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Pietro Tonolo e Angelica

di Angelica Montagna – L’ultima volta che ho incontrato e sentito suonare Pietro Tonolo è stata a Trieste, come special guest dell’Orchestra Jazz del Veneto di Maurizio Camardi*. In quell’occasione, fu inciso un disco live sfornato giusto qualche giorno fa dal titolo “In Itinere” per l’etichetta Blue Serge. Un saluto e la promessa di una lunga intervista. Ebbene, la promessa è stata mantenuta.

Assieme al mio fotografo mi reco in una paesino di campagna, nella provincia vicentina. Da Venezia, dove abitava prima, a Vicenza il passo è breve ma l’abisso è enorme per chi è abituato a svegliarsi al rumore della sirena del vaporetto. Tuttavia, so bene che per un artista del calibro di Pietro Tonolo non vi è differenza, abituato com’è a sentirsi cittadino del mondo. Ci accoglie in una casa dove anche gli stipiti delle porte sono dipinti di un colore caldo, che emana profumo d’Africa. Dopo una veloce visita alla casa, ci mostra la stanza dei cappelli, originale location che ci racconta molte cose sul conto di Pietro Tonolo e la sua bizzarra abitudine di portare qualcosa in testa, ogni volta in maniera diversa, seppure con innata eleganza. Mi fa accomodare in un divano rosso, all’ultimo piano mansardato. Accanto a noi, tutta una serie di strumenti compreso uno Steinway scintillante. L’intervista ha inizio.

Sappiamo che tu parti da una preparazione classica, con il violino. Che influenza ha avuto sul tuo modo di suonare?
“Direi un’influenza enorme, perché è un’esperienza che ho fatto sin da bambino, proseguita poi quando ero ragazzo. E’ noto che quando le cose sono iniziate presto, lasciano segni indelebili. In realtà io ho iniziato prima ancora con il pianoforte”.

Quando in una famiglia escono due artisti di alto calibro, mi riferisco anche a tuo fratello Marcello, pianista, si è soliti dire che in quella casa si è respirato musica da subito. E’ così?
“Devo dire di sì, anche se in realtà nessuno dei miei genitori era musicista. Però mio padre era un grandissimo appassionato di musica classica, la ascoltava in continuazione. La musica aveva un ruolo importante nella sua vita ed in qualche maniera ce l’ha trasmesso. Mia madre suonava un po’ la fisarmonica. Entrambi si nutrivano di musica”.

Che cos’è per Pietro Tonolo la musica? Se dovessi definirla con una parola…
“La chiamerei semplicemente musica. Come dicevo prima, la musica ha fatto parte della mia vita da sempre, i miei primissimi ricordi sono legati alle melodie sia ascoltate che suonate. I miei primissimi ricordi sono legati a mio fratello Marcello che ha quattro anni più di me ed iniziava ad suonare il piano; io probabilmente non avevo più di tre anni e mi arrampicavo sul pianoforte a cercare le note. La musica è qualcosa sulla quale non mi pongo più alcuna domanda, fa semplicemente parte della mia vita. Suppongo ne farà parte ancora per un po’”.

Pietro TONOLO

Parliamo di una tappa importante della tua vita che è stata la Keptorchestra, idea originale e straordinaria. Fondamentale sotto il punto di vista professionale ma anche personale.
“L’ orchestra nata negli anni ’80, sopravissuta per un decennio, era diventata una specie di laboratorio aperto che ha consentito a molti di noi di fare le prime esperienze come compositore. In generale, va detto che le grandi formazioni, le cosiddette big band che hanno caratterizzato il jazz degli anni 30/40 sono formazioni dove ci si divertiva molto con quella ricchezza di suono, la sezione della tromba, dei tromboni, del sassofono… Vi era, di fatto, una generosità spontanea con quell’ effetto “opulenza sonora” che diventava puro divertimento, oggi sempre più difficile da trovare vista la crisi economica. Oggi, le formazioni tendono a ridursi. La nostra è stata una formazione che ha dato grandi soddisfazioni a tutti noi, con una significativa collaborazione di Steve Lacy, risultata molto proficua. L’unico rammarico è rappresentato dal fatto che purtroppo la Keptorchestra non sia stata documentata discograficamente come avrebbe meritato. E lo meritava, visto che si trattava di un gruppo affiatato che dava il meglio di sé dal vivo, grazie alla presenza di una serie di elementi anche spettacolari, dalla personalità molto forte, che sapevano regalare momenti irripetibili e situazioni quasi al limite dell’happening. C’era molta creatività, molto divertimento perseguito con serietà ed alto livello, pur senza troppe velleità o pretese intellettualistiche”.

Se dico Senegal che cosa mi dici?
“In Senegal ci sono stato cinque volte. L’Africa, negli ultimi 6/7 anni è diventata in qualche modo parte della mia vita. Trovo che l’Africa debba far parte di tutti i musicisti soprattutto di jazz, nel senso che il contributo che da è fondamentale. L’Africa è presente in gran parte della musica; la si può trovare nel suono della batteria per esempio. Sono diventato sempre più cosciente di questo fatto, ad un dato punto ho deciso di andare in Africa, di rompere gli indugi… Ho voluto entrare in contatto con la musica africana che è cultura, perché musica e cultura non si possono scindere. Per me è stato molto costruttivo, direi addirittura nutriente”.

L’Africa ha il potere di cambiare un musicista?
“E’ uno dei posti al mondo rimasti con un modo di vivere completamente diverso da quello occidentale e quindi sì, direi che può cambiare le persone. Oltretutto l’ Africa e la cultura africana sono prevalentemente culture orali che poco si prestano ad essere studiate con un approccio occidentale. Più che studiate, vanno vissute ed è un po’ quello che ho cercato di fare io”.

Fra le molte collaborazioni anche internazionali, qual è quella che per qualche motivo ti è rimasta dentro?
“Ho avuto la fortuna di collaborare con musicisti di grandissima levatura, per cui non ce n’è una che sento di più. Come dico sempre, una persona è la somma delle esperienze che ha fatto. Non potrei fare torto a Gil Evans parlando di Paul Motian, a Chet Backer parlando di Joe Chambers anche se non è detto che ci siano tanti musicisti meno noti che sono altrettanto bravi e che possono dare spunti o idee enormi ad un musicista”.

Indiscusso, alto livello e caratura alcune delle doti da te espresse. Dietro, un forte impegno ma anche un grosso lavoro quotidiano…
“Sì, e questo fa parte del gioco. Il musicista strumentista ovvero chi si esprime con uno strumento, deve fare i conti con alcuni aspetti che accomunano un pò la sua vita a quella dell’atleta. Ci sono degli aspetti legati al corpo, al fatto di produrre con le proprie dita, con il proprio fiato e questo implica un impegno se si vogliono mantenere certi livelli dai quali non si deroga. Paganini diceva: “Se non studio un giorno, me ne accorgo solo io; se non studio due giorni, se ne accorgono gli altri, il pubblico”. Il fatto di essere strumentista ma anche improvvisatore e compositore che lavora sullo strumento, mi rende cosciente di dover stare un certo numero di ore a studiare, con aspetti tali di concentrazione, di immaginazione e di ricerca molto stimolanti”.

Capita di non essere mai soddisfatti del livello che si raggiunge?
“Continuamente! Credo che nessun artista sia mai realmente appagato di se stesso. Trovo non sia auspicabile, né positiva una cronica insoddisfazione disfattista o distruttiva. Credo che qualsiasi obiettivo si raggiunga, lo si intraveda per un momento e poi sfugga. Bisogna quindi ricominciare l’inseguimento, gustandosi anche quelle soddisfazioni che arrivano strada facendo. Sono convinto che sia importante trovare il giusto equilibrio fra leggera insoddisfazione e gusto nel fare le cose. Ecco, trovare questo punto nella zona giusta, fa sì che vi sia una soddisfazione mista alla continua voglia di migliorarsi”.

Stanza dei cappelli

Quale consiglio Pietro Tonolo darebbe a quei giovani musicisti che sognano un giorno di diventare come lui?
“Mi sento di consigliare di non seguire delle ricette preconfezionate ma di tentare di trovare la propria strada senza scorciatoie, costruendosi delle basi solide, cercando dentro se stessi ed elaborando delle proprie caratteristiche che consentano ad un giovane artista di dire qualcosa di personale. Credo nel non facile lavoro di introspezione, che non è soltanto lavoro musicale, perché la musica da sola dice poco. La musica è il campo in cui si esprime una persona ma poi dipende da cosa c’è dentro quella stessa persona. Insomma, bisogna scoprire e trovare se stessi. La musica può essere davvero un’ esperienza molto formativa. Io l’ho provato sulla mia pelle; quello che oggi io sono dipende molto anche da quello che ho fatto come musicista, perché la musica è una forma d’ arte che costringe a strutturarsi in una determinata maniera. Poi sarà il proprio essere musicista a nutrirsi anche della persona e di tutto ciò che questa è in grado di esprimere”.

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