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Rino Arbore – “Sweet wind”

Rino Arbore – “Sweet wind”

Rino Arbore – “Sweet wind” – NFR S01

Protagonista dell'album un quartetto italo – norvegese, guidato dal chitarrista pugliese Rino Arbore e completato da Camillo Pace contrabbasso, Gianlivio Liberti batteria e dal trombettista e flicornista norvegese Roy Nikolaisen.Sulla carta l'abbinamento non sembra tra i più felici essendo notevole la differenza tra l'universo musicale nordico (norvegese in particolare) e quello italiano: così introspettivo, visionario, legato ad una dolce malinconia di fondo l'uno, così solare, sempre più attratto dalla bellezza della melodia l'altro. Eppure, come spesso accade, la musica riesce a conciliare elementi anche assai lontani, ed il miracolo è fatto: questo “Sweet wind” ne è una testimonianza dal momento che le sonorità nordiche e mediterranee riescono ad amalgamarsi sul terreno di un idem sentire che in qualche modo può collegarsi all'amore perla natura. E', infatti, lo stesso Arbore a dedicare l'album “al vento dolce che accarezza la sommità di una collina alle porte della mia città, un luogo magico e silenzioso” e ad Arturo “il mio insostituibile amico che ha segnato, con il suo amore profondo, venti anni della mia vita”. Dal punto di vista prettamete musicale c'è da sottolineare come il repertorio sia stato scritto appositamente dallo stesso Arbore che già nella scrittura dimostra da un canto di avere una piena conoscenza e coscienza della tradizione jazzistica, dall'altro di non disdegnare linguaggi d'avanguardia. E tutto ciò si avverte immediatamente: ad un'apertura “A new spring” di chiaro sapore mediterraneo, caratterizzata da una precisa linea melodica, fa immediatamente seguito “Light on the bridge” in cui il linguaggio si fa più aspro, tagliente anche se non siamo ancora nel campo della pura sperimentazione. Di impianto più decisamente free “Photo from Italy” in cui c'è ampio spazio per gli interventi solistici di Arbore, Nikolaisen e Liberti. Splendido, infine, il brano di chiusura “Last passage” fortemente evocativo e impreziosito dal linguaggio chitarristico di Rino Arbore così personale e perfettamente in grado di esprimere le emozioni dell'artista.

Piero Bittolo Bon Jümp The Shark – “Ohmlaut”

Piero Bittolo Bon Jümp The Shark – “Ohmlaut”

Piero Bittolo Bon Jümp The Shark – “Ohmlaut” – El Gallo Rojo

Una precisazione indispensabile: se amateil jazz canonicoin cui siano ben distinguibili melodia,armonia e ritmo, allora lasciate stare, questo album non è per voi. Se viceversa cercate la novità, l'ispirazione istantanea cui si accompagna l'atto dell'eseguire, l'avventura in territori sconosciuti senza alcun punto di riferimento allora siate i benvenuti nell'universo di Piero Bittolo Bon. Il sassofonista e flautista si sta, infatti, imponendo all'attenzione generale come uno degli artisti più creativi e originali del momento, un artista che va al di là di qualsivoglia classificazione proprio per i contenuti così variegati e spesso stranianti che propone. A cominciare dal nome della band: “Jümp The Shark” viene oramai tradotto come “L'inizio della fine” e suona, quindi, quanto meno strano che qualcuno decida di chiamare la propria formazione in questo modo… a meno che non voglia metterne in luce proprio il significato contrario e cioè che il gruppo è in continua ascesa. Prometto che se mi capiterà di intervistare Bittolo Bon glielo chiederò. Musicalmente parlando, poi, l'album è ricco di invenzioni scoppiettanti, di tematiche accennate e subito dopo abbandonate, di idee che si susseguono senza soluzione di continuità, ricche di ironia, di citazioni più o meno colte in un magma ribollente che a letteralmente avvolge l'ascoltatore. Ora è chiaro che quando la musica, per volontà dell'artista, non conosce un attimo di pausa, di riflessione, di presa di fiato può accadere che la stessa risulti alle volte poco convincente, che qualche passaggio vada fuori misura, che qualche frase magari appaia fuori contesto, che si abbia l'impressione di perdere il filo del discorso. Ecco questo tipo di imperfezioni nell'album ci sono ma ciò nulla toglie alla valenza complessiva di un album di sicuro interesse.

Stefano Bollani – “Volare”

Stefano Bollani – “Volare”

Stefano Bollani – “Volare” – Venus 35308   

Era l'oramai lontano 2002 quando Stefano Bollani incideva questo album in trio con Ares Tavolazzi al contrabbasso e Walter Paoli alla batteria. Il CD venne pubblicato in Giappone e fu praticamente l'opera che fece conoscere al pubblico del Sol Levante il nostro pianista già assai famoso non solo in patria ma anche nel resto dell'. Adesso è stato raggiunto un accordo con la casa discografica, la Venus, per cui l'album viene ora distribuito anche in Italia… anche se, ad onor del vero, nulla aggiunge alla statura di grande musicista che abbiamo imparato a conoscere ed apprezzare (meno, molto meno quando fa lo show man). In effetti dal 2002 ad oggi Bollani è stato interprete di molti altri dischi, alcuni di livello assoluto, che l'hanno decisamente proiettato nell'Olimpo dei pianisti jazz. Ciò detto, occorre però aggiungere che a distanza di dieci anni dall'incisione, il disco si ascolta sempre con grande ed immutato piacere dal momento che si basa su un'idea semplice ma  vincente: rileggere in chiave jazz e senza l'ausilio di voci alcuni dei brani più rappresentativi della musica italiana, passando da canzoni di grande popolarità quali “Volare” di Modugno, “Azzurro” portato al successo da Celentano e “Arrivederci” dell'indimenticato Umberto Bindi  a classici della tradizione napoletana come “Anema e Core” e “Te Vojo Bene Assaje”, senza trascurare le colonne sonore (“La Dolce Vita”) e la musica classica (“E Lucean Le Stelle”). Io sono da sempre un grande ammiratore di Domenico Modugno per cui sono andato immediatamente ad ascoltare la versione di “Volare”; ebbene Bollani e compagni se la cavano più che egregiamente: dopo una breve introduzione di Tavolazzi che disegna la linea melodica, entra in scena il trio che rivisita il brano con grande intelligenza e creatività. Ottima anche l'interpretazione di “Anema e core” con Tavolazzi ancora in primo piano, Paoli che con le spazzole da un vero e proprio saggio di bravura e Stefano che disegna delicate volute melodiche con grazia e sensibilità. Doti che si riscontrano in tutto l'album in cui, tra l'altro, Stefano dimostra di aver assimilato assai bene la lezione evansiana mentre i suoi partners si muovono con grande sicurezza assicurando quel sostegno di cui il pianista abbisogna. Insomma un disco non nuovo ma che vale la pena ascoltare con attenzione.

Fabrizio Bosso – “Plays enchantment”

Fabrizio Bosso – “Plays enchantment”

Fabrizio Bosso – “Plays enchantment” – Schema Records RW145

Era fin troppo facile prevedere che ci sarebbero stati molti omaggi discografici al grande Nino Rota: la cosa si è puntualmente verificata ma ciò nulla toglie alla valenza di questo album che vede un quartetto jazz capitanato dal trombettista Fabrizio Bosso e completato da Claudio Filippini al piano, Rosario Bonaccorso al contrabbasso e Lorenzo Tuccci alla batteria interagire niente di meno che conla London SymphonyOrchestra, con la direzione e gli arrangiamenti del maestro Stefano Fonzi. L'album ha avuto una gestazione piuttosto lunga: come confessa lo stesso Bosso ci son voluti cinque, sei mesi di lavoro con Stefano Fonzi soprattutto per “sistemare la parte jazz”. Dal Canto suola Lodon SymphonyOrchestraha accettato la richiesta di Fonzi e Bosso dopo aver visto su youtube alcune esibizioni del trombettista. Ora mettere assieme una grande orchestra sinfonica ed un combo di eccellenti jazzisti non significa automaticamente ottenere buoni risultati; questa volta, comunque, l'obiettivo è stato centrato appieno. L'album si presenta come una sorta di suite di circa 50 minuti in cui rivivono alcune delle pagine più belle di Nino Rota, da “Otto e mezzo” a “Romeo e Giulietta”, da “Amarcord” al “Gattopardo”, da “La Strada” al “Ragazzo di Borgata” edito dalla CAM nel 1976 solo su 45 giri… fino alla “Dolce Vita”: insomma tutti brani di Nino Rota ad eccezione di “Enchantment” , scritto da Stefano Fonzi. Le partiture di Rota sono affrontate conil massimorispetto tanto che la splendida linea melodica delle composizioni mai viene messa in discussione; sia l'orchestra sia il quartetto si muovono quasi in punta di piedi e gli interventi solistici specie di Bosso e di Filippini (splendido l'assolo in “Romeo e Giulietta”) servono per lo più a focalizzare ancora meglio l'attenzione dell'ascoltatore sulla musica di Rota. Insomma non una rivisitazione in chiave jazzistica dell'opera di Rota ma una sorta di contaminazione per cui nell'impianto originale vengono immessi inserti jazzistici mai invadenti. Così Bosso dialoga con l'orchestra improvvisando spesso ma in maniera sempre contenuta, magnificamente sorretto da Filippini, Bonaccorso e Tucci mentre l'orchestra sottolinea l'ampio respiro delle melodie di Rota. Infine una notazione la merita il brano di Fonzi: il compositore è riuscito a cogliere appieno quella malinconia insita nelle pagine di Rota e a ripresentarcela in forma diversa.

Franco Cerri – “Bossa with strings”

Franco Cerri – “Bossa with strings”

Franco Cerri – “Bossa with strings” – Blue Serge BLS 032

Proviamo a fare un giochino; chiudete gli occhi e pensate a quali brani di bossa nova vi vengono in mente: “Corcovado”? C'è; “Chega de Saudade” C'é… così come ci sono “Samba de uma nota so”, “Desafinando”, “Garota de Ipanema” “Voce e eu”. Tutto ciò per dire che in questo ultimo album del chitarrista Franco Cerri possiamo davvero trovare i brani che hanno fatto la fortuna di questo genere musicale. Non è certo la prima volta che Cerri affronta la bossa nova: già negli anni '60 evidenziò la sua bravura in questo campo suonando con Bruno Martino e più di recente, nel 2004, effettuò una torunée con un progetto dedicato interamente alla musica di Antonio Carlos Jobim, “I miei viaggi musicali…fino al Brasile”. Eppure ogni volta che ritorna a questo vecchio amore Cerri lo fa con quella grazia, quella dolcezza e quella suadente melodicità che caratterizzano la sua musica così come la sua persona. In questa nuova esperienza c'è, però, una novità di non poco conto: l'inserimento del quartetto d'archi italo-nippo-albanese “Time Piece Quartet”  composto da Eugjen Gargjola e Maria Vicentini al violino, Marco Perini alla viola e Aya Shimura al violoncello. Archi che devono dialogare con il combo di Cerri completato da Alberto Gurrisi all'organo Hammond, Salvatore Maiore al contrabbasso ed Enzo Carpentieri alla batteria. L'idea di fondo era quella di utilizzare gli archi non come solitamente si fa per disegnare un arabescato tappeto sonoro su cui vanno ad incidere i solisti, ma per costituire un interlocutore musicale che potesse dialogare con Cerri e compagni sì da  contrappuntarne il fraseggio. Cosa molto più difficile a farsi che a dirsi. Di qui il ricorso ad un arrangiatore di vaglia come Oscar Del Barba , il quale, scrivendo a stretto contatto con Cerri,  ha fatto davvero un ottimo lavoro. I pezzi, pur assai famosi, sono riletti con intelligenza e grande gusto armonico offrendo all'ascoltatore una musica allo stesso tempo fresca e familiare con un sound affatto particolare derivante soprattutto dall'intrecciarsi di chitarra, organo Hammond e archi. Oltre ai brani già citati, l'album contiene una splendida ed originale versione di “Estate” di Bruno Martino nonché “As long as there's music” un classico del jazz di Cahn e Styne, il ben noto “Bluesette” di Toots Thielemans e due originals di Cerri “Isìnesi” e “Lipae”.

Cordoba Reunion – “Sin lugar a dudas”

Cordoba Reunion – “Sin lugar a dudas”

Cordoba Reunion – “Sin lugar a dudas” – abeat 100

Sotto l'insegna “Cordoba reunion”, troviamo un quartetto costituito daJavier Girotto

al sax soprano, Gerardo Di Giusto al piano, Carlos “el tero” Buschini al basso (componenti anche del quartetto argentino-giapponese Gaia Cuatro) e Gabriel “minino” Garay alla batteria. Il gruppo è impegnato su un repertorio di undici brani di cui tre scritti da Buschini, uno da Di Giusto e gli altri da Girotto. A questo punto, soprattutto per chi conosce bene Girotto, si ha già un'idea ben precisa della musica contenuta nel CD, registrato in Svizzera fra il 3 e il 5 aprile del 2008: innanzitutto il gusto per la melodia ed una certa malinconia di fondo che da sempre caratterizzano la poetica del musicista argentino; in secondo luogo una intensità espressiva non comune declinata sulle ali di una forte intesa di gruppo; infine un gradevole alternarsi tra brani più ritmici e pezzi più lenti, introspettivi. Si apre con una composizione di Bruschini, “La vuelta” in cui si capisce immediatamente quanto importante sarà il contributo del pianista Gerardo Di Giusto. Segue “El mastropiero” di Girotto in cui il musicista argentino mette in mostra quella lucidità e facilità di fraseggio che ne hanno fatto uomo di punta del moderno sassofonismo; “Pigro sentimento” è il primo pezzo di carattere meditativo: splendida introduzione di Di Giusto e Garay alle spazzole e quindi lungo intervento di Girotto che disegna, con un leggero vibrato, volute altamente coinvolgenti mentre Di Giusto contrappunta con rara eleganza e delicatezza; “La rural” come suggerisce il titolo è ispirato a melodie popolari e ci offre uno spettacoloso assolo di Garay mentre “La cambiada” di Di Giusto si caratterizza per la forte carica ritmica evidenziata sia dal piano dell'autore sia dal basso di Buschini; in “Sin lugar a dudas” e “Huayno en5”rispettivamente di Buschin e Di Giusto il peso maggiore delle esecuzioni, anche in questi casi fortemente ritmiche, ricade sulle capaci spalle di Girotto, protagonista, nell'ultimo pezzo, di un trascinante crescendo, splendidamente coadiuvato da Gerardo Di Giusto che usa il piano anche in funzione percussiva e da basso e batteria davvero superlativi per il sostegno così intenso e preciso. Tra i rimanenti brani da segnalare ancora “La luz de la noche” ancora di Di Giusto, un pezzo caratterizzato da una bella, nostalgica e suadente linea melodica interpretata con struggente delicatezza da Girotto ma soprattutto dall'autore.

Paolo Fresu & Omar Sosa – “Alma”

Paolo Fresu & Omar Sosa – “Alma”

Paolo Fresu & Omar Sosa – “Alma” – Tuk Music8030482000986

Paolo Fresu e Omar Sosa vantano una lunga collaborazione che si è sostanziata in numerose tournées che hanno sempre fatto registrare un clamoroso successo assolutamente meritato. I due sono , oramai da tempo, impegnati in una meritoria opera di studio di quelle radici che hanno dato vita al jazz e lo fanno partendo da premesse e universi sonori che , almeno sulla carta, appaiono assai lontani. Omar Sosa, cubano, è riuscito a fondere in mirabile sintesi le intime suggestioni della santeria con i ritmi jazz grazie ad una mentalità compositiva che  tende a trovare connessioni là dove è possibile. Dal canto suo Paolo Fresu è partito dalla natia Sardegna per approdare ai massimi livelli avendo ben presenti sia la lezione di Miles Davis sia l'amore per la sua terra e quindi la sua musica. Di qui due mondi che a prima vista sembrano inconciliabili e che invece riescono a trovare un profondo punto di contatto, una sorta di ponte tra Cuba e Mediterraneo che trova i suoi pilastri nella spiritualità che pervade la loro musica. Fresu e Sosa si integrano perfettamente: le invenzioni dell'uno vengono immediatamente riprese dall'altro ed anche l'uso dell'elettronica viene inteso in maniera assolutamente similare: non un mezzo per deformare suoni, per andare alla ricerca dell'effetto quanto uno strumento dedicato a meglio esprimere le proprie idee, la propria anima. Di qui una musica variegata, dagli andamenti non univoci, ricca di chiaroscuri in cui soprattutto Fresu evidenzia ancora una volta quel controllo delle dinamiche che costituisce parte essenziale del suo bagaglio stilistico. Dal canto suo Sosa evidenzia spesso il carattere danzante della sua musica grazie a quella tecnica sopraffina che tutti gli riconoscono. Ma c'è un terzo elemento che non è stato menzionato e che pure ha un'importanza decisiva nella riuscita dell'album. Jaques Morelenbaum. Il maestro del violoncello interviene a cucire, a dare un senso di maggiore unitarietà al progetto con un sound sicuramente tra i più belli che il violoncello jazz abbia mai saputo offrire. 

Vijay Iyer – “Accelerando”

Vijay Iyer – “Accelerando”

Vijay Iyer – “Accelerando” – ACT 9524 2

Ecco il nuovo album del pianista indo-americano: Iyer è accompagnato dal suo solito trio completato dal bassista Stephan Crump e dal batterista Marcus Gilmore e presenta un repertorio molti variegato che va da pezzi originali (cinque), a brani di compositori jazz quali Duke Ellington, Herbie Nichols ed Henry Threadgill, a pezzi pop come “Human nature” portato al successo da Michael Jackson, a composizioni decisamente funky quale “The Star Of A Story”  lanciata dagli Heatwave ma firmata da quel da Rod Temperton, autore anche di “Thriller” che ha dato il nome ad uno dei migliori album di Michael Jackson, per giungere fino a “Mmmhmmm” brano che si muove tra l' hip hop e l' elettronica più spinta scritto dal produttore, DJ e performer Flying Lotus. Insomma un viaggio nella musica al di là delle etichette che evidenzia, seppur ce ne fosse ancora bisogno,  come questo artista abbia introitato una vastissima conoscenza musicale che riesce successivamente a trasporre nelle sue straordinarie interpretazioni, a conferma, tra l'altro, di un particolare momento della sua carriera: “in realtà – afferma Vijay – sto sperimentando la musica ad un livello viscerale, nel modo in cui la maggior parte della gente fa. La danza è un modo corporale di ascoltare la musica – è una risposta universale.Il jazz ha sempre avuto una specie di impulso alla danza nella sua natura. Il Bebop proviene dallo swing che era una danza ritmica assurta poi a livello di . Io non voglio perdere  questo fondamento di comunicazione ritmica nel mio lavoro. Questa realtà fisica della musica è ciò con cui “Accelerando” ha a che vedere. Per me la musica è azione”. Quindi il pianista pone a fondamento di quest'ultima fatica discografica il ritmo e la danza e ciò spiega anche la scelta di quel repertorio cui prima si faceva riferimento. Così, sia il brano d'apertura, “Bode” (uno degli original) sia quello di chiusura ( l'ellingtoniana “The Village Of The Virgins” , dall'opera per danza “The River”  scritta per Alvin Alley e rappresentata per la prima volta nel giugno del 1970 al Lincoln Center's di New York) vengono affrontati con grande forza ritmica quasi a racchiudere la forza ispiratrice dell'intero volume, con Vijay a scandire ogni nota, adoperando benissimo il pianoforte anche in funzione percussiva, alla Randy Weston tanto per intenderci. Ma è tutto l'album che si ascolta con interesse: splendidi, ad esempio, la cantabilità e l'andamento di “The star of a story” impreziosito da uno splendido assolo di Stephan Crump, “Mmmhmm” è un gioiellino di delicatezza rispetto all'originale mentre il pezzo forse più suadente per la bella linea melodica, volutamente non risolta in maniera compiuta, è “Lude” dello stesso Iyer.

Marco Tamburini – “Contemporaneo immaginario”

Marco Tamburini – “Contemporaneo immaginario”

Marco Tamburini – “Contemporaneo immaginario” – Note Sonanti 1002

Poche volte il titolo di un album ha una stretta relazione con il relativo contenuto musicale. A questa regola fa eccezione 'album di Tamburini che viceversa calza perfettamente la musica che si ascolta, una musica contemporanea, straordinariamente evocativa, suggestiva che sicuramente parla più all'immaginario che al razionale. Per questa impresa discografica, il trombettista ha scelto un organico assolutamente atipico: al suo “Three Lower Colours” costituito assieme a Stefano onorati (pianoforte, tastiere, live electronics) e Stefano Paolini (batteria e live electron ics) ha voluto affiancare l'ottimo “Vertere String Quartet” ovvero Giuseppe Amatulli e Rita Paglionico violini, Domenico Mastro viola e Giovanna Buccarella violoncello. Il risultato è assolutamente positivo in quanto i due combo si integrano alla perfezione come se il loro affiatamento fosse cementato da una lunga pratica comune. Da questo perfetto amalgama scaturisce quella che può essere considerata la cifra caratterizzante l'intero album vale a dire un sound affatto particolare determinato da un canto dall'uso dell'elettronica dall'altro dal carattere acustico del quartetto… insomma un sound che si potrebbe definire “elettro-acustico” ma la cui ricchezza timbrica può essere apprezzata solo con l'ascolto. Ovviamente nell'album c'è molto altro: innanzitutto i temi scelti, scritti per la quasi totalità dallo stesso Tamburini o da Stefano Onorati e quindi i relativi arrangiamenti anch'essi firmati dai due artisti; in terzo luogo, ma non certo per ordine di importanza, le capacità improvvisative dei singoli che hanno fornito un contributo determinante alla bella riuscita dell'album. In effetti anche se le composizioni, e il modo in cui le stesse sono state arrangiate, si prestano perfettamente a questa sorta di viaggio nell'immaginario, lo stesso non sarebbe stato così entusiasmante senza quel quid di imprevisto e imprevedibile che si chiama improvvisazione e che ancora oggi continua a caratterizzare la musica che ci ostiniamo a chiamare jazz.

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