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Gerardo DI Lella  Diane Shuur

Gerardo Di Lella è un musicista assolutamente atipico nel panorama jazzistico italiano… e non solo. In effetti ha la passione delle grandi orchestre e non si limita a guidarne una di marca jazzistica, ma ne conduce anche altre che guardano a musiche diverse come il pop, il cincema e il funky. Ma come riesce a districarsi in un periodo duro come l'attuale? Da dove viene questa passione per le big band? Lo scoprirete leggendo la lunga intervista che qui di seguito pubblichiamo.

-Tu sei uno dei pochissimi musicisti che riesce a tenere in vita una big band nonostante i costi e l'evidente crisi del mercato. Come ci riesci?
“Probabilmente perché ci sono costretto… nel senso che è davvero l'unica cosa che mi piace fare. E' la mia passione e quindi ogni sforzo è teso a realizzare il progetto per la big band, per la Pop-Orchestra, per una Grand-Orchestra. Sai, quando ero piccolo e ho sentito le prime grandi orchestre, mi viene in mente il nome di Stan Kenton, mi sono immediatamente innamorato di questa musica e oggi la vivo un po' come una missione”.

-E su questo non ci piove. Ma la mia domanda era di senso più pratico: ripeto, in una situazione difficile come l'attuale, qual è il tuo segreto per tenere unita una big band?
“Sopravvivere è, come dici tu, difficilissimo ma, proprio per questo, cerco di dare al pubblico cose diverse in modo che riesco a far ruotare intorno alle mie iniziative un pubblico numeroso e differenziato che mi sostiene. Io, infatti, diversamente da molti altri, mi sono sempre sostenuto, appoggiato su un pubblico che paga. Di qui la necessità di allestire progetti anche più semplici e non necessariamente jazzistici. Quindi cerco di offrire al pubblico più opzioni di modo che, quando faccio qualcosa di più impegnativo, riesco a trascinarmelo”.

-Quanti concerti riesci a fare nell'arco di un anno?
“Quest'anno, facendo una media, circa due al mese”

-Che per un'orchestra è davvero tanto. Io ho assistito al tuo recente concerto all'Auditorium con Diane Schuur. A me è parso un buon concerto. Tu, dall'altra parte della barricata, che impressione ne hai ricavata?
“Innanzitutto grazie per l'apprezzamento. Da un punto di vista musicale sono più che soddisfatto anche se ci sono state delle imperfezioni causate dall'emozione che si è impossessata di musicisti pur di lunga esperienza. D'altro canto suonare con Diane non capita tutti i giorni… e ti confesso che durante le prove un sassofonista era così teso che non riusciva a trovare l'emissione giusta per suonare il flauto (cosa che non gli era successa con ospiti come Mintzer, Konitz, Vitous ecc…). Incredibile ma vero! Poi Diane Schuur mi ha fatto i complimenti dicendo, espressamente sul palco, “erano quattro anni che aspettavo di cantare con Gerardo Di Lella” e la sera precedente a cena – ho i testimoni – mi ha detto “sono sicura che se fosse stato vivo Count Basie sarebbe stato contento della tua musica”. C'è da dire che lei a suo tempo mi ha dato una soddisfazione enorme di registrare un brano nel mio disco – non lo so ma forse sono l'unico italiano che l'ha fatto – ; era un brano di Michel Légrand totalmente stravolto nelle armonie ma conservando tutte le note della melodia senza spostarne alcuna: a questo punto, cosa ancora più straordinaria, Michel Légrand ha sentito questo arrangiamento e mi ha scritto le note di copertina del disco. Il concerto cui ti riferisci è stato, dunque, per me una grande soddisfazione che aspettavo da tempo e l'inizio, spero, di successive collaborazioni. In effetti a me ha concesso un onore particolare: mentre di solito quando va in tournée Lei porta con sé gli arrangiamenti di Count Basie e con quelli si suona, nel concerto di Roma abbiamo suonato per metà questi arrangiamenti e per metà i “miei arrangiamenti” che ha dovuto studiare apposta per me”.

-Come è nato questo rapporto che, a quanto mi pare di capire, tocca anche il campo dell'amicizia?
“Nella maniera più semplice. Ho scritto una emal al suo sito spiegandole il progetto che stavo portando avanti e le ho chiesto di cantare il brano “What are you doing the rest of your life”; naturalmente le ho mandato un mp3 con il provino che avevo fatto e lei mi ha risposto immediatamente in senso positivo. E ad onor del vero la stessa cosa è accaduta con tutti gli altri artisti che ho coinvolto nel disco: Larry Carlton, ad esempio, dapprima mi aveva detto di no spiegandomi che lui non faceva il side man e che gli era capitato una volta sola circa otto anni fa con Natalie Cole, a quel punto gli ho chiesto di ascoltare i provini senza impegno, e di farmi sapere cosa ne pensava. Dopo 3 ore dalla ricezione dei files mi arriva una email dove mi dice: questo è il mio indirizzo, fammi sapere quando sei a Nashville che ti aspetto al nuovo 335 STUDIO, bravo! Io avevo scelto i vari solisti in funzione di quella che era la mia idea musicale e per fortuna sono riuscito a portare in porto il disegno così come lo avevo immaginato. Poi sono stato a Los Angeles a registrare presso lo studio di Sergio Mendes.. è venuto li anche Bob Mintzer che nel frattempo si era trasferito sulla costa californiana. Insomma, tornando alla tua domanda, tra me e Diane è nata questa sorta di amicizia basata sulla stima reciproca: Lei mi ha ripetuto che le piace il mio modo di scrivere e mi ha fatto una richiesta di cui, però non voglio parlare per scaramanzia”.

-Hai avuto modo di frequentare altre stelle di primaria grandezza nel mondo del jazz?
“Sì, ho sempre osato nel senso di guardare oltre e sono così riuscito a portare negli studi di registrazione gente come Randy Brecker, Bob Mintzer, Eddie Daniels… in questo disco ci sono anche David Kikoski, Robin Eubanks, Alex Spiagin, Adam Nussbaum, Chris Potter, Paquito D'Rivera il quale , dopo la registrazione, ha espresso il desiderio di fare il live con me e questo è un altro grande sogno”.

Napoli & Jazz-Tu hai fatto riferimento più volte a questo “disco” ma chi ci legge non sa ancora di che si tratta; vogliamo sciogliere il mistero?
“Il disco si chiama “Napoli & Jazz” fatto dalla Gerardo Di Lella Jazz Orchestra e i fiati sono quelli che normalmente ruotano attorno alle grandi formazioni mentre i solisti sono tutti quei grandi personaggi cui prima facevo riferimento, con l'aggiunta di due grandi italiani quali Fabrizio Bosso alla tromba e Rosario Giuliano al sax”.

-Parlando adesso della tua orchestra italiana, sulla base di quali parametri scegli i musicisti?
“Spero di non essere frainteso, ma l'obiettivo principale che deve avere uno che scrive per una orchestra, una big band è quello, per l'appunto, di far venir fuori quello che lui scrive, quello che lui ha in mente. Quindi mi interessa soprattutto avere dei musicisti in grado di leggere perfettamente quanto scrivo. Nel passato si sono fatte molte orchestre chiamando i “grandi nomi” ma la cosa non necessariamente funziona: l'orchestra la fa innanzitutto il maestro, la fa chi scrive. I solisti sono sicuramente importanti ma vanno ad integrare un progetto che deve preesistere; personalmente devo prediligere musicisti con una buona lettura pronunciata perché poi, paradossalmente, trovare un buon solista è forse la cosa più semplice. Il problema è quindi trovare un musicista che sta lì, al leggio, che esegue ciò che ho scritto con il linguaggio giusto. Ovviamente, se possibile, scelgo quelli che sono bravi sia a leggere sia a improvvisare. D'altro canto tutta la storia del jazz insegna che le grandi orchestre avevano tutte dei grandi “sezionisti”; ad esempio quello della prima tromba è un ruolo difficilissimo: Sergio Vitale, che mi fa piacere citare, è importantissimo per l'orchestra: senza prima tromba non c'è orchestra. L'apice della forza che arriva all'ascoltatore sta nella prima tromba; è un ruolo che spesso viene sottovalutato per il semplice fatto che non è tenuto ad improvvisare, si pensa al solista, ma questi è solo successivo…quindi ripeto, senza prima tromba non c'è orchestra… così come senza un buon primo alto (Filiberto Palermini), un buon primo trombone (Luca Giustozzi).. sono i capisaldi della band, che danno il colore, la spinta ai compagni d'avventura, che portano avanti questa massa sonora che si sposta e che poi deve interloquire con i solisti”.

-Tu hai parlato di due grandissimi leader orchestrali, Stan Kenton e Count Basie. Ma si tratta di due personaggi che interpretavano il jazz in modo totalmente diverso, per non dire antitetico. Allora qual è il tuo vero ideale punto di riferimento?
“Con tutta franchezza non ho un preciso punto di riferimento perché ognuno dei grandi mi ha dato qualcosa. L'aspetto “nero” di Count Basie è unico: per certi aspetti neppure Duke Ellington è paragonabile al “Conte”. D'altro canto la mentalità dell'orchestrazione raffinata, della contaminazione con l'Occidente di Stan Kenton è unica nel suo genere. Ma ci sono tanti altri leader che hanno portato avanti un proprio concetto di big band: Fletcher , Woody Herman, Thad Jones, Mel Lewis, Gil Evans…e tutti questi sono rimasti giustamente nella storia perché hanno saputo tracciare un percorso. Ti faccio un esempio: c'è un arrangiamento di “Joe Spring” di Gil Evans in cui tutti i musicisti fanno il pezzo all'unisono; quando l'ho sentito per la prima volta mi sono chiesto: ma qui dov'è l'arrangiamento. Ebbene l'arrangiamento consisteva proprio nel fare suonare tutti all'unisono”.

-Come e quando ti sei avvicinato al Jazz?
“In prossimità del diploma di pianoforte e per puro caso incontrando un amico che suonava il contrabbasso, che suonava bene anche il pianoforte, improvvisando. Io sono rimasto letteralmente affascinato da questo per me nuovo linguaggio. Di qui la voglia di studiare: ho frequentato, quindi “Siena Jazz” e qui mentre studiavo pianoforte con Mike Melillo ho ascoltato per la prima volta una big band: era quella diretta da Bruno Tommaso. Mi sono appassionato subito, mi sono iscritto al corso di Bruno Tommaso – siamo se non ricordo male nel 1991 – e alla fine del corso Bruno mi ha chiesto di seguirlo come assistente musicale: devo sempre ringraziare Bruno per quello che ha fatto per me in quanto, essendosi accorto di questa mia sensibilità, mi ha dato gli strumenti per poterla sviluppare ed esprimere appieno”.

-Quindi tu hai una formazione di tipo classico…
“Sì, sono diplomato in pianoforte, ho il quarto di composizione e stupidamente non sono andato a fare l'esame finale. Nel '91-92 ho fatto il primo seminario che Ennio Morricone ha tenuto alla Chigiana… ma vengo da una famiglia di musicisti: mio nonno era clarinettista, diplomato in strumentazione per banda con Francesco Cilea e ho tre fratelli di cui due musicisti: uno flautista e uno violinista. Quindi da piccolo ho sempre avuto nelle orecchie la sonorità di vari strumenti il che è fondamentale nello scrivere. Io vengo dal pianoforte e spesso chi viene da questo strumento scrive per big band come se stesse trasportando il piano nella dimensione dell'orchestra. Per certe cose può funzionare ma per altre no: spesso devi partire con la convinzione di avere un violino in mano e capire l'effetto che dà quel dato strumento sulle note che hai scelto e via di questo passo. C'è un libro che si chiama “Il pensiero orchestrale” da cui ho imparato molto perché ti abitua ad immaginare il suono così come si può sviluppare venendo fuori dalle diverse fonti sonore”.

-Quanto ti è stata utile questa preparazione ?
“Molto. E' un background che fa la differenza in molte circostanze. Per un pianista forse non è necessario avere seguito un percorso “classico” ma quando scrivi la conoscenza di certi accorgimenti risulta di grande utilità. Faccio un esempio semplice, semplice: le ottave e le quinte parallele, sono cose che si usano abitualmente nel jazz.. però sapere che in certi contesti ti devi muovere in un certo modo secondo regole che hanno sperimentato attraverso quattro-cinquecento anni di storia fa comodo. Di conseguenza bisogna saperle evitare quando non sono coerenti con lo stile che sei chiamato ad affrontare”.

-Questo tuo modo di guardare allo strumento per capire che tipo di suono verrà fuori, non deriva, in qualche modo, dalla concezione orchestrale di Duke Elligton?
“Certo che sì; Ellington è quello che è riuscito, forse più di tanti, a creare delle atmosfere uniche, per l'epoca inimmaginabili; pensa allo “jungle style”. Ellington ha davvero aperto un fronte nuovo e tuttora, quando si vuol creare un certo tipo di atmosfera, non si può non tornare a Ellington”.

-Progetti per il futuro?
“Cerco di portare avanti tutti i progetti che per anni ho coltivato, vale a dire un progetto sulle musiche di Nino Rota per grande orchestra, spero questa estate di fare qualche altro concerto con Diane Schuur, e poi ho aperto tanti fronti perché per me se c'è la grande orchestra e la scrittura qualsiasi contesto va bene. Sono sul sentiero di guerra, molte cose non le voglio dire perché da buon napoletano sono scaramantico, però mi sento motivato”.

-Hai mai pensato di inserire una voce nella tua orchestra?
“Certo che sì: anzi nella pop-orchestra, con cui faccio musica degli anni '70 (Earth, wind & fire) ho sei cantanti, due maschi e quattro femmine che si esprimono anche come coristi. Mi piace molto scrivere per le voci”

-Tra questi molti cantanti, ce n'è qualcuno che ti piace ricordare in modo particolare?
“Sì, la mia voce jazz preferita su Roma è quella di Antonella Vitale: è una ragazza cha ha una sensibilità incredibile, nonostante l'esile figura, ha fibra, spessore…, un' ottima tessitura, e quando vuole anche una grande spinta… riesce a darmi ogni colore sia nel pianissimo sia con forza. La prima caratteristica che deve possedere una cantante è il Timbro, purtroppo per me è cosi, tutto il resto è successivo(tecnica estensione ecc…) Molto spesso sento voci che fanno capriole ma che quando eseguono la melodia di una semplice song sono del tutto inesistenti”.

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