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Stefania Tallini

Stefania Tallini

Intervista con la pianista Stefania Tallini

Ho tra le mani il suo ultimo splendido cd, “The Illusionist” (Alfa ), in uscita proprio in questi giorni e lei, Stefania Tallini, è seduta accanto a me nel salotto di casa: “Stefania innanzitutto complimenti per questo magnifico Piano Solo che rappresenta anche il disco numero…”; “numero 6” – ci risponde con soddisfazione Stefania.

Perché questo disco in solitudine?
“Perché avevo bisogno di farmi carico di tutta la mia musica: quindi di ricoprire il ruolo di interprete in modo totale e nello stesso tempo di stare da sola… ma non solo musicalmente. Mi era necessario, infatti, per convogliare alcuni miei vissuti nella mia dimensione artistica e a conti fatti è stato un bene: il disco conferma che in questo momento era proprio ciò di cui avevo bisogno. Ma il paradosso è che mi sento molto più in rapporto con gli altri con questo disco, che non con tutti quelli fatti “in compagnia”, forse perché stavolta ho sentito che era necessario cercare “l'umano” della musica”.

Ma c'è stato anche qualche elemento di carattere pratico?
“In effetti sì…per uno strano caso, venivo da un periodo in cui mi si richiedevano sempre esibizioni in Piano Solo e facendo questi concerti, la musica – senza che me ne rendessi conto – ha preso forma sempre più e mi ha portata poi un giorno a sentire che era arrivato il momento di registrarla. In particolare l'ultimo di questi concerti (presso la libreria Amore e Psiche di Roma), mi ha dato la spinta finale verso la realizzazione dell'album. Ma la cosa molto carina è stata che un grandissimo artista – il pittore Alessandro Ferraro – era presente a quel concerto e seduto in un angolo nascosto della libreria ha fatto una serie di bellissimi disegni, ispirandosi ai miei brani. La conseguenza più naturale è stata quella di inserire quelle immagini nel booklet, che lui mi ha generosamente regalato. Oltre poi alla copertina creata appositamente per il mio disco, che personalmente trovo fantastica”.

Concordo nella maniera più assoluta; e restiamo sul disco. Quali le difficoltà incontrate nella realizzazione di un album del genere?
“Innanzitutto all'inizio il rapporto con un Fazioli meraviglioso, perché era talmente meraviglioso da essere ipersensibile a qualsiasi sfumatura di tocco, per cui è ho impiegato un po' di tempo a prendere le giuste misure. Ma una volta trovato il modo di “accarezzarlo” – così come vuole l'ing. Fazioli – è stata un'esperienza bellissima e importante. E credo di non essermi mai sentita così fusa con il come in quei due giorni di solitaria registrazione.
Invece, al livello più interno ti dico che il Piano Solo è una cosa molto, ma molto particolare perché significa essere sinceri fino in fondo, senza nascondersi, senza “affidarsi” agli altri, senza scappare. Ti senti fragile, non hai difese, sei nudo, a pelle viva e con l'esigenza profonda di esprimere quel sentire ma con la paura di non riuscire a farlo. Per questo mi sono concentrata totalmente sull'espressività, sui colori, sulle sfumature, cercando di “cantare” il più possibile e trovando nella melodia il mezzo più efficace per esprimere ciò che volevo esprimere. Quindi il lavoro sul tocco è stato importantissimo: dovevo portare le mie dita alla massima sensibilità, quasi a farle diventare un prolungamento del cuore. Quindi è stata una ricerca su questa dimensione molto intima”.

Ma cosa volevi trasmettere, per l'appunto?
“Emozione. L'emozione che veniva da un vissuto mio molto forte e intenso che, per fortuna, ha potuto trasformarsi in musica. Apparentemente tutto si era bloccato, ma poi è accaduto qualcosa che – come un'onda calda – mi ha riportata al “sentire” di nuovo i suoni.

L'ingresso in sala di incisione era accompagnato da una scaletta molto precisa o c'è stato spazio per l'improvvisazione anche nella scelta dei brani?
“No, sono andata un po' a feeling anche se i brani – tranne, ovviamente, le due improvvisazioni – li avevo già decisi: comunque il primo giorno ho inciso quelli più melodici, mentre il secondo è stato dedicato ai pezzi più ritmici ed energici.

Il disco rispecchia quest'ordine o hai lavorato dopo sulla scaletta?
“ Io ho l'abitudine di lavorare molto sulla scaletta a cose fatte, perchè ritengo che il susseguirsi dei pezzi sia una cosa fondamentale: è come un racconto e quindi deve seguire un certo filo, anche espressivo. Per me il senso della forma è la prima cosa, sia un brano, che nell'intero album”.

La musica è originale, come al solito?
“Sì, i brani sono tutti miei, tranne “Over the rainbow”, che adoro e che quindi sento un po'come fosse mio. L'ho infatti riarrangiato in modo molto personale.

Soddisfatta della fatica?
“Assolutamente sì. Ero terrorizzata fino al giorno prima che uscisse ma – una volta riascoltato – posso dire che forse è il disco più importante che abbia mai realizzato ed è quello che mi rappresenta di più: in senso musicale, ma – soprattutto – in senso umano”.

Progetti futuri?
“Cerco di seguire ciò che sento e ciò che la musica mi dice…Aspetto che arrivi l'onda calda dell'ispirazione, per scrivere nuovi pezzi. Comunque mi piacerebbe fare un progetto con Paul McCandless e sto già pensando a qualcosa di nuovo che ovviamente si discosti dal piano solo. Ma mi piacerebbe molto anche realizzare un progetto dedicato al Brasile, che amo follemente. Vedremo in futuro. Ora mi godo “The Illusionist”.

E adesso tocchiamo una nota dolens: la situazione del mercato. Come si presenta attualmente ? Occasioni di lavoro?
“Francamente non so che dire, le difficoltà sono infinite, soprattutto in questo periodo. In Italia in particolare la situazione è quella che è: politicamente, socialmente, artisticamente e credo che non ci siano più parole. Ma certo, se in questo paese si continuerà a considerare Allevi ed Einaudi come grandi jazzisti, come genii e inventori della nuova musica, probabilmente non ci sarà mai posto per la musica di ricerca”.

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