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Bill Evans

Bill Evans

Anche questo 2010 si avvia alla sua naturale conclusione mentre sulla Casa del Jazz di Roma si addensano nubi che non promettono alcunché di positivo. Ciononostante la struttura romana funziona a pieno regime regalando agli appassionati alcuni concerti di eccellente livello. Così dal 13 novembre al 17 si è avuta l'opportunità di ascoltare, uno dopo l'altro, Max De Aloe, Enrico Pieranunzi, Dave Douglas, Lee Ritenour. “A proposito di jazz” ha assistito per voi ai primi tre concerti ed eccovene il resoconto.

13 Novembre – Max De Aloe – “Bradipo”

Proprio di recente, su questo stesso sito, ho recensito l'album di Max De Aloe “Bradipo” trovandolo eccellente. E questa impressione mi è stata confermata appieno dal concerto romano, anzi l'armonicista dal vivo convince ancor più che su disco… cosa che non sempre accade.

In effetti mentre in sala di registrazione i musicisti possono profittare di tutte le possibilità che le moderne tecnologie mettono loro a disposizione, in concerto queste possibilità si riducono al minimo… di conseguenza o sei un artista o non lo sei. De Aloe lo è senza dubbio alcuno avendo elaborato all'armonica uno stile assolutamente personale in cui si percepisce da un canto una profonda conoscenza della musica tout court, dall'altro una costante tensione progettuale che lo porta a battere strade alle volte complesse e quindi pericolose. E' il caso, per l'appunto di Bradipo, una suite lunga circa un'ora e un quarto, dal preciso andamento filmico con un inizio, uno svolgimento (inframmezzato da un sentito omaggio ai Pink Floyd) ed una fine (“La strada” di Nino Rota). Ebbene anche dal vivo De Aloe ha messo in mostra le sue doti migliori: nessuna ricerca dell'effetto a tutti i costi, ma una musica sobria, elegante, alle volte non facile, spesso emozionante, ma sempre contraddistinta da grande padronanza strumentale e da quel gusto melodico che a mio avviso costituisce una delle caratteristiche essenziali del suo fare musica.

E dal vivo risalta ancor meglio l'apporto degli altri componenti il quartetto; così preciso, essenziale Roberto Olzer sia in funzione di supporto sia in chiave solistica, straordinario il lavoro di Mistrangelo impegnato spesso in chiave melodica a cucire i vari episodi della suite per finire con Stranieri che agendo spesso di sole spazzole ha dimostrato come si possa essere “leggeri” e al tempo stesso trascinanti.

Un'ultima notazione: gustoso il bis con un brano della tradizione tanguera , “El die que me quieras” di Gardel e Le Pera,  portato al successo dallo stesso Gardel e reinterpretato con grazia e competenza da un De Aloe superlativo anche in questa occasione.

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14 Novembre – Serata Bill Evans con Enrico Pieranunzi e Vittorio Castelnuovo

Si e' affrontato un tema importante, durante l' interessante e rilassata intervista di Castelnuovo a Pieranunzi prima del concerto, il tema della tendenza, purtroppo diffusa, di attribuire ad un artista comode e salvifiche etichette (comode e salvifiche per chi di lui scrive) che finiscono per imprigionarlo immancabilmente nel circolo vizioso dell' “essere influenzato' da quello o quell' altro musicista che quasi sempre cronologicamente lo ha preceduto.  Gia' solo l' “essere influenzati” da chi veniva prima esclude una fondamentale caratteristica che un artista dovrebbe avere (specialmente nel jazz, che ha nell' improvvisazione uno dei suoi cardini principali), e che e' quella sensibilita' verso le sollecitazioni estemporanee e contemporanee, l' attenzione a cio' che sta accadendo al momento, che sarebbe auspicabile per non ridursi a dei meri replicanti o pedissequi “studiosi” di un passato glorioso anche se prossimo.

Ma oltre a questo “l' influenza artistica” (che sembrerebbe, come lo stesso Pieranunzi sottolineava, quasi una malattia da guarire) in realta' quasi non dovrebbe essere sottolineata, se non impercettibilmente,  perche' e' innegabile anzi auspicabile e necessario che ogni artista abbia ascoltato ed ammirato e studiato altri musicisti.  La musica progressivamente cambia perche' c'e' una consapevolezza di cosa e' accaduto prima e solo cosi' si superano fasi e se ne inaugurano altre.  E' un percorso naturale, come dire, un percorso sottinteso, e' nella natura dell' arte.  Si scardina se si conosce cosa scardinare.  Se si cita l' “influenza artistica” come particolarita', e la si ascrive non ad una volonta' di ascoltare ed indagare, ma a quella di emulare un artista invece che un altro, essa diventa “etichetta”.

Anzi, piu' un musicista ha una personalita' definita, piu' c'e' la tendenza (rassicurante scorciatoia) ad imbrigliarlo dentro canoni gia' noti.  Cosi' e' piu'facile parlarne, analizzarne la poetica, capirne il lirismo.

L' etichetta di Pieranunzi e' quella di essere “la risposta europea a Bill Evans”.  Tanto che egli stesso ha affermato di aver esitato a scrivere il libro propostogli qualche anno fa da “Stampa Alternativa” (ed ora in ristampa) proprio su Bill Evans (“Ritratto di artista con pianoforte).  Una  volta raccolta la sfida, coraggiosamente (il libro lo consigliamo, perche' un musicista che analizzi un musicista fornisce sempre un punto di vista prezioso ed efficace), il pericolo “billevansizzazione” si e' naturalmente acuito.  Non per questo Pieranunzi rinnega la sua ammirazione per un artista che ha cambiato certamente il pianismo jazz, ed anzi spiega al pubblico in sala (gremita) quali siano state le caratteristiche, le inclinazioni, il carattere di questo grande jazzista. Ogni pianista posteriore a Bill Evans ne e' stato influenzato, cosi' come ogni jazzista posteriore a Miles Davis non puo' non aver tenuto conto, anche in un' ottica di superamento, del gigante Miles Davis.

Dopo comincia il concerto, e li' si capisce quanto differisca l' “etichetta” dalla realta'.  Nonostante l' affettuoso omaggio ad Evans da parte di Pieranunzi e di Luca Bulgarelli (contrabbasso) e Mauro Beggio (batteria), bravissimi, sensibili, creativi ed attenti, cio' che si e' ascoltato non e' un Evans europeizzato (tanto piu' che come lo stesso Pieranunzi afferma, Evans era un americano si, ma stranamente percepito dagli americani come pianista “europeo”).  Si ascolta musica di un altro artista, con la spiccata personalita' che ben conosciamo, e che stupisce con intro di solo destrutturate ed atonali, che suggeriscono il tema e sfociano nello swing quasi di improvviso (vedi “Everything I love”), o ritmi “ Latin Jazz” che inscrivono pero' temi melodici molto “europei”, dando luogo a intensi contrasti sonori (“Castle of solitude” o “Horizontes Finales”, tratto dall' ultimo cd “Enrico Pieranunzi Jazz quintet Live at Birdland”) ; o temi cari allo stesso Evans (“This foolish things”) reinterpretati con stilemi propri di un pianista che, a sua volta, ha “influenzato” moltissimi artisti contemporanei e non solo italiani… se valesse l' etichetta, anche gli “influenzati pieranunzizzati” dovrebbero  essere prima di tutto “billevansizzati”, e dunque avremmo dagli anni 50 in poi sempre un unico pianista (se non si tiene conto che anche Evans ha “goduto” delle proprie etichette). (Daniela Floris)

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15 Novembre – Dave Douglas & Keystone

Gradito ritorno alla Casa del Jazz quello del trombettista Dave Douglas che ha presentato il suo attuale gruppoKeystone” privo, però del pianista Adam Benjamin colto da improvvisa e, sembra, piuttosto seria indisposizione;  così, accanto al leader, abbiamo ascoltato  Marcus Strickland al sax tenore e contralto, Brad Jones contrabbasso e Gene Lake batteria. Ad onor del vero, se non si fosse saputo, sarebbe stato assai difficile, ascoltando il concerto, immaginare che il gruppo fosse incompleto. Ancora una volta, in effetti, Dave ha dato fondo a tutte le sue risorse ponendosi con prepotenza come uno egli imprescindibili punti di riferimento del jazz moderno. In possesso di una tecnica superlativa, ha vieppiù affinato il suono del suo strumento sempre diretto, pulito, quasi del tutto esente da vibrato e soprattutto caratterizzato da un grande lirismo anche nelle interpretazioni più funamboliche. Il tutto al servizio di una progettualità che in lui rimane sempre la stella polare: conosco l'artista oramai da tanto tempo, ho ascoltato parecchi suoi concerti e non c'è stata una sola volta che si sia ripetuto, mantenendosi comunque su standards elevatissimi.

La stessa cosa accade con questo nuovo gruppo le cui individualità sono anch'esse di prim'ordine, dal sassofonista Strickland essenziale e preciso, al contrabbassista  Brad Jones che ha dovuto supplire, dal punto di vista armonico, anche alla mancanza del pianoforte, per finire all'eccellente batterista Gene Lake che non a caso, nel suo curriculum, vanta collaborazioni con musicisti del calibro di Joe , Cassandra Wilson, Greg Osby, Henry Threadgill, Steve Coleman… Come negli altri progetti di Douglas, anche in questo caso la musica non è di facilissima decifrazione: in essa è possibile ascoltare stilemi prettamente jazzistici coniugati con atmosfere stranianti disegnate da un'elettronica usata con estrema parsimonia… ma non c'è solo questo ricordandosi spesso il trombettista anche della musica folk non solo americana. Il tutto mescolato con sagacia sulla base di un preciso filo conduttore in cui parti scritte e improvvisate si alternano con magnifico equilibrio e in cui è sempre il leader a dettare i tempi della performance. E' sempre Douglas a far scaturire dalla sua tromba un clima incandescente che si risolve o con un cambio di ritmo dello stesso Douglas o con un assolo del sassofonista o con una ripresa ritmico-armonica di batteria e contrabbasso magari prima di mutare registro e rituffarsi immediatamente o gradatamente in un'altra situazione. E al riguardo c'è da segnalare come il passato sia ben presente nella poetica del trombettista tanto che i momenti più toccanti e lirici dell'intero concerto si sono avuti quando il trombettista ha interpretato due brani di Monk.

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