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Tim Berne (foto Luciano Rossetti)

Tim Berne (foto Luciano Rossetti)

Prosegue la rassegna di Daniela Floris sul Festival Bergamo Jazz 2012. Chi non ha avuto l'occasione di leggere la prima parte può farlo cliccando su questo link: Bergamo Jazz, 34° Edizione.

Di seguito le recensioni dei concerti di Tim Berne e di Ambrose Akinmusire Quintet.



Auditorium di Piazza della Libertà – Sabato 24 marzo ore 17
Tim Berne Snake Oil

Che Tim Berne sia uno sperimentatore si sa, e lo è da oramai una trentina d'anni.  Di mestiere fa l'innovatore, si può dire, e lo fa bene.  Si è sicuri dunque che a ogni suo concerto si ascolterà un jazz molto strutturato, perché il fine per Berne è sempre quello di innovare, un jazz strategicamente nel segno di un'obbligatoria precostituita innovazione, anzi forse nella negazione di ogni “certezza sonora” fino a quel momento acquisita non solo dal suo pubblico ma anche da lui stesso perché artista, per l'appunto, sperimentatore. Il fine è sperimentare più che esprimere.  Anzi il fine è esprimere una ribelle innovazione.

Berne naturalmente è più che padrone del proprio strumento.  Persegue fermamente il suo scopo di un'espressività “trasgredente” il linguaggio jazzistico anche quello meno inscritto nel mainstream.  Anzi Tim Berne è fermamente deciso a trasgredire anche se stesso. Il che è ammirevole anche, perché Berne è tutto fuorché autoreferenziale. Ma allo stesso tempo è estremamente fedele a se stesso, il che è solo apparentemente contraddittorio.

Con lui in perfetta sintonia anche Noriega, Mitchell e il giovanissimo Smith, che in un'ora e mezzo di concerto senza alcuna pausa, se non quella che ha separato il termine di Snakeoil e il bis, dedicato a Paul Motian, s'incamminano in un percorso sonoro quasi completamente atonale, dissonante, basato essenzialmente sui contrasti tra volumi, spessore sonoro, cromatismi armonici.

Per apprezzare la musica di Berne e sentirsi in sintonia con lui e innovatori, compiacendosi dunque di essere “avanti” come lui, è bene assolutamente scardinare ogni genere di legame o paragone verso qualsiasi tipo di altro jazz, anche il più moderno. Il che si dovrebbe fare per ascoltare qualsiasi tipo di musica senza preconcetti.  Ma con Berne (così come con altri artisti innovatori per scelta) bisogna dire a se stessi che la musica sperimentale deve essere ostica.  Dunque l'unica è abbandonarsi ai suoni senza tentare di capire a cosa essi tendano. Astrarsi è la parola d'ordine: e allora si è catturati da un flusso sonoro che Tim Berne vuole, assolutamente vuole sia cerebralmente e non solo istintivamente nuovo e innovatore. Miscela sapiente di musica scritta e momenti d'improvvisazione free, all'Auditorium dunque si sono colti momenti di Free allo stato puro, fraseggi non scevri da musica colta – alcuni momenti del clarinetto di Noriega ricordavano il misticismo di Stravinski, ad esempio, ricerca raffinatissima di contrasti timbrici, momenti di sapiente entropia armonico melodica e suggestivi “quasi” silenzi.
Ad ognuno è aperta l'interpretazione emotiva di questo progetto che dunque rimane progetto aperto al prossimo trasgressivo scardinamento ad opera dello stesso Berne, che certamente continuerà per sempre a sperimentare.  Quale sarà il punto di arrivo di decenni di sperimentazione? O meglio quale sarà il risultato di decenni di sperimentazione, quale il fine musicale? E' come se il risultato di tanta ricerca non arrivasse mai: o forse il traguardo per Berne è la sperimentazione stessa senza un punto di arrivo.

Berne non è l'unico “sperimentatore a vita” nel Jazz, e gli sperimentatori nel jazz per forza di cose tenderanno quasi sempre a “scardinare” il già detto tendendo a lunghe maratone dissonanti, atonali, a volumi contrastanti, e via dicendo, perché per quanto si voglia destrutturare, anche la destrutturazione finisce per avere le sue regole, che diventano riconoscibilissime a lungo andare e sono trasversali anche tra musicisti molto diversi tra loro.   Questo accade dagli anni Settanta, e la corrente degli sperimentatori comincia ad avere le proprie leggi ed i propri regolamenti sedimentati nel tempo. Il jazz sperimentaleè diventato un vero e proprio genere di jazz, e forse in questo vive una contraddizione in termini, perché sperimentare, dovrebbe significare andare oltre qualsiasi regola.  Posto l'indubbio valore artistico, musicale della musica di Tim Berne e del musicista e compositore Tim Berne, sta al singolo decidere quale impatto emotivo, estetico, culturale e d'innovazione abbia la sua musica.  Ad alcuni piacerà, ad altri non piacerà.   Alcuni se la faranno piacere, alcuni ne apprezzeranno l'indiscussa sapienza compositiva, altri il suo valore come strumentista, altri ancora si chiederanno appunto a cosa tende tutto questo sperimentare, com'è giusto in fondo che avvenga… è sacrosanta la libertà di decidere.   Tim Berne di sicuro non solo questo lo sa, ma di certo ha presente il fatto che, perché la sua musica sia sempre innovativa, bisogna pagare il tributo di un pubblico che non la comprenda, il che la rende automaticamente sempre innovativa per altri tre decenni a venire, in quanto incompresa da una parte di pubblico.  E' una di quelle regole che hanno sedimentato nel jazz sperimentale dagli anni settanta fino ad oggi.  

Ambrose Akinmusire (foto Luciano Rossetti)

Ambrose Akinmusire (foto Luciano Rossetti)

Donizetti, sabato 24 marzo, ore 21
Ambrose Akinmusire Quintet
La strada maestra del Jazz

Il Jazz, sappiamo, percorre cronologicamente una strada maestra, a prescindere dalle mille affascinanti strade che si dipanano da essa, e che sono le strade delle contaminazioni con generi musicali, culture, musica colta, alle sperimentazioni, alle vie dell'elettronica e via dicendo in una potenzialmente infinita corolla di possibilità.  Ma la strada ascrivibile al dipanarsi del Jazz dai prodromi fino ad oggi, e che identificail Jazz come un genere a se stante è una e vede l'avvicendarsi di nomi che al loro solo sentire si pensa “èil jazz”.

Non si pensi che in questa strada maestra tutti siano diventati mitici o famosi come John Coltrane, o Miles Davis, o Charles Mingus, o Ron Carter, o Wayne Shorter, o Chick Corea o anche Brad Mehldau, per citarne alcuni. E' il tipo di musica che identifica se siamo nella strada maestra, che è stata tracciata naturalmente da giovanissimi che poi sono (o non sono) diventati mitici.
Ambrose Akinmusire è un giovane trombettista di Oakland e ha deciso di fare il Jazz.  E ad ascoltare il suo concerto di sabato al Teatro Donizetti ha preso la decisione giusta.  Nessuna accattivante trovata fantasiosa: ma un'enorme fantasia nei fraseggi, nell'interazione con il quartetto, nelle dinamiche.  Nessun gigioneggiare: comunicatività insita nella musica.  Strumento padroneggiato alla perfezione con il fine unico di fare musica.  Innovazione, perché Akinmusire suona un Jazz modernissimo: eppure quest'innovazione è totalmente giocata sul progredire superando di netto, ma non certo distruggendo, quella strada maestra tracciata prima dai grandi, e perché no, anche dai meno noti interpreti e precedenti innovatori del Jazz.  Procedere in avanti tracciando idealmente nuovi chilometri di strada senza lanciare indietro bombe a mano è una scelta di grande rilievo e valore, e si traduce in un Jazz di spessore, che guarda avanti senza voltarsi indietro ma che è il risultato di un percorso unico e fondamentale.

Akinmusire possiede un timbro particolarmente pieno, un fraseggio chiaro e cristallino.  E' serissimo mentre suona, non gioca, suona, suona, suona, ascolta i suoi compagni, è compenetrato ed è un innovatore costruttivo, non distruttivo.  Non rinnega il passato ma si capisce quanto lo abbia metabolizzato e quanta forza per andare avanti ne abbia tratto.  Le sue note lunghe possiedono una tensione espressiva pazzesca.  Sa prendersi le sue pause e i suoi silenzi, lascia spazi tra un fraseggio e l'altro, in modo che siano ancora più apprezzabili, come piccoli gioielli da mettere in evidenza.
La batteria di Justin Brown cammina nella stessa direzione: incredibilmente ricco d'idee, incredibilmente elegante, stilisticamente impeccabile e totalmente innovativo non ha mai smesso di fare Jazz e di dialogare con gli altri con una musicalità e una personalità così funzionali l'una all'altra da lasciare di stucco.  Il sax di Walter Smith, il contrabbasso di Harish Raghavan, il pianoforte di Sam Harris vanno nella stessa direzione, in un interplay che rasenta la perfezione, contribuendo a rendere comunicativa una musica di per se per nulla semplice.  E' musica nuova che arriva dritta a chi la ascolta.

Non c'è rabbia, non c'è autocompiacimento, non ci sono spiritosaggini, non c'è spocchia, non c'è spacconeria: si suona il Jazz,anche quando le note dei fiati sono urlati, o sommesse, anche quando la melodia prende strade non conformi, anche quando le dissonanze “disturbano” il procedere armonico.
Nella strada maestra del Jazz s'incontrano musicisti di enorme talento, che per di più uniscono a quel talento anche uno studio continuo e ferreo del proprio strumento (e bisogna dire che in America questa è una caratteristica fondamentale: quasi nessun musicista di talento si accontenta e si crogiola in quel talento, ma studia, studia, studia e continua sempre a studiare).

Il quintetto di Akinmusire sta percorrendo (in avanti) la strada maestra del Jazz: ascoltateli se potete.

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