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«Se volete imparare la strumentazione non studiate le partiture di Wagner ma quella di Carmen. Che meravigliosa economia, ogni nota, ogni pausa al posto giusto.»

Queste parole pronunciava di fronte ai propri allievi non uno qualsiasi ma Richard Strauss, l’autore di “Eine Alpensinfonie” e “Ein Heldenleben”, opere che hanno rivoluzionato l’arte del colore orchestrale.

Georges Bizet, nato a Parigi nel 1838 e morto a Bougival nel 1879, non ebbe vita né lunga, né facile. Tormentato da da una insidiosa forma di angina pectoris che, forse, lo portò alla morte, anche se non è mai stato fugato il dubbio che si sia trattato di suicidio causato dalla depressione, fu una personalità ipersensibile e insicura, che per tutta la vita cercò l’approvazione di musicisti inferiori a lui o comunque lontanissimi dal suo temperamento come Charles Gounod.

Nel 1857 vinse il “Prix de Rome”, la celebre borsa di studio per giovani artisti istituita dallo stato francese. Gli venne quindi data la possibilità di studiare all’Accademia di Francia a Roma dove si trasferì subito dopo la vittoria fermandosi 5 anni, nei quali ebbe, come da statuto, l’obbligo di consegnare alcune nuove composizioni – cantate, sinfonie – perlopiù da concepirsi secondo canoni classici.

Fu forse il periodo suo più felice; nell’Urbe, grazie anche al successo ottenuto come pianista, si ambientò splendidamente allacciando diversi rapporti umani e professionali con vari personaggi della cosiddetta “Roma bene”.
Qui iniziò anche a scrivere, appunto, la Sinfonia “Roma”, una delle sue migliori opere strumentali, insieme alla giovanile e splendida Sinfonia in do maggiore.

Avrebbe rimpianto, il povero Bizet, questo soggiorno, poiché  al suo rientro a Parigi, iniziò per lui una serqua infinita di problemi e incomprensioni.

Persino la sua Carmen, oggi divenuta il simbolo stesso dell’Opera francese, ebbe la propria palingenesi solo dopo la morte del suo autore, avvenuta tre mesi dopo una prima rappresentazione dall’esito tutt’altro che trionfale.

Inscrittibile nella categoria molto affollata della “musica a programma” Roma è, nella sua evidenza plastica, un paesaggio, una fantasia topografica. L’opera, in quattro tempi, descrive bene soprattutto lo stato d’animo dell’autore in quel periodo, una condizione spirituale, l’abbiamo detto, indimenticabile, e da quest’opera Bizet sembrava non volesse mai staccarsi: 11 anni di rimaneggiamenti, tanti, anche se lontani dal record dell’opera “Nerone” di Arrigo Boito, che lo impegnò per 56 anni e, lasciata incompiuta, fu rappresentata postuma.

E’ musica lieta, fresca, ricca di pura e semplice bellezza.

Siamo all’inizio della Terza Repubblica e in Francia, ma non solo, appare tutto un fiorire di opere di questo genere: musica descrittiva, poemi sinfonici…

Il romanticismo di Bizet fu però molto personale; egli fu infatti sempre anti-wagneriano, negli anni in cui il wagnerismo prendeva decisamente piede in zona francofona, basti pensare a Cesar Franck, nei poemi sinfonici wagneriano fino al midollo. Non è questo un fatto di poco conto… Wagner è indubitabilmente stato per la musica quello che Gabriele D’Annunzio è stato per la poesia italiana: un punto di riferimento ineludibile, con l’inevitabile corredo della ripartizione dei musicisti in wagneriani e anti-wagneriani.

Persino il più originale di tutti, Debussy, prenderà le mosse da Wagner, prima aderendo entusiasticamente alla sua poetica poi staccandosene con il magnifico Pelléas et Mélisande, melodramma che però senza Richard Wagner non sarebbe mai venuto alla luce.

Non fu così per Bizet, i suoi punti di riferimento furono principalmente classici, Beethoven in primis, e in Roma vi sono reminiscenze beethoveniane, in particolare della Settima Sinfonia.

Del Romanticismo, movimento artistico la cui riproduzione culturale molto spesso evita il sorriso, Bizet rivela un’immagine insolitamente serena, nella quale la coscienza si apre alla vita presente e non alla promessa di una realtà migliore, di un equilibrio assoluto sempre differito.

Il CD Naxos contiene altri bellissimi quanto misconosciuti brani: una Marche Funébre, risultato di un precedente tentativo operistico, una fresca Ouverture in la maggiore che fu anche il suo primo lavoro orchestrale, mai eseguito mentre l’autore era in vita, l’Ouverture “Patrie”, dedicata a Massenet, e la piacevole Petite Suite, versione orchestrale di alcuni dei suoi pianistici Jeux d’enfants, gioielli ancora legati ai modelli classici.

L’ho ascoltato più volte non senza emozione questo disco, esso è riuscito, benché Carmen sia tra le mie opere favorite, a farmi riscoprire un autore che non sapevo di amare così tanto.

L’esecuzione è affidata alla compagine irlandese RTE National Symphony, diretta da Jean-Luc Tingaud. Un’orchestra brillante quanto, sotto la bacchetta di questo ottimo direttore, calorosa e persuasiva. Siamo di fronte ad una registrazione perfettamente a fuoco, ma che ha soprattutto il grande pregio di cogliere l’estetica di Bizet nella sua essenza.

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