Il concerto sabato 11 maggio all'Auditorium di Roma

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Chic Corea e Gary Burton

A 73 anni Chick Corea si è presentato all' di Roma in forma smagliante: fisico asciutto (frutto evidente di una robusta cura dimagrante), capelli naturalmente ricci e screziati di bianco, abbigliamento casual… ma soprattutto una gran voglia di divertire e divertirsi facendo musica. E quando si avvertono immediatamente queste sensazioni, significa che la serata sarà memorabile. E così è stato!

Certo per chi conosce bene il pianista di Chelsea non è si è trattato certo di una sorpresa: Chick oramai da tempo abita le altissime sfere del jazz essendo considerato uno dei più grandi jazzisti ancora in attività. Eppure raramente mi è capitato di vederlo così simpatico – sì credo proprio sia il caso di usare questo termine – come l'altra sera. Pronto al sorriso, pronto a dialogare con il pubblico, pronto a fare qualcosa di assolutamente inedito (almeno per il vostro recensore) di cui parlerò più avanti. Il fatto è che dopo tanti anni di attività e di successi, Corea è ben consapevole di non dover dimostrare alcunché e, al contrario di qualche suo illustre “collega”, evidenzia con in fatti come suonare sia sempre una festa, un rito collettivo in cui il pubblico ha un suo ruolo ben preciso dal momento che proprio dal pubblico ti giunge il feedback su ciò stai facendo. E a Roma il feedback è stata una sorta di continua e entusiastica ovazione.

Ovazioni che sicuramente Chick raccoglierà a piene mani nel corso di questo suo lungo Piano Solo Word Tour che lo vede protagonista in oltre trenta performances in tutto il mondo. Questi concerti si svolgono in concomitanza con l'uscita della sua ultima fatica discografica, “Portraits”, un doppio CD registrato dal vivo che può considerarsi una sorta di summa della straordinaria carriera di Corea come interprete e come compositore.

A Roma Corea ha presentato un repertorio godibilissimo in cui, pur non rinunciando alla propria specifica cifra stilistica, ha indagato territori ben noti al pubblico come quelli di Duke Ellington, Bill Evans, Thelonious Monk, … senza trascurare il proprio coté compositivo e i suoi amori della sponda “classica” quali Chopin e Mozart.

 

Chick Corea a Roma

Di qui uno straordinario caleidoscopio, di colori, di umori, di sensazioni sempre all'insegna di un pianismo che fa apparire semplici anche i passaggi più difficili, senza alcuna pretesa di stupire l'ascoltatore e senza il minimo cedimento a qualsivoglia tentazione virtuosistica. Come al solito Corea appare letteralmente eccelso dal punto di vista ritmico e armonico grazie ad una stupefacente mano sinistra mentre la destra si caratterizza per il tocco straordinario, inconfondibile, leggermente percussivo. Così le note scorrono fluide nella loro complessità ponendosi come un veicolo straordinario per comunicare emozioni, sensazioni.

Il concerto parte subito bene con l'esecuzione di uno standard: “How deep is the ocean” di Irving Berlin seguito dal celeberrimo “Desafinado” di Jobim – Mendonca. L'esecuzione è semplicemente perfetta: splendida la conduzione della linea melodica, perfetto lo scavo della struttura armonica.

Come terzo pezzo Corea sceglie un altro hit, “Sophisticated Lady” di Duke Ellington; e questa, a mio avviso, è stata una delle perle della serata: sarebbe stato estremamente facile lasciarsi guidare dalla splendida melodia del pezzo per conquistare l'ascoltatore; invece Corea ha affrontato il brano alla sua maniera improvvisando sia orizzontalmente sia verticalmente e proponendo un'armonizzazione sghemba, insolita, che ha forse tolto qualcosa dal punto di vista melodico ma molto ha aggiunto quanto a originalità di accordi, scanditi sempre con molta chiarezza e precisione.

Quindi in rapida successione due capolavori di Bill Evans: “Turn out the stars” e “Waltz for Debbie” ambedue interpretati con grande partecipazione.
A questo punto della serata Corea si è allontanato da territori prettamente jazzistici eseguendo dapprima un pezzo di Stevie Wonder per poi andare a curiosare nella musica di due grandi compositori classici quali Chopin e Mozart, probabilmente memore di quel grande passato “paraclassico” che, tra l'altro, lo vide incidere nel 1984 il “Concerto per pianoforte e orchestra” di Mozart, dopo duettare con Friedrich Gulda e nel 2000 rielaborare due preludi di Alexander Schriabin.

Tornato su territori più prettamente jazzistici, Corea ci ha offerto un'altra esecuzione straordinaria, “Blue Monk”, di Thelonious Monk e quindi un momento di trattenuta commozione con la dedica di un brano, di chiara ispirazione accademica – “Yellow nimbus” – all'amico Paco De Lucia scomparso da poco e al quale era talmente legato da scrivere nella sua pagina Facebook che l'influenza di Paco su di lui era simile a quella esercitata da Miles Davis e da Mozart.

A questo punto del concerto quel qualcosa di straordinario cui prima facevo riferimento: rivolgendosi al pubblico Corea ha invitato chi lo volesse a salire sul palco per improvvisare con lui al pianoforte; dapprima una sorta di incredulità in sala poi diverse mani si sono alzate; così sono saliti sul palco un giovane di origine asiatica che ha fatto un figurone e un altro pianista italiano che hanno avuto il piacere e l'onore di improvvisare al pianoforte con un Corea quanto mai gentile e disponibile.

Chiusa l'insolita parentesi, Corea ha chiuso il concerto come meglio non avrebbe potuto e cioè eseguendo alcuni brani tratti dalle sue celeberrime “Children's song” comparse su disco nel 1983 e giustamente considerate tra le composizioni contemporanee più originali e significative tanto da aver attratto l'attenzione anche di grandi pianisti classici.

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