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TRono di spade

Lang Lang è il pianista del momento, qualcuno dice addirittura il nuovo Vladimir Horowitz. Tutti d'accordo? Non proprio. Lungi da noi il voler insultare il lavoro di una così celebre star, addirittura ambasciatore dell'arte dei suoni. Mentre il cervello sembra andare, fluttuando, verso una conflagrazione finale a livello planetario, questo giovane, con il sorriso tontolone e il piglio inguaribilmente ottimista sembra recarci se non l'ultima, la penultima speranza sul destino del concertismo. Ma il recente show per Expo, presentato in modo eccessivamente disinvolto da Clerici e Bonolis, offre il destro ad alcune riflessioni.
Dire che il pianista cinese non sappia fare il proprio mestiere equivarrebbe a dichiarare il falso. Diamo a Lang quello che è di Lang. È brillante, talvolta ammirevole, uno che, come si dice, “fa la sua porca figura”.
Sappiamo che il mercato ha bisogno di star, cioè a dire personaggi con caratteristiche sacrificali da immolare sull' altare di una del consenso. Cantavano i Pink Floyd: ” Welcome my son, welcome to the machine…”.
Perché, allora, non riusciamo a porre questa pubblicizzatissima star non dico sullo stesso piano ma neppure sugli scranni sottostanti a quelli su cui siedono gli Horowitz, i Gould, i Rubinstein?
Prendiamo il “Rondo alla Turca” di expoiana memoria che, nell'esecuzione del pupone, ha scatenato l'orgasmo in diretta di un cinguettante Bonolis (“Yess!….Ammappete, io così ci suono il citofono!“).
Tempo caracollato, sforzati bartókani, fraseggio in apnea, mimica da “Grinch”, mossette e alzatine ritmiche bicipitali.
Sarebbe questo il prescelto, l'erede del trono di spade?
Horowitz era un funambolo, ma dopo lo sfoggio di farfallini colorati c'era quella musica.
Il gesto virtuosistico era sempre accompagnato da un'eccitazione e i due elementi costituivano una medesima lega. L'arte sua era una gratificazione che perpetuamente si rinnovava: con ciò sia cosa che l'identificazione con la musica era inevitabile. Il suo celebre suono pianistico non era soltanto ciò che scaturiva fortuitamente dalle “note giuste” (che in musica possono talvolta essere la cosa sbagliata) ma vi scorgevi, come nei grandi pittori manieristi, un verde, sotto cui posava una sfumatura di rosa, che pareva effondere non so quale alone azzurrognolo, e così via.
Il timbro, voce del suono, non era mai sovrastruttura, ma forma stessa del racconto. Un'arte sapienzale, forse un inconscio impegno teoretico. Persino quando l' interpretazione non convinceva fino in fondo, e poteva accadere, ogni volta “il Poeta parlava”, come nel quadro conclusivo delle schumanniane Kinderszenen.
Mentre il suo successo motivatamente è destinato ad accrescersi rileviamo, per converso, che l' interesse che Lang Lang riveste nella storia dell'interpretazione rimane, per ora, paragonabile a quello di una puntata di “Giochi senza frontiere”, alla replica di un programma di fine serata.
Secondo andavo dicendo e torno a dire, è un buon pianista, ma non forzateci a considerarlo nuovo Horowitz: non più di quanto Lady Gaga possa dirsi nuova Callas.
Il problema reale comunque credo stia oltre il valoroso pianista cinese.
E' che vorremmo che le dimore fragili delle nostre vite venissero abitate da impeti cavallereschi, nuovi slanci, passioni. Tale agognata identificazione di corpo e spirito non riusciamo a scorgerla, né potremmo, nel dilagante ma palloso circo mediatico, moderna Ade ove Lang Lang veste compiaciuto i panni dello Psicopompo. Le rozze leggi di questo universo tendono a imporci una visione patinata e su tale orizzonte dovremmo plasmare la nostra Weltanschauung.
Allo Zenone narrato dalla Yourcenar toccherebbe preferire il Negromante dell'omonima commedia ariostesca, un praticone di arti magiche che spaccia acqua fresca per oscuro sortilegio.
Perplesso, mi interrogo sul futuro e rimetto sul piatto un LP di Vladimir Horowitz. Faccio un tuffo nel passato e, chissà perché, mi sento bene. Sarà che fuori risplende la primavera.

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