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I NOSTRI CD

4S – “Delusions of Grandeur” – EMME Produzioni

4s-DelusionsE' con vero piacere che vi presentiamo questo album almeno per un duplice motivo, la qualità della musica e il fatto che l'album si lega ad un evento degno di nota vale a dire il secondo “Luxembourg Jazz Meeting” svoltosi dal 12 al 14 settembre, organizzato da Music LX per conto del Ministero della Cultura Lussemburghese (audite, audite politici italiani!!!). In questa occasione, novanta delegati provenienti da tutto il mondo hanno dibattuto i vari problemi legati al jazz e soprattutto hanno avuto modo di ascoltare musicisti lussemburghesi che hanno, così, trovato una vetrina ideale per esprimere le proprie potenzialità. Tra questi, per l'appunto, i “4S” ovvero David Fettmann (sax), Jérôme Klein (piano, voce), Niels Engel (batteria), Eric Engel (bass clarinet), Pol Belardi (basso) che hanno presentato in anteprima assoluta questo loro album. Dal punto di vista prettamente musicale, il Cd si lascia ascoltare data la valenza compositiva di Pol Belardi (autore di tutti i brani presenti nel CD ad eccezione di “Serpentine” di Hans Magnus Ryan) e la buona cifra stilistica del gruppo caratterizzato da un bell'impasto sonoro prodotto soprattutto dai fiati, e da una buona intesa fra i cinque. Intesa che appare evidente nel modo in cui Pol e compagni riescono ad amalgamare gli input provenienti da fonti assai diversificate quali il , il pop, l'hip-hop, la tradizione classica, il jazz…fino ad arrivare a certe forme di minimalismo. Il tutto sempre all'insegna di una certa gradevolezza d'ascolto e di una cantabilità presente più o meno in tutti i brani. Si ascolti, ad esempio, “Hope” con un ottimo lavoro del trio pianoforte-sezione ritmica e “Like airports much better than train stations” introdotto da pochissime note del contrabbasso che poi dialoga con clarinetto basso e batteria, lasciando quindi spazio agli altri strumenti a disegnare un'atmosfera di rara suggestione.

AA.VV. – “Jazz from Finland 2014-2015”

JazzfinlandCome vi avevo promesso, nei prossimi giorni vi informerò sul “KaamosJazz 2014” cui ho avuto la fortuna di assistere nella Lapponia finlandese dal 20 al 23 novembre scorsi. Per il momento restiamo nel Nord Europa per segnalare una interessante realizzazione discografica dovuta alla sapiente regia del FIMIC (Finish Music Information Centre), “Jazz from Finland 2014-15”, iniziativa che fortunatamente si ripete ogni anno. Si tratta di una compilation con 17 brani accompagnata – ed è qui il valore aggiunto della pubblicazione – da un esaustivo libretto che riporta una scheda biografica e critica su ciascuno dei gruppi documentati nel CD sì da fornire un quadro abbastanza esaustivo della realtà musicale finlandese; il tutto accompagnato da un bel corredo iconografico, ivi comprese le foto delle copertine degli album da cui sono tratti i singoli pezzi . Scorrendo i nomi degli artisti coinvolti, è facile trovare alcuni dei maggiori protagonisti non solo della scena jazzistica finlandese ma anche di quella europea: intendo riferirmi, ad esempio, al trombettista Jukka ESkola impegnato con la sua “Orquesta Bossa”, al sassofonista Timo Lassy in quintetto, al chitarrista Raoul Björkenheim, allo String Trio di Iiro Rantala che in questi giorni è in tournée nel nostro Paese, al quintetto Oddarrang guidato dal batterista Olavi Louhivuori e soprattutto al “Sound and Fury” un gruppo che è una sorta di istituzione per la musica jazz finlandese: scaturito negli anni '80 da una serie di workshop organizzati dal leggendario batterista-percussionista Edward Vesala, “Sound and Fury” incise quattro album per la ECM considerati ancora oggi delle pietre miliari nella storia del jazz europeo; ricostituito nel 2010 il gruppo si avvale oggi della presenza di Jorma Tapio (sax alto, clarinetto basso e flauto), Pepa Päivinen (sax e flauti), Matti Riikonen (tromba), Tane Kannisto (sax tenore, flauto, clarinetto alto), i chitarristi Jimi Sumén e Julius Heikkilä, Sampo Lassila (contrabbasso), Hannu Riscu (percussioni) e Ilmari Heikinheimo (batteria).

Emmanuel Bex, Nico Morelli, Mike Ladd – “B2Bill A modern tribute to Bill Evans” – Bonsai Music

B2BillHo avuto modo di conoscere e frequentare Nico Morelli apprezzandone non solo la maestria pianistica ma anche la gradevolezza e l'onestà intellettuale dell'uomo, cose oggi tutt'altro che secondarie. E' quindi con vero piacere che vi segnalo questo album, a mio avviso una vera e propria perla nel pur variegato panorama della discografia jazz di questi mesi. Il pianista pugliese , trasferitosi oramai da anni a Parigi, si presenta in trio con Mike Ladd, specialista del cosiddetto “spoken word” e Emmanuel Bex all'organo per disegnare un personalissimo, commovente e coinvolgente omaggio al grande pianista di Painfileds. In programma alcuni brani famosi di Evans (“Peri's Scope”, “B Minor Waltz”, “Five”, “Funkallero”, “Twelve Tone Tunes”…) unitamente ad originals dedicati e ispirati dallo stesso pianista. Il trio è andato in tournée con questo progetto ottenendo ovunque un grande successo di pubblico e di critica, successo che si capisce assai bene ascoltando l'album in oggetto. I tre evidenziano grande empatia ed il fatto che provengono da Paesi diversi (Ladd dagli USA, Bex dalla Francia e Morelli dall'Italia) non solo non nuoce all'omogeneità del progetto ma lo arricchisce delle rispettive esperienze sino a confluire in un unicum difficilmente comparabile con altre realtà. Così il trio si muove lungo coordinate in cui appare evidente la ricerca sul suono come evidenziato da bell'impasto sonoro determinato da pianoforte e organo. Bex (grande pianista “transitato” negli ultimi tempi all'Organo Hammond) e Morelli (a mio avviso uno dei pianisti più originali e sensibili dell'intera Europa) dialogano con grande pertinenza tanto che non è facile distinguere le parti improvvisate dalla pagina scritta. Tra i due si inserisce Mike Ladd con la sua voce così personale determinata dalle precedenti collaborazioni con artisti di altro genere ad aggiungere un ulteriore elemento di originalità .

Renaud Garcìa Fons, Deryan Türkan – “Silk moon” – e-motive records 141

Silkmoon_150Ecco uno di quegli album border-line che o sono assai interessanti o facilmente scivolano nella noia più assoluta. Per fortuna in questo caso ci troviamo dinnanzi alla prima ipotesi, vale a dire un CD ricco di sorprese, affascinante…nonostante il jazz, così come normalmente lo si intende, è lontano, molto lontano. Renaud Garcia Fons è un artista francese che si è imposto all'attenzione generale sia per il suono così particolare prodotto dal suo contrabbasso a cinque corde sia per la sua ansia di ricerca che lo ha portato a collaborare con musicisti delle aree più disparate. Questa volta lo troviamo accanto al turco Derya Türkan, maestro del kemençe, piccolo violino a 3 corde che si suona con l'archetto e che trova le sue origini nel mediterraneo orientale, nella tradizione ottomana. I due entrarono in contatto nel 2006, quando suonavano insieme al flautista Kudsi Erguner, il quale, a sua volta, collaborava con Derya sin dal 1991. Nel corso degli anni la collaborazione tra Renaud e Derya è proseguita intensa fino a sfociare in questo album in cui attraverso quattordici brani si evidenziano i magnifici frutti forniti dall' intesa sonora fra le tradizioni musicali del Mediterraneo e quelle del Medio Oriente. Il contrabbasso e il kemençe si fondono in sonorità tanto nuove ed inattese quanto affascinanti anche perché sono nelle mani di musicisti di grande livello. Garcia Fons si conferma eccezionale contrabbassista in grado di trarre dal suo strumento – sia pizzicandolo, sia sfregando le corde, sia utilizzando l'archetto – sonorità incredibili che si fatica ad associare ad un contrabbasso mentre Derya utilizza il suo kemençe per disegnare dolci e suadenti linee melodiche. A ciò si aggiunga che i due riescono ad ascoltarsi con grande empatia dando vita ad un linguaggio assolutamente nuovo. E ad un ascolto attento non può sfuggire come in questa musica ci siano, certo, evidenti, le influenze della musica andalusa e di quella turca… ma non solo ché, come evidenziato nel titolo, gli echi arrivano da molto più lontano, fino a giungere all'Estremo Oriente, a disegnare una sorta di viaggio che non conosce frontiere.

Keith Jarrett – “Hamburg ‘72” – ECM 2422

hamburg72In questi ultimi tempi Keith Jarrett si sta alienando molte simpatie per alcuni atteggiamenti inaccettabili… ma non c'è dubbio alcuno che quando smette di fare le bizze e decide di suonare rimane un artista di straordinario spessore, un pianista che tanto ha dato e continua a dare alla storia del jazz. In un siffatto contesto, ci si chiede se dischi come questo, che riportano in vita vecchie registrazioni, possano aggiungere qualcosa alla statura già ben nota e delineata del musicista. A mio avviso la risposta è positiva se non altro perché si tratta di una registrazione dal vivo e quindi della “cattura” di un momento unico nella storia di qualsivoglia artista. Siamo nel 1972, per l'esattezza il 14 giugno del 1972 e il trio di Keith Jarrett (non solo al piano ma anche al flauto, al sax soprano e alle percussioni) suona per la NDR della Funkhaus di Amburgo, nell'ambito di un tour organizzato dalla ECM appositamente per questo trio. Il combo, completato da Charlie Haden al contrabbasso e Paul Motian alla batteria, si costituisce nel 1966, e rappresenta una delle primissime felici intuizioni del pianista nello scegliersi i compagni di strada. Grazie anche all'apporto di questi due grandi musicisti, Jarrett può iniziare un felice cammino che nell'arco di pochi anni lo porterà ai vertici del jazz internazionale. A cavallo tra gli anni '60 e '70 il trio di Jarrett – come documentato da questo splendido album – è già in grado di esplorare le varie sfaccettature del jazz moderno: si ascolti ad esempio con quale delicatezza viene porta “”Everything that lives laments” mentre in “Piece for Ornette” si apprezza tutto il dirompente ardore del free con lo stesso Jarrett al sax soprano; la chiusura è affidata a ““Song for Che” caratterizzata da una particolare intesa fra i tre e da uno splendido assolo di Haden. Da sottolineare, infine, come l'album sia il frutto di un remix dei nastri originali operato ad Oslo nel luglio del 2014 da Manfred Eicher con Jan Erik Kongshaug.

Yasmin Levy – “Tango” – World Village 450026

TangoI lettori di “A proposito di jazz” sanno bene come il loro recensore ami il tango nelle sue varie declinazioni, ivi comprese le forme più moderne personificate da Piazzolla e dal felice connubio con il jazz. Tuttavia non si può non rilevare come negli ultimi anni ci sia stata una sorta di inflazione nel riproporre la musica “tanguera”: molti si sono cimentati in questa difficilissima impresa ma solo pochi ne sono usciti a testa alta data l'estrema difficoltà di riprodurre il pathos insito in questo genere musicale così come prodotto e interpretato dai suoi “padri fondatori”. Adesso è la volta di una giovane vocalist israeliana che, registrata dal vivo a Tel Aviv il 3 giugno del 2013 con l'accompagnamento di una grande orchestra, presenta un repertorio da far tremare le vene ai polsi: una serie di tanghi classici che abbracciano, praticamente, la storia di questa musica. Si parte, infatti, da “Y Todavía Te Quiero” di Luciano Leocata e Abel Aznar, per chiudere con “La ultima curda” di Anibal Troilo e Catulo Castillo, passando attraverso i più grandi compositori di tango argentini quali, tanto per fare qualche nome, Carlos Gardel e, naturalmente, Astor Piazzolla, del quale interpreta magnificamente “Vuelvo al Sur”, accompagnata solo dalla chitarra-flamenco di Yechiel Hasson e dal bandoneon di Amijai Shalev. Ebbene Yasmin, al suo sesto album da leader, offre una prova superlativa, forse la migliore della sua carriera, in quanto va oltre le sue ben note passioni per la musica andalusa e quella turca, andando ad interpretare con passione trasporto ed estrema pertinenza il Tango Argentino nella sua versione più autentica. La sua voce, sempre perfettamente in linea con le esigenze espressive, si adatta magnificamente sia alla musica sia ai testi così importanti in questo genere musicale, riuscendone a catturare l'intima essenza, impresa, come accennavamo, tutt'altro che facile. I pezzi sono tutti magnifici anche se particolarmente ben riuscite appaiono le interpretazioni del già citato pezzo di Piazzolla e di “Por una cabeza” di Gardel-Le Pera. Da evidenziare come il CD sia accompagnato da un DVD che contiene lo stesso concerto del 3 giugno.

Natalia M.King – “Soulblazz” – Jazz Village 570031

Soul BlazzEccellente album di questa vocalist e chitarrista americana-francofila. Ad onor del vero non la conoscevo e così mi sono accinto con molta curiosità all'ascolto del CD e alla fine ero più che convinto. Si tratta, in effetti, di un'artista a tutto tondo, una vera musicista che sa coniugare perfettamente le sue radici con quanto di nuovo propone la musica odierna. Di qui un mix assolutamente originale in cui trovano posto echi provenienti dalla musica nera, dal soul così come dal blues…senza trascurare il rock. Se a ciò si aggiunge il fatto che Natalia è anche l'autrice della quasi totalità dei titoli, avrete un'ide più precisa del perché ho parlato di un'artista a tutto tondo. Le composizioni sono tutte ben strutturate, equilibrate, con una bella carica ritmica e linee melodiche tutt'altro che banali. Dal punto di vista interpretativo la King appare, se possibile, ancora più convincente. Innanzitutto è da sottolineare come la vocalist abbia voluto imprimere all'album una caratterizzazione decisamente acustica in ciò ben coadiuvata da musicisti di indubbio livello; presenti in tutti i nove brani il classico trio pianoforte, batteria e contrabbasso composto rispettivamente da Vladimir Ivanovsky, Larry Crockett e Yves Torchinsky cui si aggiungono, di volta in volta, il trombettista Stéphane Belmondo, il sassofonista Pierrick Pédron, il chitarrista Dominique Cravic e in un solo pezzo l'armonicista Laurent Le Thiec. Ma la mattatrice è sicuramente lei, Natalia, che canta con partecipazione, passione vera, facendo rivivere atmosfere passate con grande pertinenza. La si ascolti soprattutto nel classico “You don't know what is love” porto con grande bravura…ma questa stessa eccellenza vocale la si percepisce per tutto l'album che, probabilmente, ci ha fatto conoscere una nuova stella del canto jazz.

Branford Marsalis – “In my solitude – Live at Grace Cathedral” – Okeh 88875011652

In_My_SolitudeDopo tanti anni di indiscussi successi, Branford Marsalis affronta forse la prova più impegnativa della sua carriera: il solo-sax. Come ben sanno gli appassionati di jazz, affrontare un concerto, una registrazione da soli con il proprio strumento è impresa di per sé piuttosto difficile. Non è un caso che performances di questo tipo vedano solitamente impegnati dei pianisti dal momento che il pianoforte è strumento completo capace di eseguire melodia, armonia e ritmo. Del tutto diverse le potenzialità del sassofono: gli album per solo sax, infatti, non sono numerosi e gli artisti che si sono cimentati in questa difficilissima prova sono solo dei numeri uno assoluti quali Sonny Rollins e Anthony Braxton. Adesso è la volta di Branford Marsalis qui ripreso durante un concerto tenuto alla Grace Cathedral di San Francisco il 5 ottobre del 2012. Non ci voleva certo questo live per scoprire la valenza di Branford, eppure l'album evidenzia quale tipo di maturità il sassofonista abbia raggiunto. Perfettamente consapevole delle proprie possibilità esecutive ed espressive, il sassofonista affronta, senza alcun timore, un repertorio assai variegato passando da brani di Steve Lacy a standards legati all'immaginario collettivo quali “Stardust”, a composizioni classiche come la “Sonata in A minor for oboe solo Wq.132: I poco adagio” di Bach, cui si affiancano brani originali e alcune improvvisazioni totali. Dopo aver ascoltato per intero l'album, se ne ricava la sensazione di aver ascoltato una musica di spessore, sorretta da un grande interesse per la melodia e il risvolto emozionale della stessa, in cui improvvisazione e pagina scritta si sposano a meraviglia. Branford non intende dimostrare alcunché e così la “sua” musica scorre senza sussulti: niente cascate di note alla John Coltrane, niente fraseggi torrenziali alla Sonny Rollins ma un approccio meditato, oserei dire intimista, in cui ad ogni singola nota è dato il suo giusto rilievo… il tutto completato dalla straordinaria facoltà dell'artista di percepire e interiorizzare le reazioni del pubblico così importanti in un live. Lo stesso Marsalis ha affermato, al riguardo di essere “salito sul palco lasciando volutamente degli spazi vuoti nel programma, per poter creare delle improvvisazioni chiaramente basate sia su ciò che avevo appena suonato, sugli input che ricevevo dalla sala e dal pubblico.”
Insomma un album che vale davvero la pena ascoltare con il massimo dell'attenzione.

Medeski, Scofield, Martin, Wood – “Juice” – Okeh 88875005012

JuiceSe il trio “Medeski, Martin, Wood” è sulla cresta dell'onda da circa un ventennio una pur valida ragione ci sarà… e basta ascoltare questo album, “rinforzato” dal celebre chitarrista John Scofiled, per capire facilmente il perché di un successo così longevo e planetario. Ad onor del vero la collaborazione fra il trio e il chitarrista non è certo nuova: i quattro, prima di questo “Juice”, avevano già registrato alcuni album di eccellente livello quali “A Go Go” (Aprile 1998), “Out Louder” (Settembre 2006) e “ In Case the World Changes Its Mind” (Live realizzato l'8 novembre del 2011). Comunque, indipendentemente dalle presenza di altri musicisti, il trio ha mantenuto, nel tempo, una straordinaria freschezza di ispirazione che si trasmette, con tutta evidenza nella sua musica, sempre fresca, swingante, ricca di groove, trascinante, in cui concetti come banalità, ripetitività, noia non hanno diritto di cittadinanza. Una musica che trova il suo humus ideale sia nei jazz-club più raccolti sia nelle vaste platee dei festival. Se a una formazione già di per sé tanto valida, aggiungete un fuoriclasse come John Scofield, il risultato non potrà che essere ancora una volta eccellente. Ed in effetti “Juice” è un album di livello, che si ascolta tutto d'un fiato grazie anche alla bontà del materiale tematico che comprende composizioni originali di Scofield, Medeski, Martin e Wood oltre ad un classico del jazz, due evergreen del pop-rock, per chiudere addirittura con un brano di Bob Dylan . In apertura un richiamo al soul-jazz con “Sham Time” di Eddie Harris; è il terreno ideale per John Medeski che all'organo si lancia in un fitto ed entusiasmante dialogo con Scofield mentre la sezione ritmica sostiene il tutto con la solita energia. Di grande interesse la versione di “Light my fire” che da un originario clima funky vira decisamente verso un'atmosfera “più elettrica” grazie alla chitarra di John Scofield mentre il brano forse più interessante è “Sunshine of your love” scritto da Peter Brown, Jack Bruce e Eric Clapton ovvero i celebrati “Cream”.

Jaques Morelenbaum – “Saudade do futuro – Futuro da Saudade” – sudmusics 010

Saudade do futuroOgni qualvolta ascolto Jaques Morelenbaum sia su disco sia live non posso fare meno di constatare quanto questo artista sia raffinato, elegante, originale nella sua capacità di far “suonare jazz” uno strumento affatto atipico in un contesto jazzistico come il violoncello. In questo album è alla guida della sua oramai abituale formazione, il “Cello Samba Trio” completato da Lula Galvão al violão brasiliano (una sorta di chitarra con una accordatura particolare per la settima corda) e Rafael Barata batteria e percussioni. In programma 12 pezzi; in otto di questi Jaques omaggia molti dei grandi artisti brasiliani con cui ha avuto l'onore di lavorare o che sono stati particolarmente importante per la sua formazione musicale, quindi una entusiasmante carrellata di nomi celeberrimi, da Antonio Carlos Jobim a Gilberto Gil, da Caetano Veloso a Joao Donato, da Joao Gilberto a Jacob do Bandolim; gli altri quattro brani sono composizioni inedite, due dello stesso violoncellista (“Maracatuesday” e “Ar Livre”), una di Lula Galvão (“Abaporu”) e una di Luizao Pãiva (“Fla x Flu”). L'album si ascolta con estremo piacere dal primo all'ultimo minuto per la bellezza dei temi scelti e per l'interpretazione fornita dal trio, un'interpretazione che si discosta dai normali cliché per assurgere a vertici di rara poesia. Il merito è innanzitutto di Morelenbaum che con il suo strumento disegna linee melodiche di rara suggestione in cui riesce a far confluire le sue molteplici esperienze di compositore, , direttore d'orchestra, pianista, percussionista. Di qui un'estrema facilità di espressione e la capacità di dare ad ogni nota un suo specifico colore nell'ambito di una creazione che reca evidenti i segni delle varie “culture” parti integranti del bagaglio di Morelembaum: dalla musica brasiliana, alla classica, dal pop (inteso nell'accezione più nobile del termine) al jazz. Tanto da far dire allo stesso violoncellista che “spaziando da Villa Lobos a Ryuichi Sakamoto ho imparato a contaminare i generi e gli stili senza perdere il sapore delle radici della musica brasiliana. Mio padre era violinista e direttore d'orchestra e ho imparato molto da lui; tra i miei artisti di riferimento ci sono Pablo Casals e Rostropovich, in gioventù ho lavorato nell'orchestra di Leonard Bernstein, tutto questo mi aiuta ad abbattere le barriere e a lavorare, nel tempo, con artisti come i Tropicalisti, Caetano Veloso o David Byrne, genio del rock”. E forse non potrebbero esserci parole migliori di queste per capire appieno lo spirito dell'album.

The Bad Plus – “Inevitable Western” – Okeh 88843024062

Inevitable Wester“The Bad Plus”, al secolo il bassista Reid Anderson, il pianista Ethan Iverson, e il batterista Dave King, presentano al pubblico del jazz il loro dodicesimo album di un percorso oramai abbastanza lungo e denso di successi. In effetti il trio si caratterizza nel pur variegato panorama della musica afro-americana per una inconsueta carenza di un leader: i tre si muovono su un piano di assoluta parità non solo dal punto di vista esecutivo ma anche da quello compositivo, prova ne sia che i nove pezzi contenuti nell'album sono tutti originali ed equamente divisi fra i tre. Insomma una leadership collettiva che, ovviamente, abbisogna di una grande empatia che è sin troppo facile riscontrare nella musica del gruppo. Musica che, questa volta, torna ad una dimensione più jazzistica dopo le registrazioni dedicate a Stravinski. Ed ancora una volta i tre confermano quanto di buono avevamo imparato ad apprezzare nei loro album, vale a dire una concezione del jazz quasi onnivora nel senso che comprende input provenienti anche da contesti “altri” quali il rock, il folk, il pop, la “classica”…Il tutto immesso in una sorta di particolare frullatore da cui scaturisce una miscela del tutto originale pronta a soddisfare anche i palati più raffinati. Si ascolti al riguardo “Adopted Highway”: dopo una straniante introduzione di batteria e pianoforte, i tre si producono in una sorta di trascinante stop and go con il piano di Iverson costantemente impegnato sul registro medio mentre basso e batteria – percossa con le spazzole – si lanciano in un fitto dialogo. Egualmente interessante la title-track che chiude l'album: introduce il basso di Anderson per lasciare quindi spazio a pianoforte e batteria che determinano l'atmosfera del brano, tutta centrata su quella mescolanza di input cui prima si faceva riferimento a dimostrare come i tre si muovono oramai su un piano di assoluta consapevolezza.

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