Casa del Jazz, 6 maggio 2015

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Alessandro Galati casa del Jazz

La ricerca ed il nuovo , nel Jazz, non devono necessariamente portare ad una musica ostica: che il linguaggio cambi non deve significare immancabilmente un ascolto arduo, da interpretare cerebralmente, e a volte persino da “sopportare” per esserne all’ altezza ed elevarsi.

Anzi, a volte quello della difficoltà di ascolto come indice di qualità e rottura con il passato è uno stereotipo che cela una reale incapacità di comunicare, di esprimersi. A volte cela persino una reale incapacità di suonare. Non sempre: a volte.
La ricerca nel Jazz può portare a musica tutt’ altro che ostica. Non è detto che la si comprenda fino in fondo, perché può essere musica difficile, ma quel che è certo è che si attiva una comunicazione tra il musicista ed il suo pubblico: qualcosa di palpitante, che vive in quanto il primo ha bisogno di esprimere se stesso a qualcuno, che è lì per raccogliere suggestioni, emozioni, e ritrovare persino qualcosa di se e del suo mondo raccontato con un altro linguaggio.

In fondo si va ad ascoltare un concerto anche per essere compresi e ritrovare se stessi. Un po’ è anche così.

E’ il caso del Jazz concepito da Alessandro Galati, pianista fiorentino che alla Casa del Jazz ha presentato il suo disco “Seals”, classificatosi in Giappone come miglior disco Jazz dell’ anno. Un curriculum ventennale di tutto rispetto e una musicalità molto personale, che ha come caratteristica proprio quella di avvolgere , di attrarre, di coinvolgere: niente di già ascoltato, per inciso, e niente di facile, anche se il brano che apre il concerto è la notissima “How deep is the Ocean”. Il tema c’è, lo riconosci, lo insegui, ma si cela dietro un arrangiamento suggestivo, in cui batteria e contrabbasso destrutturano l’ andamento ritmico e in cui il pianoforte accenna armonie nuove per poi sospenderle: quella melodia è nell’ aria e ti lascia il benefico desiderio di ritrovarla. E la ritrovi, perché in realtà Galati non la abbandona mai. La fa apparire, quasi (quasi!) sparire, la intreccia con altro materiale, e al momento in cui essa armonicamente dovrebbe risolvere sulla tonica o modulare placandosi, la lascia sospesa, per ricominciare un’ improvvisazione libera eppure sempre coerente e “stretta” a quella melodia.

La melodia, appunto: Galati ama i temi melodici, e li persegue di continuo, filtrandoli, smussandoli, trasfigurandoli magari, lavorandoli e mascherandoli persino con risoluzioni ritmiche inaspettate. Ma sono lì e sono un faro, per lui stesso e per chi ascolta, un faro anche ipnotico , ma un sicuro riferimento. Così accade in “In Bejing”, ad esempio, uno dei tanti brani originali presentati durante questo bel concerto: un incipit orecchiabile, intenso, che rimane impresso e che prelude ad un percorso musicalmente complesso, profondo, e che diviene persino onirico, vista la varietà di soluzioni musicali che quella stessa melodia, rarefatta o compressa, attraversa. Le modulazioni sono molte, suggestive, gli accordi sospesi, stranianti, struggenti, i volumi si intensificano e si concretizzano anche in efficaci ostinati, e poi si torna a quel porto sicuro iniziale, per poi ripartire di nuovo. 
Oppure il percorso è contrario: nel brano inedito e ancora senza un titolo Galati parte dall’ indefinito per poi diventare assertivo. Eppure la cifra melodica esiste sempre, ed evoca immagini e suggerisce scenari .

La musica non è anche forte di un potere evocativo che risvegli sensazioni sopite, diverse in ognuno? Non è forse questo il miracolo che avviene quando un artista ed il pubblico comunicano? E allora il brano sarà anche senza titolo, ma è definito nella sua energia, e si nutre del grande interplay di questo trio empatico: la batteria di Tamborrino è decisiva per l’ atmosfera del pezzo e il contrabbasso di Evangelista struttura fortemente l’ andamento del brano. Un’ empatia che si nota anche in uno dei brani successivi, in cui i tre partono omoritmicamente, e i suoni diventano unico suono di un unico nuovo strumento, fino a quando la mano destra di Galati non riprende a se il racconto. Il racconto può anche sfumare in silenzi periodici, efficaci musicalmente quanto i suoni, e che creano veri tuffi al cuore. In quei silenzi, ogni armonico che rimanga naturalmente nell’ aria è musica, perché il pubblico è costretto ad ascoltare vibrazioni che di solito in un concerto non vengono avvertite. Qui fanno parte del brano, sono in mezzo alla musica , e si è costretti ad ascoltare che quel tacere è tutt’ altro che… silente. E’ una scoperta, è un suono nuovo che stupisce, è bellezza. 
Di ogni brano ascoltato in questo suggestivo concerto ci sarebbe da dire molto, ma non basterebbero le righe, così come, curiosamente, sembrerebbe strano immaginare la musica di questo originale pianista imprigionata nel pentagramma. Eppure, hai ascoltato per più di un’ ora … melodie. E hai capito che la melodia è un mondo sconfinato ancora tutto da esplorare.

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