Intervista a Claudio Donà: con la Caligola, 20 anni spesi bene…

Dona e CD dona Listener

Con Claudio Donà, critico, dal 2006 insegnante di Storia del Jazz al Dipartimento Jazz del Conservatorio F.Venezze di Rovigo, ma soprattutto produttore, anima e corpo della Caligola Records, ci conoscevamo da molto tempo ma per quelle strane cose che accadono nella vita, non ci eravamo più visti da quasi vent’anni. Ritrovarsi a Udine, in occasione del Festival di cui “A proposito di jazz” ha già abbondantemente riferito, è stata, quindi, una splendida occasione per rinverdire vecchie storie e soprattutto per parlare a lungo della sua amata “creatura” , la “Caligola”.

Cominciamo con una serie di numeri e date: quando è nata l’etichetta Caligola?

“L’etichetta è nata nell’estate del 1994, coma una sorta di filiazione dell’associazione culturale Caligola, di cui io facevo parte e che era stata fondata addirittura nel 1980. Quest’anno, quindi, festeggiamo il ventennale dell’etichetta mentre l’anno prossimo saranno 35 gli anni di attività dell’associazione”.

Quanti titoli avete prodotto?

“Abbiamo superato quest’estate i 190 dischi, lavori in cui sono stati impegnati circa 500 musicisti. Non proprio pochi. Siamo comunque realmente indipendenti, ovvero anche editori dei nostri musicisti, soltanto dal 2003”.

Ma come ti è venuta quest’idea “malsana” di creare un’etichetta di jazz?

“Come ti dicevo, io facevo già parte dell’associazione Caligola e grazie a questo, organizzando moltissimi concerti, avevo l’opportunità di conoscere dietro le quinte i musicisti, che poi spesso mi capitava di re-incontrare anche come critico, sia del quotidiano “Il Gazzettino” (con cui ho collaborato dal 1980 al 2010), sia soprattutto della prestigiosa rivista “Musica Jazz” (qui la collaborazione è durata dal 1978 al 2002). Creare un’etichetta discografica è stato quasi un fatto naturale: molti musicisti mi chiedevano ‘ascolta questo nastro, ascolta questa bella cosa che ho registrato’ e, in un momento in cui il disco ancora funzionava, anzi eravamo in piena esplosione del fenomeno compact–disc, abbiamo colto una ghiotta occasione che ci si è presentata. Abbiamo così stampato, nel luglio del 1994, il “numero 1” del catalogo. E’ stata quasi una sfida: era un nastro che Materiali Sonori di Firenze aveva rifiutato a Marcello Tonolo e che, viceversa, io trovavo bellissimo, jazz davvero di grande spessore. Si trattava di una registrazione in studio della Keptorchestra, una splendida big–band che allora annoverava alcuni tra quanti, nel giro di pochi anni, sarebbero diventati dei “grandi” del jazz italiano, musicisti del calibro di Marcello e Pietro Tonolo, Roberto Rossi, Sandro Gibellini, Piero Odorici, Maurizio Caldura, Giampaolo Casati, Marco Tamburini, solo per fare qualche nome … ed in più, come ospite speciale, nientemeno che Steve Lacy. Io me ne innamorai subito, ed è così cominciata la nostra sfida, che continua ancor oggi. Il disco, oggi fuori catalogo e che spero presto di poter ristampare, si intitolava «Sweet Sixteen», Caligola numero 2001….. La ”Odissea nello Spazio”, film che da ragazzo mi aveva entusiasmato, era finalmente diventata realtà …”.

Ti sei mai pentito di questa scelta?

“No, sostanzialmente no … Altrimenti oggi non sarei qui a raccontare dell’etichetta. Confesso che ho avuto dei momenti difficili, di vera crisi, momenti in cui ti chiedi chi te lo fa fare. Oggi, con la conclamata e crescente crisi del disco tutto è ancora più difficile, e quindi ti prende lo sconforto quanto ti rendi conto di non poter ritagliare dall’attività discografica ed editoriale (siamo anche editori musicali) dei margini economici da re–investire in produzioni nuove e originali. Siamo sempre appesi alle co–produzioni fatte con i musicisti, che comunque ci regalano spesso grandi soddisfazioni. Ci viene in aiuto sicuramente la fantasia, e la possibilità di poter spesso utilizzare delle buone registrazioni “live”. Sono davvero poche le cose che riusciamo a produrre in modo autonomo, da soli. Riusciamo comunque a sopravvivere perché siamo anche editori musicali, in quanto con i dischi che, come ben sai, non si vendono più, sarebbe quasi impossibile andare avanti”.

Come valuti la situazione del jazz in Italia in questo particolare momento?

“Si sta verificando una situazione diametralmente opposta a quella che ho vissuto negli anni ’80 ed in parte anche nei ‘90. Allora c’erano pochi jazzisti italiani di grande valore, a fronte di un vero e proprio boom di festival e rassegne, e di una buona dose di incentivi pubblici: insomma c’erano per gli artisti buone possibilità di lavoro. Se un grande solista americano veniva in Italia, aveva a disposizione non più di una decina di sezioni ritmiche affidabili con cui suonare. Oggi, al contrario, ci sono moltissimi musicisti ben preparati, talentuosi, alcuni bravissimi; i conservatori hanno aperto al jazz ma la situazione generale è completamente cambiata: la crisi ha avuto effetti pesantissimi soprattutto sulla musica dal vivo, ha provocato una drastica riduzione dei finanziamenti pubblici e quindi una contrazione delle possibilità lavorative per i jazzisti. Una cosa che mi stupisce è che la gran parte dei musicisti, nonostante il disco – come si diceva – sia per molti già un oggetto di antiquariato, non venda praticamente quasi nulla, continui a considerarlo indispensabile, per cui cercano di convincerci in tutte le maniere a stampare i loro lavori, perché hanno comunque bisogno del disco per promuoversi. Il ruolo che una volta era della cassetta promozionale, fatta in casa, ora è ricoperto dal Cd, anche perché i costi di produzione si sono notevolmente abbassati”.

Che significa, quindi, produrre jazz oggi in Italia?

“Affrontare una grande sfida: bisogna credere fortemente in questa musica, avere una passione viscerale, essere in grado di combattere una concorrenza spietata, stare sempre con le orecchie bene aperte, dato che all’orizzonte appaiono sempre nuovi musicisti interessanti e saper ‘combattere’ affinché nell’ambito di quei pochi finanziamenti pubblici ancora destinati alla cultura, la musica e in particolar modo il jazz possano ritagliarsi una fetta sempre più consistente”.

In buona sostanza, mi stai dicendo che, per quanto concerne la “torta” dei finanziamenti le cose sono peggiorate anche perché la maggior parte degli stessi continua ad andare in direzioni diverse dal jazz…

“Questo purtroppo è un problema annoso, ben lungi dall’essere stato risolto. Ed è una situazione paradossale, in quanto molti conservatori sono letteralmente mantenuti in vita dalla presenza di studenti di jazz, altrimenti sarebbero costretti a chiudere. Si arriva così all’assurdità che l’Istituzione didattica ha finalmente riconosciuto il jazz come materia degna di essere insegnata nei conservatori – noi addetti ai lavori siamo diventati quindi tutti più ‘istituzionali’ – mentre gli enti pubblici, che dovrebbero finanziare la programmazione culturale, stanno sempre più diminuendo le risorse destinate alla musica jazz. Esattamente il contrario di quello che succedeva più di dieci anni fa”.

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Esce nuovamente per El Gallo Rojo Records il terzo album dell’avventuroso sestetto JÜMP THE SHARK

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Un progetto longevo (attivo dal 2008), spericolato ed estroso, questo è JÜMP THE SHARK, guidato dal sassofonista veneziano Piero Bittolo Bon, frequentatore durante la sua carriera di stili molto diversi, e in grado di sintetizzarli in una musica appassionata e vibrante, concentrata eppure libera.

Dopo il grande successo riscosso dai due album precedenti, editi da El Gallo Rojo Records – “SUGOI SENTA! GATTA!!” (2009) e “OHMLAUT” (2011) –, esce in questi giorni per la stessa etichetta anche “IUVENES DOOM SUMUS”, già disponibile su iTunes (https://itunes.apple.com/us/album/iuvenes-doom-sumus/id900934656) e sui maggiori portali di distribuzione digitale. Il cd in formato fisico sarà diffuso dai primi di settembre.
Questo disco è frutto di una campagna di crowdfunding lanciata a fine 2013 ed ha visto la partecipazione di ben 52 sostenitori; è altresì il risultato di un’ulteriore evoluzione della musica e dell’interplay del gruppo, meno votata al solismo e improntata invece all’integrazione di un approccio liquido alla rigidità della forma e della composizione, tutto questo senza sacrificare il più che umano bisogno di appoggiarsi qua e là ad una melodia da poter fischiettare.

Il sestetto è composto da alcuni tra i più creativi musicisti del jazz di oggi, che mantengono immutata la loro partecipazione: sono, oltre al leader Bittolo Bon (anche al clarinetto e al flauto), il vibrafonista Pasquale Mirra, il chitarrista Domenico Caliri, Danilo Gallo al contrabbasso, Federico Scettri alla batteria ed il trombonista e sousaphonista tedesco Gerhard Gschlössl.

Terreno fertile per la personale scrittura di ogni singolo componente di JÜMP THE SHARK è la cognizione che nasce dalla combinazione di due mondi sonori diametralmente opposti ma similmente acidi, ossia quelli creati dalla chitarra elettrica e dal vibrafono che si uniscono ad una sezione ritmica dalle mille sfaccettature, capace di ancorarsi anche a dei solidi groove. Questo consente ad una front-line a geometria variabile formata da ance e trombone/sousaphone di sfruttare appieno tutta la potenza di fuoco ritmica e melodica a propria disposizione.

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