Classica. Richter e l’op.83 di Brahms: il segno perduto di un grande interprete

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Gualtiero Marchesi, in una recente interessante intervista, definisce l’arte “il porsi in opera della verità”. San Tommaso d’Aquino, non quindi semplicemente un artista come il grande cuoco italiano ma un sommo filosofo, nella sua dottrina dei Trascendentali afferma che ciò che è vero è anche buono.

Per noi comuni mortali, questo è evidente solo quando ci confrontiamo con la grande musica. Essa è capace, nei suoi momenti più alti, di trasportarci a una condizione di sospensione dalle responsabilità; durante l’ascolto di questo secondo Concerto per pianoforte e orchestra op. 83 di Johannes Brahms, ad esempio, la forza tellurica, la tenerezza di questa musica possono farci perdere la nozione del tempo portandoci fuori dalla cosiddetta “vita reale”.
Nulla dobbiamo più capire poiché la musica sa rivelarsi al nostro animo direttamente, se ascoltiamo.

Esagerazioni, voli pindarici? Niente affatto!

In questo concerto, che risulta di limitata spettacolarità esteriore rispetto alle diaboliche difficoltà pianistiche, la novità sta nella maniera in cui Brahms (1833-1897) tratta il pianoforte: non più in chiave brillante, come generalmente avveniva nel passato, ma concertante.

Il pianista non si contrappone all’orchestra come un Titano di fronte agli dei, ma si integra per la prima volta nel tessuto strumentale amplificandone, anziché contrastandone la supremazia. Un tentativo in tal senso era già stato fatto da Beethoven con il suo magnifico quarto Concerto op. 58; come sempre, Brahms da Beethoven prende le mosse, sia pure con un’opera di segno assai diverso.

Moderno Galileo più che novello Byron, Johannes Brahms con questo lavoro apre nuovi orizzonti alla forma-concerto ma nel contempo nasconde, occulta. Il magistero della propria arte si rivela sotto il velo della poesia. Questa musica è tra le più ispirate e complesse che egli abbia concepito: solo in poche altre opere della storia della musica, come ad esempio nella sinfonia “Jupiter” o nel “ Prélude à l’après-midi d’un faune” riscontriamo una simile necessità; nulla qui è raccordo, tessuto connettivo o semplice funzione; tutto è carne, sangue, vita.

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