Le cinque caratteristiche dei fantastici Cinque: come alimentare (e generare) la passione per il Jazz

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High Five Quintet (foto Paolo Giommi)

High Five Quintet (foto Paolo Giommi)

Tutto ciò che un appassionato può chiedere al Jazz è andato in scena sul palco del Pala J di Fano durante il concerto (che non è esagerato definire memorabile) degli High Five Quintet.  E allora la domanda è: cosa un appassionato chiede al Jazz? Ma anche.  Il Jazz èuna musica per soli appassionati? Io direi che il Jazz,se è quello che hanno suonato gli High Five è piuttosto una musica che appassiona.  Appassiona chiunque purché la sua indubbia difficoltà non sia artificioso ermetismo, purché la sua indiscutibile imprevedibilità non si tramuti in incomunicabilità.

Che cosa è accaduto quindi a Fano? Semplicemente che cinque musicisti a livelli di eccellenza abbiano suonato in maniera impeccabile: con assoluta precisione ma senza pedanteria, con istinto ma senza egoismo autoreferenziale, con energia ma senza tracimare in esplosioni indistinte di suoni… anzi!  La cosa stupefacente è stata ascoltare una perfetta coesione del gruppo ma allo stesso tempo una singolare definitezza espressiva di ognuno, che si poteva agevolmente seguire concentrandosi su uno o l’altro alternativamente.

Le proibitissime (nell’armonia colta) quarte parallele tra Bosso e Daniele Scannapieco che eseguivano il tema di “Something cute” hanno aperto il concerto, emblematiche di quanto perfetta possa essere la “trasgressione”: nelle parti obbligate (come nel caso di questo incipit particolarmente efficace) per tutto lo svolgimento del concerto c’è stata la cura dei particolari, che poi è quella che fa la differenza, specialmente nel Jazz, che è un genere musicale sempre a rischio sciatteria, approssimazione…. e aggiungo, senza paura di essere smentita, anche irresistibile attrattiva per musicisti non propriamente inappuntabili, che si fanno forti di un alibi in realtà debolissimo: quello dell’improvvisazione, lasciapassare – per jazzisti di serie B – per disattenzioni, imprecisioni, grovigli indistinti di note che tutto sono fuorché musica.

High Five Quintet (foto Paolo Giommi)

High Five Quintet (foto Paolo Giommi)

Gli High Five questo rischio non lo corrono per nulla.  Energici, prodigiosamente energici (Frogs Dance, di Luca Mannutza, che si è mostrato lirico e irrefrenabilmente creativo), ma anche morbidamente languidi (il loro Body and Soul durante il bis è stato emozionante eppure tutt’altro che sdolcinato), veri atleti eppure così comunicativi e musicali da suscitare applausi entusiastici anche nei momenti più difficili e apparentemente inestricabili, quella cura gli High Five l’hanno messa nei soli, nei momenti improvvisati, l’hanno messa addirittura nei silenzi.  Non fanno musica facile gli High Five, né furba.  Ogni tanto si concedono (giustamente) un “occhiolino sonoro” al pubblico, ma sono ben lungi dall’istrionismo che va così di moda in questo periodo in Italia.  Del quale si può fare francamente a meno: il pubblico sorride, applaude, fischia entusiasticamente, eppure loro, pur divertendosi molto, sono serissimi, suonano, sudano sette camicie, hanno una tecnica prodigiosa. Ci sono momenti in cui suona il trio Mannutza – Tommaso Scannapieco – Tucci, e allora si ascolta il Jazz elegante del piccolo ensemble da Jazz Club: di gusto ma non di maniera, per intenderci, in cui la batteria decide il clima, il pianoforte ne affresca le linee melodiche, il pianoforte trasforma  in note i battiti della batteria, la batteria canta in battiti le note del pianoforte, il contrabbasso di Scannapieco sapientemente riassume ritmo e melodia con un suono pieno e convincente.  Ma non mancano i momenti in duo, come quello incredibile che ha visto interagire Tucci (batterista veramente ai vertici da tutti i punti di vista – come tecnica, musicalità, fantasia) e Daniele Scannapieco (il suono del suo sax è veramente inconfondibile, così come lo sono i suoi fraseggi) : non muscoli, ma l’energia di entrambi tradotta in una valanga di suoni.  Così come una valanga di suoni sempre espressivi ha prodotto la tromba sempre più incredibilmente fluida e musicale di Bosso.  Si scompongono, si ricompongono in tutte le varianti possibili – compresa quella del duo tromba e contrabbasso – citano instancabilmente frasi ma anche pezzi di storia del jazz, dal Gospel, al Jazz più retro degli anni 30, all’Hard Bop, o magari partendo dal Latin per scivolare  verso il blues (“Estudio misterioso”).  Tutto questo non certo in maniera documentaria in stile “Ecco a voi la storia del jazz!”.  Tutto questo suonando in maniera moderna, viva, non didascalica, fresca, nuova – anche nei momenti più connotati e ascrivibili a un’epoca piuttosto che a un’altra.

E allora torniamo alla domanda iniziale: cosa un appassionato (della prima o dell’ultima ora) chiede al Jazz per appassionarsi? Bravura, Cura, Energia, Eleganza, Espressività.  Cinque caratteristiche, che gli High Five Quintet (cinque anche loro) hanno centrato tutte.  A questo aggiungiamo che la location del Pala J si è rivelata  particolarmente adatta, giusta, fortunata per il Jazz, perché non lo ha relegato in uno scantinato (per pochi intellettualissimi eletti), né in un serissimo spazio che impedisce di lasciarsi andare (in stile sala da concerto), né in un locale fatto apposta per il Jazz – con finta atmosfera “casual” in realtà regolamentata da orari e regole rigide, né in una chiassosissima osteria che impedisce di ascoltare la musica.

Gli appassionati non possono che essere soddisfatti.  E di sicuro chi sabato ha ascoltatoil Jazz per la prima volta, è entrato nella cerchia (per fortuna sempre meno ristretta) degli appassionati del vero Jazz: una volta ascoltati gli High Five indietro non si torna di sicuro.

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