Classica. La “Buona Scuola”, Patricia Pagny e le sue allieve

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C’era una volta “La Buona Scuola”.

In questa favola moderna abbiamo un’insegnante di pianoforte alla quale, per valorizzare e promuovere i propri allievi, viene un’idea: un’incisione discografica.

Lei, che è una nota pianista, suonerà accanto ai propri allievi; non pezzi qualunque ma programmi molto raffinati, persino prime incisioni assolute di brani scritti per l’occasione, con un filo conduttore stimolante. Programmi, insomma, che non riusciresti ad ascoltare altrove.
L’impresa, alla fine, riesce: i dischi non soltanto vengono prodotti, ma risultano due gioielli.

Non ci troviamo in un film di Frank Capra né dalle parti dell’ Esclusa di Pirandello, neppure in un’opera della narrativa italiana post unitaria, nei romanzi di Edmondo de Amicis o di Giovanni Verga dove i maestri sono i protagonisti dell’epopea risorgimentale. Siamo in Svizzera, al Conservatorio di Berna, negli anni dieci del ventunesimo Secolo, epoca in cui nel panorama musicale viene dato ampio spazio a dischi ‘imperdibili’ che non è, spesso, indispensabile ascoltare o a “star” magari discutibili, simili in tutto al Gatto di Alice.

Assordati da un grande rumore di fondo, accecati dal baluginio di giostre sonanti, è bello poter scoprire un angolo nascosto dove abbandonarsi in silenzio ad una contemplazione primaverile ed ascoltare dei talenti intatti!

Patricia Pagny, per chi non la conoscesse, è una magnifica pianista con al suo attivo diverse prestigiose incisioni, una vittoria al concorso “Casagrande” di Terni e collaborazioni con grandi musicisti tra cui Sir Georg Solti.

Per valorizzare e promuovere i propri studenti (in questo caso, singolarmente, tutte allieve) ella ha pensato, come dicevamo poc’anzi, ad un’impresa discografica. E’ cosa comune fare dischi con gli allievi? Specie se si è musicisti importanti?

Ciò che è vieppiù ammirevole, e mi muove a segnalarvi l’operazione, non è però tanto il cosa quanto come essa è stata concepita; l’insegnante infatti non si è limitata ad un’operazione tipo saggio scolastico tradizionale, ma ha cucito sulle proprie allieve, come un abito di sartoria, due programmi diversissimi e culturalmente molto stimolanti, mettendosi in gioco in prima persona come pianista ma dando anche dando spazio alle bravissime comprimarie.
Come non bastasse, ha scritto delle belle note di copertina, utilissime.

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I nostri CD. Novità d’oltre frontiera

I NOSTRI CD

Anouar Brahem – “Souvenance” – ECM 2423/24
SouvenanceMusicista colto, raffinato, attento osservatore della realtà che ci circonda, Anouar Brahem con questo nuovo doppio album conferma una tendenza già in atto da qualche tempo, vale a dire la quasi totale impossibilità di tracciare una linea di demarcazione precisa tra la musica di derivazione jazzistica e la musica ”colta” moderna. In questi undici brani per oud, quartetto e orchestra d’archi, la prevalenza della scrittura appare netta eppure non mancano squarci di improvvisazione che illuminano la scena. In quest’ambito si alternano atmosfere di dolce malinconia ad altre di insistita iterazione ipnotica ad altre ancora in cui l’artista tunisino sembra lasciarsi andare all’onda dei ricordi. Così non mancano momenti di autentica “drammaticità” che ben rispecchiano l’animo dell’artista giunto a queste registrazioni ben sei anni dopo l’ultimo album “The Astounding Eyes of Rita”. « Mi ci è voluto molto tempo per scrivere questa musica» spiega Brahem «non ho la pretesa di un legame diretto tra le mie composizioni e gli eventi in Tunisia ma ne sono stato profondamente colpito». Il richiamo alla cosiddetta “primavera araba” è evidente così come il desiderio di tradurre in musica un tale coacervo di emozioni che possiamo solo immaginare nella loro molteplicità e contraddittorietà. Al riguardo particolarmente emblematica appare la copertina. Tutto ciò, comunque, nulla toglie all’omogeneità dell’album con Anouar che guida con mano sicura il quartetto completato dal fido François Couturier al piano, Klaus Gesing al clarinetto basso, Björn Meyer al basso e l’Orchestra della Svizzera Italiana condotta da Pietro Miniati a disegnare un tappeto tanto discreto quanto prezioso.

Jack DeJohnette – “Made in Chicago” – ECM 2392
Made_in_ChicagoSiamo a Chicago il 29 agosto del 2013 in occasione del Festival del jazz. Sul palco, il batterista Jack DeJohnette alla testa di un quintetto all stars con Roscoe Mitchell e Henry Threadgill ai fiati, Muhal Richard Abrams al piano e Larry Gray al contrabbasso e violoncello. Il concerto ottiene un grande successo e fortunatamente viene registrato live. Si tratta della prima realizzazione effettuata da questo gruppo, ma ciò non implica che i cinque non si conoscessero molto bene. Tutt’altro! In effetti la loro amicizia va molto indietro nel tempo. DeJohnette, Roscoe Mitchell e Henry Threadgill nel 1962 erano compagni di scuola al Wilson Junior College di Chicago e partecipavano a infocate jam session. Dopo poco tempo i tre si ritrovarono nella Muhal Richard Abrams Experimental Band cosicché furono tutti membri attivi ed entusiasti di quella AACM (l’Association for the Advancement of Creative Musicians fondata nel 1965 da Abrams, dall’altro pianista Jodie Christian, dal batterista Steve McCall, e dal compositore Phil Cohran) che tanta importanza avrebbe avuto nello sviluppo della musica creativa. Molti anni sono passati da quei giorni ma ancora i frutti di quella sorta di rivoluzione sono ben vivi e presenti. Questo album ne è una palpabile testimonianza. I cinque suonano con grande trasporto evidenziando un interplay straordinario che premia allo stesso tempo la grande capacità inventiva dei singoli e la forza del collettivo. Non c’è un solo attimo in cui il flusso musicale perda di intensità o si avverta la benché minima esitazione. Anche nei brani più lunghi come “Chant” (17:01) di Roscoe Mitchell il legame che si crea tra esecutori e ascoltatori è sempre forte, continuo, imprescindibile: si è attratti quasi da una forza ipnotica che emana da questi straordinari artisti. L’espressività, l’emozionalità, la continua creazione sono i fattori che evidenziano la generosità di DeJohnette e compagni che si danno completamente, senza riserve, senza alcuna paura di sbagliare. In tal senso è davvero straordinario il lavoro di ricucitura effettuato dal leader. Questa estate avevamo ascoltato il batterista a Udine in trio con Ravi Coltrane al sax e Matt Garrison al basso elettrico ed era stata grande delusione vista l’inconsistenza del progetto (se pure c’era). Questa volta le cose sono andate ben diversamente: ogni brano merita particolare attenzione viste le preziosità che racchiude; a titolo di esempio si ascoltino “This” in cui una sorta di jazz cameristico viene impreziosito dal dialogo tra il violoncello di Larry Gray e il flauto basso di Henry Threadgill mentre in “Leave Don’t Go Away,” di Threadgill è l’ultra ottantenne Richard Abrams a evidenziare una energia ed una maestria che sembrano non patire l’usura del tempo.

Rudresh Mahanthappa – “Bird Calls” – ACT 9581-2
Bird-CallsNel pur ampio panorama dei “nuovi” sassofonisti, Rudresh K. Mahanthappa si è già conquistata una solida reputazione grazie ad una tecnica assai solida ed ad una originalità di linguaggio che rende immediatamente riconoscibile il suo stile. In questo album l’artista indiano rende omaggio al più grande dei sax-alto, vale a dire Charlie Parker la cui musica, come egli stesso afferma nelle note di copertina, conobbe quando aveva appena dodici anni grazie all’album “Archetypes”. E fu proprio l’ascolto di Charlie Parker a metterlo definitivamente sulla strada della musica, del jazz. In questo notevolissimo album Rudresh è affiancato da Matt Mitchell al piano, François Moutin al basso acustico, Rudy Royston alla batteria , e il ventenne fenomenale trombettista Adam O’Farrill (figlio di Arturo O’Farrill). Chi, date le premesse, si attendesse una riproposizione delle perle parkeriane, rimarrebbe deluso ché Rudresh vuole dedicare la sua musica al grande Bird ma in modo assolutamente originale, moderno sì da dimostrare che l’influenza di Parker è ancora grandissima e può dar vita ad una jazz in linea coi tempi.. Di qui tredici composizioni, tutte scritte dal leader, che si richiamano più o meno apertamente alle composizioni di Bird ora scrivendo una nuova melodia su “vecchie” armonie ora, viceversa, conservando solo la linea melodica ora incentrando tutta l’attenzione sull’andamento ritmico del brano parkeriano. Risultato: alcuni pezzi sono ancora perfettamente riconoscibili, altri no pur mantenendo intatta una grande dose di fascino e un’indubbia capacità di coinvolgimento. Il tutto è impreziosito da bozzetti intitolati “Bird Calls”, in cui il sassofonista, da solo in duo o con il gruppo, ha la possibilità di lanciarsi in pertinenti improvvisazioni prescindendo quasi totalmente dal materiale tematico. Insomma se amate Parker (e come potrebbe essere altrimenti?!?) e vi piace il jazz “moderno”, ecco un disco da non perdere.

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Classica. L’avvenire nel passato

Habemus papam

Chi può stabilire cosa sia, in musica, il sacro ?

Giorgio Federico Ghedini scrisse nel 1943 il suo “Concerto Spirituale”, dedicato a Petrassi, su testi di Jacopone da Todi, che reputo una delle più belle pagine di musica sacra di ogni tempo. Un’opera che fonde tutti i pensieri nella sola immobilità della presenza divina, creando un’emozione tangibile. Tuttavia egli non era praticante, forse neppure credente.

Per più di un millennio la cristianità è stata portatrice di valori musicali straordinari. Un fatto tanto evidente da venire messo in dubbio talora con punte di grottesca acrimonia. In un suo libro il matematico Piergiorgio Odifreddi, “tuttologo” e fervente anticlericale, stigmatizzava a tal punto la Chiesa e la sua musica da invitare, niente meno, tutti coloro che oggi intonano il “Sanctus” a vergognarsene in nome delle vite che sarebbero state annientate al suono di tale canto.

Forse la ragione del professore è percossa dalla propria astuzia, o sarà che, per quanto mi riguarda, “la lampe de mon coeur file et bientôt hoquète à l’approche des parvis” come recita un verso di Andrè Breton, di certo non occorre essere cattolici ferventi per affermare che, senza la Chiesa, la storia della musica occidentale sarebbe stata diversa e, secondo me, molto meno significativa.

Nel medioevo fiorì in seno alla Chiesa un pullulare di stili che incorporavano diverse tradizioni. San Gregorio Magno collazionò molti di questi canti nell’Anthiponarius Cento, che includeva anche opere sue.

Ecco codificarsi il Canto Gregoriano che può essere definito anche uno dei più alti esiti nell’arte di rivestire di suoni un testo. L’Antiphonarius ha il merito di averci preservato per iscritto una grande letteratura (andò perduto durante le invasioni barbariche e poi tornò in voga grazie a Pipino il Breve e a Carlo Magno, che centralizzarono anche l’Amministrazione e il Diritto Canonico). Cionondimeno l’opera di Gregorio uniformò gli stili delle varie regioni, colmando le differenze; si trattò di un’operazione musicalmente violenta, per quanto necessaria.

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La fiabesca e terrestre innovazione di Kimmo Pohjonen e Eric Echampard

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Nella musica, nel Jazz, ci sono due modi di perseguire l’ innovazione. L’ uno è quello di mettersi a tavolino e tirare fuori qualcosa di “nuovo” “mai sentito” “sperimentale”, una sorta di “famolo strano” della musica, se mi si concede la citazione non colta.

Il secondo modo non è scelto a tavolino: l’ innovazione viene dalle idee, dall’ espressività impellente dell’ artista che ha dentro di se qualcosa di nuovo e trova il modo di esprimerlo: il risultato è musica innovativa, ma perché come tale è nata e non ne ha preso la semplice foggia esteriore.

Al Teatro Manzoni di Milano, per la rassegna “Aperitivo in concerto” Kimmo Pohjonen , grande fisarmonicista finlandese, ed Eric Echampard, grande batterista francese, hanno suonato musica suggestiva, trascinante, coinvolgente, liberatoria anche, mostrando un affiatamento incredibile e una creatività a tutto tondo, evidente nella continua ricerca timbrica, dinamica, armonica, melodica e strutturale.

Una ricerca non tanto cerebrale (anche se alla base c’è una solidissima preparazione tecnica di entrambi i musicisti) ma empatica, estemporanea spesso, ma tutt’ altro che casuale. Ovvero, questo duo compie, musicalmente, un percorso del quale il fine è l’ esplorazione di mondi sonori nuovi ma anche la riscoperta di suoni ancestrali, primitivi più che antichi, che al nostro orecchio risultano ancora mai ascoltati. Nessun esploratore andrebbe verso l’ ignoto senza una bussola, e senza un adeguato equipaggiamento che gli permetta di tenere una rotta e anche di poter vedere, guardare, tenere un diario di viaggio per avere polso di tutto ciò che di stupefacente appaia davanti agli occhi.

Buio in sala dunque, e la fisarmonica intona pianissimo un’ unica nota, tenuta a lungo ma mai uguale a se stessa: essa vibra, aumenta e diminuisce di volume, ritorna dritta come un fuso, canta, in una parola. La batteria respira. Si, respira, i mallets percuotono piano le pelli su un disegno ritmico – melodico fisso, fino a quando la fisarmonica intona una melodia struggente. Il charleston si inserisce per primo in un crescendo melodico e agogico, l’ armonia è sospesa nonostante ci sia una tonica ben determinata.

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