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Pablo Bobrowichy – “Southern blue”

Pablo Bobrowichy – “Southern blue”

Pablo Bobrowichy – “Southern blue” – Red Records 123320
Oggi ci sono poche case discografiche che riescono a mantenere un proprio “stile” una propria caratura stilistica per cui ascoltando un disco puoi dire: “questo è dell'etichetta X piuttosto che della casa Y”. Ecco la Red Records appartiene a questa categoria: grazie alla sapiente e coerente opera di Sergio Veschi, la casa milanese continua a proporci un jazz di assoluta qualità continuando ad insistere su un insieme di artisti che altrimenti troverebbero ben poche possibilità di esprimersi con la stessa compiutezza. Emblematico il caso del chitarrista argentino che ha già registrato almeno altri tre album per la Red Records e che ora si ripresenta alla testa di un trio con Ben Street al basso e Pepi Taveira alla batteria, musicisti con i quali aveva già suonato nel lontano 1994 senza essere riuscito, finora, ad incidere alcunché. L'album è ancora una volta eccellente a conferma delle grandi doti di questo chitarrista argentino che si dichiara orgoglioso di far parte del catalogo della Red Records (“Un' etichetta che affiancando a colossi della storia del jazz, musicisti poco famosi, non smette d'incrementare il proprio peso culturale”). Assiduo frequentatore da sempre – in particolare da quando suonava con Norberto Minichillo – della musica popolare, in questo CD Pablo dimostra di conoscere appieno i complessi ritmi sudamericani; si passa così, per fare qualche esempio, dal bolero cubano di “Eclipse de luna” uno splendido brano di Margarita Lecuona al ¾ brasiliano di “Luiza” scritto da Tom Jobim… e via di questo passo in una galleria di suggestioni sudamericane cui si affiancano due originals di Pablo, il celebre “Barbados” di Charlie Parker (basato, spiega lo stesso chitarrista, su un pattern ritmico caratteristico della murga ,forma teatrale e musicale uruguaya), l'altrettanto celebre “Rhytm a Ning” di Monk, “Idle mopments” di Duke Pearson e ben tre compsiziuoni di Ellington (“Cotton tail”, “I'm beginning to see the light” e “C Jam Blues”). Insomma un repertorio assai variegato che il chitarrista riesce a ricondurre ad unità grazie soprattutto al sound così caratteristico prodotto da una Gibson ES175 del 1965 che Bobrowichy utilizzava quando studiava a New York con Jim Hall.

Felice Clemente – “Nuvole di carta”

Felice Clemente – “Nuvole di carta”

Felice Clemente – “Nuvole di carta” – Crocevia di suoni CSDS 005
Il sassofonista Felice Clemente si presenta in quartetto con Massimo colombo al pianoforte, Giulio Corini al contrabbasso e Massimo Manzi alla batteria, quindi un combo di tutto rispetto che in effetti fornisce ottima prova sia nella musica d'assieme sia negli interventi solistici. Particolarmente convincente il leader, che adoperando il sax tenore e il soprano, evidenzia un linguaggio fluido, personale, ora chiaramente melodico ora più dichiaratamente ritmico senza perdersi in fronzoli o inutili riempitivi, alla ricerca di una essenzialità non semplice da raggiungere. In questo senso particolarmente stimolanti i dialoghi con il pianista: Massimo Colombo, non lo scopriamo certo con questo disco, è pianista di classe raffinata e di acuta intelligenza musicale, frutto, tra l'altro, degli intensi e proficui studi di armonia, contrappunto e composizione; di qui un pianismo che, in questo album, pur non essendo spesso in primo piano, diventa affatto indispensabile per disegnare gli scenari su cui si muove l'intero quartetto. In questo senso eccellente anche il lavoro di basso e batteria in grado di costruire un'elegante struttura ritmico-armonica, particolarmente elegante anche dal punto di vista timbrico. Il repertorio si basa essenzialmente su composizioni dello stesso Clemente tra cui il brano che da il titolo al CD e che, come spiega lo stesso Felice “è il mio sentito omaggio a un giovane amico che ci ha lasciato tre anni fa, un ragazzo di grande ricchezza d'animo, con tanti progetti che avrebbe voluto realizzare. A lui e ai suoi sogni è dedicato questo mio ultimo lavoro, il cui titolo, Nuvole di carta, allude proprio alla fusione tra i sogni (le nuvole) e la loro realizzazione”. Eccellenti anche “To MJB” e “Young Prince and Princess” , un arrangiamento in chiave jazzistica di un brano di Rimsky Korsakov. Il programma del CD è completato da un brano di Giulio Corini e due pezzi di Massimo Colombo che ancora una volta evidenzia una bella capacità di scrittura (non è certo un caso che abbia già scritto moltissime composizioni contenute nei numerosi CD registrati dai gruppi di cui il pianista ha fatto parte).

Carlo Costa – “Minerva - Saturnismo”

Carlo Costa – “Minerva - Saturnismo”

Carlo Costa – “Minerva – Saturnismo” – between the lines 1227
Grazie a questo album facciamo la conoscenza di un eccellente batterista che, pur essendo nato a Roma, da oltre nove anni vive a lavora negli States, a dimostrazione – se pur ce ne fosse ulteriore bisogno- che anche nel campo del jazz, nonostante la situazione sia migliorata, molti talenti sono ancora costretti a cercare fortuna all'estero (come, ad esempio Luigi Bozzolan trasferitosi in Svezia). Ma torniamo a Carlo Costa: il musicista ha costituito, nel 2009, un trio, chiamato “Minerva”, completato da JP Schlegelmilch (piano and glockenspiel) and Pascal Niggenkemper (bass), con cui si presenta al pubblico del jazz. Ascoltando il CD alcuni elementi risaltano immediatamente: innanzitutto l'empatia instauratasi fra i tre. Nel gruppo non esiste gerarchia dal momento che il dialogo è sempre fitto, serrato, teso alla costruzione di un discorso spesso improvvisato che altrimenti non avrebbe potuto realizzarsi con la fluidità e la coerenza riscontrabili in tutti i 10 originals: al riguardo non è casuale il fatto che ben 4 pezzi sono firmati da tutti e tre gli artisti. Dal punto di vista stilistico, la musica del trio si caratterizza per una sorta di eclettismo che sottende una profonda conoscenza della materia: in effetti i tre si rivolgono alle sorgenti più disparate della musica jazz che vengono rielaborate con estrema originalità, senza paura di infrangere tabù. Di qui un continuo giuoco, di impulsi, di sollecitazioni che Costa e compagni si rimandano di continuo e che vengono sviluppati senza soluzione di continuità. Il linguaggio è informale, tutt'altro che facile, ma sempre in perfetta coerenza con l'idea portante. Un ultimo suggerimento: se volete cogliere i molteplici aspetti dell'album non fermatevi ad un primo superficiale ascolto.

Massimo De Mattia – “Mikiri + 3”

Massimo De Mattia – “Mikiri + 3”

Massimo De Mattia – “Mikiri + 3” – Setola di maiale SM 2020
Questo album è la logica prosecuzione del precedente “Mikiro” già segnalato su questo stesso sito e d'altro canto il titolo non potrebbe essere più significativo: “Mikiri” a ricordare l'originario quartetto composto, oltre che dal flautista leader, da Denis Biason alla chitarra, Bruni Cesselli al piano, Zlatko Kaucic alle percussioni, “+ 3” ad indicare l'immissione di nuovi elementi quali Luca Grizzo voce e percussioni, Romano Tedesco accordion e Alessandro Turchet al basso. Cambiato l'organico non cambia , però, la cifra stilistica del gruppo che si mantiene su livelli di eccellenza. Come già nella precedente fatica discografica, la musica fluttua tra momenti di estrema leggibilità caratterizzata da suadenti linee melodiche e da una pensosa introspezione e momenti in cui l'ansia di sperimentare nuove soluzioni, diverse sonorità prende il sopravvento. In tal senso si ascolti “Mikiri” di De Mattia o “Cosmic experience” di Kaucic che firmano la maggior parte dei pezzi in repertorio mentre gli altri brani sono opera uno di Cesselli, gli altri tre arrangiamenti di vecchi brani. Particolarmente convincente l'esecuzione dell'Ave Maria sulla cui attribuzione a Giulio Caccini (1550-1618) si discute ancora oggi, così come pertinente e centrata è la riproposizione della monkiana “Pannonica”; non del tutto aderente allo spirito di Jimi Hendrix ci è invece apparsa “Who knows”.

Maria Pia De Vito, Huw Warren – “O pata pata” – Parco della Musica Records
E siamo a quota due: dopo “Diálektos” ecco questo “O pata pata” a riconfermare la straordinaria intesa tra la vocalist Maria Pia De Vito e il pianista e compositore inglese Huw Warren, cui si aggiunge, questa volta, in tre brani il chitarrista Ralph Towner. Chi conosce il mondo del jazz può comprendere le affinità che legano questi tre musicisti, sempre protesi verso nuovi traguardi senza perdere alcunché dell'originario entusiasmo e soprattutto dell'originaria integrità. Così le variopinte possibilità vocali di Maria Pia si sposano magnificamente con il pianismo visionario e trasversale di Warren, mentre la chitarra di Ralph Towner dona al tutto un tocco di ulteriore lirismo. Di qui l'interpretazione assai personale di un repertorio quanto mai variegato che comprende un brano della tradizione partenopea (quello che da il titolo all'album) e composizioni firmate da Warren, Rita Marcotulli, Ralph Towner, José Miguel Soares Wisnik, Hermeto Pascoal, Chico Buarque de Hollanda, Vinicius de Moraes, Antonio Carlos Jobim, Bojaz Zulfikarpasic, Angelo Nelson, Lacerda Benedito, Alfredo da Rocha Vianna Junior e Maria Pia De Vito la quale si è assunta anche l'onere di tradurre molti versi in italiano. Ho volutamente trascritto questo lungo elenco per illustrare al meglio le varie fonti cui i musicisti hanno attinto e di come sia stato tutt'altro che facile dare al CD quel senso di compiutezza, di unità che si avverte ascoltandolo dall'inizio alla fine.

Lorenzo Lombardo – “Black Nile”

Lorenzo Lombardo – “Black Nile”

Lorenzo Lombardo – “Black Nile” – Radio SNJ Records 019
Oggi, spesso oziosamente, si discute su cosa debba ancora intendersi per jazz. Ecco io credo che ascoltando questo album non possa sussistere dubbio alcuno: questo è jazz e di ottima fattura. Principale responsabile un batterista, Lorenzo Lombardo, che nel suo curriculum può vantare, tra l'altro, un periodo di studio a New York e il conseguimento del diploma presso il “Drummer Collective” con il cubano Bobby Sanabria, il brasiliano Memo Acevedo, i newyorkesi Peter Retzlaff, Ian Froman ed altri insegnanti specifici per ogni corso scolastico. Probabilmente grazie a queste frequentazioni, Lombardo ha avuto l'opportunità di chiamare accanto a sé tre musicisti di eccellente livello quali il bassista Cameron Brown, il sassofonista e flautista Dick Oatts e il pianista Gary Versace. Il risultato è superlativo grazie anche ad un repertorio tutto basato sulle “grandi firme” del jazz, da Thelonious Monk a George Cables, da Dizzy Gillespie a Wayne Shorter… a . E l'album si apre con “San Francisco Holiday” di Monk, dall'andamento sghembo, di sapore quasi latino, con la batteria di Lombardo a evidenziare quanto sia debitrice nei confronti di Kenny Clarke. Dopo un entusiasmante “Think on me” di George Cables, ecco il primo brano di Gillespie, “Con Alma” in cui Oatts dà un saggio di bravura al flauto. Ma c'è davvero spazio per tutti. Così in “Ba-Lue Bolivar Ba-Lues Are” di Monk è Cameron Brown a mettersi particolarmente in luce con un assolo tanto calibrato quanto preciso e coinvolgente, mentre in “I'll keep loving you” è Gary Versace ad accettare la sfida di confrontarsi con il grande Powell autore del brano. Il tutto “cucito” dall'apporto sempre discreto ma assolutamente fondamentale della batteria di Lombardo di cui, sono sicuro, sentiremo ancora parlare… e bene.

Musikorchestra di Luca Garlaschelli – Mingus in strings Vol. I” – Radio SNJ 012
Si può trovare una diversa chiave di lettura per eseguire la musica di Charles Mingus? Certo l'impresa è assai ardua, al limite dell'impossibile vista l'estrema caratterizzazione, specie dal punto di vista ritmico, delle composizioni mingusiane. Eppure Garlaschelli ci ha provato… e già per il coraggio dimostrato andrebbe premiato. Ma, ad onor del vero, le valenze dell'album vanno ben al di là.
Considerato a ragione uno dei più grandi compositori dello scorso secolo Mingus ci ha lasciato una serie di composizioni che malgrado la loro notorietà sono in effetti poco eseguite. Probabilmente per il fatto che essendo stato anche un grandissimo strumentista e un grande leader ripercorrere le sue melodie ed armonie con delle formazioni simili alle sue può risultare in qualche modo non all'altezza del grande Maestro. Altra motivazione è senza dubbio la difficoltà intrinseca della sua musica e di molte sue composizioni. Rendere la musica del grande contrabbassista con un quintetto classico in qualche modo libera la musica di Mingus dal suono dei suoi impareggiabili gruppi e lo inserisce nel mondo delle immortali composizioni che, indipendentemente dalle formazioni che le eseguono, posseggono un'energia propria vera ed assoluta. Questo azzardo è stato possibile soprattutto per la presenza all'interno del gruppo di musicisti che appartengono a diverse provenienze stilistiche sia propriamente jazzistiche che anche di estrazione accademica.
La speranza è che quest'esperienza possa , in qualche modo, far raggiungere la musica di C.Mingus in luoghi e spazi, tra persone e genti che non hanno ancora avuto la fortuna di incontrarla.
esclusivamente al jazz, ma spazia all'interno delle “musiche colte” con piglio da esploratore e curiosità onnivora. Il suo nuovo disco si chiama Musikorchestra – Mingus in Strings vol. 1. È un coraggioso progetto che rivisita la musica di Charles Mingus attraverso un quintetto d'archi che gravita attorno al contrabbasso di Garlaschelli; ci sono inoltre alcuni brani che ospitano gli interventi della cantante Tiziana Ghiglioni, del pianista Davide Corini e del clarinettista Paolo Tomelleri. Il CD contiene undici brani, di cui dieci appartengono al repertorio mingusiano ed uno, Mingus tango, scritto dallo stesso Garlaschelli.
Mingus in Strings può essere definito come una sorta di fusione, originale e piacevolmente orecchiabile, tra jazz e classica, preservando lo spirito d'improvvisazione del jazz e la profonda vena blues tipica della musica di Mingus. Basta ascoltare alcuni brani come l'iniziale Haitian Fight Song oppure Self Portrait in three colors per avere conferma di quanto si è detto. In occasione dell'uscita del disco abbiamo chiesto a Luca Garlaschelli di raccontare la sua carriera e commentare il progetto di Mingus in Strings vol. 1.

Luca Garlaschelli: Ho cominciato ad amare il jazz quando avevo dodici/tredici anni ascoltando Bill Evans. Suonavo e studiavo chitarra e pianoforte. Allora non c'erano tante scuole. Così ho preso la tenda e sono andato a Siena Jazz, era il 1982. C'era anche Paolo Fresu. Ho frequentato per tre anni Siena Jazz e poi ho cominciato a studiare in conservatorio. Lì ho incontrato un grande maestro del contrabbasso, avevo diciotto anni. Poi il pianista Piero Bassini mi fa fare la prima serata al Capolinea di Milano: comincia la mia avventura professionale. Erano anni in cui si suonava tanto. Nel frattempo mi sono diplomato in contrabbasso e ho cominciato altre collaborazioni con musicisti come Paolo Tomelleri, Carlo Cagnoli, Tony Scott, Mario Rusca, Arrigo Cappelletti, Tiziana Ghiglioni, Stefano Battaglia, tutti del “giro” milanese.

Jazz Convention: In quel periodo non suonavi solo jazz…
LG: Per l'appunto ho cominciato a collaborare anche in ambiti extra jazzistici con Moni Ovadia e con uno dei più grandi baritoni della musica lirica, Leo Nucci, con cui ho suonato in concerti con quartetto d'archi, contrabbasso e pianoforte. Poi ho lasciato Ovadia perché volevo suonare di più e non volevo fare, allora…, musica per il teatro. Così mi sono dedicato solo al jazz, collaborando con musicisti come Franco D'Andrea, Enrico Rava, Paolo Fresu, Gianluigi Trovesi, Tiziana Ghiglioni. Poi è arrivato il sodalizio con Giulio Capiozzo: allora prendeva musicisti americani e organizzava tournè in Italia. Così ho preso a suonare con Bruce Forman, Jimmy Owens, George Cables, Steve Turrè, Harold Land… Esperienze che mi hanno fatto crescere tantissimo dal punto di vista musicale.

JC: Stando alla tua biografia hai cominciato in quel periodo ad incidere dischi….
LG: Si, credo di averne registrati una sessantina, tra i miei e gli altri. Ricordo ancora le registrazioni con Franco D'Andrea e Michael Rosen; poi un bel disco che avevo fatto con un quintetto d'archi e i dischi con Piero Bassini, uno dei quali ha avuto una certa notorietà piazzandosi molto bene nella classifica della rivista Musica Jazz. Alla batteria c'era Ettore Fioravanti. Questo per quanto riguarda la parte jazzista. Quella non jazzistica si apre con un disco che ho realizzato con Moni Ovadia, Oylem Goylem. Alla fine degli anni novanta ho costituito un gruppo chiamato Musikorchestra, che sarà il nome che darò a tutti i miei gruppi: comincia la mia carriera solistica. Con questo gruppo ho inciso Don't Forget… (1999), primo disco, con ospiti Tiziana Ghiglioni e Moni Ovadia. Poi ne è uscito un altro nel 2001 The Sound of Dream e nel 1994 Salam Alayekum, dal sapore quasi etnico, registrato dopo essere stato con il pianista Gaetano Liguori a Beirut. Dopo è venuto Mai Tardi (2008), un lavoro sui partigiani a cui sono molto affezionato. Adesso questo Mingus in Strings.

JC: Come è nato Mingus in Strings?
LG: Il disco è nato da un lavoro fatto in una grossa orchestra che dirigevo, la Big Orchestra del Crams di Lecco; era un progetto su Mingus tra didattica e professionismo. Il lavoro è durato due anni. Il gruppo comprendeva dodici fiati più la sezione ritmica. Ho dovuto scrivere gli arrangiamenti e di conseguenza studiare a fondo la musica del grande contrabbassista americano. Da allora mi è nata l'idea di questo progetto. Ho notato che la musica di Mingus ha delle caratteristiche armoniche e melodiche che vengono spesso scalzate dal grande impatto ritmico. Ho sempre pensato che il concentrato della musica di Mingus potesse essere raffigurato da una formazione molto cameristica, come quella del quintetto d'archi. è una scommessa! Secondo me vinta, anche per il fatto che negli anni abbiamo avuto la crescita di musicisti specializzati nell'uso dello strumento ad arco che, oltre a leggere ed interpretare la musica, sono anche degli ottimi improvvisatori. Emanuele Parrini e Paolo Botti, che mi aiutano e sono due quinti del gruppo, sono fondamentali perché rappresentano modi di suonare il violino e la viola inusitati nel nostro studio normale ed interpretativo. Eliana Gintoli e Mariella Sanvito sono anche loro fondamentali perché danno ordine nel gruppo.

JC: I musicisti del quintetto vengono tutti dall'orchestra?
LG: Eliana e Mariella sì, suonano normalmente nell'orchestra e sono ottime soliste. Per loro e per gli altri componenti del quintetto scrivo tutto, però ci sono degli spazi improvvisativi in cui interagiamo.

JC: Nel disco ci sono altri ospiti….
LG: All'interno del disco suonano Tiziana Ghiglioni in Portrait, che considero la più grande cantante jazz che abbiamo; Paolo Tomelleri al clarino, che ha collaborato con un suo cameo in Jelly roll arrangiato in stile tradizionale; e Davide Corini al piano che ha impreziosito il brano, Jump Monk.

JC: Come hai scelto i pezzi di Mingus? Sappiamo tutti che il suo repertorio è vastissimo e ricco di brani splendidi ma difficoltosi… .
LG: Il disco si chiama Mingus in Strings vol. 1 perché l'idea è di continuare il progetto sul contrabbassista, senza pensare obbligatoriamente di fare l'opera omnia. Direi comunque che la scelta dei brani è stata abbastanza casuale: mi metto al pianoforte, me li leggo e decido quelli da interpretare.

JC: Rispetto al tuo disco precedente, Mai Tardi del 2008, Mingus in Strings è completamente diverso. Che cosa significa questo nella tua carriera di musicista, compositore e arrangiatore?
LG: Credo che sia fondamentale per tutti i musicisti fare una ricerca sul linguaggio. Questa ricerca deve essere fatta secondo le caratteristiche dei musicisti in gioco. è chiaro che in questo caso la ricerca timbrica e strumentale è in primo piano. Anche in Mai Tardi c'era stata una ricerca: ho pensato ad una tromba con due clarinetti. Che poi guarda caso i due strumenti sono la front line della musica klezmer, da cui sono stato influenzato lavorando con Moni Ovadia. Credo che Mingus in Strings sia il lavoro più jazzistico che io abbia mai fatto fino adesso. è anche la prima volta che incido con musica non mia – nel disco ci sono dieci brani di Mingus e uno, Mingus Tango, scritto da me.

JC: Cosa lega Mingus al tango, perché hai scelto di scrivere un brano….
LG: Il tango è una di quelle forme musicali apparentemente lontane da Mingus perché lui non lo ha mai frequentato; però la passionalità del tango è una cosa che l'avvicina molto a quel mondo lì. Volevo anche ribadire la volontà di scrivere musica propria all'interno di progetti di altri.

JC: è stato difficile costruire, vista la complessità della musica di Mingus, un progetto musicale da rendere fruibile e nello stesso tempo adattabile a strumenti inconsueti per il jazz, preservandone lo spirito?
LG: Questo tipo di lavoro, in un certo senso, libera Mingus dalla sua storia e dal suo modo di fare musica. Usando la sua musica su un terreno strumentale diverso dal jazz, gli si conferisce una statura artistica simile a quella che hanno Duke Ellington, George Gershwin. Spesso anche musicisti classici hanno visto le loro opere prese e trasformate, si pensi a Mozart. Così diventa materiale musicale di libero accesso per le idee di tutti. Non è tanto importante come i grandi suonavano la propria musica, quanto invece lo è la musica stessa che hanno suonato. L'operazione che ho fatto vuol essere un po' questo: liberare Mingus dagli stereotipi, per cogliere solo l'essenza di quello che lui ha scritto e trasporla in una formazione musicale quasi antitetica a quello che lui rappresentava.

JC: La casa discografica? Come è andata con loro?
LG: Con i ragazzi della SNJ Records mi sono trovato benissimo. Ho chiamato il direttore artistico che è Tullio Ricci, bravissimo sassofonista, e gli ho proposto questo progetto, mi ha detto solo “va bene, dicci quando vai in sala”.

Luca Garlaschelli dopo le numerose collaborazioni della sua prima parte di carriera, nella quale ha suonato tra gli altri con Giulio Capiozzo, Paolo Fresu, Stefano Bollani, Enrico Rava, Bruce Forman, si divide ora tra i suoi due impegni principali. Uno lo vede far parte stabilmente del gruppo che accompagna Moni Ovadia nel suo teatro musicale ad alto impegno civile e l'altro lo vede titolare della Musikorchestra. Contrabbasista e compositore, Garlaschelli si cimenta nel suo nuovo lavoro con l'imponente figura di Charles Mingus.

Con Mingus in strings vol.1, affronta l'avvincente sfida di tale confronto con l'umiltà del musicista che riconosce l'inarrivabile genio di Mingus ma anche con la consapevolezza dei propri ambiziosi progetti già pregevolmente realizzati, uno su tutti quel Mai tardi del 2007, CD+DVD ispirato e dedicato agli uomini e alle donne della resistenza partigiana. Per l'occasione però si circonda di un quartetto d'archi, con il quale rielabora le composizioni sviscerandole dal territorio prettamente jazz per esaltarne le qualità compositive in termini più ampi. Questo grazie alla eterogenea formazione che vede Mariella Sanvito al violino e Eliana Gintoli al violoncello di estrazione classica ed Emanuele Parrini al violino e Paolo Botti alla viola di formazione jazzistica, che si prestano ad amalgare i propri background per questo progetto.

L'apertura di contrabbasso nell'iniziale Haitian Fight Song, è l'intro per il quartetto d'archi che poi prende il sopravvento nelle partiture, con Garlaschelli a tessere le battute ritmiche e che chiama intorno a se alcuni ospiti per dare dinamicità all'ascolto. Ascoltiamo quindi la voce di Tiziana Ghiglioni in Portrait, il clarinetto di Paolo Tomelleri per Jelly Roll nel quale Botti suona il banjo e Davide Corini al pianoforte in Jump Monk, una della mie preferite insieme a Boogie Stop Shuffle e la dolce The Man who never sleeps. Chiude Mingus Tango, composizione originale a firma di Garlaschelli, vibrante omaggio in stile porteños.

A metà strada tra jazz avanguardistico di stampo ECM e composizioni camerali, l'esecuzione della Musikorchestra, riesce a rendere in questa nuova veste la personalità complessa e tormentata del grande musicista di Nogales, del quale mi piace ricordare anche una delle più belle autobiografie musicali mai scritte, Peggio di in un bastardo, da lui scritta nel 1971. Un bel disco anche se a tratti non di facile ascolto, che però saprà dare soddisfazione sia all'ascoltatore più esigente, sia a chi non ha paura di lasciarsi trasportare in quei territori di confine alla ricerca di nuove esperienza musicali.
Il catalogo di Radio SNJ Records – B Flat si arricchisce di un nuovo album davvero originale e molto interessante: Mingus in Strings Vol. 1, eseguito dal quintetto d'archi Musikorchestra di Luca Garlaschelli, a cui si affiancano in tre brani altri artisti che non hanno bisogno di presentazione: Tiziana Ghiglioni, Paolo Tomelleri e Davide Corini. Tutti i brani dell'album sono composizioni di Charles Mingus. Unico brano originale è la track 11, Mingus Tango, composta da Luca Garlaschelli.

Garlaschelli sviluppò inizialmente questo progetto in seno alla Big Orkestra del CRAMS di Lecco, che dirigeva. Si occupò personalmente di tutti gli arrangiamenti e questo approfondito lavoro gli permise di assimilare in tutta la sua grandezza l'abilità compositiva di Charles Mingus e di sviscerare l'immenso patrimonio armonico e melodico contenuto nelle sue composizioni, che troppo spesso vengono apprezzate prevalentemente per il forte impatto ritmico ma quasi a discapito dell'approfondimento dell'aspetto armonico e melodico.

Mingus fu un compositore eccelso, dice Garlaschelli, paragonabile a Duke Ellington o a J.S. Bach. Non è un'affermazione azzardata, questa: Luca Garlaschelli è un musicista completo, contrabbassista, direttore, arrangiatore, docente, che nel corso degli anni ha sviluppato parallelamente le due strade che un musicista può percorrere: classica e jazz. Questa sua duplice personalità gli ha consentito di cogliere nell'opera di Charles Mingus quegli aspetti cameristici che sono stati poi sviluppati proprio in questo nuovo disco realizzato con un quintetto d'archi. Un'idea insolita che nessun'altra formazione ha mai proposto finora. Una sfida impegnativa, data la difficoltà del repertorio di Mingus, ma riuscitissima con questo vol. 1, al quale, come conferma Garlaschelli, seguiranno sicuramente altri album.

La quasi totalità del materiale contenuto in questo album è opera di Mingus. Per poter realizzare il progetto in quintetto d'archi è stato necessario reperire i musicisti adatti: professionisti dotati di grande capacità e sensibilità in ambito classico, ma anche versatili ed aperti all'improvvisazione, con una spiccata propensione al ritmo ed alla pronuncia jazzistica.
Al pari di Garlaschelli, Mariella Sanvito (primo violino), Emanuele Parrini (violino), Paolo Botti (viola) ed Eliana Gintoli (violoncello) hanno infatti maturato una rimarchevole esperienza nei due generi musicali, classica e jazz, dando tutti in egual misura un rilevante apporto alla riuscita del disco.

L'unico brano originale dell'album, Mingus Tango, ha anch'esso le proprie radici nella musica classica: racconta Garlaschelli che quando compose questo pezzo era impegnato in orchestra con una sinfonia di Stravinsky, e che sicuramente ha subito l'influenza del sommo compositore.

“Mingus in Strings” merita davvero un attento ascolto e risulterà di sicuro interesse sia per il pubblico amante del jazz sia per gli estimatori della musica da camera. Come tutti gli album realizzati da SNJ Records, è reperibile on line, tramite il sitowww.radiosnj.com nella sezione “Records”. Anche per questo album va fatta menzione all'ottimo lavoro svolto in fase di e mixaggio. (Rossella Del Grande per Jazzitalia)

Sonata Islands –
“A+B” – Radio SNJ Records 013
“High Society” – Radio SNJ Records 019
Il marchio “Sonata Islands” identifica un progetto portato avanti sin dal 2002 da Emilio Galante con l'obiettivo primario di “suonare la nuova musica italiana, sia essa musica colta o jazz”, quindi musica diretta principalmente a musicisti in grado di frequentare ambedue i territori senza molti problemi alla ricerca dell'intima essenza della musica.
Partendo da queste premesse Radio SNJ Records ha già registrato due album.

Sonata Islands - “A+B”

Sonata Islands - “A+B”

Il primo – ”A+B” – presenta Emilio Galante al flauto e all'ottavino, Guido Bombardieri al sax alto e clarinetto, Beppe Caruso a trombone e conchiglie, Tito Mangialajo Rantzer al contrabbasso, Stefano Bertoli alla batteria e Tino Tracanna al sax tenore e soprano. Ed in realtà è proprio quest'ultimo l'attore principale dell'album che si articola esclusivamente su originals composti , oltre che dallo stesso Tracanna, da Galante, Bombardieri e Caruso. L'album si muove su coordinate lontanissime da qualsivoglia forma di mainstream. Così Tracanna evidenzia ancora una volta la sua naturale predisposizione ad un jazz cameristico che tende ad un completo interplay, ben assecondato in ciò da Galante, flautista ancora sottovalutato; i due, oltre a dialogare tra loro, tessono fitte e mai banali trame con gli altri due fiati mentre Rantzer e Bertoli si fanno apprezzare per un lavoro di sostegno ritmco-armonico tanto delicato quanto difficile. Tra i brani particolarmente riuscito “Like Cab” di Tino Tracanna che presenta splendidi assolo e convincenti pieni orchestrali.

 

Sonata Islands - High Society

Sonata Islands - High Society

Anche il secondo album – “High Society” – presenta una musica non facile; dell'originario gruppo ritroviamo Galante, Bombardieri, Rantzer e Bertoli cui si sono aggiunti, per l'occasione, Giovanni Falzone tromba e Simone Zanchini fisarmonica. Si tratta, quindi, di musicisti ben noti agli appassionati con in testa il trombettista che si è fatto valere in più occasioni e soprattutto in contesti assai diversi. Così come diverso è il contesto rappresentato da questo sestetto: provenendo da esperienze molteplici, Galante e compagni hanno pensato bene di dar vita ad un gruppo che potesse, inglobando le singole potenzialità, muoversi in una direzione nuova. Una direzione che sicuramente si situa nell'ambito della musica sperimentale i cui principali problemi consistono sia nel ricercare un sound particolare sia nel trovare il giusto equilibrio tra improvvisazione e scrittura. Ebbene, sotto questi aspetti i risultati sono eccellenti. Il sound del gruppo attinge la sua particolarità sia dalla struttura stessa dell'organico sia dal sapiente uso della fisarmonica che fornisce al tutto un tocco di modernissimo retro mentre l'esempio migliore del nesso creato tra scrittura e improvvisazione è la ballade di Falcone “Sonata Island”, un brano ben costruito e altrettanto ben eseguito.

 

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