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Piano songs

ECM ha recentemente pubblicato, per la collana “ Series”, il nuovo “Piano Songs” di Meredith Monk, da sempre un'artista di punta del catalogo.

Sul proprio sito internet Meredith Monk viene così definita: ”composer, singer, director/coreographer and creator of new opera, music- theater works, films and installations”. Di tutte queste qualifiche, accreditatissime, due sono quelle per le quali è più nota: compositrice e cantante.

Quest'artista, che mi ricorda un po' Ariel, lo spirito dell'aria della “Tempesta” di Shakespeare, ha saputo creare un ‘sound' capace di trasfigurare lo spirito della sua città New York in uno strano canto.

Mentre altri suoi colleghi, simili ad Orfeo sbranato dalle Bassaridi, si sono voltati a contemplare l'epoca loro contemporanea e, convinti della propria attualità, sono sprofondati nell'oblio, la Monk ha saputo immaginare una diversa condizione di natura (“Impermanence” è il titolo di un suo recente, bellissimo album) riuscendo ad essere sempre “inattuale”.

Meredith Monk ha avuto l'intuizione geniale, ancorché non nuovissima, la sperimentò, mutatis mutandis, Richard Wagner prima di lei, del wor-ton-drama, il dramma totale nel quale confluiscono tutte le arti.

Le sue drammaturgie combinano canto, danza, recitazione, scenografia, hanno un carattere onirico e sono spesso prive di una vera e propria struttura narrativa in senso tradizionale.

Si potrebbe forse fare un paragone con certa poesia o con il cinema di artisti visionari come Dario Argento o Walerian Borowczyk le cui opere, similmente, non poggiano tanto sulla storia, ma vanno godute più a livello di esperienza sensoriale.

Non osiamo pensare a quale fine potrebbero fare certi suoi lavori scenici fra cent'anni quando dovessero capitare sotto le grinfie di registi, come quelli d'opera attuali, usi ad ambientare Le Nozze di Figaro in un postribolo o simili altre amenità. Per fortuna possiamo oggi assistere ai suoi “veri” spettacoli, magari facendo un viaggio oltreoceano (ne sarà valsa la pena) o guardando il bellissimo film-documentario che Peter Greenaway le ha dedicato.

L'unico limite, si fa per dire, del disco che propongo oggi all'ascolto è che trattandosi di composizioni pianistiche non è possibile, per forza di cose, apprezzare il suo canto ancestrale, ispirato alle tradizioni tribali euro-asiatiche. La sua arte poggia su tecniche personalissime ed è il frutto di un'approfondita ricerca fonetica, oltre che di uno strepitoso talento naturale.

Non importa: la pianistica nella sua freschezza, ci restituisce intatto il suo mondo poetico, nel quale si rispecchiano lampi degli stili a lei più vicini, come il minimalismo e la musica folk, senza intaccarne il significato più profondo.

E' musica ipnotica, seducente eppure destabilizzante. Può risultare semplice ad una analisi formale ma è molto sofisticata dal punto di vista espressivo.

Ciò che più mi colpisce in questi brani è il trasferimento sapiente di ”gesti vocali” sul pianoforte: chi conoscesse le sue opere precedenti ed ascoltasse questo disco senza sapere nulla del suo autore, potrebbe riconoscerla senza troppa difficoltà: c'è una sigla molto personale ed è questo uno degli ingredienti del suo genio.

Più di un cenno meritano sicuramente gli esecutori, Bruce Brubaker e Ursula Oppens. Entrambi sono noti interpreti di musica contemporanea americana, non di rado da loro commissionata. La Oppens ha anche eseguito per la prima volta sul suolo statunitense opere di importanti autori europei come Ligeti e Berio. Sono perfetti tecnicamente quanto appropriati stilisticamente.

In questi lavori, prevalentemente a due pianoforti, confluiscono talvolta alcune tecniche eterodosse, come il battito delle mani. Il disco è di grande piacevolezza ed interesse.

Coloro che ne saranno colpiti potranno rivolgersi con fiducia ad altre incisioni, come “Dolmen Music” (ECM, 1980), “Atlas” (1992) e “Mercy” (2002). Non resteranno delusi.

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