Udin&Jazz tocca quota 33! Molti gli appuntamenti da non perdere da Stewart Copeland a Pat Metheny, Eliane Elias e Roberto Ottaviano

Udin&Jazz tocca quota 33
Molti gli appuntamenti da non perdere tra cui quelli con Stewart Copeland, Pat Metheny, Eliane Elias e Roberto Ottaviano
Il festival in programma dal 10 al 18 luglio

Quest’anno, se tutto procede senza intoppi, ritornerò al Festival Udin&Jazz, organizzato da Euritmica, una delle pochissime manifestazioni del genere che stimolano ancora il mio interesse. E ciò per i motivi che ho più volte espresso ma che si riassumono nel fatto che il Festival si presenta sempre più legato al territorio di cui intende promuovere le eccellenze non solo artistiche.
Il Festival, in programma dal 10 al 18 luglio, offrirà alla città di Udine e alla regione intera circa 25 appuntamenti, fra location storiche e siti periferici, dove si terranno concerti, incontri, laboratori e proiezioni che coinvolgeranno oltre 110 artisti da 12 Paesi del mondo, 40 addetti e una cinquantina fra volontari e studenti, con la presenza della più qualificata stampa del settore.
Il tema scelto per questa 33^ edizione è “Jazz Against The Machine”, argomento che sarà approfondito il 10 luglio, all’apertura ufficiale del festival, nel corso di un apposito talk incentrato per l’appunto sul ruolo dell’arte e della musica dal vivo nello sviluppo dell’umanità dell’era digitale. In programma anche il concerto della Jazz Bigband Graz dedicato alla musica e alla cultura armena con una guest star: il vocalist e percussionista di fama mondiale Arto Tunçboyacıyan.
Scorrendo il vasto programma, alcuni appuntamenti appaiono imperdibili: Stewart Copeland, batterista, compositore e fondatore dei Police, si esibirà nel Piazzale del Castello il 12 luglio, prima data del suo tour europeo, con una straordinaria esperienza che propone i più grandi successi della band riarrangiati da Copeland in chiave orchestrale. Nel cast, anche il chitarrista di origini friulane, Gianni Rojatti e il bassista Alessandro Turchet, affiancati per l’occasione dalla prestigiosa FVG Orchestra, formazione recentemente annoverata dal Ministero della Cultura tra le migliori in Italia.
Altro concerto di assoluto rilievo quello di Pat Metheny in programma il 18 luglio; il chitarrista americano presenterà il suo recente progetto ‘Side Eye’ realizzato con talentuosi musicisti emergenti.
Due le star della notte brasiliana del 15 luglio: Amaro Freitas, giovane e prodigioso pianista, e la carismatica vocalist e pianista Eliane Elias, reduce dalla vittoria ai Grammy 2022.
Accanto a questi grossi calibri ci saranno anche giovani artisti internazionali tutti da scoprire quali Lakecia Benjamin, sassofonista newyorkese (17 luglio); Mark Lettieri, funambolico chitarrista, colonna portante degli Snarky Puppy (13 luglio); Matteo Mancuso, enfant prodige della chitarra (14 luglio).

Ovviamente anche questa volta non sarà poco lo spazio dedicato ai musicisti italiani: così, tra gli altri, avremo modo di ascoltare Roberto Ottaviano Eternal Love 5et (anche questo appuntamento degno della massima attenzione), Dario Carnovale trio feat. Flavio Boltro; Claudio Cojaniz; Massimo De Mattia e Giorgio Pacorig, Ludovica Burtone, violinista di origini udinesi residente a NYC, Soul System, GreenTea inFusion e la Zerorchestra.
In coerenza con quanto sottolineato in apertura circa l’aderenza del Festival alle necessità del territorio, Udin&Jazz estende i suoi orizzonti ben oltre i confini locali, realizzando progetti con festival e realtà europee e inviando giovani musicisti in residenze artistiche all’estero per momenti di crescita formativa e professionale. Anche in queste occasioni, Udine si pone, quindi,  al centro dei grandi circuiti europei del turismo culturale e artistico. All’Incontro JazzUpgrade (14 luglio) studenti e addetti ai lavori racconteranno l’esperienza di un campus di alta formazione musicale internazionale.
Questo e altri momenti, fanno parte di Udin&Jazz talk e Udin&Jazz(in)book, eventi collaterali strutturati secondo una logica che affronta sfaccettature diverse dell’anima jazz contemporanea. Fra i libri che verranno presentati, ricordiamo: Il Jazz e i mondi di Guido Michelone (12 luglio); la mini collana edita da Shake edizioni dedicata al grande poeta e intellettuale afroamericano Amiri Baraka (ospite di Udin&Jazz nel 2008), presentata da Marcello Lorrai in dialogo con Flavio Massarutto (13 luglio) e Sonosuono di Matteo Cimenti (17 luglio).
Dedicati agli studenti i workshop Jazz Sessions per i PCTO e il concerto di pianoforte partecipato di Agnese Toniutti per famiglie e bambini (15 luglio).
Da non perdere, dal 12 al 18 luglio: alle 12.00, gli Udin&Jazz Daily Special alla Ghiacciaia, aperitivi jazz con chiacchierate musicali, e le speciali dirette da Udine di “Torcida”, il programma sportivo e musicale dell’estate della rete ammiraglia Rai, condotto da Max De Tomassi, (presentatore ufficiale dei concerti del festival).
E vorrei chiudere questa nota su Udin&Jazz 2023 con le parole con cui Giancarlo Velliscig, direttore artistico del Festival, ma in realtà vera anima nonché instancabile motore della manifestazione, ha aperto la conferenza stampa di presentazione: «Si potrebbe dire che ricominciamo da 33, evocando un adorabile film del tenero Troisi. Udin&Jazz, infatti, non ricomincia da zero, come di solito si definiscono le ripartenze, ma dalla storia di 32 edizioni di un festival che ha saputo ritagliarsi un’autorevole collocazione tra i punti fermi del jazz nazionale».

Gerlando Gatto

IL PROGRAMMA COMPLETO DI UDIN&JAZZ
info dettagliate al sito www.euritmica.it

lunedì 10 luglio
ore 09:30 Groove Factory, Martignacco
WORKSHOP PCTO / 1
Progetto Jazz Sessions – Euritmica per le Scuole

ore 18:30 Corte Morpurgo
Udin&Jazz talk
JAZZ AGAINST THE MACHINE
Incontro sul ruolo dell’arte e della musica dal vivo nello sviluppo dell’umanità dell’era digitale Con la partecipazione di: Marco Pacini giornalista e scrittore / Angelo Floramo, docente e medievista, scrittore / Claudio Donà, critico, docente di Storia del Jazz al Conservatorio di Rovigo, produttore discografico / Giancarlo Velliscig, direttore artistico Udin&Jazz / Modera Andrea Ioime, giornalista e critico musicale
ore 21:30 Piazza Libertà
JAZZ BIG BAND GRAZ & GUESTS – ARMENIAN SPIRIT
Horst-Michael Schaffer, vocals, trumpet / Heinrich von Kalnein, reeds / Karen Asatrian, keyboards / Thomas Wilding, bass / Tom Stabler, drums
Special guests: Arto Tunçboyacıyan, percussion, vocals / Bella Ghazaryan, voice

martedì 11 luglio
ore 09:30 Groove Factory, Martignacco
WORKSHOP JAZZ SESSIONS / 2
Progetto Jazz Sessions – Euritmica per le Scuole
ore 20:00 via R. Di Giusto – Area Parrocchiale
Udin&Jazz talk
I LUOGHI DELLA MUSICA IN CITTÀ
Visioni, proiezioni, prospettive, progetti intorno agli spazi culturali e alle architetture dedicate alla musica in città.
Con: Federico Pirone, Ivano Marchiol, Chiara Dazzan – Assessori del Comune di Udine / Giancarlo Velliscig, presidente di Euritmica / Modera Oscar d’Agostino – caporedattore delle pagine culturali del Messaggero Veneto
segue
ore 21:30
SOUL SYSTEM Quartet
Piero Cozzi, sax / Mauro Costantini, piano / Andrea Pivetta, drums / Federico Luciani, percussion

mercoledì 12 luglio
ore 18:00 Spazio 35, via C. Percoto
Udin&Jazz (in) book
IL JAZZ E I MONDI Musiche, nazioni, dischi in America, Africa, Asia, Oceania
Guido Michelone presenta il suo libro (Arcana Ed.) e dialoga con Max De Tomassi, Radio 1 Rai
segue
ore 19:00
CLAUDIO COJANIZ “Black”
Claudio Cojaniz, piano feat. Mattia Magatelli, doublebass / Carmelo Graceffa, drums
ore 21:30 Piazzale del Castello di Udine
STEWART COPELAND & FVG ORCHESTRA
“Stewart Copeland Police Deranged for Orchestra” prima data europea
Stewart Copeland, drums, guitar, conductor / Troy Miller, conductor / Laise Sanches, vocals / Raquel Brown, vocals / Sarah-Jane Wijdenbosch, vocals / Vittorio Cosma, keyboard / Gianni Rojatti, guitar

giovedì 13 luglio
ore 18:00 Corte Morpurgo
Udin&Jazz(in) book
A SESSANT’ANNI DA “IL POPOLO DEL BLUES” (1963): L’EREDITÀ DI AMIRI BARAKA
Incontro con Marcello Lorrai, giornalista, scrittore e conduttore radiofonico in dialogo con Flavio Massarutto, scrittore e critico musicale
ore 20:00 Corte Morpurgo
LUDOVICA BURTONE 4et “Sparks”
Ludovica Burtone, violin, compositions / Emanuele Filippi, piano / Alessio Zoratto, doublebass / Luca Colussi, drums
ore 21:30 Piazza Libertà
MARK LETTIERI GROUP
Mark Lettieri, guitar, baritone guitar / Eoin Walsh, bass / Jason Thomas, drums / Daniel Porter- keyboards

venerdì 14 luglio
ore 18:00 Corte Morpurgo
Udin&Jazz talk: JAZZ UPGRADE
Jazz a Vienne e Udin&Jazz – Il campus di alta formazione musicale internazionale, come esempio della necessaria collaborazione e scambio per lo sviluppo della creatività giovanile e di un linguaggio musicale davvero globale. Con: Federico Pirone – Assessore alla Cultura Comune di Udine / Giovanni Maier, musicista, docente al Conservatorio Tartini Trieste / Glauco Venier, musicista e docente al Conservatorio Tomadini Udine / Roberto Ottaviano, musicista e docente al Conservatorio Piccinni Bari / Tomi Novak, presidente Kulturno umetniško društvo “Zvočni izviri” Nova Gorica / Giancarlo Velliscig, direttore artistico Udin&Jazz / In collegamento Benjamin Tanguy direttore artistico del Festival internazionale Jazz a Vienne (festival e città gemellati con Udine) e gli studenti italiani partecipanti al campus. In collaborazione con i Conservatori di Trieste e di Udine
ore 20:00 Piazza Libertà
ROBERTO OTTAVIANO – Eternal Love 5et
Roberto Ottaviano, sax / Marco Colonna, clarinets / Alexander Hawkins, piano, Giovanni Maier, doublebass / Zeno De Rossi, drums
ore 21:30 Corte Morpurgo
MATTEO MANCUSO trio
Matteo Mancuso, guitars / Stefano India, bass / Giuseppe Bruno, drums

sabato 15 luglio
ore 10:30 Casa Cavazzini, Museo di arte moderna e contemporanea
AGNESE TONIUTTI “Piano maestro”
Concerto partecipato per pianoforte, toy piano e piano preparato per bambini (dai 6 anni) e famiglie

ore 18:30 Piazza Libertà
DARIO CARNOVALE TRIO feat. FLAVIO BOLTRO
Dario Carnovale, piano / Lorenzo Conte, doublebass / Sasha Mashin, drums / feat. Flavio Boltro, trumpet
Piazzale del Castello di Udine
BRAZILIAN NIGHT
ore 20:30
AMARO FREITAS “Piano Solo”
Amaro Freitas, piano
segue
ore 22:00
ELIANE ELIAS
Eliane Elias, piano & vocals / Marc Johnson, bass / Leandro Pellegrino, guitar / Rafael Barata, drums

domenica16 luglio
ore 19:00 Giangio Garden – Parco Brun
GREENTEA inFusion “Viva Cuba!” New Album
Franco Fabris, Fender Rhodes, synth / Gianni Iardino, alto&soprano sax, flute, synth / Maurizio Fabris, percussion and vocals / Pietro Liut, electric bass
ore 21:00 Piazza Libertà
Introduzione al film e alla colonna sonora dal vivo di “The Freshman” a cura di Cinemazero – Pordenone
segue
ore 21:30
ZERORCHESTRA “The Freshman”
Proiezione del film muto con Harold Lloyd e la colonna sonora eseguita dal vivo dalla Zerorchestra: Mirko Cisilino, direzione, tromba e trombone / Francesco Bearzatti, sax tenore / Luca Colussi, batteria / Juri Dal Dan, pianoforte / Luca Grizzo, percussioni ed effetti sonori / Didier Ortolan, clarinetti / Gaspare Pasini, sax alto / Romano Todesco, contrabbasso / Luigi Vitale, vibrafono

lunedì 17 luglio
ore 18:30 Casa Cavazzini – Museo di arte moderna e contemporanea
Udin&Jazz(in) book
SONOSUONO
Incontro con Matteo Cimenti, autore del libro Sonosuono / Anselmo Paolone / Damiano Cantone / Massimo de Mattia / Giorgio Pacorig
segue
ore 20:00
MASSIMO DE MATTIA / GIORGIO PACORIG
Massimo De Mattia, flute / Giorgio Pacorig, piano
ore 21:30 Corte Morpurgo
LAKECIA BENJAMIN “Phoenix”
Lakecia Benjamin, alto sax / Zaccai Curtis, piano / EJ Strickland, drums / Ivan Taylor, bass

martedì 18 luglio
ore 18:30 Comunità Nove, parco S. Osvaldo
Udin&Jazz talk&sound
Doctor Delta “Zappa, idrogeno e stupidità”
Giorgio Casadei, oratore, chitarra, ukulele / Alice Miali voce, chitarra, banjolele, banjo, stylophone, kazoo
Tributo a Frank Zappa fra parole e musica nel trentennale della morte
In collaborazione con Vicino/Lontano Mont e Comunità Nove – Coop. sociale Itaca
ore 21:30 Piazzale del Castello di Udine
PAT METHENY “Side-Eye”
Pat Metheny, guitars/ Chris Fishman, piano, keyboards / Joe Dyson, drums

dal 12 al 18 luglio in diretta da Udine
MAX DE TOMASSI conduce “TORCIDA” e presenta sul palco i concerti di Udin&Jazz

Dal 12 al 18 luglio
Ore 12:00 Osteria alla Ghiacciaia
Udin&Jazz daily special:
12 luglio: Stewart Copeland e i Police, con Andrea Ioime
13 luglio: I collettivi musicali, con Guido Michelone
14 Luglio: Il jazz del futuro, il futuro del jazz, con Marcello Lorrai
15 luglio: Miti e leggende della musica brasiliana, con Max De Tomassi 18 luglio: La storia del Pat Metheny Group, con Flaviano Bosco

17 luglio Ore 12:00 Corte dell’Hotel Astoria
Dora Musumeci/Lakecia Benjamin, Tra le donne del jazz, con Gerlando Gatto

Udin&Jazz per i musicisti
Se sei un musicista iscritto a MIDJ e sei in possesso del QR code (inviato dalla segreteria al tuo indirizzo di posta) hai diritto al biglietto ridotto o all’abbonamento YOUNG per gli eventi del Festival. Info: www.musicisti-jazz.it

#euritmicasocial: Pagina Facebook Udin&Jazz / Twitter Udin&Jazz / Instagram Udin&Jazz / Canale YouTube euritmicavideo / Instagram Euritmica / Pagina Facebook Euritmica

biglietti e abbonamenti
tutti gli eventi sono ad ingresso gratuito ad eccezione di:
mercoledì 12 luglio – Piazzale del Castello
Stewart Copeland & FVG Orchestra
Poltronissima intero € 55,00 + € 8,25 d.p. / ridotto € 44,00 + € 6,60 d.p. Platea intero € 40,00 + € 6,00 d.p. / ridotto € 32,00 + € 4,80 d.p.

venerdì 14 luglio – Corte Morpurgo
Matteo Mancuso
intero € 15,00 + € 2,00 d.p. / ridotto € 10,00 + € 1,50 d.p.

sabato 15 luglio – Casa Cavazzini
Agnese Toniutti
posto unico € 7,00
prevendita su eventbrite.it (non acquistabile all’ingresso).

sabato 15 luglio – Piazzale del Castello
BRAZILIAN NIGHT Amaro Freitas + Eliane Elias
intero € 30,00 + € 4,50 d.p. / ridotto € 24,00 + € 3,60 d.p.

lunedì 17 luglio – Corte Morpurgo
Lakecia Benjamin
intero € 25,00 + € 3,75 d.p. / ridotto € 20,00 + € 3,00 d.p.

martedì 18 luglio – Piazzale del Castello
Pat Metheny
Poltronissima intero € 50,00 + € 7,50 d.p. / ridotto € 40,00 + € 6,00 d.p.
Platea intero € 40,00 + € 6,00 d.p. / ridotto € 32,00 + € 4,80 d.p.

abbonamento full festival (5 concerti, settore poltronissima)
intero € 150,00 | ridotto € 120,00 | young € 100,00 / L’abbonamento young è riservato a: studenti di ogni ordine e grado under 26.
I biglietti e gli abbonamenti ridotti sono riservati a: studenti di ogni ordine e grado under 26; Soci Banca di Udine; possessori Contatto card, Iscritti a Groove Factory, Iscritti alla Università delle Liberetà, Associati Arci; musicisti iscritti al MIdJ; soci Vicino/Lontano; soci A.C.CulturArti.
biglietteria e prevendita
circuito e punti vendita Vivaticket / per i concerti di Stewart Copeland e Pat Metheny circuito e punti vendita TicketOne / per gli eventi gratuiti prenotazioni su eventbrite.it
abbonamenti: tickets@euritmica.it

Presente e futuro nel Roma Jazz Festival

Sono solo quattro i concerti che ho potuto seguire nel corso dell’annuale Roma Jazz Festival, ma se il livello di tutte le manifestazioni è paragonabile a quello dei musicisti che ho ascoltato, bisogna dare atto a Ciampà e compagni di aver ancora una volta scelto assai bene gli artisti da presentare al pubblico romano.

Ma procediamo con ordine. C’è voluto molto tempo prima che alla Fusion venisse riconosciuta quella dignità che merita. Una delle band che maggiormente ha contribuito all’affermazione della Fusion è stata Spyro Gyra, esibitasi all’Auditorium Parco della Musica il 12 novembre scorso. Siamo a New York a metà degli anni ’70 quando il sassofonista Jay Beckenstein, assieme al pianista Jeremy Wall, mette su un gruppo che curiosamente chiama Spyro Gyra da una famiglia di alghe, appunto le spirogire, la cui grafia viene cambiata dal gestore del locale dove si esibiscono per la prima volta. Nel 1978 viene inciso Spyro Gyra, ma il successo vero arriva l’anno dopo con Morning Dance che si piazza tra le quaranta migliori vendite di album negli Stati Uniti, con la title-track fra i singoli più venduti sempre negli USA. Da questo momento è tutto un susseguirsi di successi: oltre 10 milioni di album venduti, oltrepassati i 40 anni di attività, più di 30 album all’attivo. Ovviamente nel corso di tutti questi anni il gruppo ha cambiato spesso organico: Beckenstein, classe 1951, è rimasto a guidare il gruppo sino ad oggi condividendo la direzione della band con il pianista Jeremy Wall fino alla fine degli anni ’80. Ciò che è rimasto sostanzialmente invariato è la forza d’urto che questo gruppo sa esprimere sul palco: un cocktail di rhythm & blues, melodie popolari, riferimenti a ritmi caraibici in cui si innestano assolo di chiara impronta jazzistica. Ad interpretare questa formula vincente a Roma è un insieme di grandi musicisti che affiancano il leader ancora in gran spolvero: Tom Schuman, piano, Scott Ambush, basso, Julio Fernandez, chitarra e Lionel Cordew, batteria. Tutti sono apparsi assolutamente all’altezza del compito regalando agli spettatori alcuni momenti davvero spettacolari come un duetto, artisticamente pregevole, tra batteria e contrabbasso, alcuni momenti in cui il leader ha imbracciato contemporaneamente i suoi due strumenti sax alto e flauto, e un brano di chiara ispirazione cubana, De la Luz interpretato con sincera partecipazione dal chitarrista, per l’appunto cubano, Julio Fernandez che è membro di Spyro Gyra dal 1984.

Si inizia un po’ in sordina con Walk The Walk che fa parte del repertorio Spyro Gyra già dai primi anni ’90; la band sembra piuttosto freddina ma già con il secondo pezzo le cose cambiano. Groovin’ for Grover evidenzia un Tom Schuman in gran forma che sfodera un pianismo modale allo stesso tempo toccante e trascinante. Seguono in rapida successione altri brani tratti dai tantissimi album del gruppo: Captain Karma, Shaker Song che ritroviamo addirittura nel primo album inciso dalla band nel 1978, I Believe in You di Tom Schuman tratto da Alternating Currents, ottavo album in studio del gruppo pubblicato nel giugno 1985 e classificato al terzo posto dalla rivista settimanale statunitense Billboard per la categoria Top Jazz Album, il già citato De la Luz, l’originale versione di Tempted By The Fruit Of Another incisa dagli Squeeze nel 1981… Insomma un concerto che è andato in crescendo tra gli appalusi di un pubblico chiaramente appassionato del genere.

Il giorno dopo altro appuntamento straordinario con la Mingus Big Band. Probabilmente a ben ragione la big-band è considerata da molti la quinta essenza del jazz dal momento che ne contiene tutti gli elementi fondamentali: scrittura, arrangiamenti, improvvisazione, senso del collettivo, bravura solistica. Purtroppo in questo periodo è sempre più difficile ascoltare una grande orchestra sia dal vivo sia su disco. È quindi con il massimo interesse che mi sono recato all’Auditorium Parco della Musica per ascoltare una delle orchestre più prestigiose di questi ultimi anni: la Mingus Big Band. Nata nel 1991 per la volontà di Sue Mingus di perpetuare il repertorio del genio di Nogales, celebrandone la musica in tutti i suoi molteplici aspetti,  la band vanta attualmente undici album, di cui sei nominati per i Grammy, e nell’ottobre scorso ha pubblicato The Charles Mingus Centennial Sessions (Jazz Workshop) a 100 anni per l’appunto dalla nascita dell’artista; attualmente consta di quattordici elementi tra cui alcuni dei più grandi musicisti di New York, quali il trombonista Robin Eubanks, i trombettisti Alex Sipiagin e Philip Harper (dal 1986 al 1988 membro degli Art Blakey´s Jazz Messengers ) e Earl Mcintyre trombone basso, tuba, già a fianco dello stesso Mingus. Ben diretta dal contrabbassista russo Boris Kozlov, l’orchestra è in tournée per la prima volta dopo la morte di Sue Mingus a 92 anni nel dicembre scorso, e il successo è clamoroso ovunque si esibisce grazie all’elevato tasso artistico dei singoli musicisti. La loro musica si richiama espressamente allo spirito della musica mingusiana, un viaggio nell’affascinante universo del celebre contrabbassista e compositore. Gli elementi che hanno reso indimenticabile Mingus ci sono tutti: i repentini cambiamenti di ritmo, le melodie alle volte sghembe ma sempre affascinanti, i maestosi collettivi, gli assolo scoppiettanti, il potere trascinante, una miriade di sfaccettature che ben difficilmente si ritrovano in altre composizioni, la tensione che si riesce a trasmettere, l’immediatezza e l’universalità del linguaggio.

Molti i brani celebri in programma: dall’esplosivo Jump Monk, al trascinante Sue’s Changes tratto dallo straordinario “Changes One” inciso nel 1975 da una bellissima formazione comprendente Jack Walrath alla tromba, George Adams al sassofono tenore, Don Pullen al piano e Dannie Richmond alle percussioni. Ma i brani forse più riusciti sono stati So Long Eric e Self-Portrait in Three Colors. Il primo è stato scritto da Mingus per invitare l’amico e collega Eric Dolphy a tornare nella band dopo che questi, a seguito di una fortunata tournée, aveva deciso, nel 1964, di rimanere in Europa; ironia della sorte la sera del 29 giugno dello stesso 1964, a Berlino Ovest durante un concerto Eric ebbe un malore determinato da una grave forma di diabete che lo condusse alla morte. Self-Portrait in Three Colors è uno dei pezzi più classici di Mingus: lo stesso contrabbassista amava descriversi così nell’incipit di Peggio di un Bastardo (la sua autobiografia), uno e trino allo stesso tempo. Insomma, tornando al concerto, una serata memorabile grazie ad una musica straordinaria eseguita da un gruppo di eccellenti musicisti.

Martedì 15 almeno a mio avviso la più bella sorpresa del Festival: il concerto del pianista e compositore azero Isfar Sarabski. Avevo già ascoltato qualche brano dell’artista tratto dall’album Planet del 2021 ma sentirlo all’opera dal vivo è tutt’altra cosa. Ben coadiuvato da Behruz Zeynal al tar (strumento a sei corde simile al liuto che viene suonato con un piccolo plettro d’ottone), Makar Novikov al contrabbasso e Sasha Mashin alla batteria, il pianista si è espresso su altissimi livelli meritandosi i convinti applausi del pubblico. In realtà il concerto non era iniziato nel migliore dei modi: affidato soprattutto alle capacità solistiche di Behruz Zeynal la serata sembrava indirizzata lungo i binari di quel mélange tra jazz e medio-oriente di cui abbiamo già molte testimonianze. Per fortuna dal secondo pezzo le atmosfere sono cambiate e siamo entrati prepotentemente su un terreno assolutamente originale e poco frequentato in cui è difficile distinguere le influenze che fluttuano l’una sull’altra, dall’etno al jazz propriamente detto, dal folk alla musica classica senza trascurare l’elettronica, il tutto in un contesto strutturale ben delimitato. In effetti tutti i pezzi erano costruiti allo stesso modo: una lunga introduzione affidata volta per volta ad un singolo strumento per poi lasciare il campo all’ensemble che per la maggior parte del tempo si è espresso nella formula del trio, senza Zeynal. Ed è così emersa la straordinaria figura del leader. Nato nel 1989 a Baku, in Azerbaijan, Isfar Sarabski si forma presso il Berklee College of Music di Boston, per poi vincere nel 2009 la Solo Piano Competition del Montreux Jazz Festival. Per il piccolo Isfar la musica è un elemento immediatamente familiare: il padre è un grande appassionato di musica, la madre insegna violino mentre il suo bisnonno era Huseyngulu Sarabski, figura leggendaria della musica azera. Evidentemente tutto ciò ha contribuito in maniera determinante a creare un artista assolutamente straordinario che ha voluto condividere con il pubblico romano buona parte del repertorio contenuto nel già citato album Planet; splendida la riproposizione di Clair de lune di Claude Debussy interpretata con rara delicatezza e totale partecipazione.

E veniamo alla serata finale del festival, il 19 scorso, con Steve Coleman alla testa dei suoi Five Elements, vale a dire Jonathan Finlayson alla tromba, Sean Rickman alla batteria, Rich Brown al basso elettrico e il rapper Kokayi con il quale Coleman collabora fin dal 1985. Illustri colleghi hanno scritto meraviglie di questo concerto, e, una tantum consentitemi di dissentire. Intendiamoci: nessuno, tanto meno chi scrive, mette in dubbio le capacità di Coleman che in tutti questi anni ha dato prova di essere un grande artista; nessuno contesta la sua abilità nel rifarsi a musiche dell’Africa occidentale e dell’Asia meridionale; nessuno nega la sua profonda conoscenza della cd. “street culture”. Ma tutto ciò produce un certo tipo di musica che non trova il mio personalissimo interesse: non mi trascina (tutt’altro) la ripetizione per parecchi minuti dello stesso frammento melodico, non mi appassiona la matericità della sua musica, non mi convincono gli interventi del rapper anche perché nel passato ci sono stati esempi ben più probanti di integrazione tra jazzisti e rapper. Assolutamente apprezzabile, viceversa, il richiamo alla tradizione testimoniato dalla citazione di Confirmation, cavallo di battaglia di un certo Charlie Parker. Comunque il pubblico, non numerosissimo, ha gradito e l’esibizione è stata salutata da scroscianti applausi.

Il Festival si è così concluso con un bilancio ancora una volta largamente positivo: oltre 5000 presenze in due settimane di programmazione fra l’Auditorium, la Casa del Jazz e il Monk, con il coinvolgimento di ben 115 artisti provenienti da tutto il mondo, dagli Stati Uniti all’Azerbaigian, dalla Gran Bretagna alla Romania, passando per il Bahrain. “In tante edizioni, raramente ho visto un così grande entusiasmo del pubblico in ogni concerto, sia per gli artisti più famosi che per le novità. – Ha commentato Mario Ciampà, direttore artistico del festival. – Un pubblico trasversale, bambini, giovani e adulti che hanno voglia di buona musica e nuove proposte. Un successo che ci incoraggia a proseguire ulteriormente sulle traiettorie che hanno segnato questa edizione: il dialogo fra musica e innovazione tecnologica, il protagonismo femminile, la programmazione dedicata ai più piccoli e l’equilibrio fra i nomi storici del jazz e gli artisti più in sintonia con il gusto delle nuove generazioni come gli esponenti della nuova scena british, e non solo”

Gerlando Gatto

Udin&Jazz 2022: con il suono delle dita (parte 2)

Pubblichiamo la seconda parte della recensione di Flaviano Bosco sul Festival Internazionale Udin&Jazz, 32esima edizione, svoltosi a Udine dal 25 giugno al 16 luglio 2022 (clicca qui per leggere la prima parte)

Rosa Brunello è una delle certezze della giovane musica italiana. Figlia d’arte, di ottima formazione, è coinvolta in innumerevoli progetti musicali ed ha al proprio attivo molte collaborazioni anche con artisti internazionali. Il suo quintetto è composto da professionisti della sua stessa pasta che in qualche modo gravitano attorno al pianeta creativo dell’estroso trombonista Gianluca Petrella. La contrabbassista ha voluto mettere a frutto le sue innumerevoli esperienze musicali in un’incisione che interpreta le ultime tendenze del jazz che vedono come capofila i soliti giovani leoni della scena inglese con i loro mash-up di elettronica, nu-jazz, free form, Techno, Trance, World Music, tutte etichette giornalistiche che non dicono moltissimo ma che servono a delimitare un oggetto musicale, altrimenti non facilmente definibile. La musicista si è dimostrata coraggiosa e ardita a provarci, certo ha investito molto del suo talento in un progetto che ha buone prospettive ma che, almeno dal vivo, dimostra qualche reticenza o quanto meno il bisogno di essere maggiormente rodato. Comunque l’insieme è una perfetta espressione della forza gentile e del cuore cortese e generoso della giovane, affascinante contrabbassista che forse potrebbe osare di più.

Completamente fuori registro invece il celebre chitarrista Al Di Meola, la cui esibizione ispirata alle canzoni dei Beatles (Across the Universe) era tra le più attese dell’intera rassegna. Nessuno può mettere in dubbio le sue capacità tecniche e la sua meritata fama a livello mondiale ma a Udine ha dimostrato un’assoluta mancanza di rispetto per il suo pubblico e un’insospettabile irascibilità prendendosela con l’organizzazione e con il service fin dal sound check pomeridiano.
Irritato e risentito, per motivi probabilmente nemmeno chiari a lui stesso, si è fatto attendere per più di un’ora dal pubblico ignaro già in sala. Dopo mille esortazioni e preghiere dell’organizzazione si è deciso a salire sul palco accolto da una selva di fischi e di booo del pubblico che l’aveva tanto atteso. Non si è minimamente scusato rivolgendo parole decisamente insultanti ai tanti paganti accorsi per ascoltare la sua arte. Ne è seguita, naturalmente, un’esibizione nervosa, scostante, sbrigativa e autoreferenziale; il chitarrista ha suonato al peggio di sé con sommo rancore e nessuna empatia. Una serata sbagliata può capitare a tutti ma il chitarrista ha davvero passato il segno.
Molto meglio la serata successiva con la presentazione dell’ultimo lavoro del vulcanico collettivo italiano C’Mon Tigre e quello del Vjay Iyer Trio, incredibile protagonista della scena jazz mondiale.
I primi sono l’esempio perfetto di ciò che si può intendere per musica socialmente impegnata che però non abdica anche alla propria funzione d’intrattenimento. “Scenario”, l’ultimo album dell’ensemble ad organico variabile, vive letteralmente dei suoni della diaspora migrante dei nostri fratelli in cammino lungo le vie della speranza e della libertà. C’Mon Tigre collabora da anni con il fotografo di guerra della Magnum Photos, Paolo Pellegrini, che ha documentato, tra l’altro, il dramma dei profughi delle guerre africane e mediorientali sia sulla rotta balcanica, sia su quella Mediterranea. Con gran gusto estetico per il light design e le coreografie, l’ensemble sonorizza sul palcoscenico quella drammatica esperienza esistenziale, visivamente documentata dalle fotografie, facendo riferimento all’Afrobeat, al indie-rock, alla world music nelle loro declinazioni elettroniche e clubbing in un’atmosfera complessiva che forza le frontiere del jazz fino a dissolverle. Un’esibizione che davvero ha lasciato un segno nel cuore di tutti.

Indimenticabile anche il concerto di Vijay Iyer della contrabbassista Linda May Han Ho e del batterista Tyshawn Sorey. Un trio all star di musicisti straordinariamente dotati, al vertice del nuovo jazz a livello planetario. Nemmeno qui sono mancati i riferimenti all’impegno civile e politico della musica. Il pianista ha come modello d’ispirazione primaria l’opera poetica di Amiri Baraka con il quale ebbe una fruttuosa collaborazione. Sappiamo bene quanto fosse radicale la critica al regime capitalistico e schiavistico del poeta afroamericano che nel 2008 fu anch’egli ospite graditissimo di Udin&Jazz. Iyer a proprio modo se ne fa portavoce con una musica tellurica e carica di una bellezza abrasiva e indiavolata che non lascia indifferenti, esplosiva e perfino tribalistica nella sua essenza esplosiva e dirompente. In concerto, il trio s’impegna in lunghissime, compatte e travolgenti suite che sono un’esperienza immersiva e totale per musicisti e pubblico uniti in un percorso interiore di eccezionale valore.

Tra le conferme del festival anche quest’anno la “serata brasiliana” ispirata dal conduttore radiofonico Max De Tomassi, grande esperto della musica latinoamericana che durante tutta questa edizione di Udine&Jazz trasmetteva le cronache della rassegna in diretta su Radio Uno RAI nel suo programma estivo “Torcida”.
Il concerto del cantautore Ivan Lins, autentico monumento vivente della musica Popular brasileira, è stato il meraviglioso compimento di un breve interessante percorso tra interviste e approfondimenti che anche quest’anno ha avvicinato il pubblico di Udine all’universo creativo della musica tropicale.
Lins ha deliziato il pubblico con le sue melodie suadenti fatte di lontane nostalgie e dolcezze   di caramelle tra sofisticato jazz main stream e ritmi sudamericani del Samba e della Bossa Nova.

L’evento finale della rassegna udinese, il concerto degli Snarky Puppy è andato in scena in un gremitissimo Teatro Nuovo Giovanni da Udine. Centinaia di fan aspettavano con ansia da mesi questo concerto che non ha deluso per nulla le aspettative. Il supergruppo di League e Lawrence ha una preparazione tecnica e una capacità esecutiva fuori dall’ordinario che lascia basiti e ipnotizzati gli ascoltatori. Grandissima e coinvolgente la verve compositiva del gruppo che sul palcoscenico rivela un’energia che fa sognare e ballare e che fin dalle prime note disegna un largo sorriso sul volto di tutti da una parte all’altra del palcoscenico. Generosissimi si sono impegnati in un acclamatissima esibizione, con trionfale, meritata ovazione finale di tutto il teatro giusta conclusione di un festival come sempre tutto maiuscolo.
Dulcis in fundo da non dimenticare due iniziative per nulla minori che rivelano la cifra della manifestazione e le sue prospettive.
Il festival ha attivato un’interessante collaborazione con il collettivo Muud, acronimo di Musica a Udine, che normalmente si occupa di promuovere giovani artisti locali attraverso un canale di podcasting finalizzato alla condivisione di contenuti culturali sui social. Il sodalizio già sperimentato nelle due edizioni Winter di Udin&Jazz, ha trasmesso in diretta streaming interviste e succulenti approfondimenti in deliziosi dopo-concerto in un accogliente pub della notte udinese.

Di grande significato il gioioso Workshop d’introduzione al Jazz dedicato ai bambini nel quale, attraverso suoni e giochi, i più piccoli hanno giocato con le note blu. La loro fresca, genuina creatività è la migliore garanzia per il futuro della musica; al loro cuore è dedicata ogni emozione, saranno loro a decidere direzione e prospettive, qualunque percorso sceglieranno sarà quello giusto perché apparterrà solo a loro, di tutto il resto avrà ragione il tempo.
In fondo a queste righe è utile ripetere una celebre frase di John Coltrane che come sempre ci esorta a meditare sull’Amore supremo:
“Il Jazz se si vuole chiamarlo così, è un’espressione musicale; e questa musica per me è un’espressione degli ideali più alti: c’è dunque bisogno di Fratellanza, e credo che con la fratellanza non ci sarebbe povertà. E con la fratellanza non ci sarebbe nemmeno la guerra… with brotherhood, there would be no war.”

Flaviano Bosco

A Proposito di Jazz ringrazia Udin&Jazz Festival e il suo ufficio stampa per la collaborazione e i fotografi Luca A. d’Agostino, Angelo Salvin e Gianni Carlo Peressotti per le immagini.

Charles Mingus e la Rotary Perception – Percepire il suono dentro un cerchio

Parlare di aspetti tecnici nella musica di Mingus crea timore, perché ha uno stile così profondamente personale che qualunque parola si provi a scrivere su di essa sembra sempre sbagliata o incompleta. Questo timore ha dei tratti reverenziali, una delle caratteristiche più detestabili nell’ambiente musicale, giustificata dal fatto che meno si riescono a trovare parole, immagini, figure, o metafore per descrivere una musica più essa assume il carattere di divino, quel puro linguaggio musicale che può essere espresso solo tramite sé stesso e nessun’altra forma comunicativa. Trovare dei tecnicismi per spiegare la musica di Mingus è un chiodo fisso che mi porto avanti dal 2019 quando stavo scrivendo un ciclo di articoli dall’omonimo titolo di un disco “1959 – L’anno che cambiò il jazz”. Rimasi bloccato alla ricerca di una tematica fresca da sviscerare su Mingus, ma anche una volta trovata la situazione non era cambiata. Il motivo era che non sapevo come dare una chiave di lettura teorica a un dettaglio che avevo scovato e che mi cambiò in parte il modo di vedere la sua musica.

Nella sua a dir poco bizzarra autobiografia “Beneath The Underdog” ci sono passaggi metaforici che descrivono la sua personalità conflittuale, racconti erotici di sua fantasia, mescolati a stralci di ricordi d’infanzia, in tutto questo il jazz sembra sempre lo sfondo di qualcos’altro. Tuttavia, nel capitolo 38 racconta una scena che sembra fuori contesto rispetto al resto del libro. Mingus sta uscendo da un locale da lui chiamato “Fast Buck” quando incontra un critico musicale inglese che vuole intervistarlo in merito ai suoi pareri sul jazz attuale. Il contrabbassista risponde svogliatamente all’inizio, ma immediatamente dopo si lancia in una concisa e chiara critica sul free jazz del suo tempo. Parla di come molta della musica free di quegli anni non sia nient’altro che quello che già facevano i suoi amici di lunga data del bebop. Forme d’improvvisazione più libera, come una minor rigidità sui chord changes, era qualcosa che già faceva Charlie Parker, suonando tranquillamente settime maggiori sopra settime minori o frasi intere distanti una quarta rispetto all’armonia del brano. Il senso di questa narrazione è una lamentela verso il mondo stesso della critica musicale che considerava avanguardia questa new wave quando invece agli albori della carriera di Mingus quel modo di suonare era definito solo complicato e bizzarro. Nella prima risposta il dialogo è già sufficientemente incentrato su aspetti tecnici, ma quando il critico gli chiede come descriverebbe la sua stessa musica, la risposta è ancora più incalzante, ed è uno dei pochissimi momenti del libro in cui Mingus, detto anche il Barone, espone il suo pensiero musicale:

«There once was a word used–swing. Swing went in one direction, it was linear, and everything had to be played with an obvious pulse and that’s very restrictive. But I use the term Rotary Perception. If you get a mental picture of the beat existing within a circle, you’re more free to improvise. People used to think the notes had to fall on the center of the beats in the bar at intervals like a metronome, with three or four men in the rhythm section accenting the same pulse. That’s like parade music or dance music. But imagine a circle surrounding each beat–each guy can play his notes anywhere in that circle and it gives him a feeling he has more space. The notes fall anywhere inside the circle but the original feeling for the beat isn’t changed.»
(«Una volta si usava una parola: swing. Lo swing andava in un’unica direzione, era lineare. La musica andava suonata dritta e questo è molto restrittivo. Ma io uso il termine “rotary perception”. Se immagini il beat come fosse all’interno di un cerchio, sei più libero di improvvisare. La gente prima pensava che le note dovessero cadere al centro del beat, suddividendo la battuta in intervalli metronomici, con tre o quattro musicisti della sezione ritmica che accentuavano questa pulsazione. Come la musica da parata, o la musica da ballo. Immagina invece un cerchio attorno a ogni beat: ciascun musicista può suonare ovunque dentro quel cerchio e questo gli dà un senso di maggiore spazio ritmico. Le note possono stare ovunque all’interno del cerchio ma il feeling originale del beat non è cambiato» – da Charles Mingus Peggio di un bastardo – l’Autobiografia ed. BigSur trad. Ombretta Giumelli).
Questo passaggio del libro è stata la corrente che mi accese una lampadina nella primavera del 2019. La Rotary Perception ha la parvenza di essere qualcosa di più che un concetto filosofico o interpretativo, ma addirittura un approccio compositivo, bastava cercare qualche schizzo su pentagramma di Mingus in cui apparivano dei segni circolari e si potrebbe avere la conferma di come lui scrivesse musica e del suo processo creativo. Non era una possibilità così remota, d’altronde la sua storia viene incontro a questa ipotesi. L’esperienza dei jazz workshop dal ’53 investendo energie nel creare contesti di sperimentazione musicale, la sua infanzia che si lega prima alla musica classica, un amore da cui non si staccherà mai, e che trova sfogo con lo studio iniziale del trombone e del violoncello arrivando infine al contrabbasso, strumento che lo consacrerà al jazz. Non per ultimo era rinomato per essere erudito in materia di teoria musicale, e soprattutto molte delle sue influenze sono derivanti da rapporti ed esperienze esterne al jazz mainstream. Con parziale delusione, questi sono tutti presupposti giusti che non portano al risultato teorico aspettato. La prova che questa era una pista falsa risiedeva già nel nome, ma solo ultimamente ci ho fatto caso, eppure era così ovvio. Percezione è la parola fondamentale!
Rileggendo attentamente la citazione emergono alcune considerazioni importanti, ma due sono quelli che interessano questo articolo. Primo tra tutti c’è una critica ferma a quel jazz swingato molto ballabile, con l’organico che anche suonando ritmi sincopati oscillanti risulta nel suo complesso in un insieme sincronico, stabile e ordinato a livello di pulsazione e quindi di tempo. A esso, Mingus contrappone l’incredibile libertà che ha il musicista nel concepire il tempo, perché la pulsazione è prima di tutto dentro di noi. Per spiegare questo usa un’immagine molto vivida e fantasiosa, quella di un cerchio attorno alla pulsazione, la nota può cadere in qualunque punto al suo interno ma il beat non viene perso. In altre parole, questo vuol dire far coincidere una musica asincrona creando lo stesso la percezione che tutto sia perfettamente a tempo.


Ricercando altri riferimenti sul termine Rotary Perception, si trovano studiosi e musicisti che ne hanno parlato, ma il tutto confluisce sempre e solo nella citazione di questa frase, quasi al pari di un fun fact molto affascinante e misterioso. Tutto il discorso potrebbe essere quindi solo un personalissimo abbaglio, in fin dei conti bisogna ammettere che il nome può avere anche un significato che esula dall’aspetto tecnico ed è solo una suggestione mingussiana. In merito, Earl H. Brooks, sassofonista e docente di Inglese presso la University of Maryland, ha scritto numerosi articoli riguardo l’espressività della musica afroamericana, la retorica legata alla composizione nel jazz, in uno di questi parla proprio della Rotary Perception, dando una chiave di lettura affascinante. In breve, l’immagine del cerchio non è altro che il ritorno alle origini e alle radici della musica africana, teoria che ben si sposa con quel lato di Mingus ferocemente politico e parte della protesta nera per i diritti dei neri d’America. Nella storia della musica jazz questa riscoperta individuale e sociale della cultura africana d’origine ha fatto parte della retorica della musica jazz influenzandone lo stile e l’estetica dei musicisti, per questo motivo l’immagine del cerchio è anche una spiegazione dello sviluppo del linguaggio jazz da parte non solo del barone, ma anche dei musicisti neri dagli anni ’60 in poi. In concreto questa è la circolarità con cui le sfaccettature del blues, apparentemente accantonate per un periodo, rientrano prepotentemente nel free jazz, dando continuità a un approccio già nato con l’hard bop qualche anno prima. Per quanto l’analisi di Brooks spieghi molto della musica di Mingus, mi lascia in buona parte insoddisfatto. Perché in quelle specifiche frasi dell’autobiografia non si sta più parlando di politica o cultura afroamericana, ma solo di aspetti tecnici rispondendo alle domande di un critico, ed essendo una delle rarissime pagine in cui sembra parlare da compositore e musicista non ho ritenuto sufficiente l’affascinante lettura di un sottotesto implicito. Ribadisco, è vero che il ritorno alle radici è un tema che spiega buona parte della produzione di Mingus, ma ho la sfortuna di essere testardo e non accontentarmi della prima spiegazione sensata.
Sono convinto che la Rotary Perception possa essere una risposta a quella caratteristica della musica di Mingus che lascia sempre interdetti, ovvero quella magica pulsazione asincrona che fa suonare tutto perfettamente a tempo. Sembra una cosa da poco, ma è come immaginare una materia che sia contemporaneamente allo stato solido e gassoso, una dicotomia che non è più tale. Ogni volta che metto un suo album con gli amici divento un disco rotto e ripeto sempre la stessa frase: “Ascolta gli strumenti, è come se suonassero tutti in diagonale”. Ah Um, Mingus Dinasty, Blues & Roots, Tijuana Moods, Black Saint and the Sinner Lady, questi sono album in cui trovavo questo carattere diagonale come unico modo per dare una spiegazione a questo fenomeno percettivo.
L’articolo potrebbe finire a questo punto, magari aggiungendo qualche approfondimento e una frase ad effetto con delle conclusioni aperte… ma poi ho avuto un’ulteriore idea che nasce da una semplice domanda a cui valeva la pena dare sfogo: “Ma se provassi davvero a fare dei cerchi su uno spartito cos’accadrebbe?”.
Il tentativo è l’equivalente di saltare un fosso per lungo, ovvero codificare in modo personale la Rotary Perception su pentagramma attraverso un brano di Mingus, Pedal Point Blues.

https://www.youtube.com/watch?v=wAROdQOTaDw

Quelle nell’immagine sopra sono quattro battute del brano Pedal Point Blues dell’album Ah Um che ho trascritto con l’aiuto di Stefano Colombo, amico e collega musicologo che quando ascolta musica ha un udito tale che sembra avere il potere tipico di un protagonista di un manga. Le battute corrispondono all’ingresso del Sax Contralto a 32 secondi del brano fino a 38, ovvero quelle che ho trovato più congeniali per dare un esempio semplice e immediato di una mia interpretazione della percezione rotante di Mingus. Quella sopracitata è ovviamente una trascrizione standardizzata, tutti gli strumenti suonano perfettamente a tempo, pari-pari.

Invece quella che segue, è una rilettura che ho operato seguendo il concetto di Rotary Perception. Ho dovuto farla a mano per questione di comodità, con un risultato non perfetto, a dimostrazione che non ho preso la mano da geometra di mio padre in questo genere di lavori.

Ogni pulsazione è contornata da un cerchio cui centro (linea tratteggiata in rosso) rappresenta la pulsazione metronomica che in questo caso corrisponde alla batteria di Dannie Richmond. Quello che si nota subito è come il pianoforte – di cui ho segnato solo la linea di basso per economia della rappresentazione – suoni sempre molto indietro sul tempo nelle prime due battute, ma mantiene la stessa coerenza percettiva anche nelle battute precedenti e successive. Piccola curiosità in aggiunta, questo ostinato è eseguito da Mingus al pianoforte come scritto nelle note di copertina dell’album. La linea di basso viene ripresa e variata dal trombone di Jimmy Knepper e il sax tenore di Shafi Hadi, cui suonano un pelo sfasati tra loro, ma anche rispetto al pianoforte. Prima ancora di disegnare questi cerchi ho usato il righello in ogni battuta per essere sicuro che tutto fosse perfettamente allineato verticalmente e ascoltando il brano prima a velocità normale e poi a rallentatore ho realizzato che una linea azzurra sarebbe stata d’aiuto per visualizzare meglio l’ordine degli attacchi delle note. Il risultato è stato che si è formata proprio quella diagonale che ho sempre espresso solo verbalmente. All’ostinato tenuto dai tre strumenti si aggiunge la linea melodica del sax tenore di Booker Ervin a cui risponde il sax contralto di John Handy, tra i due si nota come non ci sia quasi mai una corrispondenza precisa se non nell’attacco del Mi bemolle e del Fa a battuta 1, i due musicisti sono sempre in un moto irregolare tra loro, a volte uno è in anticipo o in ritardo rispetto all’altro, per non parlare delle loro irregolarità continue con il basso ostinato sottostante, come all’inizio di battuta 2 dove la totalità della linea azzurra è a zig-zag.
Un pregio ulteriore di questa trascrizione che ho notato solo in fase avanzata di scrittura risiede in quei due quadrati verdi in quanto quelle note legate danno anche l’idea di quanto durino effettivamente. Un caso interessante è quello del sax contralto che a battuta 2 esegue una semiminima puntata che si interrompe molto prima rispetto al battere della pulsazione successiva; tuttavia, quando ho riguardato la trascrizione standardizzata mi sono accorto che l’avevo segnata come una semiminima senza il punto. La conseguenza è che la Rotary Perception mi ha permesso di dare un’altra interpretazione alla durata reale di quel suono che senza non sarebbe stata possibile. Stesso discorso dicasi per il sax tenore a battuta 4. L’ultimo punto interessante da notare sono quegli asterischi blu che sono dei tentativi di inserire anche la pausa come tempo percepito. Il discorso della pausa è più complicato ed è una cosa che ho inserito all’ultimo e che col senno di poi avrei scritto in un altro modo, soprattutto in quei punti della partitura dove ho messo l’asterisco blu tra parentesi. A conclusione della trascrizione una delle cose su cui ho meditato è che potrebbe essere tutto inutile in quanto usare i sedicesimi e i trentaduesimi aiuterebbero a segnalare meglio questi aspetti, ma paradossalmente sono proprio le frazioni più piccoli di durata a essere inutili, in quanto utilizzare la tradizionale notazione nella maniera più precisa distrugge completamente l’intento di portare la questione della percezione e come ognuno di noi può percepire dentro di sé la pulsazione. Questo discorso sulla durata però aggiunge un ulteriore passo a questo approccio che nella trascrizione manca completamente. Ovverosia, eliminando le gambe delle note, la potenza immaginifica dello spazio interno cerchio viene esalta ancora di più, ma è un pregio per un’esecuzione piuttosto che in sede di analisi come in questo caso.
Tutte queste riflessioni portano a una considerazione finale che ho avuto quando ho cercato altre versioni di Pedal Point Blues, imbattendomi in una a opera della Mingus Big Band, registrata nel 2005.

https://www.youtube.com/watch?v=rvH78lR5E5M

L’interpretazione del brano è molto ballabile e dritta, anni luce distante dal mood originale. Mi ha dato l’impressione che qualcosa si sia perso per strada tra i musicisti di oggi e quelli dell’epoca. Diventa chiaro come questo modo di percepire il tempo sia qualcosa che appartiene fortemente all’estetica di Mingus, ma è altrettanto vero che è una reinterpretazione più estesa di un modo di improvvisare tipico dal bebop in poi, con forti influenze in tutto quel jazz di matrice East Coast; in sintesi è qualcosa che appartiene al passato. Se guardiamo all’oggi ci accorgiamo come non sia raro trovarsi a chiacchierare tra musicisti riguardo polimetri, poliritmi, tempi dispari, cambi di tempo e quant’altro, tutti parametri che creano una grande oscillazione del tempo e che testimoniano come il discorso sul ritmo e sul tempo si sia evoluto. Tuttavia, rileggendo le parole di Mingus, viene da riflettere che forse manca all’appello la percezione in questo dialogo contemporaneo, forse perché è la componente più inafferrabile e che crea incertezza. La conseguenza di questo processo porta a una domanda lecita…
Davvero abbiamo smesso di ricercare le personali espressioni del proprio pensiero musicale per polarizzare il nostro interesse o verso il copiare e riprodurre i più comodi escamotage tecnici per essere accettati dalle istituzioni musicali o verso il superamento dei limiti della tecnica solo per far sembrare la nostra musica più alternativa e innovativa?


Alessandro Fadalti

Il nuovo festival jazz del Conservatorio Santa Cecilia “Jazz Idea”, a Roma dal 6 marzo

Si inaugura il 6 marzo a Roma “Jazz Idea”, il nuovo festival jazz del Conservatorio Santa Cecilia, con la direzione artistica di Carla Marcotulli, cantante e docente di Canto Jazz presso il Conservatorio.
Una nuova manifestazione ad ingresso libero, che vede protagonisti grandi nomi del jazz italiano e internazionale accanto ai nuovi talenti provenienti dal Dipartimento Jazz del Conservatorio di Santa Cecilia. Tanti gli artisti presenti nel cartellone, tra cui David Linx e il suo Voices Unlimited in quartetto con il grande batterista statunitense Bruce Ditmas (concerto 3 aprile, Masterclass 4 aprile), Alex Sipiagin ospite del quartetto di Riccardo Fassi e Stefano Cantarano (27 marzo), Maurizio Giammarco con il suo Syncontribe trio (13 marzo), Franco D’Andrea (concerto in piano solo il 20 marzo, Masterclass il 21 marzo), Giovanni Tommaso (6 marzo nel trio guidato dalla pianista di Cinzia Gizzi, 7 marzo Masterclass), Paolo Damiani con Daniele Roccato (10 aprile), Bruno Tommaso con una Masterclass (21 aprile), Rosario Giuliani in duo con Pietro Lussu (20 marzo), Nicola Stilo con Carla Marcotulli (27 marzo), Mario Corvini e Claudio Corvini con il Santa Cecilia Jazz Ensemble (6 marzo), Fabio Zeppetella, Pietro Leveratto e Ettore Fioravanti in quartetto con Carla Marcotulli e Cinzia Gizzi per un tributo a Dick Halligan (10 aprile), Lucio Perotti in trio (13 marzo).

Tredici concerti aperti al pubblico, strutturati in sei appuntamenti, che si terranno nella bellissima Sala Accademica del Conservatorio (via Dei Greci 18), caratterizzata da una delle migliori acustiche al mondo e dal Grande Organo Walcker-Tamburini. Protagoniste del Festival sono le nuove idee musicali, attraverso un dialogo interattivo fra tradizione e nuovi linguaggi.
Rilevante, la partnership con l’Università Ca’ Foscari: il 3 aprile il gruppo di improvvisazione del Conservatorio di Santa Cecilia si unirà in concerto a quello dell’Università, denominato MusiCa Foscari e guidato dal M° Daniele Goldoni. Un incontro che sarà preceduto, qualche giorno prima, da un live all’Auditorium Santa Margherita di Venezia. Il concerto inaugurale, domenica 6 marzo alle 18, omaggia Charles Mingus in occasione del centenario della sua nascita, attraverso una formazione orchestrale con sonorità che ricordano uno dei suoi ensemble più rappresentativi: la Mingus Big Band. Protagonista sarà il Santa Cecilia Jazz Ensemble diretto da Mario Corvini, che interpreterà i brani di Mingus arrangiati dagli allievi del corso di Composizione Jazz del Conservatorio, tenuto da Pietro Leveratto. Special guest: il trombettista Claudio Corvini. In apertura, il trio guidato dalla pianista Cinzia Gizzi, con una ritmica eccellente formata dal celebre contrabbassista Giovanni Tommaso – una leggenda del jazz italiano e internazionale – e da Marco Valeri – uno dei batteristi più creativi del panorama nazionale.
Il festival “Jazz Idea” rappresenta anche un ideale passaggio di consegne: da Paolo Damiani – fondatore e direttore del precedente Festival “Percorsi Jazz” – a Carla Marcotulli, ideatrice del nuovo format che ha tra gli obiettivi proprio quello del trasferimento di informazioni tra gli artisti di riferimento del jazz e le energie della nuova generazione.
Oltre ai concerti, nel programma di Jazz Idea anche Masterclass: lunedì 7 marzo, Giovanni Tommaso in “Teoria della Piramide – 5 Steps to Heaven”; lunedì 21 marzo Franco D’Andrea in “Applicazioni pratiche delle aree intervallari”; lunedì 4 aprile David Linx nel suo “Voice Unlimited Workshop” aperto al pubblico con un contributo di €15; lunedì 21 aprile Bruno Tommaso in “Parafrasi, mascheramenti, plagi e truffe”.
Riservati esclusivamente agli studenti del Conservatorio i quattro incontri con Nicola Stilo per il Silver’n’voices Lab che si terranno il 4, 11, 18 e 25 aprile.

PROGRAMMA DETTAGLIATO
6 MARZO  
Cinzia Gizzi trio
Cinzia Gizzi pianoforte / Giovanni Tommaso contrabbasso / Marco Valeri batteria

Mingus Centenary – Santa Cecilia Jazz Ensemble
direttore Mario Corvini
feat. Claudio Corvini
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13 MARZO
Rivisitando SYMBIOSIS di Claus Ogerman
Lucio Perotti Trio
Lucio Perotti pianoforte / Giulio Scarpato basso / Massimo Di Cristofaro batteria

SYNCOTRIBE TRIO

Maurizio Giammarco sax / Luca Mannutza hammond / Enrico Morello batteria
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20 MARZO
Rosario Giuliani/ Pietro Lussu duo
Rosario Giuliani sax / Pietro Lussu

Franco D’Andrea piano solo
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27 MARZO
Santa Cecilia Silver’n’voices Lab
Nicola Stilo & Carla Marcotulli

Riccardo Fassi – Stefano Cantarano Quartet special guest Alex Sipiagin

Alex Sipiagin tromba / Riccardo Fassi piano / Stefano Cantarano contrabbasso
Valerio Vantaggio batteria
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3 APRILE
Santa Cecilia meets Ca’ Foscari
Alessio Sebastio & Minji Kim
Melting pot
Minji Kim voce / Alessio Sebastio pianoforte

David Linx Voice Unlimited
David Linx voce / Vittorio Esposito piano / Davide Di Mascio contrabbasso,
Bruce Ditmas batteria
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10 APRILE
Daniele Roccato & Paolo Damiani
Bass in the mirror
Paolo Damiani contrabbasso / Daniele Roccato contrabbasso

Tribute to Dick Halligan and his Music

Cinzia Gizzi piano / Carla Marcotulli voce / Fabio Zeppetella chitarra /
Pietro Leveratto contrabbasso / Ettore Fioravanti batteria

Redazione

My Favourite Things… le cose che preferisco: Jazz in Friuli Venezia Giulia 2021

My Favourite Things… le cose che preferisco: Jazz in Friuli Venezia Giulia 2021, part 1 – di Flaviano Bosco

In barba alle più catastrofiche previsioni che volevano il mondo dello spettacolo in ginocchio per le restrizioni dovute all’epidemia, le proposte musicali in Friuli Venezia Giulia negli ultimi 12 mesi sono andate moltiplicandosi a dismisura. Per quanto riguarda soprattutto il jazz non si era mai visto un tale fermento, i circuiti tradizionali di sale da concerti e locali si possono considerare paradossalmente saturi tanta è l’offerta. La risposta del pubblico, tenuto conto del momento, è sempre stata assolutamente straordinaria dimostrando tutta un’autentica passione per un genere musicale generalmente considerato “difficile”.
Il successo delle varie rassegne che prenderemo in considerazione è dovuto anche alla tenacia di associazioni e di organizzatori che da decenni operano sul territorio e che hanno “educato” e cresciuto un proprio pubblico con proposte sempre di alto livello, regalando la possibilità anche a chi risiede alla “periferia dell’impero” ma in diretta connessione con le realtà centroeuropee, di gustare le star internazionali e la musica più raffinata sulla scena mondiale.
Basta mettere insieme i vari cartelloni che si susseguono ininterrottamente durante l’anno in regione per capire quanto sia apprezzata la musica dal vivo. Certo non è possibile contare su centinaia di migliaia di potenziali spettatori come succede nelle metropoli, ma gli appassionati friulani, giuliani e gli amici d’oltre confine, austriaci e sloveni, garantiscono un seguito attento e fidelizzato.
Certo permangono delle problematiche e zone d’ombra particolarmente evidenti come quelle causate dalla cecità di alcune amministrazioni comunali che, per motivi biecamente strumentali e ideologici, cercano inutilmente in ogni modo di boicottare alcune manifestazioni; si è fatta più evidente la carenza di spazi adeguati per l’ascolto e per le esibizioni, i luoghi ci sono ma, inspiegabilmente, qualcuno preferisce tenerli chiusi o riservati ai pochi eletti; manca quel coordinamento a livello regionale tra i vari enti e associazione che potrebbe rendere omogenea e competitiva una proposta unitaria per quanto riguarda la musica e, in generale, il mondo dello spettacolo. Se esistesse una qualche forma di coordinamento le proposte e le risorse che il Friuli Venezia Giulia è già in grado di mettere in campo anche dal punto dell’attrattiva turistica non avrebbero uguali e nemmeno rivali almeno a livello nazionale. Un’amministrazione lungimirante della cultura, in questo senso, potrebbe essere un vero volano anche per l’economia locale di straordinaria forza trainante anche per gli altri settori. Qualcuno comincia ad accorgersene ma non si è ancora fatto abbastanza.
Senza fare troppe polemiche comunque è il caso di spendere qualche parola almeno sulle tre rassegne più blasonate, le prime due (Udin&Jazz e Il Volo del Jazz) ormai radicate, vincenti e per così dire storiche, che da anni si ripetono stagione dopo stagione con grande capacità di rinnovamento e di crescita; l’ultima nata (Estensioni), invece, è stata la più bella sorpresa dimostrando che con impegno, costanza e passione è sempre possibile trovare nuove suggestioni per la musica jazz nel senso più largo possibile della definizione.
Suddivideremo questa recensione in tre articoli, partendo di seguito con la rassegna Estensioni Jazz Club Diffuso 2021.

Estensioni Jazz club Diffuso 2021 è una rassegna di concerti che ha voluto riportare l’atmosfera di creatività e socialità di un jazz club, al di fuori di contesti metropolitani, andandosi a collocare in luoghi inusuali, lontani dalle solite rotte. Dagli spazi industriali di Schio passando per le architetture militari di Forte Col Badin, ai confini con l’Austria e Slovenia, per approdare nella pianura friulana che si unisce con l’Adriatico per proseguire verso il Po, alla ricerca dell’essenza del suono e della contaminazione tra linguaggi. 7 mesi di programmazione artistica, Concerti, Mostre, Workshop, 4 regioni italiane, 70 artisti”.
Così recitava la locandina della rassegna concepita dalla luciferina creatività di Luca A. d’Agostino e così è stata la lunga avventura di “Estensioni” un’esperienza musicale con pochi precedenti in regione o forse nessuno. Nuove traiettorie e una nuova concezione del fare musica e dell’ascoltarla. Naturalmente non è possibile, almeno in questa sede fare una disamina puntuale di ogni concerto o esibizione, abbiamo scelto di concentrarci su due degli artisti più significativi tra i tanti, trascurando gioco-forza le autentiche epifanie musicali di Alfio Antico, Arti & Mestieri, Patrizio Fariselli Area Open Project, Ginevra di Marco, Francesco Magnelli, Giovanni Maier, Andrea Massaria, Maistha Aphrica e tutti gli altri fino alla chiusura con il Bluegrass del “bisteccone” Joe Bastianich, non ce ne voglia nessuno ma non possiamo fare altrimenti.
Marco Colonna: artista di grandissima intensità, il sassofonista romano è stata una delle stelle più luminose di questa rassegna. Amico del Friuli ha già partecipato ad altre manifestazioni regionali. In questa occasione ha suonato al Impro festival di Schio (Vi) gemellato con “Estensioni” e dedicato a John Coltrane e poi ad Aiello del Friuli con il mago delle tastiere Giorgio Pacorig.
Per non sembrare troppo apologetici e pedissequi descrivendo le sue due ottime esibizioni della rassegna, si ritiene che valga la pena soffermarsi su un’incisione live che ne è stata il preludio e l’antefatto. Sempre durante una rassegna estiva friulana (Musica in Villa di Gabriella Cecotti) Colonna aveva dedicato alla musica di Coltrane alcune sue meditazioni per clarinetto basso e sax sopranino che oggi si possono ascoltare in: “Offering, Playing the music of John Coltrane”.
Il funerale di Trane fu alla St.Peter’s Lutheran Church. Suonarono il gruppo di Albert Ayler e quello di Ornette. Ayler fece Truth is Marching on, ma non era vero con Trane se ne andava una buona parte di verità. Tutto suonò più falso, dopo. La morte del griot ebbe conseguenze terribili. Perdemmo l’equilibrio, sbandammo, ci perdemmo nei vicoli, nelle nicchie, nell’inconseguenza. Non eravamo l’avanguardia di niente e di nessuno. Quando i cacciatori di teste si scatenarono in lungo e in largo per il Paese, noi ci affidammo a sogni d’oppio, divinità vendute al supermarket, canti di sirene che ditoglievano dalla lotta. I fortunati trovarono una vita in Europa, alcuni scelsero l’Africa, come Stokely Carmichael. C’è chi tornò da dove era venuto, di qualunque posto si trattasse. (WuMing 1, New Thing, Einaudi, pag 190)

Accostarsi alla musica di Coltrane è di per se un’esperienza spirituale. Non si tratta minimamente di un semplice ascolto musicale. È in tutto e per tutto un’ascesa, un tortuoso itinerario in una dimensione ineffabile nella quale l’ascoltatore è guidato come in una pubblica preghiera dalle note, verso un’introspezione interiore, una vera e propria meditazione che non esclude a priori il dolore e la solitudine. E’ necessaria una radicale rinuncia alla propria protervia, ragionevolezza e volontà di comprendere sempre tutto a tutti i costi. Sembra paradossale ma la musica di Coltrane non ha bisogno di essere “capita” , ma vuole solo essere accettata e metabolizzata, assimilata, fagocitata.
È materia complessa che dobbiamo imparare a rispettare e ascoltare
L’approccio di Marco Colonna è programmaticamente del tutto meditato e rispettoso, proprio come deve essere. In questo concerto non mancano di certo i momenti in cui i suoi sax esprimono un afflato mistico e spirituale ma l’interpretazione è del tutto laica e perfino materialistica, predilige l’astrazione ma non è per niente confessionale.
La vera mistica elevazione è quella che contempla l’assoluto vuoto, disanimato, minerale e sidereo. Potrebbe essere proprio questa la chiave per capire la sua interpretazione che volutamente tralascia i momenti più lirici della produzione coltraniana più nota (non ci sono brani da A Love Supreme) concentrandosi sui luoghi più desolati della riflessione del grande sassofonista.
Nessun sotto testo liturgico, nessuna giaculatoria, ma tutta immaginazione creativa ed estatica rielaborazione, in una ritualità della musica che diventa materia sottile che si sottrae ad ogni tentativo di definizione o al contrario, di astrazione. “Manifesta la sua presenza” e questo ci deve bastare.
Colonna ha dichiarato in una recente intervista riferendosi all’opera di Coltrane:
“La cosa che mi affascina da sempre, è il suo rigore, la sua continua ricerca di esprimere attraverso l’eccellenza una visione più alta della musica” (da kulturunderground.org)
Riservandosi la libertà e la personale identità nell’interpretare quei testi sacri della letteratura sassofonistica, Colonna ne rispetta profondamente l’intenzione. La grande differenza sta nel fatto che Coltrane aveva una vera e propria ossessione per il controllo di ogni singola nota attraverso la quale il suo spirito si manifestava. Colonna è, al contrario, un improvvisatore nato che sa osare mantenendosi sempre è assolutamente libero e non ha paura di perdersi e di sbagliare. Coltrane non se lo poteva permettere, lui era l’avanguardia , l’esploratore di territori incogniti e della loro vastità. Grazie a lui e agli altri pionieri dell’avant garde siamo relativamente liberi di vagare in quegli spazi e in quei luoghi del nostro cuore.
Si permetta un accostamento iperbolico ma “Offering” per associazione di idee fa venire in mente La Musicalisches Opfer, l’Offerta musicale di Johann Sebastian Bach. Il re Federico II di Prussia, grande appassionato di musica e discreto flautista egli stesso, nel lontano 1747, invitò a corte il grande compositore per onorarlo. Gli fornì un tema musicale e Bach si offrì di improvvisare delle variazioni.
È proprio questo che Marco Colonna ha offerto anche nelle sue esibizioni per Estensioni Jazz club diffuso: meravigliose variazioni e interpretazioni sulle musiche dell’imperatore del sassofono.
Quella che si è officiata nella chiesetta di Santa Maria delle Grazie di Castions che il live documenta in presa diretta su CD, è un genere di celebrazione non meno spirituale ed elevata di quella tenutasi alla chiesa luterana di San Pietro a New York in quel triste mattino del 1969.
Certo è stata meno luttuosa e ferale ma la carica emotiva è stata in ogni caso enorme. Come documentato dal video, facilmente reperibile on line e anche da qualche puntuale recensione, il concerto si è svolto in una location particolarmente raccolta, un a piccola luogo di culto con una discreta comunità che da sempre gli si stringe attorno “in fondo alla campagna” friulana.
La Glesie Viere di Castions è uno di quei luoghi che da secoli sono vocati alla spiritualità più angelica e ingenua quella dei figli di una terra contadina, “bambine bionde con quegli anellini alle orecchie, tutte spose che partoriranno uomini grossi come alberi e se cercherai di convincerli allora lo vedi che sono proprio di legno” così come dice l’avvocato di Asti in una famosa canzone, andando avanti nella metafora probabilmente quello è legno di risonanza, proprio lo stesso che amplificava la voce del violino di Paganini o della spinetta di Mozart, certo anche i friulani d’oggi, in un certo senso, possono essere definiti uomini e donne di legno ma proprio per questo sensibili alla musica.
Proprio quest’anno abbiamo salutato mestamente uno dei decani della musica friulana l’organaro Gustavo Zanin artigiano dei sogni e di meraviglie musicali che ben rappresentava questa rustica raffinatissima sensibilità. Proprio lui ha testimoniato per decenni l’antica vocazione alla spiritualità in musica degli abitanti di queste terre tra le sorgenti e il cielo.
Tra i muri della chiesetta fatti di sassi di fiume e impastati di sudore, vibrano e risuonano da centinaia di anni le preghiere, mormorazioni, giaculatorie, richieste di grazia e perfino bestemmie di quelle stesse anime che li costruirono pietra dopo pietra. E’ proprio una questione di risonanza che ha reso il concerto di Marco Colonna così intenso e straordinario. La chiesetta con il ristretto pubblico seduto composto sugli scomodi banchi di legno, ha un’acustica particolarissima del tutto liturgica che fa risaltare i toni gravi del clarinetto basso rendendoli strazianti e trasforma la voce del sax sopranino nel belato di un agnello.
Naturalmente, la registrazione per quanto accurata e tecnicamente raffinatissima non ha potuto cogliere anche quella speciale magia che solo l’esibizione dal vivo in presenza sa regalare.
In questi anni di insopportabili concerti e spettacoli in streaming, videoconferenze, meeting sulle piattaforme, didattica a distanza, smart-working abbiamo davvero capito almeno una cosa, da tutte le informazioni digitali che ci è toccato sorbirci dai nostri device: la presenza umana è insostituibile.
La parola così come la musica, costretta nei bites dei nostri devices, muore.
È proprio per questo che, forte anche di queste precedenti esperienze, la rassegna “Estensioni Jazz club diffuso” ha rifiutato lo streaming preferendo disseminarsi e disperdersi in location insolite e perfino imprevedibili ma sempre cariche di umanità autentica come quella chiesetta di sassi. L’arte e la musica in particolare non sopportano più la musealizzazione cui la pseudo-cultura della visione televisiva o digitale l’hanno costretta, hanno bisogno di ritornare a dissolversi nel paesaggio, ridiventare figura tra le figure, materia viva che diventa mondo nel proprio divenire.
In questo senso, è possibile comprendere la bizzarra ma intelligente istallazione artistica “Jazz a perdere” di Luca A. d’Agostino che ha fatto da sfondo, è il caso di dirlo, ad alcuni concerti sul Forte di Col Badin presso Chiusaforte (UD). Lungo la salita verso il forte stampate su carta biologica le suggestive immagini del fotografo se ne stavano appese agli alberi come preghiere tibetane nel vento fino a che gli agenti atmosferici e il tempo se le sono riprese riassorbendole nell’ambiente circostante. Un’idea davvero poetica dall’effetto garantito.

Autostoppisti del magico sentiero: l’ensemble, agglutinato attorno alla magia del poeta Franco Polentarutti e ai “chilometri” del chitarrista Fabrizio Citossi, ha una formazione del tutto variabile che nelle sporadiche, preziose esibizioni riesce a creare una particolarissima alchimia, così è stato nell’ambito di “Estensioni” in cui hanno riproposto alcune atmosfere dei loro due lavori discografici sui quali ci permettiamo di dilungarci un po’.
Poche chiacchiere! Le ultime due incisioni de Gli Autostoppisti del Magico Sentiero sono quanto di meglio la musica sperimentale Avant Garde abbia prodotto nell’ultimo decennio nel nostro paese, se ancora esiste una cosa che si può chiamare così.
Quello che si ascolta in quei dischi è difficilmente catalogabile, non esiste qualcosa di paragonabile. I due lavori pubblicati a breve distanza quasi l’uno di seguito all’altro rappresentano riflessioni in musica e parole sulla contemporaneità.
Il primo, “Sovrapposizione di Antropologia e Zootecnia” s’interroga sul tema del significato del viaggio nel mondo contemporaneo massificato, nel quale sembra che non ci sia più niente da scoprire, esplorare, conquistare. È vero il contrario; Gli smartphone, la geolocalizzazione e le immagini satellitari modificano e confondono le nostre percezioni, quindi noi vediamo solo cosa l’algoritmo ritiene necessario farci vedere, gran parte della realtà dalla quale siamo abitati è per noi buio fitto molto più di prima; a volte non conosciamo nemmeno il nostro quartiere e se passeggiamo per la nostra città senza la “vocina” della nostra mappa virtuale ci sentiamo perduti. Le nostre abitazioni ordinate, chiuse dalle tangenziali come barriere esterne dei nostri agglomerati sono in realtà allevamenti intensivi di zootecnia umana, tecnologici ovili che preludono ad altrettanto meccanizzati mattatoi “for your eyes only”.

Il secondo lavoro “Pasolini e la peste” è ibrido, caotico, magmatico, pulsante, sporco, blasfemo, in una parola meraviglioso e davvero stimolante. È una delle opere ispirate al poeta di Casarsa, più creative e diagonali degli ultimi anni. Davvero poche reggono il confronto, vengono in mente, in questo senso, solo la messa in scena teatrale di “Una giovinezza enormemente giovane” di Gianni Borgna per la regia di Antonio Calenda con la magistrale, spettrale interpretazione del poeta da parte di Roberto Herlitzka (2015) e anche le Graphic Novels a tema pasoliniano dell’Allegro Ragazzo Morto Davide Toffolo.
Negli ultimi anni, appropriarsi del corpo morto del poeta (His mortal remains) è diventata una prassi senza alcuna remora o criterio; ognuno di tanto in tanto, ne sbrana un pezzettino, per poi masticarselo in tutta calma in interpretazioni e male letture. Quei brandelli di carne coriacea e indigeribile finiscono poi sputati in qualche angolo quando la loro amara sostanza fecale si è rivelata disgustosa per quei palati e quegli stomaci borghesi.
Nel corso degli anni se ne sono sentite di tutti i colori: dal Pasolini ultra-cattolico integralista a quello cripto-fascista; dal maniaco sessuale, pedofilo e onanista, al santo laico con la mano sul cuore; dal bandito rapinatore con la rivoltella d’oro in pugno fino all’eretico anarco-comunista con la bandiera nera, le spighe tra i capelli e molto altro.
Per fortuna, la sua figura e le sue opere sono talmente indecifrabili, eretiche, liminali, trasversali, non allineate, eccentriche che nessuno, proprio nessuno, può davvero appropriarsene.
Il Pasolini romantico, nostalgico e radical chic ricordato da Nanni Moretti nel suo detestabile “Aprile”, si contrappone ai tanti “Mortacci” assassinati nei vari film pseudo biografici, alcuni anche piuttosto ben confezionati, dedicati al caso del “Delitto Pasolini”. Gli “Autostoppisti” fanno un passo al di la di tutto il ciarpame pseudo pasoliniano e scelgono di bestemmiare e dissacrare il poeta con lo sberleffo dell’ironia e del sarcasmo, proprio come sarebbe piaciuto a Pasolini.
Bastano questi due esempi luminosi per comprendere che “Estensioni Jazz Club Diffuso” dopo questa prima edizione saprà farsi valere nel prossimo futuro continuando ancora con le sue scelte creative e fuori dai sentieri battuti in uno splendido nomadismo musicale e culturale sempre in viaggio verso il cuore della musica.

Flaviano Bosco