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jazz italiano

Un nostro illustre collega, nel solito editoriale di ogni mese, ci ha fornito una lettura dell'attuale situazione del jazz italiano francamente sorprendente. Devo confessare che all'inizio ho avuto il dubbio di non capire bene ciò avevo sotto gli occhi: ho quindi  letto e riletto l'articolo in questione e alla fine ho dovuto constatare che la prima era quella buona, vale a dire il nostro amico voleva dire esattamente ciò che avevo compreso.

Ma vediamo di che si tratta. L'articolo parte dalla giusta considerazione che, nel nostro Paese, la meritocrazia non viene rispettata e che si affida la “selezione dei ruoli dirigenti, pubblici e privati, ad appartenenze politiche e lobbystiche, raccomandazioni, familismo, tangenti”. E come non concordare su un'analisi del genere a patto che non si faccia, poi, la solita distinzione tra quelli duri e puri e gli altri tutta una massa di imbroglioni.

Ma andiamo oltre; si dice, ancora giustamente, cheil jazzèinclusivo non potendo prevedere altra discriminante che la qualità della musica. Di qui la tesi secondo cui il mondo del jazz fa eccezione rispetto al quadro descritto in precedenza. Ciò perché: a) il pubblico è competente; b) nel jazz sono più numerosi che altrove i centri decisionali; c)il jazznonattribuisce molta importanza ai grandi media.

Questo tipo di ragionamento mi ha lasciato piuttosto stranito anche perché, forse per colpa di un mio siculo pessimismo, vedo le cose in modo diverso, per non dire diametralmente opposto.

A mio avviso la situazione del jazz italiano vive attualmente una situazione di quasi blocco o se volete di oligopolio. E mi spiego meglio. Oggi il panorama vede un solo artista capace di focalizzare l'attenzione dei media (come se fosse l'unico jazzista valido) e potenzialmente impegnato 365 giorni l'anno; sullo stesso livello, per quanto riguarda i concerti, un altro musicista che però non riceve eguale attenzione mediatica; questi due artisti sono in grado di mobilitare masse consistenti di denaro, forse troppo consistenti vista la crisi che attraversiamo.

Solo mezzo gradino più sotto, un altro artista che, solo volesse, potrebbe anch'egli suonare ogni sera.

Dietro questi tre, una decina di musicisti che continuano ad esibirsi con buona regolarità (spesso più all'estero che nel nostro Paese).

Per il resto una pletora di buoni se non ottimi jazzisti che tirano alla meno peggio dimenticati da organizzatori, gestori di clubs, radio e televisioni.

Per dirla ancora più chiaramente, se pochissimi musicisti consumano quasi tutta la torta di finanziamenti in qualche modo riservati al jazz, è chiaro che per gli altri restano solo le briciole. Mi si potrebbe obiettare: ma i tre cui ci si riferisce sono in assoluto i più bravi del panorama. E qui casca l'asino dal momento che credo nessuno possa fare un'affermazione del genere.

Seconda obiezione: è il mercato che decide! Tesi più che lecita purché la si porti avanti con la dovuta coerenza: non capisco perché per un comparto artistico come la musica debba decidere il mercato, e poi quando si parla di economia il mercato diventa il diavolo, il nemico numero uno… ecco un po' di coerenza in più non guasterebbe.

Ora questi discorsi sono stati da me affrontati con una pletora di musicisti e tutti pensano più o meno la stessa cosa solo che poi non se ne parla in quanto, contrariamente alla precedente affermazione, i centri decisionali sono pochi e in mano sempre alle stesse persone non particolarmente disposte a tollerare sgarbi di qualsivoglia genere.

Quanto alla competenza del pubblico, mi permetto di nutrire qualche dubbio quando vedo che i concerti (sic) di Allevi continuano a registrare il tutto esaurito.

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