Lo splendido concerto all'Auditorium di Roma mercoledì 14 maggio

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Ambrose Akimusire

Arrivo che il concerto è già iniziato, ma ancor prima di entrare in sala sento una tromba del tutto particolare, con un fraseggio allo stesso tempo liquido e spigoloso, una sonorità nuova, una tecnica superlativa: insomma, quando mi siedo al mio posto ho la netta percezione che quanto letto e ascoltato su disco circa Ambrose Akinmusire sarà del tutto confermato dall'ascolto live.

Ambrose si conferma, infatti, eccellente musicista, oramai perfettamente padrone dei propri mezzi espressivi, e proprio per questo in grado di dire qualcosa di nuovo nel pur variegato e popolato universo dei trombettisti .

La sua è una musica che necessita di un ascolto attento abbondantemente ripagato da una messe di emozioni, di sensazioni che toccano nel profondo; una musica spesso iterativa, a tratti onirica, fortemente evocativa e suggestiva, sempre porta con grande semplicità. I suoi assolo in splendida solitudine sono straordinari per come lo strumento mai denota un attimo di defaiance, sempre pronto ad assecondare le volontà espressive del leader in qualunque tonalità lo stesso ami suonare in quel preciso momento; particolari la purezza e limpidezza del suono e gli armonici che ogni tanto trae dal suo bagaglio, senza esagerare proprio per non dare troppo spazio a virtuosismi che non gli sono congeniali. E poi quel suonare quasi per sottrazione, quel ruolo importante dato alle pause, al silenzio.

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Per non parlare della bellezza dei temi che denotano una fluida capacità di scrittura caratterizzata dalla ricerca di una originale linea melodica; semplicemente splendidi, al riguardo, “Prelude to Cora” e “Confessions to my unborn daughter”.

Insomma un trombettista che davvero merita di essere considerato una delle più belle realtà del jazz internazionale, un artista il cui ascolto riporta alla mente una sorta di storia della tromba jazz, dalle primissime invenzioni di Armstrong, alle acquisizioni boppistiche di Clifford Brown, dalle estetizzanti frasi cool di Miles Davis, alle ruvidezze espressive dell'hard-bop, fino a giungere alla piena libertà del . Nel concerto di Roma di mercoledì 14 maggio all'Auditorium Parco della Musica, il trombettista si è presentato con 4/5 del suo solito quintetto, vale a dire il pianista Sam Harris, il bassista Harish Raghavan, il batterista Justin Brown mentre il chitarrista Charles Altura sostituiva il sassofonista Walter Smith III . E devo dire che la mancanza del secondo fiato non si è fatta sentire dal momento che Altura, quando è intervenuto, lo ha fatto sempre con assoli pertinenti, sciorinando un linguaggio estremamente fluido , liquido,misurato, in apparenza semplice ma nei fatti piuttosto complesso, tutto teso a rispettare le atmosfere indicate dal leader: Così, quando Altura entrava sembrava quasi che la tensione si allentasse fino a sciogliersi del tutto, ed era proprio a questo punto che invece il discorso si faceva più serrato sino a riprendere l'input lanciato da Ambrose. Ma anche gli altri membri del quintetto hanno offerto una prova superlativa con il piano di Harris a sottolineare le frasi di Ambrose oltre che a prendersi la responsabilità di trascinanti assolo, il basso di Raghavan impegnato a sostenere un andamento ritmico complesso e cangiante e la batteria di Brown energica e propulsiva come sempre.

Il repertorio era tutto incentrato sugli album finora incisi, vale a dire “Prelude: to Cora”, del 2008 , dedicato alla madre Cora che gli valse l'attenzione di critici e pubblico tanto da farlo approdare alla Blue Note, “When the Heart Emerges Glistening” del 2011 e l'ultimo arrivato del 2013 “The imagined savior is far easier to paint”.

Avvolto da un'atmosfera incantata, ovattata il pubblico ha risposto con molta attenzione alle sollecitazioni del trombettista californiano, con applausi misurati quasi a non voler rompere quell'incanto, applausi che si sono scatenati per qualche minuto alla fine per richiamare sul palco Ambrose che si è fatto attendere prima di concedere il sospirato bis.

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