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di Luigi Onori – La scomparsa di Charlie Haden – l’11 luglio scorso a Los Angeles – non giunge improvvisa, essendo stato colpito da una lunga e grave malattia. E’ vero, però, che il maglio anagrafico sta portando alla fine dell’esistenza tanti musicisti che hanno rappresentato, per la generazione dei cinquantenni a cui appartengo, degli “eroi” musicali ed umani, dei “padri sonori”: vederli andar via uno dopo l’altro crea dolore ma bisogna guardare con fiducia ed amore all’eredità che ci hanno lasciato, alla tanta musica che possiamo sentire ancora.

Così, in questa soleggiata mattina di luglio, ascolto “The Montreal Tapes” del 1989 in trio con la tromba di Don Cherry e la batteria di Ed Blackwell e mi godo l’assolo di Haden su “The Sphinx”, un tema di Ornette Coleman. Vado, poi, con il pensiero agli incontri (discografici e non) che ho avuto con Haden: i dischi free con il quartetto di Ornette, gli album e i recital della Liberation Orchestra, una mezza intervista a Barga Jazz, i concerti con l’Historic Quartet del padre del free, il Quartet West, il duo con Pat Metheny… Ma questi sono ricordi personali: c’è bisogno di qualcosa di più storico-informativo per ricostruire – soprattutto per chi poco o nulla lo conosca – la vicenda e la figura di un jazzista militante che è stato al fianco dei “giganti” (l’ultimo album è in duo con Keith Jarrett, “Lat dance” Ecm) ed è stato grande egli stesso.

Nato in una famiglia di musicisti nello Iowa nl 1937, Charlie Haden cresce a Springfield (nel Missouri e “Beyond the Missouri Sky” si chiamerà l’album del 1996 registrato con Metheny), terra di musica country & western. Scopre il jazz ed il contrabbasso e va a studiarli a Los Angeles (Westlake College of Modern Music). Nella West Coast si concretizzano le prime, importanti e seminali collaborazioni con i pianisti Paul Bley ed Elmo Hope ma soprattutto con Ornette Coleman (1959-’62 ; duetta con Scott LaFaro in “Free Jazz”) che il giovane contrabbassista aiuterà notevolmente nel dare fisionomia definitiva ad una musica rivoluzionaria e libera. Per due anni sarà fuori dal giro (problemi di droga) ma tornerà a fianco di Coleman anche in organici con due contrabbassi, insieme a David Izenzon. Haden, pur forgiato dall’esperienza free, ha bisogno di spazi che vadano oltre i gruppi di Ornette e lo si ritrova in altri contesti, sempre contrassegnati dalla ricerca musicale e dall’impegno socio-politico. Eccolo nella Jazz Composer’s Orchestra e nel 1969 – coadiuvato da Carla Bley – nella Liberation Music Orchestra di cui è leader e ispiratore: la copertina dell’album Impulse (con lo striscione rosso) ed i brani che evocano Che Guevara e la guerra civile spagnola sono nell’immaginario di tanti appassionati. Nella big-band, tra gli altri, Gato Barbieri, Dewey Redman, Don Cherry, Roswell Rudd, Paul Motian ed Andrew Cyrille. La Liberation Music Orchestra vivrà ulteriori stagioni negli anni ’80 e nei successivi decenni, con album sempre ispirati e critici rispetto ai problemi del mondo, dalla guerra alle dittature: tra gli altri “Dream Keeper” (Polydor, 1990) e “Not In Our Name” (Universal France, 2005).

Stabili le sue collaborazioni con Alice Coltrane (1968-’72) e Keith Jarett (1967-’75), nel quartetto di repertorio colemaniano Old And New Dreams prima di stabilirsi nel 1979 in California, un ritorno nella West Coast. Nel 1986 forma un trio, poi diventato quartetto, il Quartet West che (come precisano Philippe Carles e Jean-Louis Comolli) <<consoliderà la notorietà internazionale del contrabbassista, anche grazie ad una lunga serie di incisioni che ripercorrono con sguardo nostalgico il jazz degli anni ’40 e ’50, legandolo spesso alle musiche da film e con una vena malinconica molto accentuata>> (“Now Is the Hour”, Verve/Gitanes 1996; “The Art of the Song” con Shirley Horn e Bill Henderson, Universal 1999). Charlie Haden non mancherà, tuttavia, di continuare a collaborare con artisti consolidati – da Joe Henderson ad Abbey Lincoln – e giovani (come, a fine anni ’80, l’innovativa pianista Geri Allen in un trio con Paul Motian alla batteria).

Mentre scrivo c’è un assolo – sempre dai “Montreal Tapes” – su “Lonely Woman” e mi accorgo di non aver parlato del “suono” di Charlie Haden. Il suo contrabbasso era sempre carico di energia; pastoso o asciutto, univa spinta ritmica e cantabilità (in gioventù era stato cantante) con un suono unico scaturito dall’esperienza (era praticamente un autodidatta). Altro merito di Haden è quello di aver trasformato in repertorio <>. Tutto ciò diventa nuovo repertorio, è oggetto di arrangiamenti, è base per assoli spesso ispirati e meditativi, a volte malinconici. Una musica fatta di emozione, cuore, progetto, razionalità e passione e che il settantaseienne Charlie Haden lascia in eredità a tutto il mondo, specie il Terzo Mondo per cui – con lo strumento formidabile della musica – ha spesso lottato.

Di Marco Giorgi – Lo scorso 13 luglio nella sua casa di Castleton Farms, Virginia, si è spento Lorin Maazel, uno dei massimi direttori d’orchestra contemporanei. Maazel si è spento circondato dalla sua musica, proprio nel mezzo del festival che lui e sua moglie Dietlinde-Turban-Maazel avevano creato a Castleton Farms. La sua ultima apparizione in pubblico risale al 28 giugno in occasione della Madame Butterfly, opera d’apertura del festival. Maazel era sembrato molto stanco e affaticato ma aveva comunque preso il microfono e parlato al pubblico di come l’opera sappia trasferire i suoi contenuti dal passato al presente e di trasmettere verità agli ascoltatori.

Sono state le complicazioni di una polmonite a porre fine al suo cammino terreno dopo 84 anni consacrati alla musica. Maazel, infatti, è stato un uomo completamente dedicato alla propria arte, un enfant prodige che prese in mano il violino a cinque anni, che a nove diresse il suo primo concerto e che a undici, dopo aver diretto la NBC Symphony Orchestra, ottenne la “benedizione” del grande Arturo Toscanini, che lo applaudì e gli indirizzò un ben aufurante “God bless you”.

Maazel coltivava l’amore per il violino e talvolta, pur prediligendo la direzione d’orchestra, si dedicava al suo strumento, lo splendido Stradivari “Artot” creato dal maestro cremonese nel 1722. Fu con questo strumento che nel 1996 incise per la Sony “Virtuoso Violin” un album in cui mostrava la sua perizia di violinista. Più recentemente, nel 2002, aveva unito il suo nome a quello di Andrea Bocelli per l’album “Sentimento” in cui i due artisti rivisitavano arie e romanze, ridando vita a certa tradizione ottocentesca. Riassumere la carriera di Maazel in poche ricche è impossibile, vista la quantità e la qualità della sua opera. Ricorderemo solamente alcuni momenti che si sono fissati nella mente del pubblico, come le sue partecipazioni sul podio del direttore, dal 1980 al 1986, per l’immancabile appuntamento per il Concerto di Capodanno, in sostituzione di quell’istituzione del valzer viennese che era Willi Boskowsky.

Lo ricordiamo sorridente dirigere i valzer di Strauss, unendo il brio e la sensualità del ballo, con l’ironia con cui sottolineava certi passaggi. Ricorderemo le sue innumerevoli direzioni d’orchestra per opere liriche e sinfonie tenute in tutti i continenti del mondo, tra cui anche il concerto in Corea del Nord, svoltosi a Pyongyang nel 2008 alla guida della New York Philharmonic, nell’ambito di un’iniziativa di “diplomazia della musica”. Nell’occasione l’orchestra eseguì “Arirang” celebre brano tradizionale coreano che scatenò l’ovazione della platea. “Non potevamo certo immaginare che saremmo stati spediti in orbita da questa stupefacente reazione”, dichiarò Maazel alla fine del concerto, mentre alcuni degli orchestrali tradivano attraverso le lacrime la loro emozione. “Potremmo aver avuto un ruolo nell’aprire una porta se in retrospettiva questo verrà visto come un momento storico, siamo orgogliosi di avervi preso parte”. Non possiamo infine non ricordare l’imponente opera discografica realizzata da Maazel, con oltre trecento incisioni, tra le quali i cicli completi delle sinfonie di Beethoven, Brahms, Mahler, Sibelius, Rachmaninov, Caikovskij.

Leggendaria era la sua memoria. Maazel non aveva bisogno di spartiti, non aveva bisogno di studiare le opere o le sinfonie che avrebbe diretto. Tutto era scolpito chiaro nella sua mente. Non era infrequente che sceso dall’aereo che lo aveva portato nella città che avrebbe ospitato un suo concerto, si recasse direttamente in teatro e dirigesse a memoria, impartendo istruzioni chiare e inequivocabili agli orchestrali.
Maazel ci ha ora lasciato. La sua intera esistenza ha incarnato l’universalità della musica e la capacità della musica stessa di unire popoli, culture e tradizioni diverse, proiettando all’esterno quella splendida fusione di razze e culture che costituivano il suo essere un americano, nato in Francia, figlio di genitori statunitensi nelle cui vene scorreva sangue russo e che come religione professavano l’ebraismo.

Marco Giorgi
per www.red-ki.com

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