Ascoltiamo Mario Crispi

Tempo di lettura stimato: 12 minuti

Hai approfondito queste ricerche anche andando nei luoghi in cui queste musiche e questi sono stati creati?
“ Sì; a partire dalla metà degli anni '90, sia attraverso i concerti con Agricantus – il gruppo che ho formato nel '79 – sia con viaggi personali dove ho approfondito tutta una serie di elementi proprio in loco ed è stata sempre un'esperienza esaltante. Per esempio, qualche anno fa sono stato tre settimane in Iran. Lì, a Teheran, ho suonato con un amico artista/musicista, Reza Derakshani che vi è tornato a vivere, mentre a Isfahan, in Iran Centrale, ho suonato con musicisti di strada (dal momento che mi ero portato appresso gli strumenti): in entrambe le esperienze ho capito alcune cose della musica persiana che prima mi erano sfuggite, essendomi mancato il contatto diretto. Nel 2006 invece sono stato invitato in Pakistan a partecipare al Festival “World Performing Art” a Laore. È stata una settimana davvero speciale in quanto sono rimasto immerso full time in una atmosfera straordinaria creata dai 500-600 artisti che partecipavano alla manifestazione, provenienti da tutto il mondo anche se in maggioranza da quelle aree. Il Festival era strutturato in modo tale che gli artisti avessero l'opportunità di conoscersi e frequentarsi e quindi, successivamente, di interagire tra loro. Tutto ciò diviene fondamentale, ad esempio, nell'apprendimento di uno strumento o di modalità esecutive poiché si ha l'opportunità di ascoltarle proprio nel “proprio” ambiente. Sono stato in Kenia con Giovanni Lo Cascio per partecipare al suo progetto “Juakali Drummers”, ovvero un gruppo di ragazzi provenienti dagli slams che hanno elaborato negli anni delle tecniche particolari nella costruzione di strumenti etnici soprattutto a percussione. Nel caso di questo progetto io ho tenuto invece un laboratorio di strumenti a fiato costruiti con materiali di riciclo. E anche questa è stata un'esperienza molto importante in quanto, parallelamente alla costruzione di tali strumenti, andavamo elaborando, con i ragazzi, tecniche di apprendimento sperimentali”.

Immagino che frequentando tali contesti tu pratichi la respirazione circolare.
“ Sì, l'ho imparata stranamente in Sicilia alla fine degli anni '80. In quel periodo c'era un Festival particolare, organizzato da una Associazione, l'Associazione Antonino Uccello, di cui facevano parte, tra gli altri, Ignazio Buttitta, Rosa Balestrieri, Ciccio Busacca…”.

I grandi, insomma…

“Sì, c'erano anche i Rakali, la Taberna Mylaensis e c'eravamo anche noi – giovanissimi Agricantus – come soci fondatori di questa benemerita associazione che cercava di salvaguardare e propagandare la musica popolare di tradizione orale siciliana. In quella occasione venne invitato anche Luigi Lai, uno dei più grandi maestri viventi di launeddas: straordinario strumento della tradizione sarda all'epoca conosciuto solo dagli studiosi. Acquistai da lui tre strumenti, mi fece vedere più o meno come andavano suonati e poi mi lasciò al mio destino. Comunque in un po' di tempo imparai la respirazione circolare e imparai anche qualche frase da sviluppare sulle launeddas”.

Ma tu non suoni spesso questo strumento…
“Oggi le suono meno, ma prima le suonavo molto più spesso. Ma non perché non mi piacciono: il fatto è che si tratta di uno strumento molto difficile! Pensa che in questo ambito la respirazione circolare è forse la parte più semplice: la cosa veramente complicata è suonare secondo la concezione sarda dello sviluppo delle nodas, ovvero l'apprendimento di numerose piccole frasi con cui costruire un brano e che vanno memorizzate per miscelarle successivamente tra loro in maniera creativa e che, dato l'aspetto polifonico e poliritmico, richiedono l'indipendenza totale delle dita di ciascuna mano. A mio avviso i maestri di launeddas, proprio per la complessità delle strutture musicali e delle tecniche esecutive utilizzate, sono assimilabili ai concertisti classici dato che, per esprimersi compiutamente in questo campo, devono esercitarsi ore ed ore al giorno “.

Tu poco facevi riferimento ad Agricantus, senza dubbio uno dei gruppi più importanti in questo specifico segmento musicale. Come nacque e perché si è sciolto?
“Gli Agricantus nacquero nel 1979 come collettivo musicale che trattava originariamente la musica del Sud America, delle Ande, collegandola anche ad un impegno politico dato che quei popoli erano allora per buona parte sotto dittatura. Abbiamo portato avanti questo tipo di impegno per due tre anni e poi ci siamo avvicinati alla musica siciliana, in particolare ad un sindacalista, Vito Mercadante, vissuto agli inizi del ‘900, di cui musicammo varie poesie con tematiche che spaziavano dalla cultura popolare all'amore ma con una particolare predilezione per la solidarietà verso la classe contadina, gli operai, i lavoratori “.

Di qui il nome Agricantus?
“ No, in realtà il nome – campo di grano – esisteva da prima in quanto si tratta di una
translitterazione di questo concetto in latino dando però una dimensione atemporale in quanto partiva dal latino per giungere fino ai giorni d'oggi”.

In realtà io ho sempre inteso Agricantus in senso più letterale come canto del campo…
“Sì, canto del campo, campo di grano sono per me concetti coincidenti. Questa mistura tra musica popolare, rock, jazz ce la siamo trascinata sino ai primi anni '90 quando cominciarono a prendere piede gli strumenti elettronici con la possibilità di campionare suoni ed elaborarli in forma digitale. In quella fase abbiamo cominciato ad approfondire un nostro linguaggio. Quel periodo coincise anche con la mia collaborazione con l'Università di Palermo finalizzata alla ricerca etno-musicologica: cominciai ad andare in giro con il registratore, a fare ricerche sul campo e svolgere lavori di archiviazione all'interno del Folk Studio”.

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