Il quartetto si è esibito all'Auditorium il 17 marzo

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Sax , , batteria e contrabbasso: il quartetto piano-less non è certo cosa di oggi nella storia del jazz; ricordiamo forse il più celebre, quello composta da Gerry Mulligan , Chet Baker, Carson Smith (basso) e Chico Hamilton o ancora quello che assieme a Mulligan vedeva Art Farmer , Bill Crow , Dave Bailey.

Certo, da allora sono trascorsi molti anni e quel genere di sound, di fraseggio appartiene al passato, ma la formula è ben viva e vegeta e ce lo hanno dimostrato il marzo scorso, all'Auditorium Parco della Musica, Mark Turner al sax tenore, Ambrose Akinmusire alla tromba, Joe Martin al basso e Justin Brown alla batteria.

Nato nel 1965 a Fainborn, Ohio, il sassofonista Mark Turner, è cresciuto ascoltando Dexter , Sonny Rollins e John Coltrane. Dal 1987 ha studiato al Berklee college, dopo di che si è trasferito a New York lavorando, tra gli altri, con James Moody, Jimmy Smith, Ryan Kisor, Johnny King, Leon Parker e Joshua Redman.

Il successo generalizzato è giunto dopo aver inciso per la ECM due album con il trio FLY assieme a Larry Grenadier e Jeff Ballard ( “Sky & Country” nel 2008 e “Year of the snake” nel 2011) e finalmente nel 2013 “Lathe of Heaven” come leader di un quartetto completato da Avishai Cohen alla tromba e dalla stessa sezione ritmica presente a Roma.

Ambrose Akinmusire, californiano, è giustamente considerato una delle nuove stelle della tromba jazz, grazie ad un inconfondibile stile di estrema raffinatezza ed originalità; non a caso ha avuto modo di collaborare con prestigiosi artisti quali Jon Henderson, Joshua Redman e Steve Coleman.

Dal canto loro Joe Martin al basso e Justin Brown alla batteria costituiscono una sezione ritmica in grado di fornire un supporto ritmico di grande leggerezza alla front-line.

Ed in effetti la performance che i quattro hanno messo in mostra nel concerto romano è stata caratterizzata da una musica raffinata, elegante, molto concettuale e molto scritta … quindi assai ben costruita, senza sbavature e soprattutto senza alcuna concessione allo spettacolo…così com'è nella natura del leader.

Senza alcuna voglia di strafare, di stupire l'ascoltatore con fraseggi velocissimi o cascate di note, Turner si è limitato (si fa per dire) ad essere se stesso e cioè un artista dotato di una forte personalità, con un grande talento per la costruzione melodica ed un sound molto, molto particolare. Di qui un dialogo insistito con il trombettista a disegnare atmosfere sempre assai raccolte con ampi spazi lasciati agli assolo dei quattro; il tutto giocato quasi all'insegna della sottrazione, mirando cioè all'esaltazione dell'essenzialità dei suoni, con un controllo assoluto sulla dinamica ed una ricerca timbrica molto curata in cui le pause ed il silenzio giocano un ruolo non secondario. Insomma una musica che necessita di un ascolto attento abbondantemente ripagato da un senso di profondo appagamento; una musica spesso iterativa, a tratti onirica, sempre porta con grande semplicità.

Evidentemente risultati tanto probanti possono essere conseguiti solo se tra i musicisti sul palco esiste un “idem sentire” e non c'è dubbio che questa particolare empatia leghi i membri del quartetto. Tutti sono apparsi funzionali al disegno complessivo. Così ad esempio il trombettista Ambrose Akinmusire, già ascoltato ed ammirato sempre all'Auditorium alla testa di un proprio quartetto, non ha mostrato alcuna ritrosia ad assecondare il disegno espressivo del leader costruendo i suoi assolo senza forzature per non dare troppo spazio a virtuosismi che non gli sono congeniali ed evidenziando quella purezza e limpidezza di suono che gli sono congeniali.

Insomma un gran bel concerto che ci riconcilia con il mondo del jazz particolarmente avaro, in questo periodo, di belle sorprese.

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