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alvin curran

Non so se siete come me appassionati di cinema. Spero di si, perché la settima arte è, insieme alla musica se non di più, la nostra grande consolazione.

Se mi chiedessero di descrivere il mio ideale di cinema, piuttosto che pensare a un autore specifico o a un film, cosa per me  troppo difficile – me ne verrebbero in mente  almeno venticinque tutti insieme – ricorrerei alla seguente immagine.

Riuscite a figurarvi la fine del mondo? Che sembri tratta da un racconto di Philip K. Dick: deserto, improvvisamente sono tutti scomparsi. Immaginiamo di trovarci in una grande città, come all'inizio di “Abre los ojos” di Alejandro Amenábar…

Forte vento ovunque e non un uomo in giro… soltanto animali a scorrazzare, liberi, per strade fantasma. Una vetrina di schermi televisivi però continua, finché resterà energia sufficiente, a trasmettere un film. Alcuni di essi (daini, cervi, fate voi) si fermano incantati di fronte a quelle immagini che continuano a scorrere, incuranti del disastro avvenuto nel mondo reale: come calamitati, lì rimangono, incapaci di proseguire.

Questo il mio ideale di cinema: immagini tanto forti da poter vivere a prescindere dal corredo della prosa, capaci di suscitare emozioni da cui persino gli animali non possano distogliere lo sguardo.

Questa premessa per spiegare l'impressione che suscita in me la musica di Alvin Curran e la sua poetica. Esse vanno in questa direzione.

Nato a Providence negli USA il 13 dicembre del 1938 e poi trasferitosi a , fu cofondatore, insieme ad importanti figure della scena contemporanea come Richard Teitelbaum, Allan Bryant e Frederic Rzewski, del gruppo di libera improvvisazione “Musica Elettronica Viva”, un noto collettivo aperto a svariate esperienze ed eterogenee collaborazioni artistiche.

Figure molto importanti nella sua formazione sono state anzitutto il suo maestro Elliott Carter, Milton Babbitt e, successivamente, Cornelius Cardew, ma anche figure geniali e più isolate, di difficile identificazione come Giacinto Scelsi.
Più in generale, trasse ispirazione da un ambiente orientato su tendenze neo-dada per elaborare un personale sincretismo musicale, eclettico e fuorviante ma sempre nobilmente spettacolare.

La sua musica è ammirata ed eseguita da importanti interpreti quali The Bang-On-A-Can All Stars, la pianista Ursula Oppens e il Kronos Quartet. In opere più recenti sono previste anche installazioni multimediali e dialoghi con forme artistiche diverse da quella musicale; allo stesso tempo però, il suo interesse torna regolarmente verso gli strumenti tradizionali con la realizzazione di pregevoli opere, anche pianistiche, non di rado di ampie dimensioni.

Prima ho cercato di descrivere la sua arte con una metafora. Ripensandoci, avrei anche potuto usare tre semplici parole: poesia, ipnosi, incantamento. La sua musica è una grande metafora sonora al servizio del dubbio, fondata su segni appartenenti a sfere sensoriali diverse che implicano associazioni totalizzanti e purificanti le più libere.

Istruzioni per l'uso: ascoltando questi suoni il nostro cervello, più che volerli comprendere, sappia rendersi disponibile a divenire cassa di risonanza, secondo una concezione forse più orientale che occidentale della musica e della sua (orribile termine) fruizione.

Non c'è qui il sogno di fondare la magia della creazione sonora su di un edificio razionale, matematico.
Non è musica (ma quale mai lo è, mi chiedo, forse le canzonette di Sanremo?) da ascoltare distrattamente: va rispettata, indossata come un abito e bisogna lasciarsi ascoltare da lei.

Qui non troverete, è verissimo, una sola melodia o un solo brano memorabili, ma soltanto perché tutto è memorabile.

L'arte di Curran è, infatti, joyciana: uno “stream of consciousness” che potrebbe trovare ambientazione perfetta nella mente di Molly Bloom. Simile in questo al primo Stockhausen, ma con maggiore libertà, il musicista arpeggia sulla vita quotidiana e la sublima in brandelli di sogno di schumanniana ascendenza; utilizzando l'elettronica insieme a suoni presi dalla vita reale sa trasfigurarlo, il reale, in immagini sonore mutevoli e fluide che riorientano il nostro ascolto su nuove orbite; ma, ciò che più conta, arrivano a toccare il nostro cuore rendendo possibile l'esperienza della bellezza.

Cosa di cui io ho di questi tempi, non so se anche voi, un disperato bisogno e per questo ascolto spesso questi dischi.
Che posso dirvi di più? Mettetevi all'opera e procuratevi questo bel cofanetto “Solo Works: the 70's”. Anche se non sarà facilissimo, so che ci riuscirete. Esso raccoglie quattro ampi, splendidi lavori che risalgono agli anni settanta ma potrebbero essere stati scritti questa mattina : “Songs and views from the magnetic garden”, “The Works”, ”Dark Flowers, Light Flowers” e il capolavoro “Canti Illuminati”.

Prendetevi quindi una serata in perfetta solitudine, abbassate le luci e iniziate ad ascoltare la voce di questo sciamano. Poi mi direte. Musica free nel vero senso dell'aggettivo, che disorienta e commuove.

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