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“Varie le ragioni per cui si va a teatro. La più comune è per trovare sulla scena la riproduzione di se stessi”. L’affermazione di Alberto Savinio in Palchetti Romani vale certamente anche per l’arte dei suoni. Le gioie, la lotta e le sofferenze della vita non diventano arte se non per un processo di trasformazione poetica: a quest’ultimo – se si realizza- ci si appiglia nella speranza che scocchi una scintilla, si faccia strada un senso, giunga una consolazione.

Naturalmente l’arte, ea ipsa, ha una vita propria e guida la volontà creatrice non meno di quanto quest’ultima creda per altre vie di governare la prima. A volte si potrebbe supporre addirittura che il compito della ragione sia non tanto quello di far nascere e plasmare l’idea, quanto di rivestirla di umanità e di luce.

Alcuni, spingendosi addirittura nel territorio della metafisica, giungono a considerare il cervello né più né meno di un’interfaccia, quasi antenna captatrice di forze trascendenti “sub specie aeternitatis”.

Nel mio piccolo, mi limito a porre in evidenza come, in un mondo che generalmente la emargina, l’arte sia costretta a verificare continuamente il significato della propria sopravvivenza e a scoprirlo nella verità del proprio linguaggio.

Per ragioni storiche che sarebbe lungo indagare, venne formandosi nel dopoguerra un codice musicale così elaborato ed esoterico (il puntilismo, la serialità integrale, la stocastica) da creare un conflitto tra l’opera d’arte, indipendentemente dalle sue qualità, e il suo ineludibile deuteragonista: l’essere umano, “ascoltante” giusta i propri meccanismi percettivi i quali, piaccia o meno, sono dati in dono da Madre Natura. E come scriveva Orazio nelle Epistole “Potrai scacciare la natura con la forca, tuttavia sempre essa ritorna”.

Il predominio di questa koinè culturale, che fece un po’ il deserto intorno, fu un fenomeno internazionale: procedure compositive così totalizzanti fecero si che da Città del Capo a Nuova York, da Sydney a Lampedusa, si producesse musica dello stesso genere, come in un nuovo Classicismo “di ritorno”.

Se anche non mancarono i capolavori si creò una frattura insanabile con il pubblico; il quale tra l’altro già cominciava a vedere la propria coscienza critica inficiata dall’azione martellante dell’industria musicale, impegnata, anche attraverso la legittimazione televisiva, ad abbassare i gusti della massa per far sì che essa non diventasse “critica”.

A partire dagli anni settanta e ottanta, alcuni giovani compositori provarono a contrastare questo duplice attacco frontale cercando di recuperare un rapporto, tanto necessario quanto smarrito in un’alienazione a rischio di futuro. Non fu facile per loro, additati spesso come ‘conservatori’, per non dir di peggio.

In realtà proprio di questo si trattò: rinnovare il linguaggio recuperando la dimensione espressiva, laddove quella speculativa aveva preso il sopravvento.

Fabio Vacchi è, a mio parere, uno dei più significativi rappresentanti di quel rinnovamento, che ha un respiro peculiarmente europeo, poiché In queste lande soprattuto siamo usi fare i conti, pur se spesso in maniera un po’ troppo problematica, con la tradizione.

Ribaltando in qualche modo la concezione di Adorno, di cui preserva tuttavia lo slancio ideale, Vacchi persegue, con la propria musica, «l’identità fra estetica ed etica, fra bellezza ed impegno, in linea col il concetto di kalòs kagathòs caro ai Greci, affinché la musica diventi un punto d’incontro tra la capacità di stupirci e la necessità di specchiarci nell’altro, fuori dall’egotismo parossistico di un potere che, come un cancro, traccia confini invalicabili tra sessi, razze, classi sociali». Queste sue parole, meglio delle mie descrivono il senso del suo lavoro.

Per conoscere Vacchi, il cui catalogo annovera un grande numero di opere orchestrali, da camera e diversi Melodrammi, e la cui musica stata (ed è) eseguita dai maggiori interpreti del nostro tempo come Claudio Abbado, Riccardo Muti, Luciano Berio, Nevile Mariner, Riccardo Chailly, con orchestre quali i Wiener Philarmoniker e i Berliner Philarmoniker, suggerisco di cominciare con questa recente realizzazione DECCA.

Il quartetto d’archi è da sempre il banco di prova di ogni compositore ogniqualvolta questi desideri bloccare la propria voce nella sua essenza più vera. Questo genere è inoltre uno dei più alti procedimenti di verifica del livello di elaborazione tecnica del linguaggio musicale.

Questi quattro quartetti, lo dico senza mezzi termini, sono bellissimi. Avvincenti, ispirati, interessanti e di raffinata struttura sperimentale. Non ci si stanca di ascoltarli e riascoltarli: la musica, vivaddio, nasce dal suono e mantiene col suono un rapporto costante.

Sia questa una legge del cuore, come io credo, oppure un atteggiamento deliberatamente scientifico poco importa: perché lo sperimentalismo di Vacchi non è di tipo pre-sonoro, volto cioè a dissezionare il suono per indagarne le qualità organolettiche al fine di produrre artatamente l’inaudito ; esso denota un’attenzione reale alla musica e alla sua tradizione nel segno però di una narrazione nuova, che non di rado assume le sembianze della magia e del sogno: “E ‘del poeta il fin la meraviglia” scriveva quattro secoli fa Giambattista Marino.

Vogliate, lettori, farvi meravigliare anche oggi dai suoni di Fabio Vacchi, dalle sue delicate architetture.

Più di un cenno meritano infine gli esecutori. Il Quartetto di Cremona è di queste pagine interprete ideale, forse incomparabile. Questo giovane quartetto italiano è meritatamente in cima alla lista dei gruppi cameristici europei e ciò è tanto più ammirevole in tempi come il nostro, dove ogni legame, ogni sodalizio appare vano in tutti i campi della vita dell’uomo.

In anni di tenace attività sono giunti a produrre esecuzioni mirabili come quelle contenute in questo Cd Decca: un’etichetta cui va tributato, al pari degli esecutori, onore al merito. Un disco da ascoltare e da amare, che cordialmente vi consiglio.

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