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Non capita tutti giorni di dover fare un viaggio in treno con…il jazz. Ci stiamo dirigendo a Borgosesia, io Dino Piana ed Enrico Pieranunzi per un concerto nell' ambito delle Giornate Musicali che dovrò poi raccontare. L'idea iniziale è quella di un'intervista strutturata, rigorosamente separata tra uno e l'altro, ma presto questa si trasforma in una chiacchierata informale in cui le mie domande  andando avanti lasciano sempre più spazio all'ascolto. Quello che state per leggere è il resoconto di queste considerazioni libere e appassionate sulla musica, sul ruolo dei musicisti, sul loro rapporto con il pubblico da parte di due “anime musicali” garbate, sincere, vitali e profonde.

Enrico Pieranunzi

Enrico Pieranunzi

ENRICO PIERANUNZI ALLA VIGILIA DEI CONCERTI AL VILLAGE VANGUARD

– Enrico, stai per andare a New York per una serie di concerti al Village Vanguard. Con chi suonerai, e cosa provi alla vigilia di un evento così straordinario?

“ Andare a suonare al Vanguard è come cantare alla Scala per un tenore o giocare la finale dei mondiali al Maracanà. Nessun italiano infatti ha mai suonato lì come leader nella storia del jazz, né vi ha registrato mai dal vivo. In più suonerò con due miti come Paul Motian e Marc Johnson, su invito personale del primo… Quindi sono molto emozionato e mi sembra naturale…va bene così. Fino a che sono nervoso, in tiro, è ok, è buon segno… la “non fibrillazione”, il distacco saggio e controllato mi preoccupa sempre, invece”.

– Questo sano “fibrillare” si tramuta in cosa, al momento di salire sul palco?

“Diventa concentrazione, attenzione estrema ai suoni, tuoi e degli altri, trascolora in una tensione positiva, generatrice di emozioni. E non può che essere così suonando a fianco di questi due grandi artisti. Io sarò sì il leader “nominale “ del trio, ma Motian è un musicista così geniale e imprevedibile e di tale spessore che spesso la direzione della musica la da lui. Il che va benissimo, visto che proprio lui è uno degli inventori del cosiddetto “interplay” di evansiana memoria. E anche Marc è un musicista dalla sensibilità straordinaria…”

– L'emozione di qualcosa di “storico” quindi…Prova a parlarcene

“ Dopo tanti anni di musica questo evento, così unico, per me è davvero importante e bellissimo. E' un sogno che si avvera, un sogno che tanti anni fa non avrei potuto neanche sognare… Da ragazzo ascoltavo i dischi di Coltrane o Bill Evans registrati al… Village Vanguard, immaginavo quel posto in cui era nata musica così bella, così intensa e ora vado a suonare su quello stesso palco dove loro hanno scritto la storia del jazz. E' fantastico, no? E' una sfida sul piano della creatività e della bellezza, è uno stimolo incredibile. Se vuoi è anche una sorta di importante “compimento”, un'investitura internazionale. Ne sono felice. E aggiungerei che il mio andare a suonare là è una cosa importante anche per tutto il jazz italiano, è rappresentativo di un movimento più grande, cui concorrono tanti musicisti ormai apprezzati in tutto il mondo..”

– Come ci si prepara ad un concerto del genere, quanto tempo prima per un artista il concerto comincia?

“In un certo senso il concerto, dentro di me, accade sempre, ogni giorno…il mio pensiero anche quando non me ne accorgo è a quelle serate….Più concretamente cerco di scrivere pezzi nuovi, cerco di immaginare come una nuova melodia, un'atmosfera vengano “trattate” da noi tre insieme. Mi aiuta il fatto che con loro ho già inciso e suonato in passato. Ma voglio fare di questi concerti un'occasione per cercare e per dire qualcosa di ancora più nuovo”.

– Che atmosfera troverai?

“ Il Vanguard è un luogo molto suggestivo, carico di storia ed è anche un luogo di incontro…Ci saranno molti musicisti della scena newyorchese, ritroverò un sacco di amici con cui negli anni scorsi ho avuto modo di suonare e anche altri che conosco e che risiedono nella “Grande Mela”. Ci saranno giornalisti ecc. La CAM (casa discografica a cui è legato Pieranunzi, n.d.r.) si sta impegnando a livello stampa perché l' evento abbia la giusta risonanza. Sono in programma sei serate, in due delle quali registreremo”.

– Come è nata l' idea di queste sei serate?

“Come accennavo sopra è nata grazie a un invito di Motian. Una mail molto essenziale di qualche mese fa che diceva. “ Ti va di suonare insieme al Vanguard l'anno prossimo?… ” Puoi immaginare la sorpresa e il piacere che ho provato. Molte cose belle nella mia vita musicale sono avvenute attraverso i musicisti e non tramite uffici stampa o “apparati” specializzati in creazione di eventi, e questo mi piace: penso agli incontri con Chet Baker, con Joey Baron e con lo stesso Marc Johnson. Incontri a volte casuali, che però sono capitati in momenti chiave della mia storia musicale, incontri giusti nel momento giusto, da cui è nato tantissimo, sia in termini di musica che di rapporto umano”.

– Intendi dire che a volte gli eventi spontanei generano meraviglie?…

“ Il grande scrittore argentino Borges diceva che chiamiamo casualità ciò che non riusciamo a vedere della realtà…Ma a parte questo voglio ribadire che la mia immagine internazionale, l'apprezzamento che nel tempo si è consolidato nel mondo è venuto attraverso la musica e i musicisti, attraverso rapporti di stima reciproca…nulla è stato costruito a tavolino, o pianificato, come oggi può accadere di vedere intorno a noi. Ed è venuto naturalmente anche dal grande affetto che il pubblico m'ha sempre più dimostrato”.

-A proposito di pubblico e tornando ai tuoi concerti newyorchesi, secondo te il pubblico tra NY e Roma è differente?

“So per precedenti esperienze che gli americani considerano i jazzisti europei diversi rispetto agli statunitensi. Ne sono incuriositi perché il loro (il nostro) suono è diverso da quello americano. E' difficile da spiegare a parole…la percezione della musica non è mai uguale in nessun luogo. Il pubblico americano percepisce per esempio il “tempo”, lo swing in maniera diversa dagli europei”.

– Quindi suonare là potrebbe essere più difficile del solito?…

“Sarà ancora più stimolante…e poi saro' talmente preso dal suonare con quei partner di cui abbiamo parlato che non avrò tempo di pensare al pubblico. Dovrò pensare solo a suonare al meglio delle mie possibilità e della mia sincerità. E questa è una cosa che il pubblico americano apprezza molto. Vuole che tu gli proponga un'identità forte, sicura. E perché accada secondo me il musicista di jazz (ma anche quello di altre musiche,) deve essere straordinariamente egoista sul palco, se ne deve infischiare del pubblico. E' il modo migliore per dargli veramente il meglio…Sembra un paradosso ma è così..”.

– Ma torniamo alla differenza tra Italia e Usa.

“In America contrariamente a quello che pensiamo qui il jazz non interessa molto, è una musica molto minoritaria. New York però non è come il resto dell' America , è a parte. New York ama il jazz e non sarebbe New York senza il jazz. Ma il resto…basti pensare che discograficamente le vendite di cd jazz in Usa sono appena il 2% del totale di tutti i cd dei vari generi messi insieme…Per fortuna In Italia,Francia e Giappone le vendite di jazz tengono bene, nonostante la crisi e nonostante l'assedio del pop, rock ecc. E anche ai concerti in Italia il pubblico viene numeroso. C'è curiosità, interesse, conoscenza. E non va dimenticato che il jazz è una musica basata quasi esclusivamente sull' ”innamoramento” da parte dell'ascoltatore, viene scelto cioè a prescindere da passaggi radio (che non ci sono quasi più) bombardamenti pubblicitari, trasmissioni TV (che sono ugualmente sparite…)…c'è una specie di complicità tra artista e pubblico e quest'ultimo, pur non ampio, è fedele agli artisti che ama”.

– Stiamo arrivando al punto, credo, che riguarda il jazz in Italia oggi… con la scusa di uscire dalla condizione di “musica di elite” sembra che il jazz vada verso canoni diversi da quelli della scelta o dell' innamoramento di cui parli tu… per esempio quello della spettacolarizzazione.

“ Si, purtroppo è così…Io penso in realtà che la musica buona fa spettacolo, ma lo spettacolo… non fa musica”.

– Che ruolo ha la televisione in questa spettacolarizzazione?

“Decisivo ed esiziale direi. La televisione la si guarda e non la si ascolta e questo approccio visivo si sta estendendo anche a tutta la musica. In più purtroppo l'Italia è e rimane sostanzialmente un paese di canzonettari, scusa la franchezza, e questo Dino me lo puo' confermare (Dino Piana, che fino ad ora ha ascoltato attentamente e in silenzio, annuisce sorridendo, n.d.r.) . La stragrande maggioranza del pubblico italiano trova la musica strumentale ostica, soffre se la musica non è accompagnata da un testo. Non c'è da noi una tradizione di musica strumentale anche pop come in Francia e Germania, in cui alcune grandi orchestre negli anni '60 vendevano come cantanti di grido. Siamo sempre il paese del Bel Canto e della Commedia dell', non dimentichiamolo. E adesso anche nel jazz si va in questa direzione: la musica viene più che spettacolarizzata, teatralizzata, “comicizzata”. A quel punto secondo me tanto vale chiamare sul palco ad esibirsi veri comici professionisti, invece che sedicenti musicisti…”.

– La spettacolarizzazione dunque uccide l'improvvisazione?

“ Se è nella direzione della “cabarettizazione”, dell'intrattenimento da varietà tv sì. Uccide la musica, non solo l'improvvisazione. Con un paio di effetti collaterali non trascurabili: che si confondono le idee ad un pubblico di suo già non molto educato dalla scuola a distinguere la buona musica dalla cattiva, e che si vanifica il lavoro di generazioni di musicisti che sono riusciti faticosamente ad esportare un'immagine di jazz italiano finalmente valida. Stiamo purtroppo tornando, in nome del “divertiamoci dai, sennò che noia!..” a “italiani= pizza, spaghetti e mandolino”…”

– Forse la spettacolarizzazione è lo “zucchero” per far ingoiare piu' facilmente la pillola dell' improvvisazione ritenuta complessa e allo stesso tempo “non vera musica”?

“ Se fosse così il rimedio sarebbe peggiore del male. E' un inganno quello di credere e far credere che l'improvvisazione è una cosa complicata. Meldhau, Joshua Redman, Shorter suonano, si esprimono improvvisando, e magnificamente, e il pubblico accorre numerosissimo ad ascoltarli per questo motivo, non per altri. Non mi risulta che quando sono sul palco raccontino molte barzellette o facciano gag…. Dov'è il problema? Sono musicisti e fanno i musicisti. No, non credo che da parte degli “spettacolarizzatori” di cui parliamo ci sia un intento terapeutico…C'è invece una sorta di “sindrome Valtur” che li spinge ad animare un pubblico che loro stessi ritengono, chissà perché, non in grado di comprendere una musica da loro stessi ritenuta “difficile”. In realtà dalla musica così si scappa…e poi la musica è solo bella, o no…”

– Quali sono le conseguenze per i giovani jazzisti che si affacciano sui palcoscenici?

“ Un giovane musicista (penso fra i tanti ad un dotatissimo pianista che si chiama Claudio Filippini) che oggi voglia veramente, solamente suonare, che ha scelto l'arte dei suoni come veicolo di espressione e comunicazione secondo me si trova in difficoltà. Gli si chiede appunto di “fare spettacolo” e intorno vede esempi di moda che vanno in questa direzione…non è facile…

Dino Piana

Dino Piana

DINO PIANA : IL JAZZ E IL JAZZISTA IN ITALIA NEGLI ANNI '60, '70 e oltre.

– Dino, tu hai lavorato tanto con la RAI, insieme ai grandi Basso e Valdambrini, e sei attivo dagli anni '50, '60 fino ad oggi. Quanto è cambiato il mondo del jazz da allora?

“ E' cambiato tutto. La RAI allora era sempre premiata all' estero per la professionalità: basti pensare a “ Studio Uno”, “Teatro 10”… Una volta l' anno facevamo un concerto di jazz con un solista straniero! Posso citare Frank Rosolino, Freddie Hubbard, Mel Lewis… Il che se ci pensi vuol dire che l' Orchestra era in grado di accontentare questi musicisti pazzeschi. Facevamo le prove il martedì, il venerdì e poi avveniva il concerto al Sistina. E poi nell' orchestra suonavamo musicisti che andavano in giro a suonare in piccoli gruppi, vedi Pieranunzi (che sorride annuendo, n.d.r.), Gatto, Del Fra, che allora erano giovanissimi”.

– Che tipo di rapporto esisteva tra voi musicisti, e anche tra voi e la musica, il jazz?

“ Facevamo tutto con estrema serietà. Serietà e amore. Provavamo, provavamo tanto, a lungo (Pieranunzi conferma anche lui…e qui comincia, oltre alle risposte di Piana, un dialogo tra i due, che hanno collaborato tante volte in Rai e non solo).

– Facevate solo musica americana?

“ Facevamo cose originali, tante, e la preparazione (anche dal punto di vista compositivo) era molto importante”.

– E la performance, dopo tutta questa preparazione, come la vivevate?

“ Ti posso dire che io la vivo ancora allo stesso modo, e cioè, quando io vado a fare un concerto sono in uno stato.. di follia. E' una follia, una gioia, che diventano quasi un … un malessere, ecco”.

Pieranunzi: (sorride, annuisce) “… si … è così. E credo che molti musicisti attuali abbiano paura di queste emozioni. Non bisognerebbe averne paura, perché sono quelle che danno senso a tutto”.

Piana: “Guarda, se io non sento questo malessere, questa emozione, per me il concerto è andato male. Se invece avverto queste sensazioni, anche se a vedermi dovessero essere venute solo cinque persone, io sono felice”.

– Quindi mi state dicendo che per fare il jazz vero non ci deve essere, dietro, una strategia per ottenere l' applauso…

“Esattamente. Ad esempio a me non piace il virtuosismo che abbia il senso di una “captatio benevolentiae”. Non ha senso! Saprei benissimo fare il “ruffiano”, il problema è che non mi viene di farlo… Finito il mio racconto con la musica, io ho finito. Apprezzo il virtuosismo, ma il mio carattere non è così, non mi viene naturale insomma”.

Pieranunzi: “Dino ha detto una cosa bellissima… a volte il virtuosismo è lì, a portata di mano e quando ci scivoli dentro, anche se per un attimo, si prova disagio, perché ci si sposta dalla musica, e sembra di portare via dalla musica vera chi ti ascolta”.

– Eppure il virtuosismo, in un cd ad esempio come il tuo su Scarlatti è importante…

Pieranunzi: “Certo che si! Ma quello è un virtuosismo espressivo. Nel jazz Dizzy Gillespie era un , ma era un genio di espressività. Non è semplice trovare dov'è il confine tra virtuosismo-musica e virtuosismo-non musica, solo vuota esibizione di abilità…”.

Piana: “La tecnica è una cosa individuale del musicista, serve a lui per progredire, ma non è la musica! Deve servire alla musica”.

Pieranunzi: Vedi ad esempio Charlie Haden, che al contrabbasso suona pochissime note eppure fa venire i brividi quando improvvisa….

– Dino, perché il trombone a pistoni? Non è uno strumento usuale!

“ Io in realtà volevo suonare la tromba ma nella banda del mio paese, Refrancore d' Asti, la tromba c'era già, e nel 1946 mio zio, che ne era il direttore, mi affibbiò questo trombone. Lo avevo pregato tanto dicendogli che avevo già imparato tutte le marce! Allora avevo sedici anni, una grande voglia di suonare e dunque presi quel trombone e cominciai a fare “accompagnamento”, che era ciò che veniva richiesto appunto al trombone. Ero inebriato dall' odore dello strumento, per me era come vedere le labbra di una bella donna. E mi sono anche innamorato del suo suono, per cui da subito ho trasgredito dall' accompagnamento e ho cominciato a fare controcanti …”.

– Il virtuosismo, in questo caso, è il venir fuori come solista con uno strumento come il trombone, che nasce per “accompagnare”?

“ Si, questo potremmo definirlo un virtuosismo, ma dato dall' amore per lo strumento … da quando ho toccato il bocchino non l' ho piu' cambiato per tutta la vita. E' nata una specie di simbiosi. Facevo pezzi virtuosi, polke, senza sapere le note, senza sapere la musica, mi guidavano l'orecchio e la sensibilità, e l'anima”.

– Sembra quasi che il trombone a pistoni fosse quindi il tuo destino …

“Si, anzi secondo me è stato la mia fortuna, perché mi ha permesso di venire fuori con una certa tecnica che il trombone a coulisse non mi permetteva”.

– Come è suonare insieme? Come si trova un punto di contatto? Soprattutto quando il legame con il proprio strumento e il proprio vissuto è così forte?

Piana e Pieranunzi : “Si trova un equilibrio al momento, sia che l' esibizione sia già decisa in tutte le sue fasi, sia nel caso (come stiamo per andare a fare stavolta) che decidiamo pochi minuti prima cosa suonare. Viene lì in quell' istante”.

Pieranunzi: “Aggiungerei, a proposito dell' intensità di alcuni suoni, o momenti, o interi concerti … la cosa più affascinante è il silenzio che c'è sotto quei suoni”.

Piana: “E' vero, è così, ed è difficile da spiegare…”.

Pierannunzi: “Ci provo: dunque, ognuno swinga per conto suo. Ma mentre suono, io ascolto gli altri. Per ascoltare devo togliere. Tolgo, e quindi, ascolto. Il jazz è musica di “rinuncia”: bisogna fare spazio ed aprirsi agli altri”.

Piana: “Ecco perché è difficile trovare un batterista!”.

– E alla fine di un concerto che è risultato essere così intenso, in cui è sopravvenuto quel malessere, cosa accade?

Piana: “Dopo il concerto con pudore mi dico che è venuta fuori musica, che si è fatta musica…. Durante no, mai”.

Pieranunzi : “Per suonare bene ci vuole “innocenza”, e guarda che è un problema che esiste anche per chi interpreta la musica classica! Vedi Arturo Benedetti Michelangeli: lui ti fa capire quanto è bella la musica dell'autore che sta interpretando, non certo quanto sia bravo lu”i.

Piana: “Suonare “semplice” è la cosa più delicata e più difficile, secondo me, arzigogolare puo' imbrogliare le carte, ma per dire le cose come si sentono bisogna suonare semplice. E' come dire “ti amo” ad una donna che si ama tanto. Ecco per me suonare e amare sono la stessa vibrazione, la stessa”.

Il treno si ferma e qui si fermano racconti, intervista e parole: se sia possibile fermarsi su una vibrazione, non ne sono poi così sicura.

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