costanza e passione è sempre possibile trovare nuove suggestioni per la musica jazz nel senso più largo possibile della definizione.
Suddivideremo questa recensione in tre articoli, partendo di seguito con la rassegna Estensioni Jazz Club Diffuso 2021.

Estensioni Jazz club Diffuso 2021 è una rassegna di concerti che ha voluto riportare l’atmosfera di creatività e socialità di un jazz club, al di fuori di contesti metropolitani, andandosi a collocare in luoghi inusuali, lontani dalle solite rotte. Dagli spazi industriali di Schio passando per le architetture militari di Forte Col Badin, ai confini con l’Austria e Slovenia, per approdare nella pianura friulana che si unisce con l’Adriatico per proseguire verso il Po, alla ricerca dell’essenza del suono e della contaminazione tra linguaggi. 7 mesi di programmazione artistica, Concerti, Mostre, Workshop, 4 regioni italiane, 70 artisti”.
Così recitava la locandina della rassegna concepita dalla luciferina creatività di Luca A. d’Agostino e così è stata la lunga avventura di “Estensioni” un’esperienza musicale con pochi precedenti in regione o forse nessuno. Nuove traiettorie e una nuova concezione del fare musica e dell’ascoltarla. Naturalmente non è possibile, almeno in questa sede fare una disamina puntuale di ogni concerto o esibizione, abbiamo scelto di concentrarci su due degli artisti più significativi tra i tanti, trascurando gioco-forza le autentiche epifanie musicali di Alfio Antico, Arti & Mestieri, Patrizio Fariselli Area Open Project, Ginevra di Marco, Francesco Magnelli, Giovanni Maier, Andrea Massaria, Maistha Aphrica e tutti gli altri fino alla chiusura con il Bluegrass del “bisteccone” Joe Bastianich, non ce ne voglia nessuno ma non possiamo fare altrimenti.
Marco Colonna: artista di grandissima intensità, il sassofonista romano è stata una delle stelle più luminose di questa rassegna. Amico del Friuli ha già partecipato ad altre manifestazioni regionali. In questa occasione ha suonato al Impro festival di Schio (Vi) gemellato con “Estensioni” e dedicato a John Coltrane e poi ad Aiello del Friuli con il mago delle tastiere Giorgio Pacorig.
Per non sembrare troppo apologetici e pedissequi descrivendo le sue due ottime esibizioni della rassegna, si ritiene che valga la pena soffermarsi su un’incisione live che ne è stata il preludio e l’antefatto. Sempre durante una rassegna estiva friulana (Musica in Villa di Gabriella Cecotti) Colonna aveva dedicato alla musica di Coltrane alcune sue meditazioni per clarinetto basso e sax sopranino che oggi si possono ascoltare in: “Offering, Playing the music of John Coltrane”.
Il funerale di Trane fu alla St.Peter’s Lutheran Church. Suonarono il gruppo di Albert Ayler e quello di Ornette. Ayler fece Truth is Marching on, ma non era vero con Trane se ne andava una buona parte di verità. Tutto suonò più falso, dopo. La morte del griot ebbe conseguenze terribili. Perdemmo l’equilibrio, sbandammo, ci perdemmo nei vicoli, nelle nicchie, nell’inconseguenza. Non eravamo l’avanguardia di niente e di nessuno. Quando i cacciatori di teste si scatenarono in lungo e in largo per il Paese, noi ci affidammo a sogni d’oppio, divinità vendute al supermarket, canti di sirene che ditoglievano dalla lotta. I fortunati trovarono una vita in Europa, alcuni scelsero l’Africa, come Stokely Carmichael. C’è chi tornò da dove era venuto, di qualunque posto si trattasse. (WuMing 1, New Thing, Einaudi, pag 190)

Accostarsi alla musica di Coltrane è di per se un’esperienza spirituale. Non si tratta minimamente di un semplice ascolto musicale. È in tutto e per tutto un’ascesa, un tortuoso itinerario in una dimensione ineffabile nella quale l’ascoltatore è guidato come in una pubblica preghiera dalle note, verso un’introspezione interiore, una vera e propria meditazione che non esclude a priori il dolore e la solitudine. E’ necessaria una radicale rinuncia alla propria protervia, ragionevolezza e volontà di comprendere sempre tutto a tutti i costi. Sembra paradossale ma la musica di Coltrane non ha bisogno di essere “capita” , ma vuole solo essere accettata e metabolizzata, assimilata, fagocitata.
È materia complessa che dobbiamo imparare a rispettare e ascoltare
L’approccio di Marco Colonna è programmaticamente del tutto meditato e rispettoso, proprio come deve essere. In questo concerto non mancano di certo i momenti in cui i suoi sax esprimono un afflato mistico e spirituale ma l’interpretazione è del tutto laica e perfino materialistica, predilige l’astrazione ma non è per niente confessionale.
La vera mistica elevazione è quella che contempla l’assoluto vuoto, disanimato, minerale e sidereo. Potrebbe essere proprio questa la chiave per capire la sua interpretazione che volutamente tralascia i momenti più lirici della produzione coltraniana più nota (non ci sono brani da A Love Supreme) concentrandosi sui luoghi più desolati della riflessione del grande sassofonista.
Nessun sotto testo liturgico, nessuna giaculatoria, ma tutta immaginazione creativa ed estatica rielaborazione, in una ritualità della musica che diventa materia sottile che si sottrae ad ogni tentativo di definizione o al contrario, di astrazione. “Manifesta la sua presenza” e questo ci deve bastare.
Colonna ha dichiarato in una recente intervista riferendosi all’opera di Coltrane:
“La cosa che mi affascina da sempre, è il suo rigore, la sua continua ricerca di esprimere attraverso l’eccellenza una visione più alta della musica” (da kulturunderground.org)
Riservandosi la libertà e la personale identità nell’interpretare quei testi sacri della letteratura sassofonistica, Colonna ne rispetta profondamente l’intenzione. La grande differenza sta nel fatto che Coltrane aveva una vera e propria ossessione per il controllo di ogni singola nota attraverso la quale il suo spirito si manifestava. Colonna è, al contrario, un improvvisatore nato che sa osare mantenendosi sempre è assolutamente libero e non ha paura di perdersi e di sbagliare. Coltrane non se lo poteva permettere, lui era l’avanguardia , l’esploratore di territori incogniti e della loro vastità. Grazie a lui e agli altri pionieri dell’avant garde siamo relativamente liberi di vagare in quegli spazi e in quei luoghi del nostro cuore.
Si permetta un accostamento iperbolico ma “Offering” per associazione di idee fa venire in mente La Musicalisches Opfer, l’Offerta musicale di Johann Sebastian Bach. Il re Federico II di Prussia, grande appassionato di musica e discreto flautista egli stesso, nel lontano 1747, invitò a corte il grande compositore per onorarlo. Gli fornì un tema musicale e Bach si offrì di improvvisare delle variazioni.
È proprio questo che Marco Colonna ha offerto anche nelle sue esibizioni per Estensioni Jazz club diffuso: meravigliose variazioni e interpretazioni sulle musiche dell’imperatore del sassofono.
Quella che si è officiata nella chiesetta di Santa Maria delle Grazie di Castions che il live documenta in presa diretta su CD, è un genere di celebrazione non meno spirituale ed elevata di quella tenutasi alla chiesa luterana di San Pietro a New York in quel triste mattino del 1969.
Certo è stata meno luttuosa e ferale ma la carica emotiva è stata in ogni caso enorme. Come documentato dal video, facilmente reperibile on line e anche da qualche puntuale recensione, il concerto si è svolto in una location particolarmente raccolta, un a piccola luogo di culto con una discreta comunità che da sempre gli si stringe attorno “in fondo alla campagna” friulana.
La Glesie Viere di Castions è uno di quei luoghi che da secoli sono vocati alla spiritualità più angelica e ingenua quella dei figli di una terra contadina, “bambine bionde con quegli anellini alle orecchie, tutte spose che partoriranno uomini grossi come alberi e se cercherai di convincerli allora lo vedi che sono proprio di legno” così come dice l’avvocato di Asti in una famosa canzone, andando avanti nella metafora probabilmente quello è legno di risonanza, proprio lo stesso che amplificava la voce del violino di Paganini o della spinetta di Mozart, certo anche i friulani d’oggi, in un certo senso, possono essere definiti uomini e donne di legno ma proprio per questo sensibili alla musica.
Proprio quest’anno abbiamo salutato mestamente uno dei decani della musica friulana l’organaro Gustavo Zanin artigiano dei sogni e di meraviglie musicali che ben rappresentava questa rustica raffinatissima sensibilità. Proprio lui ha testimoniato per decenni l’antica vocazione alla spiritualità in musica degli abitanti di queste terre tra le sorgenti e il cielo.
Tra i muri della chiesetta fatti di sassi di fiume e impastati di sudore, vibrano e risuonano da centinaia di anni le preghiere, mormorazioni, giaculatorie, richieste di grazia e perfino bestemmie di quelle stesse anime che li costruirono pietra dopo pietra. E’ proprio una questione di risonanza che ha reso il concerto di Marco Colonna così intenso e straordinario. La chiesetta con il ristretto pubblico seduto composto sugli scomodi banchi di legno, ha un’acustica particolarissima del tutto liturgica che fa risaltare i toni gravi del clarinetto basso rendendoli strazianti e trasforma la voce del sax sopranino nel belato di un agnello.
Naturalmente, la registrazione per quanto accurata e tecnicamente raffinatissima non ha potuto cogliere anche quella speciale magia che solo l’esibizione dal vivo in presenza sa regalare.
In questi anni di insopportabili concerti e spettacoli in streaming, videoconferenze, meeting sulle piattaforme, didattica a distanza, smart-working abbiamo davvero capito almeno una cosa, da tutte le informazioni digitali che ci è toccato sorbirci dai nostri device: la presenza umana è insostituibile.
La parola così come la musica, costretta nei bites dei nostri devices, muore.
È proprio per questo che, forte anche di queste precedenti esperienze, la rassegna “Estensioni Jazz club diffuso” ha rifiutato lo streaming preferendo disseminarsi e disperdersi in location insolite e perfino imprevedibili ma sempre cariche di umanità autentica come quella chiesetta di sassi. L’arte e la musica in particolare non sopportano più la musealizzazione cui la pseudo-cultura della visione televisiva o digitale l’hanno costretta, hanno bisogno di ritornare a dissolversi nel paesaggio, ridiventare figura tra le figure, materia viva che diventa mondo nel proprio divenire.
In questo senso, è possibile comprendere la bizzarra ma intelligente istallazione artistica “Jazz a perdere” di Luca A. d’Agostino che ha fatto da sfondo, è il caso di dirlo, ad alcuni concerti sul Forte di Col Badin presso Chiusaforte (UD). Lungo la salita verso il forte stampate su carta biologica le suggestive immagini del fotografo se ne stavano appese agli alberi come preghiere tibetane nel vento fino a che gli agenti atmosferici e il tempo se le sono riprese riassorbendole nell’ambiente circostante. Un’idea davvero poetica dall’effetto garantito.

Autostoppisti del magico sentiero: l’ensemble, agglutinato attorno alla magia del poeta Franco Polentarutti e ai “chilometri” del chitarrista Fabrizio Citossi, ha una formazione del tutto variabile che nelle sporadiche, preziose esibizioni riesce a creare una particolarissima alchimia, così è stato nell’ambito di “Estensioni” in cui hanno riproposto alcune atmosfere dei loro due lavori discografici sui quali ci permettiamo di dilungarci un po’.
Poche chiacchiere! Le ultime due incisioni de Gli Autostoppisti del Magico Sentiero sono quanto di meglio la musica sperimentale Avant Garde abbia prodotto nell’ultimo decennio nel nostro paese, se ancora esiste una cosa che si può chiamare così.
Quello che si ascolta in quei dischi è difficilmente catalogabile, non esiste qualcosa di paragonabile. I due lavori pubblicati a breve distanza quasi l’uno di seguito all’altro rappresentano riflessioni in musica e parole sulla contemporaneità.
Il primo, “Sovrapposizione di Antropologia e Zootecnia” s’interroga sul tema del significato del viaggio nel mondo contemporaneo massificato, nel quale sembra che non ci sia più niente da scoprire, esplorare, conquistare. È vero il contrario; Gli smartphone, la geolocalizzazione e le immagini satellitari modificano e confondono le nostre percezioni, quindi noi vediamo solo cosa l’algoritmo ritiene necessario farci vedere, gran parte della realtà dalla quale siamo abitati è per noi buio fitto molto più di prima; a volte non conosciamo nemmeno il nostro quartiere e se passeggiamo per la nostra città senza la “vocina” della nostra mappa virtuale ci sentiamo perduti. Le nostre abitazioni ordinate, chiuse dalle tangenziali come barriere esterne dei nostri agglomerati sono in realtà allevamenti intensivi di zootecnia umana, tecnologici ovili che preludono ad altrettanto meccanizzati mattatoi “for your eyes only”.

Il secondo lavoro “Pasolini e la peste” è ibrido, caotico, magmatico, pulsante, sporco, blasfemo, in una parola meraviglioso e davvero stimolante. È una delle opere ispirate al poeta di Casarsa, più creative e diagonali degli ultimi anni. Davvero poche reggono il confronto, vengono in mente, in questo senso, solo la messa in scena teatrale di “Una giovinezza enormemente giovane” di Gianni Borgna per la regia di Antonio Calenda con la magistrale, spettrale interpretazione del poeta da parte di Roberto Herlitzka (2015) e anche le Graphic Novels a tema pasoliniano dell’Allegro Ragazzo Morto Davide Toffolo.
Negli ultimi anni, appropriarsi del corpo morto del poeta (His mortal remains) è diventata una prassi senza alcuna remora o criterio; ognuno di tanto in tanto, ne sbrana un pezzettino, per poi masticarselo in tutta calma in interpretazioni e male letture. Quei brandelli di carne coriacea e indigeribile finiscono poi sputati in qualche angolo quando la loro amara sostanza fecale si è rivelata disgustosa per quei palati e quegli stomaci borghesi.
Nel corso degli anni se ne sono sentite di tutti i colori: dal Pasolini ultra-cattolico integralista a quello cripto-fascista; dal maniaco sessuale, pedofilo e onanista, al santo laico con la mano sul cuore; dal bandito rapinatore con la rivoltella d’oro in pugno fino all’eretico anarco-comunista con la bandiera nera, le spighe tra i capelli e molto altro.
Per fortuna, la sua figura e le sue opere sono talmente indecifrabili, eretiche, liminali, trasversali, non allineate, eccentriche che nessuno, proprio nessuno, può davvero appropriarsene.
Il Pasolini romantico, nostalgico e radical chic ricordato da Nanni Moretti nel suo detestabile “Aprile”, si contrappone ai tanti “Mortacci” assassinati nei vari film pseudo biografici, alcuni anche piuttosto ben confezionati, dedicati al caso del “Delitto Pasolini”. Gli “Autostoppisti” fanno un passo al di la di tutto il ciarpame pseudo pasoliniano e scelgono di bestemmiare e dissacrare il poeta con lo sberleffo dell’ironia e del sarcasmo, proprio come sarebbe piaciuto a Pasolini.
Bastano questi due esempi luminosi per comprendere che “Estensioni Jazz Club Diffuso” dopo questa prima edizione saprà farsi valere nel prossimo futuro continuando ancora con le sue scelte creative e fuori dai sentieri battuti in uno splendido nomadismo musicale e culturale sempre in viaggio verso il cuore della musica.

Flaviano Bosco

Pasolini: jazz e non solo…

Pasolini 1922-2022. 100 anni ben portati, anche in campo musicale. Basti vedere le cronache degli eventi festivalieri per rendersi conto di quanto questo Autore sia tuttora “cool”. Pensiamo alla classica, agli amati archi, come il violino di Pina Kalc che fu sua maestra di musica. Il “loro” sublime Bach è stato ripreso da Mario Brunello, il cui violoncello si è accompagnato alla voce di Neri Marcorè nello spettacolo allestito per il quarantennale a Bologna nell’ambito di Vorrei essere scrittore di musica della Fondazione Musica Insieme. Così dicasi del recente omaggio “world” dei Linguamadre reso al poeta di Casarsa nell’ambito della rassegna Ethnos di San Giorgio a Cremano. Per il jazz da segnalare quantomeno le recenti performances del Roberto Gatto Perfect Trio alla Casa del Jazz, in “Accattone”, a cura della Fondazione Musica per Roma, con Valerio Mastandrea nonché il pianista Glauco Venier con Alba Nacinovich in “Suite per Pierpaolo” a Jazz Area Metropolitana.

La relazione fra Pasolini e il jazz ha il baricentro nel film documentario “Appunti per un’Orestiade Africana”, del 1970, reportage sul sopralluogo effettuato fra 1968 e 1969, propedeutico ad un film mai girato. Non si tratta propriamente di una pellicola sul jazz, tant’è che non viene citato nella quindicina di titoli del 1970 riportate da Jean-Roland Hippenmeyer in “Jazz sur Films” (Editions de la Thiele, 1971). Ciò forse anche per i ritardi dei circuiti distributivi e poi il lavoro è di “studio” preliminare, un diario di viaggio di taglio mitico-antropologico in Tanzania e Uganda nel quadro di un Poema del Terzo Mondo, sui cinque continenti con aree in via di sviluppo (Africa, India, Paesi arabi, America del Sud e del Nord), progetto peraltro destinato a rimanere incompiuto.
Sono Appunti con cambiamenti e correzioni, come nella scrittura, senza attori professionisti, con interviste a studenti africani dell’Università di Roma, quindi sagome, volti e ambienti in loco, con lo scopo di “musicare”, trasposta, l’omonima tragedia greca di Eschilo: “far cantare anziché far recitare l’Orestiade. Farla cantare per la precisione nello stile del jazz e, in altre parole, scegliere dunque dei cantanti-attori nero-americani”. Le note iniziali sono comunque del bianco Gato Barbieri, eseguite su una base modale, già sulle prime immagini. Il sax di “Gato”, qui anche nelle vesti di compositore, ha un tono dolente ma composto nel sovrastare la ritmica formata dal contrabbassista Marcello Melis e dal batterista Famoudou Don Moye mentre accompagna liberamente le voci di Archie Savage e Yvonne Murray in una sala del Folkstudio di Roma. L’averle inserite nella scena di “Cassandra” è “una scelta importantissima che conferma la ricerca pasoliniana di quel nuovo orizzonte espressivo asemantico che solo la musica poteva realizzare (Roberto Calabretto, “Pasolini e la musica”, “Cinemazero”, Pordenone, 1999). Sono anni in cui la musica afroamericana è sinonimo di rivolta, liberazione, avanguardia, pur non dismettendo il proprio background radicato nelle tradizioni culturali del canto e del suono nero. “Gato” vivrà, di lì a poco, un momento di straordinaria popolarità legata al tema del film “Ultimo Tango a Parigi”, di Bernardo Bertolucci, amico di Pasolini. La jam session in pellicola è qualcosa di più che un cameo, non è già incisa in disco come il blues di Blind Willie Johnson in “Il Vangelo secondo Matteo”, è “musica effettivamente convivente” per citare un’espressione che Raffaele Gervasio coniò in La musica nel documentario (in “La Musica nel film, Bianco e Nero” Ed., Roma, 1950). Per altro verso il film ha una valenza etnologica – si pensi alle danze wa-go-go riprese dalla m.d.p. – e storica che oggi una visione “a distanza” di decenni rende ancor più palpabile in quanto documento di un mondo ormai sommerso.

La seguente Discografia post mortem, essendo riferita al jazz, per impronta del lavoro od anche per la presenza di jazzisti quant’anche in situazioni “di frontiera” o/e multimediali, prescinde dai soundtrack che vanno dal Morricone di La musica nel cinema di Pasolini (General Music, 1983), Teorema edito da Carosello nel 1968 o lo stesso Piero Piccioni della colonna sonora di Una vita violenta (Cam Sugar / Decca, 1962). L’intento della Cronologia rimane essenzialmente quello di dimostrare come l’interesse della musica, in primis del jazz, verso il mondo pasoliniano sia rimasto costante, per non dire crescente, e diffuso, basti pensare alla venerazione nutrita da musicisti come il sassofonista Sherman Irby verso il poeta di Casarsa (oltre che per l’Inferno di Dante). O all’attenzione del flautista James Newton che ha trascritto in musica “Il Vangelo secondo Matteo” per la produzione “Passione secondo Matteo” al Torino Jazz Festival. Fra i dischi ne è stata a seguire individuata una selezione in cui il jazz, lato sensu, compare a fianco alla figura di Pasolini, sia in lavori monografici sia in spicchi di produzioni non mirate. In dettaglio:
1982, Michel Petrucciani Trio feat. Furio Di Castri (cb) e Aldo Romano (dr.), il brano è Pasolini, nel l.p. Estate, della Riviera Records, prodotto fra gli altri da Amedeo Sorrentino. La ballad, su ritmo latino, è stata scritta dallo stesso batterista. A riprova del culto francese per Pasolini si ricordano, fra le varie esecuzioni, oltre a quella pianistica di Jean-Pierre Mas col contrabbassista Cesarius Alvim in Rue de Lourmel (l.p. Owl, 1977) anche quella per grande orchestra diretta da Lionel Belmondo. Per la cronaca il cantante Claude Nougaro ne ha scritto il testo reintitolandola Visiteurs. Aldo Romano ha avuto diverse occasioni di frequentazione con Pasolini a casa di Elsa Morante, a Roma, in compagnia di Bernardo Bertolucci, al tempo in cui in Italia soleva recarsi e presenziare alla Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro.
1989, Andrea Centazzo (dir.), Omaggio a Pier Paolo Pasolini. Concerto per piccola orchestra (Mitteleuropa Orchestra) con Gabriella Ravazzi (soprano), Marco Puntin (voce recitante), Index Records. Su etichetta Ictus è inciso il Secondo Concerto per Orchestra. Omaggio a Pier Paolo Pasolini.
1993, Massimo De Mattia (fl.), con Glauco Venier (pf), Poésie pour Pasolini, Splasc(h). L’album contiene fra l’altro anche omaggi ad altri registi come Bunuel, Kurosawa, Truffaut, Kubrick, Wenders, Tarkovskij.
1997, Johann Kresnik (cor.) Kurt Schwertsik (comp.), Pasolini. Gastmahl Der Liebe, VolksbÜrne Recordings. Il disco è censito su www.discogs.com come genere electronic/jazz accanto a lavori poetici (Meditazione Orale, RCA, 1995; Pasolini rilegge Pasolini, Archinto, 2005) e altri con contenuti musicali (Giovanna Marini, Le ceneri di Gramsci, Block Nota – I dischi di Angelica, 2006; Luigi Maieron, I Turcs Tal Friul, Block Nota, 2009). Segnalato infine per le “Edizioni Letterarie” RCA, Pier Paolo Pasolini, La Guinea detta dall’autore, del 1962 (due tracce per le due distinte parti di La Guinea 1962).

2005, Antonio Faraò (pf) Miroslav Vitous (cb), Daniel Humair (dr.), Takes On Pasolini, CamJazz , lavoro pregevole sulla figura pasoliniana. In scaletta, fra gli altri brani, Medea, Teorema, Stornello (Mamma Roma).
2006, Stefano Bollani (pf), 5et con Mirko Guerrini (sax) , Nico Gori (cl.) , Ferruccio Spinetti (cn), Cristiano Calcagnile (dr.) feat. Mark Feldman (v.) Paolo Fresu (tr.9, Petra Magoni (v.), I visionari, Label Bleu, 2006. Il doppio disco contiene, fra le “Visioni” il brano Cosa sono le nuvole? unitamente ad altri brani jazz e della tradizione italiana. La citazione dell’album viene fatta per la statura artistica degli artisti pur non essendo incentrato sulla figura di PPP. Cosa sono le nuvole?, musica di Modugno, testo di Pasolini, ha avuto le versioni più varie nel tempo quali quella della Piccola Orchestra Avion Travel del 1992 fino alla più recente del giovane cantautore Lorenzo Fragola (2014) vincitore di X Factor, per non parlare delle assonanze riscontrate al riguardo in una famosa pellicola Disney-Pixar (G. Cercone, Toy Story 3: quando Walt Disney cita Pasolini, libertiamo.it, 31.7.2010).
2007, Roberto Bonati (b.) Quintet, con Riccardo Luppi (sax), Alberto Tacchini (pf) Antony Moreno (dr.) e Claudio Guain (narr,), Un sospeso silenzio. Appunti a Pier Paolo Pasolini, MM Records/JazzPrint. Particolarmente sensibile al rapporto poesia-musica (e danza – arti visive) Bonati trova nella Torto il giusto contraltare vocale su cui modellare il proprio arcaico ritorno al binomio voce-citara e negli altri musicisti i corifei di uno spettacolo registrato dal vivo durante l’edizione 2005 di ParmaJazz Frontiere.
2007, Stefano Battaglia (pf.). Re : Pasolini, E.C.M., feat. Michael Gassmann (tr.), Mirco Mariottini (cl.), Aya Shimura (cello), Salvatore Maiore (cb), Roberto Dani (dr.), Dominique Pifarély (v.), Vincent Courtois (cello), Bruno Chevillon (cb), Michele Rabbia (perc.). Il doppio album, il secondo per la E.C.M., annovera 23 proprie composizioni oltre a Cosa sono le nuvole? . Per la cronaca Totò e Ninetto sono state inserite nel 2016 da “Rockìt” fra le 10 canzoni italiane dedicate a Pier Paolo Pasolini con Irata (CSI), Una storia sbagliata (De Andrè), A Pà (De Gregori), Pasolini un incontro (Tre Allegri Ragazzi Morti), L’alba dei tram (Anzovino – Giovanardi), La Giulia Bianca (Giurato), Pasolini (Hengeller), Piazza dei Cinquecento (Ianva), Lamento per la morte di Pasolini (di Giovanna Marini, della quale è da menzionare il fondamentale disco Pour Pier Paolo edito da Le Chant du Monde nel 1984).
2007, Aisha Cerami (v.), Nuccio Siano (v.) e Roberto Marino (pf), Le canzoni di Pasolini, Block Nota. L’album, che registra la partecipazione del pianista salernitano già apprezzato in Trasparenze (Dodicilune, 2010), è una valida compilation di testi pasoliniani con 15 brani musicati da diversi autori, Morricone, Hadjidakis, Modigno, Umiliani, Fusco, De Carolis, Piccioni, Endrigo, lo stesso Marino. Il trio comprende Salvatore Zambataro alla fisarmonica e Andrea Colocci al contrabbasso. Ne sono produttori Graziella Chiarcossi, cugina di Pier Paolo, e Walter Colle.
2008, Guido Mazzon, La tromba a cilindri. La musica, io e Pasolini, cd allegato al volume edito da Ibis che il compositore, cugino di Pasolini, ha presentato in forma di concerto-performance con interventi in diretta della tromba e i movimenti coreutici di Piera Principe con gesto suono e parola che si intersecano liberamente.
2008, Norma Winstone (v.), Glauco Venier (pf), Klaus Gesing (s. Cl.), Distances, ECM. Il cd contiene un tributo a Pasolini nel brano Cjant, testo di Pasolini su musica di Eric Satie, la Petite Ouverture a Danser, traduzione in inglese di Francesca Valente e Lawrence Ferlinghetti. Il pianista ha in preparazione in studio un album registrato in studio interamente dedicato a Pasolini, la Suite per Pier Paolo.

2014, Rita Marcotulli – Luciano Biondini Duo Art, La strada invisibile, Act. Il disco della label tedesca contiene 12 pezzi per piano e fisa nove dei quali originali. Una delle cover è Cosa sono le nuvole di Modugno, tratta dall’omonimo episodio di Pasolini del film Capriccio all’italiana, del 1968.
2019, Elsa Martin-Stefano Battaglia, Sfueâi, Artesuono. Il disco è un’antologia di versi di autori rappresentativi del novecento friulano, fra cui Pasolini, messi in voce dalla Martin, gravitante anche in area folk-progressiva in quanto componente della band Linguamadre (col Duo Bottasso e Davide Ambrogio) che ha esordito di recente con l’album Il Canzoniere di Pasolini.
2021, Mauro Gargano (cb), 4et con Matteo Pastorino (cl.), Giovanni Ceccarelli (pf.), Patrick Goraguer (dr.), Che cosa sono le nuvole? e Pasolini nel cd Nuages, Diggin Music. Molto singolare il Modugno di Pasolini che sposa le nuages di Django Reinhardt!
2021, Autostoppisti del Magico Sentiero, Pasolini e la Peste, New Model Label. Si tratta di un album composito nel quale al gruppo di Fabrizio Citossi con Federico Sbaiz, Martin O’Loughlin, Marco Tomasin, Franco Polentarutti si aggiungono, fra gli altri ospiti, jazzisti come Francesco Bearzatti, Massimo De Mattia, Giorgio Pacorig… Il brano-manifesto è quello di chiusura, il Blues dell’Idroscalo.
2021, Antonio Ciacca (pf) Selah Quartet, String Quartet n. 1 Pasolini, String Quartet n.2 Whitman, Twins Music. Si tratta di sette brani del pianista naturalizzato statunitense, già partner con il suo 5et di Steve Grosssman (oltre che di Farmer, Golson, Konitz, Griffin, W. Marsalis ), con i primi quattro movimenti – Allegro, Minuetto, Blues, Largo – intitolati a Pasolini. La formazione comprende Laurence Schaufele (viola), Douglas Kwoon e Sarah Kim (violino), Junkin Park (cello).

Il ventaglio del rapporto musica-Pasolini potrebbe estendersi ad altri ambiti a iniziare dalla musica contemporanea, con Sylvano Bussotti che in Memoria con voci e orchestre intona il testo di Alla bandiera rossa, dalla raccolta La religione del mio tempo (1961) in un incontro fra testo poetico e musica il cui livello linguistico-espressivo è stato approfondito da Claudia Calabrese in Pasolini e la musica. (La musica e Pasolini, Correspondances, Diastema., 2019).
Sempre in ambito musica di ricerca e sperimentazione, l’elencazione includerebbe una partitura del compositore e direttore d’orchestra Enrico Marocchini, Le azioni della vita, all’interno di Pier Paolo Pasolini poeta di opposizione (1995) nonché, a firma di Giovanni Guaccero, l’oratorio Salmo Metropolitano (v. cd “Domani Musica” con note di Valentino Sani, 1998). Al riguardo Enzo Siciliano, altra figura del microcosmo pasoliniano, sul Il Venerdì di “La Repubblica” del 30/7/1999, aveva riscontrato nel compositore influenze di Petrassi, Maderna e Coltrane; dal canto suo Girolamo De Simone, già su “Konsequenz” nel 2005 ne aveva apprezzato “alcune modalità improvvisative”.
Guardando al “vintage” d’autore si ritrova la psichedelia di Chetro & Co., band di fine anni ’60 (De Carolis, Coletta, Ripani e Gegè Munari) che inserì in Danze della sera 12 versi da L’usignolo della Chiesa Cattolica, su autorizzazione di Pasolini in persona.

Ed eccoci arrivare oggidì ad hip hop e rap. Jay Z, marito di Beyoncè, dal “compagno” PPP si lascia ispirare da “I racconti di Canterbury” e “Le 120 giornate di Sodoma”. Ai rapper Selton (Pasolini) e Paolito (Pasolini FreeStyle) andrebbe quantomeno aggiunto il gruppo censito da Filippo Motti su “Billboard” e cioè Fedez (Parli di rap), Fabri Fibra (Dagli sbagli si impara), Caparezza (Giotto Beat), J Ax (Limonare al Multisala), Bassi Maestro (Sushi Bar), ancora Fabri Fibra (Questo è il nuovo singolo), Ghemon (64 Bars). E il fatto che i ravennati Kut associno Tenco e Pasolini e i Baustelle lo ricordino in Baudelaire non fa che rafforzare l’evidenza della popolarità di questo intellettuale come una delle figure autoriali più ricorrenti oggi anche nel new sound. E’ un brulicare di idee progetti spettacoli dischi che ruota attorno allo strenuo difensore della diversità propria delle culture eccentriche opposta alla onnivora cultura del centro, quella che propugna la omologazione e, diremmo oggi, la generalizzata globalizzazione. Da questa posizione di difesa-attacco scaturiscono effetti che ancora deflagrano attorno alla figura del “poeta dei suoni” geniale e sregolato, colui che celebrò gli idiomi locali, i relitti culturali, i margini, le borgate, le periferie.
A Scampia, all’uscita della stazione metro, il volto di Angela Davis campeggia con quello di Pasolini su due murales di Jorit. Nuove banlieue recano a volte i segni rugosi del passaggio nel mondo attraversato dal suo messaggio profetico. Perché Pasolini riusciva a guardare oltre. Come talvolta capita al jazz.

Amedeo Furfaro

I NOSTRI CD. Stranieri in primo piano, ma senza trascurare il made in Italy

ACT

Nils Landgren Funk Unit – “Funk is my Religion” – ACT
Nils Landgren – “Nature Boy” – ACT
Nils Landgren, personaggio di punta del jazz, è ben noto anche ai lettori di queste note avendo in passato recensito alcune sue significative produzioni. Adesso lo riascoltiamo in due differenti contesti: nel primo album Nils è alla testa della suo celebrata “Funk Unit” mentre nel secondo abbiamo modo di apprezzarlo come arrangiatore e strumentista dal momento che suona da solo.
Ma procediamo con ordine. “Funk is my Religion” è l’undicesimo album registrato dalla pregiata ditta “Funk Unit” da quando venne creata nel 1994 ed ha avuto una vita piuttosto travagliata per vedere la luce: in effetti tutto era pronto per essere registrato nell’isola di Maiorca ma la cosa non fu possibile a causa del Covid; allora si virò verso il distretto di Redhorn in Bad Meinberg ma anche questa volta, sempre a causa del virus, non se ne fece alcunché. Ultima ratio l’Ingrid Studio di Stoccolma in cui l’album venne effettivamente registrato dal 3 al 7 novembre del 2020 per uscire in Germania il 28 maggio scorso. Come spesso sottolineato, capita raramente che il titolo di un album abbia un qualche effettivo collegamento con la musica che propone: in questo caso non poteva esserci titolo più azzeccato dal momento che effettivamente oramai da anni Nils Landgren va predicando questa sua passione per il Funk. Così, anche questa volta, il sestetto si muove sulle coordinate di una musica piacevole, orecchiabile, spesso trascinante in cui se è vero che non si avverte alcuna novità è altresì vero che non sempre nuova musica equivale a buona musica…e viceversa. All’interno dei dieci brani proposti, particolarmente riuscita l’interpretazione di “Play Funk” disegnata dalla bella voce di Magnum Coltrane Price.
Del tutto diverso “Nature Boy”; abbandonate le tinte forti del Funk, Lindgren si concede un esperimento tanto ardito quanto affascinante: presentare ben quattordici brani in solitudine. L’album prende il nome da un brano famoso, quel “Nature Boy” scritto da Eden Ahbez e registrato per la prima volta da Nat King Cole con l’orchestra diretta da Frank DeVol il 22 agosto del 1947. Ma, a parte questo brano, l’album è incentrato sulla musica tradizionale del proprio paese, una strada già percorsa da Landgren quando alla fine degli anni ’90 in duo con il pianista Esbjörn Svensson incise due album incentrati sulla folk music , “Swedish Folk Modern” e “Layers Of Light”. Questa volta la prova è più difficile in quanto Landgren si trova ad affrontare un repertorio oggettivamente ostico da solo con il proprio trombone. Risultato: viste le premesse si può ben dire che l’artista svedese si conferma musicista di prim’ordine, in grado di eseguire con sincera partecipazione partiture che molto si allontanano dal linguaggio prettamente jazzistico. Ottima, infine, la resa sonora grazie anche all’acustica della Ingelstorps Church dove è stato registrato l’album nel febbraio di questo 2021.

ATS

Raphael Kafers Constellation Project – “Retrospection” – ATS
Album d’esordio nella scuderia ATS per il giovane chitarrista austriaco Raphael Käfer che nell’occasione si presenta sotto l’insegna “Raphael Käfer’s Constellation Project”. A coadiuvarlo nella non facile impresa alcuni tra i migliori jazzisti austriaci come Tobias Pustelnik sax, Urs Hager piano, Philipp Zarfl basso e Matheus Jardim batteria. In programma sei brani originali del leader più il celebre standard “How Deep Is The Ocean” di Irving Berlin. L’album si fa apprezzare particolarmente per l’eccellente equilibrio raggiunto tra i cinque: il leader non si ritaglia alcuno spazio in più rispetto ai “colleghi” e nei suoi brani (tutti ben scritti e altrettanto ben arrangiati) c’è posto per tutti. Così ognuno ha un proprio spazio per evidenziare le proprie potenzialità, che non sono di poco conto. Per quanto concerne il linguaggio, siamo nell’ambito di un jazz mainstream contemporaneo – se mi consentite il termine – vale a dire un jazz nell’alveo della tradizione, ma al contempo attuale che pur senza alcuna pretesa di sperimentare alcunché di nuovo esprime la consapevolezza di raccontare compiutamente il proprio essere. Di qui la godibilità della musica che interessa tutto l’album cosicché riesce davvero difficile segnalare un singolo brano. Comunque qualche parola mi sento di spenderla sull’unico standard: presentare un brano celebrato come “How Deep Is The Ocean” non è facile anche perché i modelli con cui confrontarsi sono molti ed eccelsi; ebbene Käfer e compagni se la sono cavata egregiamente con una esecuzione pienamente rispettosa delle originali caratteristiche del brano.

Upper Austrian Jazz Orchestra – “Crazy Days: UAJO Plays The Music Of Ed Puddick” – ATS
Di carattere completamente diverso il secondo album targato ATS che vede all’opera la Big Band Upper Austrian Jazz Orchestra (UAJO). In effetti l’album è la risultante di una visita in Austria del trombonista, compositore e arrangiatore inglese Ed Puddick poco tempo prima del lockdown nei primi giorni del gennaio 2020. La UAJO nei suoi 28 anni di attività si è affermata sulla scena europea grazie alla sua duttilità che le consente di collaborare con musicisti di estrazione assai diversa passando così da Kenny Wheeler, a Johnny Griffin, da Mike Gibbs a Maria Joao… a Slide Hampton. In questo nuovo album il cui repertorio è firmato e arrangiato da Ed Puddick, c’è la conferma di quanto detto in precedenza: l’orchestra si adatta perfettamente sia a quegli arrangiamenti in cui Puddick si rifà esplicitamente ad un jazz più tradizionale sia a quei pezzi in cui la musica dell’inglese vira decisamente verso lidi più moderni evidenziando una diretta discendenza da Mike Gibbs. Seguendo questo schema si può affermare che i primi tre pezzi “Crazy Days”, “An Ocean of Air” e “Forum Internum”, appartengono alla prima categoria con in evidenza le sezioni di ottoni e di sassofoni. Di converso l’influenza di Mike Gibbs è particolarmente evidente in “Slow News Day” e “New Familiar” con il chitarrista Primus Sitter in primo piano. Tra gli altri solisti occorre ricordare il pianista Herman Hill, i sassofonisti Andreas See e Christian Maurer e il trombettista Manfred Weinberger.

ECM

Andrew Cyrille – “The News” – ECM
Gli anni passano ma sembrano non incidere più di tanto sull’arte del veterano Andrew Cyrille (classe 1939). Ecco quindi il terzo album prodotto dal celebre batterista per la casa tedesca, un “The News” che, manco a dirlo, non tradisce le attese. Ben completato da Bill Frisell alla chitarra, David Virelles piano e sin e Ben Street contrabbasso, il quartetto si muove in maniera empatica dimostrando di aver ben assorbito la perdita di Richard Teitelbaum venuto a mancare nel 2020. Il sostituto David Virelles si è perfettamente integrato nella logica del gruppo anzi è riuscito in un tempo relativamente breve a costituire una straordinaria intesa con il leader ché i due costituiscono adesso l’asse portante della formazione. Certo Frisell e Ben Street non sono dei comprimari e il loro ruolo è di assoluta importanza per la riuscita del tutto. Al riguardo non si può non sottolineare ancora una volta la straordinaria personalità di Cyrille che superata la soglia degli 80 resta validamente in sella non solo come insuperabile strumentista ma anche come compositore originale. Non è certo un caso che in repertorio figurino tre suoi brani di cui uno, “Dance of the Nuances”, scritto in collaborazione con Virelles. Gli altri pezzi sono opera di Bill Frisell, di David Virelles e di Adegoke Steve Colson (“Leaving East of Java”) brano tra i meglio riusciti grazie alla perfetta intesa evidenziata dal gruppo che alterna con assoluta naturalezza parti scritte a parti improvvisate.

Mathias Eick – “When We Leave” – ECM
Non sono certo molti i musicisti che suonano bene sia il pianoforte sia la tromba. In Italia abbiamo l’eccellente Dino Rubino; in Norvegia c’è questo Mathias Eick che oltre ai due su citati strumenti si fa apprezzare anche al basso, al vibrafono e alla chitarra. Nato in una famiglia in cui la musica è di casa (i due fratelli Johannes e Trude sono anch’essi musicisti) Mathias ancora non è troppo noto dalle nostre parti anche se può già vantare un curriculum di tutto rispetto avendo già collaborato, tra gli altri, con Chick Corea, Iro Haarla, Manu Katché e Jacob Young. In questa sua nuova fatica discografica, Eick suona con Håkon Aase al violino, Andreas Ulvo al piano, Audun Erlien al basso, i due batteristi Torstein Lofthus e Helge Norbakken nonché Stian Casrtensen alla pedal steel guitar. Eick appartiene di diritto a quella folta schiera di musicisti nordici che pur suonando jazz si rifanno in modo più o meno esplicito alle radici folk della loro musica. Ecco quindi, in organico, un eccellente violinista quale Håkon Aase che il leader inserisce nei suoi brani proprio per dare alle esecuzioni quella particolare coloratura cui si accennava. Così Aase divide con il leader e con il pianista Andreas Ulvo il ruolo di prim’attore in un repertorio declinato attraverso sette brani
tutti scritti dal leader e tutti accomunati da quella struggente malinconia che spesso caratterizza le composizioni dei musicisti del Nord Europa, in special modo norvegesi.

Marc Johnson – “Overpass” – ECM
Gli album per contrabbasso solo non sono frequenti e la cosa è perfettamente spiegabile dal momento che lo strumento è nato e si è sviluppato in funzione di accompagnamento del gruppo. Certo, nel corso degli anni, proprio nel jazz, il contrabbasso ha trovato la possibilità di elevarsi, da strumento di mero accompagnamento e sostegno armonico, a vero e proprio strumento solista, ma di qui ad essere il protagonista solitario di un concerto o di un disco ce ne corre. Non stupisce quindi, come si diceva in apertura, che gli album per solo contrabbasso siano relativamente pochi: tra questi si ricorda “Journal violone” di Barre Phillips del ’68 (probabilmente il primo del genere), e poi nel corso degli anni, tanto per citare qualche nome, Larry Grenadier, Larry Ronald, Lars Danielsson, John Patitucci, Daniel Studer… mentre in Italia si sono misurati con questa pratica, tra gli altri, Jacopo Ferrazza, Roberto Bonati, Furio Di Castri e Enzo Pietropaoli. Adesso arriva questo album di Marc Johnson e si tratta di un CD davvero strepitoso. Marc Johnson è in gran forma e d’altronde non è certo una sorpresa dato tutto ciò che questo artista ha già realizzato.Gli appassionati di jazz lo conoscono e con questo “Overpass” Marc si ripropone come uno dei principali artefici della modernizzazione che ha interessato il linguaggio contrabbassistico. L’album è declinato attraverso otto brani di cui cinque composti dallo stesso Marc cui si affiancano “Freedom Jazz Dance” di Eddie Harris, “Nardis” di Miles Davis e il tema d’amore della colonna sonora del film “Spartacus” di Alex North. Marc affronta questo impegnativo repertorio con assoluta padronanza del proprio strumento evidenziando la solita cavata possente, la consueta maestria tecnica sia al pizzicato sia con l’archetto, la ben nota capacità di valorizzare i contenuti tematici del pezzo come accade, ad esempio, in “Samurai Fly”, composizione che dall’inizio con archetto riprende il tema di “Samurai Hee Haw” tratto dall’album “Bass Desires” che il contrabbassista registrò nel 2018 con Bill Frisell, John Scofield e Peter Erskine.

Craig Taborn – “Shadow Plays” – ECM
Ecco un’altra preziosa incisione di Craig Taborn registrato in splendida solitudine durante un concerto tenuto nel marzo del 2020 alla Wiener Konzerthaus. L’album si articola su sette brani tutti composti dallo stesso Taborn cha ha da poco superato la soglia dei 50 anni. La cifra stilistica del pianista, organista, tastierista e compositore statunitense è oramai ben nota: un pianismo assolutamente originale, spesso improvvisato (come nell’album qui proposto) in cui suono e silenzi scandiscono un trascorrere del tempo caratterizzato dal fatto che fantasia e preparazione tecnica, dinamiche perfettamente controllate, intrecci poliritmici, ricorso sapiente al contrappunto, improvvise cascate di note coesistono a formare una musica sempre nuova, affascinante, spesso trascinante. Taborn è assolutamente padrone della materia; non c’è un solo momento in cui si avverte la pur minima sensazione che l’artista non sia in grado di padroneggiare ciò che sta suonando: tutto resta ancorato ad una visione che l’artista svela all’ascoltatore man mano che il concerto procede. E nel prosieguo dell’ascolto si può avvertire come l’arte di Taborn affondi le proprie radici nella migliore tradizione del piano jazz, riconoscendo tra i suoi numi ispiratori i nomi di Ellington, Monk, Cecil Taylor, Sun Ra, Abdullah Ibrahim, Ahmad Jamal in un perfetto connubio tra modernità e classicismo. Ma non basa ché tra le fonti ispiratrici di Craig bisogna annoverare anche il cinema, la pittura e tornando alla musica una folta schiera di musicisti che non appartengono al jazz quali Debussy, Glass, Ligeti.

Marcin Wasilewski Trio – “En Attendant” – ECM 2677
La ECM ci ripropone una delle formazioni europee più significative degli ultimi anni. Il trio polacco del pianista Marcin Wasilewski con Sławomir Kurkiewicz al contrabbasso e Michał Miśkiewicz alla batteria. Tanto per sottolineare la cifra artistica del gruppo, basti considerare che i tre hanno talmente entusiasmato il trombettista Tomasz Stańko da collaborare assieme per oltre 20 anni. Il fatto è che i tre suonano in trio dall’oramai lontano 1993 per cui hanno sviluppato un idem sentire, una fluidità di suono, una compattezza non facilmente riscontrabile in altri gruppi seppur di chiara fama. Tutti questi elementi li ritroviamo nell’album in oggetto che accanto alle composizioni del leader e del trio ci presenta una rivisitazione di “Variation 25” tratta dalle “Godberg Variations” di Bach, “Vashka” di Carla Bley e “Riders On The Storm” dei Doors. Evidenziare un brano piuttosto che un altro è impresa quanto mai ardua, comunque se si volesse avere un’idea ben chiara di come i tre siano davvero accomunati da una intesa speciale suggeriremmo di ascoltare le tre improvvisazioni del trio (“In Motion Part I,II,III”): sarà facile capire come Wasilewski e compagni non si adagino su pattern o punti di riferimento precostituiti, ma si avventurino su terreni totalmente improvvisati in cui i tre strumenti cambiano di ruolo, giocando anche su dinamiche spesso inattese. A chiudere forse non è inutile
sottolineare come questo album sia il primo, dopo 10 anni, registrato dal trio in studio (La Buissonne, nel sud della Francia), senza ospiti, e il settimo pubblicato dalla etichetta discografica di Manfred Eicher.

LOSEN RECORDS

La norvegese Losen Records, proseguendo nelle sue proposte di qualità, ci presenta due trii, il primo guidato dal batterista tedesco Frederik Villmow coadiuvato da due norvegesi: il pianista Vigleik Storaas e il bassista Bjørn Marius Hegge; il secondo dal pianista Christian Jormin con Magnus Bergström basso e Adam Ross batteria.

Frederik Villmow Trio – “Motion” – Losen Records
L’album comprende oltre a quattro original, tre standard, scelti ognuno dai componenti del trio: “A Lovely Way to Spend an Evening” di Jimmy McHugh, “Blame It On My Youth” di Oscar Levant e “Like Someone In Love” di Jimmy Van Heusen. Un repertorio, quindi, abbastanza variegato ma capace di farci apprezzare da un lato anche le capacità compositive del leader, dall’altro le possibilità esecutive del combo che si muove perfettamente a proprio agio anche sui terreni così battuti come quelli rappresentati dai citati standard. In effetti i tre possono contare su una ottima intesa cementata da precedenti esperienze e il tutto viene declinato attraverso un giusto equilibrio tra parti improvvisate e parti scritte. Insomma siamo sul terreno del classico jazz-trio che, ad onta di qualsivoglia sperimentazione, rimane sempre un organico di tutto rispetto…sempre che, ovviamente, sia composto da musicisti di livello come questi che si ascoltano nel CD in oggetto. In particolare Willmow pur essendo nato a Colonia ha studiato e sviluppato la sua attività in Norvegia dove ha avuto modo di collaborare con alcuni prestigiosi jazzisti del Nord Europa e non solo tra cui Vigleik Storaas (NO), Bjørn Alterhaug (NO), Tore Brunborg (NO), Bendik Hofseth (NO), Alan Skidmore (UK), Cappella Amsterdam (NL), Mats Holmquist Big Band (SWE), Metropole Orkest Academy diretta da Vince Mendoza (NL). Ma è proprio all’interno del trio presente in “Motion” che sembra aver trovato la giusta collocazione. Comunque lo si attende a prove ancora più impegnative.

Christian Jormin Trio – “See The Unseen” – Losen Records
“See The Unseen” vede all’opera lo svedese Christian Jormin al piano con i già citati Magnus Bergström e Adam Ross. Si tratta del debutto di Jormin da leader in casa Losen e l’esordio è più che positivo. Registrato il 22 e 23 luglio 2020, quindi in pieno lockdown, presso la Concert Hall Sjostromsalen at Artisten in Gothenburg, l’album presenta dieci composizioni firmate dal leader e scritte appositamente per il trio. In realtà il nocciolo duro del combo era costituito da Jormin e Bergstrom che, incontratisi con Adam Ross, hanno pensato bene di allargare il duo costituendo il trio che stiamo ascoltando. L’album prende spunto dal fatto di voler reagire, in qualche modo, all’isolamento che ci era stato imposto. Così, attraverso, la musica le distanze sono abolite e l’interazione è assicurata. In effetti, anche in questo caso, una delle maggiori qualità del trio è proprio l’intesa che si avverte: i tre si muovono in modo spontaneo ma perfettamente consapevole che i compagni d’avventura non solo seguiranno lungo il percorso scelto ma saranno in grado di proseguire il discorso in maniera coerente e consapevole. Le dieci tracce sono tutte innervate da armonie ben congegnate e da un certo minimalismo all’interno di strutture molto ben disegnate, strutture che consentono a tutti e tre i musicisti di esporre compiutamente il proprio potenziale. Tutti godibili i brani con una preferenza per “Mola Mola”.

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B.I.T. – Danielle Di Majo e Manuela Pasqui –  “Come Again” – Filibusta
E’ un duo al femminile quello che ci propone la Filibusta Records in questo album: protagoniste Danielle Di Maio ai sassofoni e Manuela Pasqui al pianoforte. La sassofonista avevamo già avuto modo di apprezzarla, tra l’altro, negli album di Ajugada Quartet e della vocalist Antonella Vitale mentre la Pasqui ha già firmato un album come leader (“Il filo dell’aquilone”) oltre ad aver collaborato con numerosi jazzisti di vaglia. Questo per dire che le due artiste sono ben note nell’ambiente del jazz, godendo di una meritata stima. Stima che viene confermata dall’album in oggetto che si articola su nove brani declinati sia sul versante prettamente jazzistico grazie a due original firmati rispettivamente dalla sassofonista (“Cagnaccio”) e dalla pianista (“Della mancanza e dell’amore”) sia, soprattutto, sulla rielaborazione di brani tratti dal repertorio “colto”, arrangiati dalla Pasqui che da sempre si caratterizza per questa sua capacità di attingere dal repertorio classico per rivitalizzarlo con il linguaggio dell’improvvisazione. Ecco quindi in scaletta Thibaut, John Dowland, Claudio Monteverdi, Franz Schubert, Johann Pachelbel. A mio avviso il pregio maggiore dell’album consiste nel fatto che, ascoltando i brani (tutti eseguiti magistralmente), non si avverte nessuno iato tra pezzi che traggono ispirazione da due mondi così diversi, eppure così vicini nella considerazione dell’Amore quale elemento, forse l’unico, che può aiutarci a vivere.

Enzo Favata – “The Crossing “ – Niafunken
Conosco Enzo favata da molti anni e credo di poter dire che questo è uno dei migliori album da lui realizzato nel corso di una oramai lunga e prestigiosa carriera. Il musicista sardo, in questa occasione al sax, theremin, samples è coadiuvato da Pasquale Mirra al vibrafono, marimba midi e Fender Rhodes, Rosa Brunello al Fender Bass, Marco Frattini, batteria e percussioni, cui si aggiungono in qualità di ospiti Ilaria Pilar Patassini voce, Salvatore Maiore cello, Maria Vicentini violino e viola e il chitarrista Marcello Peghin, già accanto a Favata in numerose avventure. Una tantum il titolo dell’album così come dei vari brani non è occasionale ma deriva compiutamente dalla musica proposta. Così, ad esempio, “The Crossing” (“Attraversamento, incrocio”) sta a significare proprio l’intenzione di Favata di proporre una musica che testimoni l’incrocio di più culture. Non a caso il brano d’apertura, “Roots”, di Jan Carr dei Nucleus, segnala una profonda attenzione verso il jazz-rock così come “Salt Way” dello stesso Favata ci riporta alla mente quella via del sale che attraversava il deserto della Dancalia grazie ad una musica orientaleggiante, ricca di umori, sapori così sapientemente speziati mentre particolarmente toccante è “Black Lives Matter”. Il brano, composto a più mani da Favata, Brunello, Mirra e Frattini vuole esprimere lo sdegno presente ancora in tutti noi per un episodio inaccettabile, con il sax di Favata a enfatizzare il clima del pezzo, su un tappeto sonoro che sembra richiamare i grandi paladini, musicisti e non, dell’eguaglianza dei neri negli States…e non solo; particolarmente adatto il campionamento delle voci di Steve Biko, Fela Kuti e Malcom X.

Karima – “No Filter” – Parco della Musica
E’ da molto tempo che seguo Karima la cui carriera, a mio avviso, non è stata finora adeguata alle sue effettive possibilità. Ma andiamo indietro nel tempo. Karima è stata, a mio sommesso avviso, l’unico vero talento che sia emerso dalla trasmissione “Amici”. Quell’anno, però, non vinse e la cosa mi fece talmente arrabbiare che smisi di vedere il programma. Adesso di anni ne sono passati, ma Karima stenta ad emergere nonostante il suo talento sia stato riconosciuto da personaggi di assoluto livello come Burt Bacharach, che ha scritto per lei dei brani e prodotto, nel 2010, il suo primo album dal titolo “Karima”. Questo nuovo album, che arriva dopo sei anni dall’ultima fatica discografica, rende giustizia, anche se non del tutto, delle due qualità: bellissima voce, ottime dosi interpretative, capacità di affrontare con sapienza un repertorio certo non facile. In effetti la vocalist presenta in rapida successione tutta una serie di successi della musica internazionale, per la precisione ben undici, tra cui i celebri “Walk on the Wild Side” di Lou Reed prima traccia del disco e anche primo singolo accompagnato dal videoclip che narra la recording session dell’album pubblicato come anticipazione sulla pagina Facebook di Karima, “Feel Like Making Love” di George Benson e Roberta Flack, “Come Together” e “Blackbyrd” dei Beatles. Ad accompagnare Karima, Gabriele Evangelista al basso, Piero Frassi al pianoforte e arrangiamenti, e la Piemme Orchestra diretta da Marcello Sirignano.

Roberto Magris – “Suite!” – 2 CD JMOOD
Roberto Magris, Eric Hochberg – “Shuffling Ivories“ JMOOD
Roberto Magris è uno dei non moltissimi jazzisti italiani che abbia oramai acquisito una statura effettivamente internazionale come dimostrano i due album in oggetto.
Il primo – “Suite”- è il diciassettesimo album in studio registrato negli Stati Uniti da Roberto Magris per la casa discografica JMood di Kansas City. È il primo disco inciso da Magris a Chicago, assieme a musicisti della scena jazz Chicagoana, per la cronaca Eric Jacobson tromba, Mark Colby tenor sax, Eric Hochberg basso, Greg Artry batteria, Pj Aubree Collins voce, con l’aggiunta di Spoken word in alcuni brani, e con alcuni pezzi incisi in piano solo, provenienti da una successiva session discografica tenutasi a Miami. Il programma è prevalentemente basato su brani e testi originali, con alcune rivisitazioni di standard del jazz e due brani pop degli anni ‘70 come “In the Wake of Poseidon” dei King Crimson e “One with the Sun” dei Santana con la ripresa di “Imagine” di John Lennon. Da evidenziare come sotto molti aspetti si tratti di un coincept album dal momento che nei pezzi scritti dallo stesso Magris è molto presente il richiamo alla pace, alla fratellanza. In altre parole con questa splendida realizzazione il pianista triestino vuole veicolare un messaggio di speranza e lo fa con i mezzi a sua disposizione. Di qui un linguaggio che è una sorta di summa delle più significative correnti che hanno attraversato il jazz degli ultimi decenni mentre nei brani per piano solo ritroviamo il Magris sensibile, introspettivo che abbiamo imparato a conoscere in questi anni.
Pubblicato nel 2021 sempre per la JMood di Chicago, il secondo album – “Shuffling Ivories“- presenta il pianista triestino in duo con il contrabbassista Eric Hochberg in un programma dedicato interamente da un canto al piano jazz, da Eubie Blacke ad Andrew Hill, dall’altro alle più profonde radici del jazz statunitense da cui provengono echi di blues e ragtime, di gospel, di free. Il tutto intervallato da original dello stesso Magris. Quasi inutile dirlo, ma il pianista ancora una volta fa centro, grazie ad una sorta di ispirazione che pervade ogni sua esibizione. Il suo pianismo, anche in questo caso scevro da qualsivoglia tentativo di stupire l’ascoltatore, si sofferma sulla necessità espressiva di creare un fitto dialogo con il suo partner, dialogo che venga recepito appieno dall’ascoltatore. E così accade anche perché il contrabbassista dimostra di condividere appieno gli intendimenti del compagno di strada. Di qui un dialogo che si sviluppa fitto, impegnativo, mai banale con i due impegnati ad ascoltarsi e rispondersi sull’onda di un’intesa che non conosce tentennamenti. Ad avvalorare quanto sin qui detto, citiamo alcuni dei titoli contenuti nell’album: “Memories of You” di Blake, “Laverne” di Hill”, “I’ve Found A New Baby” di Palmer e Williams, “The Time Of This World Is At Hand” scritto dal pianista e compositore Billy Gault, “Quiet Dawn” di Cal Massey vero e proprio cavallo di battaglia di Archie Shepp che lo incluse nel celebre album “Attica Blues” del ’72.

Sade Farina Mangiaracina – “Madiba” – Tuk Music
La pianista siciliana (in un brano anche al Fender Rhodes) si ripresenta in trio con il bassista Marco Bardosica e il batterista Gianluca Brugnano cui si aggiunge Zid Trablesi al loud in tre pezzi. E già quindi da questo organico si può comprendere quali siano le intenzioni di Sade, intenzioni rese ancora più esplicite dal titolo dell’album. In buona sostanza l’artista intende dedicare questa musica ad un eroe dei nostri tempi, Nelson Mandela, del quale narrare la storia. Impresa ovviamente al limite del possibile data l’annosa polemica sulla semanticità o meno della musica. Comunque, a parte queste considerazioni, non c’è dubbio che questo album riesce a far riflettere chi lo ascolta, dipingendo un contesto in cui la storia di Mandela può trovare giusta collocazione. La Mangiaracina sfoggia ancora una volta un pianismo oramai maturo che esprime compiutamente le sue idee. Così, ad esempio, in “Winnie”, dedicato alla moglie del leader sudafricano, il ritmo si fa incandescente come a voler sottolineare le difficoltà incontrate dalla donna nello stare accanto a Nelson. Ma questo è solo un episodio ché in tutti i brani si ritrova qualcosa di interessante non disgiunta dal tema centrale. Ecco quindi, per fare un altro esempio, la ripresa del brano “Letter From A Prison”, una splendida ballad con Bardoscia in grande spolvero. Ma, citato Bardoscia, non si possono dimenticare gli altri componenti il gruppo, tutti perfettamente all’altezza di un compito certo non facile.

Germano Mazzocchetti Ensemble – “Muggianne” – Alfa Music
Germano Mazzocchetti è uno di quei pochi musicisti che mai delude; questo grazie anche al fatto che entra in sala di incisione solo quando ritiene di avere qualcosa di importante e di nuovo da dire. E quest’ultimo suo CD non fa eccezione alla regola. “Muggianne” è un album che si ascolta con interesse dalla prima all’ultima nota, soffuso com’è, specie nei primi brani, da un sottile velo di malinconia. Il tutto eseguito magistralmente da un gruppo coeso dalla lunga militanza e che comprende Francesco Marini al sassofono e ai clarinetti, Paola Emanuele alla viola, Marco Acquarelli alla chitarra, Luca Pirozzi al contrabbasso e Valerio Vantaggio alla batteria. E già la struttura dell’organico e i nomi dei musicisti dicono molto circa la statura artistica di Mazzocchetti: il fisarmonicista e compositore abruzzese, nel suo personalissimo bagaglio culturale, può vantare una passione per il jazz, una conoscenza approfondita della musica colta nelle sue varie declinazioni, nonché una approfondita conoscenza del musical e una ricca frequentazione del teatro di prosa: non a caso Germano è anche uno dei più apprezzati autori di musiche di scena. Questa miscela la si ritrova compiutamente nella sua musica che quindi risulta difficilissima da classificare, ammesso poi che la cosa sia importante! Quel che viceversa risulta importante è la qualità di ciò che propone, sempre originale, mai banale e soprattutto sempre coinvolgente. Un’ultima notazione: molti si saranno chiesti che significa ‘Muggianne’; la risposta ce la fornisce lo stesso Mazzocchetti: ”Il titolo Muggianne è una parola che nel dialetto del mio paese significa ‘Sta zitto e non parlare più’” come a dire, forse (ma questa è una nostra personalissima interpretazione) che la musica non ha bisogno di essere spiegata per entrare nei nostri cuori.

Enrico Rava – “Edizione Speciale” – ECM
Siamo nell’estate del 2019 e si festeggiano due compleanni importanti: i 50 anni della ECM e gli 80 di Enrico Rava. Il gruppo del trombettista e flicornista si esibisce ad Antwerp, Belgio, con l’abituale organico completato da Francesco Diodati alla chitarra elettrica, Gabriele Evangelista al contrabbasso ed Enrico Morello alla batteria, cui si aggiungono due ospiti “eccellenti” quali Francesco Bearzatti al sax tenore e Giovanni Guidi al pianoforte. Il concerto viene registrato ed eccolo qui a disposizione di tutti noi. Rava è universalmente riconosciuto come uno dei musicisti più creativi ed originali che il jazz europeo abbia conosciuto, grazie ad una versatilità che nel corso di una carriera oramai molto lunga gli ha permesso sia di restare fedele alla tradizione, sia di elaborare un linguaggio melodico consono alla tradizione italica, il tutto senza trascurare le innovazioni dettate dal free di Ornette Coleman e le suggestioni ritmiche della musica sud americana nelle sue varie declinazioni. A ciò si aggiunga il fatto che Rava ha lanciato diversi giovani musicisti come quelli che compongono il suo attuale quartetto. Per questa “Edizione speciale” Rava ha voluto ripercorrere il suo repertorio proponendo pezzi che vanno dal 1978 al 2015, anno di pubblicazione di “Wild Dance”, più nuove versioni di “ Once Upon A Summertime” , un classico di Michel Legrand e di “Quizás, Quizás, Quizás”, celebre brano di musica cubana. Come suo solito Rava si ritaglia spazi solistici ma lascia ampia libertà d’azione ai compagni di viaggio e così in particolare Diodati, Guidi e Bearzatti hanno modo di evidenziare ancora una volta quel talento che tutti riconosciamo loro. Insomma un disco davvero da “Edizione speciale”.

Santi Scarcella – “Da Manhattan a Cefalù” –
Il più jazzista dei cantautori italiani. Così è stato definito Santi Scarcella, definizione da condividere in toto dopo aver ascoltato l’album “Da Manhattan a Cefalù”, dedicato alla memoria di Nick La Rocca, un emigrante siciliano a cui, per convenzione, si deve la registrazione del primo disco di jazz nel 1917. Partendo da un repertorio di quattordici brani di cui ben dodici scritti dallo stesso Scarcella da solo o in compagnia di Viscuso o Mesolella, con l’aggiunta del traditional “Vitti na crozza” di Li Causi e lo standard di chiusura “Some Day My Prince Will Come”, Scarcella sfodera uno stile tanto arguto quanto personale. Mescolando il dialetto siciliano con l’italiano ma anche con lo spagnolo e l’inglese, nonché differenti stili come il samba, il mambo, passando attraverso il rag time, lo ska, Santi prepara una ricetta assolutamente fruibile…anche se farà storcere la bocca ai puristi del jazz. Tuttavia a beneficio di questi ultimi forse non è inutile sottolineare in primo luogo che il progetto di Scarcella, partito dai canti di lavoro siciliani, è riuscito a trovare elementi in comune con il blues americano e, proprio per questo, è stato approvato dalla statunitense Uconn University e in secondo luogo che sotto la veste dell’allegria, l’album tratta temi molto ma molto seri come l’emigrazione, l’integrazione, il glocalismo, patologie gravi come l’Asperger.

Giovanni e Jasmine Tommaso – “As Time Goes By” – Parco della Musica
Non è inusuale che membri della stessa famiglia collaborino nella realizzazione di un album ma ciò non ci impedisce di salutare con simpatia questo album che vede l’uno accanto all’altra il papà Giovanni Tommaso e la figlia Jasmine Tommaso in quintetto con Claudio Filippini al piano e Fender Rhodes, Andrea Molinari alla chitarra e Alessandro “Pacho” Rossi alla batteria. Sgombriamo subito il campo da qualsivoglia equivoco: Jasmine non è solo la figlia di un gigante del jazz quale Giovanni Tommaso, ma è una vocalist che ha tutte le carte in regola per intraprendere una brillante carriera; da anni stabilita a Los Angeles, può vantare un intenso percorso accademico speso tra la School of the Arts di South Orange e l’Università della California e gli studi in ambito jazz presso il Berklee College of Music di Boston. A ciò si aggiungono collaborazioni di rilievo con Stefano Bollani, Danilo Rea, Tia Fueller, Kim Thompson e Fabrizio Bosso. Questo album arriva al momento giusto per certificare l’avvenuta maturazione dell’artista. Jasmine interpreta bene un repertorio variegato in cui accanto a brani dal sapore prettamente jazzistico quali “Once Upon A Dream” di Sammy Fain e Jack Lawrence, “Lullaby Of Birdland” di George Shearing e la successiva “Someone To Watch Over Me” di George Gershwin, possiamo ascoltare una suggestiva versione di “Marinella” di Fabrizio De André nonché alcuni original scritti dalla stessa Jasmine con Lorenzo Grassi e dallo stesso leader.

È stato un sogno fortissimo! Grado Jazz 2021 (prima parte)

di Flaviano Bosco –

Concepire, progettare e realizzare una rassegna musicale nei mesi passati poteva sembrare una follia assoluta, un azzardo, un vero colpo di dadi. Qualche volta però anche la pazzia è necessaria ed è proprio vero quello che dicevano gli antichi: “La fortuna aiuta gli audaci” o un po’ più volgarmente: “Chi non risica non rosica”; non sempre è vero ma questa volta si! E non è stato solo il favore della dea bendata.

In lingua friulana si dicono bonariamente “Cjastrons” i testardi irriducibili, quelli che contro tutto e contro tutti continuano dritti per la loro strada, a qualunque costo, anche se sembra che non abbiano alcuna possibilità di riuscire. Preferiscono continuare a sbattere la testa contro gli ostacoli pur di non cedere ai compromessi e soprattutto osano perdere e piuttosto di genuflettersi si spezzano.
“Cjastrons” di successo, in questo senso, sono sicuramente Giancarlo Velliscig e i suoi collaboratori di Euritmica che da 31 anni organizzano Udin&Jazz, la manifestazione che da tre anni ha partorito Grado Jazz che si aggiunge ad altre stagioni musicali e teatrali (Onde Mediterranee, Borghi Swing, Teatro Pasolini di Cervignano, Note Nuove, MusiCarnia ecc.)
In tutti questi anni gli è di certo capitato di sbattere il capo ma la scommessa è stata davvero vincente e i numeri e la qualità di quest’ultima edizione di Grado Jazz lo dimostrano. In accordo con la lungimirante amministrazione comunale dell’Isola d’oro è stato approntato e portato a termine un programma davvero succulento che ha fatto divertire, commuovere, emozionare, rilassare, eccitare gli spettatori spesso tutto nello stesso momento.
Ecco di seguito una mia selezione dei momenti più significativi, tra i tanti del festival,  che ho seguito dalla seconda serata alla fine.

Claudio Cojaniz “Black Water Music”. Quella dei concerti all’alba è diventata ormai una piacevole consuetudine di festival e rassegne, è un modo per riappropriarsi o per esplorare in musica momenti della giornata che normalmente non consideriamo. Accompagnare l’alba con le note del pianoforte di fronte all’orizzonte marino con il sole che sorge direttamente dalla laguna nel silenzio di una città che ancora dorme è un’esperienza quasi religiosa, un rito pagano. Se poi a suscitare le note sono le dita di un pianista come Cojaniz capace di un grande lirismo e sconfinati orizzonti non si può sbagliare. Provare per credere!

Bandakadabra: all’insegna del divertimento stradaiolo più verace e disimpegnato i “ragazzi” di Torino sanno davvero come far sorridere la gente e non c’è niente di più divertente che il vedere una band scatenata in mezzo alla folla che la segue in processione per tutta la città al ritmo del tamburo. Frizzanti, scoppiettanti, leggeri, clowneschi, saltimbanchi del jazz, una street marching band senza troppe pretese se non l’allegria propria e del pubblico. Momenti come questo contribuiscono a fare della rassegna una festa per tutta la città e non solo un evento elitario per i tanti appassionati. Bene hanno fatto gli organizzatori a voler disseminare in giro per la città balneare alcune iniziative, il grande favore riscontrato dal pubblico significa che la strada è quella giusta.

Dee Dee Bridgewater. Una vera Lady con la voce intatta nonostante non sia più una fanciulla in fiore. Con un gruppo di giovani musicisti italiani tra i quali spiccavano la contrabbassista Rosa Brunello e la batterista Evita Polidoro. La cantante ha proposto dal suo sconfinato song book soprattutto brani del periodo con Stanley Clarke e Chick Corea; alla memoria di quest’ultimo era dedicato l’intero concerto. Visibilmente divertita, la Bridgewater ha “giocato” con la propria voce e con i musicisti, ridendo, ballando, raccontando gustosi aneddoti sulla sua lunga carriera fatta di incontri straordinari ma soprattutto incantando il pubblico con le sue doti canore strabilianti in grado di passare in un battito di ciglia dai toni più gravi, sporchi e bluesy fino ai più verticali acuti con estrema naturalezza e senza artifici accademici.

Daniele D’Agaro con i suoi sax e i suoi clarinetti ha saputo intrattenere i passanti proprio nel cuore della città lagunare in un luogo dalle architetture straordinarie e dalle antichissime testimonianze: il sagrato comune tra due basiliche paleocristiane, una a fianco dell’altra (Santa Eufemia e Santa Maria delle Grazie). Le sue ance sembravano riempire il balzo temporale tra quell’estrema antichità e il “presente fatto di attimi e settimane enigmistiche” come dice il poeta. D’Agaro sa essere evocativo e immaginifico sulle sue chiavi ma spesso risulta meditativo e distante, per un sassofonista non sono certo difetti. La sua performance solitaria è stata affascinante ma anche piacevolmente ermetica e astratta.

Brad Mehldau trio. Molti musicisti tra gli spettatori, il gotha dei jazzisti locali e di oltre confine con l’aggiunta di moltissimi appassionati, critici e giornalisti che aspettavano l’apparizione di quello che ormai è considerato un gigante della musica contemporanea senza definizioni di genere. L’attesa non è stata vana, Mehldau ha presentato il suo ultimo lavoro con un’esibizione convincente e maiuscola nonostante una piccola ferita al pollice che si era procurato tagliando un limone a poche ore dal concerto. Romantico e lirico, lontano dalle iper-virtuosistiche prestazioni di inizio carriera, mantiene una certa predisposizione ad un pop colto e “pettinato” che gli permette gli usuali sconfinamenti e crossover musicali appropriandosi, come in questo caso, di canzoni del tutto eterodosse come “Friends” dei Beach Boys. Ottimo l’interplay con i propri musicisti Grenadier al contrabbasso e Ballard alla batteria.

Mirko Cisilino: Tromba, trombone, Tuba in fa e una moltitudine di sordine, con queste armi si è presentato il trombettista in una delle vie centrali dello “struscio” serale di Grado. La sua esibizione ha colpito e affascinato molti ma ha ugualmente reso perplessi e forse anche indifferenti altri. Non è facile improvvisare davanti ad un pubblico a passeggio. Di recente anche Paolo Fresu travestito da barbone è stato completamente ignorato in un concerto improvvisato in piazza Navona a Roma, era successo alcuni anni fa anche a Joshua Bell, genio del violino, in una stazione della metropolitana a New York. Spesso siamo troppo distratti e non poniamo sufficientemente attenzione a ciò che ci circonda, a volte ci impediamo di scoprire autentici tesori come quelli che Cisilino soffiava nei propri labiofoni, da improvvisazioni su melodie classiche a quelle free form e rumoristiche. Tra gli spettatori più attenti, due bambini che leccavano il loro gelatone guardavano divertiti e perplessi qualcosa che forse non capivano del tutto ma che destava la loro curiosità. E’ proprio quello l’atteggiamento che tutti dovremmo sforzarci di avere. La vera musica è sempre Bellezza e Mistero.

Danilo Rea&Luciano Biondini: intrattenimento elegante fatto di classici della canzone italiana rivisitati in jazz in un’atmosfera da piano bar; c’è da chiedersi se abbia ancora senso un progetto del genere dopo che il revival jazzato sulle canzoni “leggerissime” della tradizione anni ‘60 si fa da decenni in tutte le salse e dopo che l’ottimo pianista Bollani ci ha costruito sopra una carriera trentennale. Anche il progetto che i due da anni portano in scena (Cosa sono le nuvole) che rivisita i brani più famosi della canzone italiana comincia ad essere una replica di se stesso, nostalgia di nostalgia. Certo entrambi sono ottimi musicisti, al pubblico continuano a piacere moltissimo, lo si è visto al Parco delle Rose e non si può certo rimproverare nessuno, il jazz cinquant’anni fa era fatto anche di questo.

Jazz Portraits. Fotografo ufficiale del festival e di tante altre avventure, Luca A. D’Agostino con i propri collaboratori segue il festival da trentun’anni. Una splendida esposizione, da egli stesso curata, con significativi scatti suoi e di altri eccellenti fotografi AFIJ (Associazione Fotografi Italiani di Jazz) per ciascuna edizione faceva bella mostra di sé nel centro della cittadina balneare durante la rassegna. Tra le tante meravigliose immagini, tutte in un rigoroso, evocativo bianco e nero di veri e propri giganti della musica ospitati dalla manifestazione (Elvin Jones, Ornette Coleman, B.B King ecc.) ne spiccava uno del presente che è già proiettato nell’immediato futuro. Shabaka Hutchings, il geniale tenor sassofonista, che fu a Udine nel 2017 con i suoi The Ancestors, è immortalato in chiaroscuro nella cornice di una porta proprio mentre si sta accingendo a entrare in palcoscenico, imbracciando il proprio strumento. E’ un attimo sospeso in perfetto equilibrio tra quello che non c’è ancora e quello che sarà che da l’idea di che cosa sia oggi la musica dentro e intorno il jazz.

A Proposito di Jazz ringrazia i fotografi Luca A. d’Agostino Phocus Agency, Alessandra Freguja, Angelo Salvin (AFIJ) e l’ufficio stampa di GradoJazz/Euritmica