Tra jazz, swing e musica tradizionale il concerto dei Jazzed Up Quartet e Sara Schettini a Rossano

ROSSANO – Riprende venerdì 31 luglio alle 21 alla Masseria Mazzei Le Colline del Gelso di Rossano la rassegna jazz con il secondo appuntamento de Le Colline del Jazz. Protagonisti della serata Jazzed Up Quartet, gruppo di musicisti romani dalla solida esperienza jazzistica con la vocalist, Sara Schettini, dal notevole impatto musicale e scenico.

Il gruppo, molto noto nei circoli musicali romani, è composto da Giorgio Cuscito al sax, Ferdy Coppola, membro della Swing Valley Band, Stefano Colasanti al basso, insegnante presso la scuola romana centro ottava e membro del Cantaloupe Quartet, Quintino Protopapa al piano, arrangiatore con intensa attività live alle spalle.

Una formazione davvero unica ed originale che propone un ricco e vario repertorio di jazz standard: un viaggio che tocca diversi stili jazz dallo swing, alla bossanova con gli standard più famosi ma anche al vintage italian swing senza trascurare i classici della musica italiana rivisitati in chiave jazzistica.

Anche con questa seconda serata “Le Colline del Jazz” si propone il fine ambizioso di creare un evento multiforme, capace di unire musica, arte, storia e cultura locale, fondendo insieme i brani della scaletta musicale con le cene studiate all’insegna delle pietanze, con prodotti biologici e a km zero, e la degustazione dei vini della migliore tradizione, offerti dalla cantina Spadafora.  «In queste serate – spiega la famiglia Mazzei, organizzatrice e promotrice delle Colline del Jazz – si celebra l’incontro tra più generazioni a ricordare come il jazz rimanga una disciplina tramandata attraverso l’esperienza diretta, l’ascolto e lo scambio, una musica intellettuale, spirituale e romantica il cui scopo è quello di arrivare al cuore e far pensare». Altra novità della serata sarà una mostra di quadri dell’Associazione Amici dell’arte.

(altro…)

SIMONA MOLINARI E IL SUO TRIBUTO AD ELLA FITZGERALD A NAVE DE VERO IN JAZZ VENERDÌ 31 LUGLIO

Simona Molinari, con il suo progetto “Loving Ella”, sarà la protagonista dell’ultimo appuntamento con “Nave de Vero in Jazz 2015”, venerdì 31 luglio alle 21.30. La cantante, con la sua grazia e voce strepitosa, regalerà al pubblico di Nave de Vero una serata memorabile: una conclusione in grande stile per la seconda edizione della rassegna organizzata nella Piazza de Vero.

Cantante partenopea di nascita ma abruzzese di adozione, fin da piccola si appassiona ai vecchi musical americani; inizia a studiare canto e a specializzarsi quindi nella musica jazz, canto moderno, improvvisazione e vocalità nero-americana. Successivamente approda alla musica classica, conseguendo gli studi nel conservatorio di L’Aquila.

Nel 2007 inizia a lavorare con il suo produttore Carlo Avarello per la realizzazione di un progetto discografico basato sulla contaminazione tra il jazz e il pop, diventando presto nel genere una delle maggiori esponenti e accordando pareri della critica con giudizio popolare.

Nel corso della sua carriera Simona Molinari ha portato il proprio spettacolo nei teatri e nei jazz club più importanti del mondo e ha collaborato e duettato con artisti di fama mondiale tra i quali Al Jarreau, Gilberto Gil, Peter Cincotti, Andrea Bocelli e Ornella Vanoni.

In Italia è maggiormente nota al pubblico per le due partecipazioni al Festival di Sanremo: la prima del 2009 nella categoria Giovani con il brano Egocentrica; la seconda del 2013 nella categoria Campioni in coppia con il jazzista newyorkese Peter Cincotti con il brano La Felicità che raggiunge il Disco d’Oro.
(altro…)

La storia di “Udin&Jazz” nei 100 scatti di Luca d’Agostino

i 100 scatti

Può la storia di un Festival lunga 25 anni essere adeguatamente compendiata in 100 scatti? Sì, se a scattare le foto è un professionista serio e competente come Luca Alfonso d’Agostino.

Abbiamo conosciuto Luca parecchi anni fa quando siamo stati invitati per la prima volta a “Udin&Jazz”; lo abbiamo ritrovato questi ultimi due anni pronto al sorriso, disponibile, collaborativo e appassionato come sempre… insomma, per dirla fuori dai denti, Luca è uno “che non se la tira…”.

Di converso basta guardare attentamente le sue opere per rendersi conto di come d’Agostino viva la musica: le sue foto mai sono statiche ma raccontano una storia, presuppongono un prima e lasciano immaginare un dopo. “La foto di spettacolo più bella – racconta – arriva quando conosci l’artista fino a sapere quando farà un determinato gesto, perché ci hai passato ore assieme e non ti sei limitato a 3 minuti sotto il palco”.

Per averne ulteriore conferma basta soffermarsi su questo interessante volume non a caso intitolato “i 100 scatti – 25 anni di Udin&Jazz” , scatti che sino a domenica 5 luglio sono stati ospitati dalla Galleria fotografica ‘Tina Modotti’ .

Il volume è diviso in quattro sezioni: la prima, “a/solo”, consta di 52 foto, ed è dedicata a ritratti di singoli artisti italiani e stranieri; la seconda ,intitolata “cerchio/quadrato/triangoli/diagonali”, è composta da 9 scatti in cui Luca evidenzia un gusto particolare per la “costruzione” dell’immagine; la terza, “dialogiche”, comprende 14 immagini  che a nostro avviso rappresentano forse la parte più significativa del volume in quanto “ritraggono” un elemento determinante per il jazz: l’intesa tra i protagonisti di questa musica; nell’ultima sezione – “paesaggi” – possiamo apprezzare 25 foto in cui si narra un’altra dimensione del jazz, quella del contesto in cui questa musica trova la sua ragion d’essere. Insomma una sorta di guida che prendendoci per mano ci permette di capire cosa questa musica ha rappresentato e ancora rappresenta nella realtà di oggi.

Il volume è corredato da una introduzione di Flavio Massarutto che lumeggia efficacemente l’importanza del festival udinese nei suoi 25 anni di storia sottolineando come questa manifestazione abbia saputo ben interpretare i tumultuosi cambiamenti che hanno segnato la storia recente di questa meravigliosa musica. Di qui, scrive ancora Massarutto, “scorrendo i programmi delle 25 edizioni si può cogliere l’incessante sforzo di proporre contesti e contenitori in grado di attrarre il pubblico”… ma nello stesso tempo “la ricerca di artisti innovativi”.

E il merito principale di queste scelte va senza dubbio alcuno al direttore artistico e vera anima del Festival, Giancarlo Velliscig, che interviene a chiusura del volume evidenziando da un canto come il racconto di questo quarto di secolo in musica trovi il suo filo d’Arianna e i suoi contorni precisi  nella memoria grazie ai tasselli disseminati da Luca d’Agostino, dall’altro il fatto che il festival sia stato determinante  nell’aver messo a contatto i grandi del jazz internazionali con i musicisti locali agevolandone la crescita. Il volume comprende anche l’elenco dei cartelloni di tutti questi 25 anni.

Come avrete capito, di foto importanti  ce ne sono tante, comunque alcune ci sembrano particolarmente significative: ecco quindi Jimmy Giuffre del ’93, McCoy Tyner con Michael Brecker del 1996, Amiri Baraka e Pharoah Sanders del 2008, particolarmente emozionante l’immagine di Petrucciani con Velliscig del ‘98, tutti personaggi celebri… ma c’è spazio anche per i giovani: Clarissa Durizzotto, Mirko Cisilino con Leo Virgili del 2012… così come non mancano le immagini attraverso cui si raccontano altri aspetti del jazz: nel 2014 il concerto di Pat Metheny a Villa Manin venne annullato a causa del maltempo e l’istantanea di Luca fa rivivere quei momenti, con il pubblico che si ripara e il palco desolatamente vuoto.

La Prefazione di Luigi Onori al volume Roberto G. Colombo: “Tracce sfumate”

E’ uscito nel giugno scorso un interessa te ed inconsueto volume del chitarrista e musicologo Roberto G. Colombo: “Tracce sfumate. Storie di jazz che le storie del jazz non raccontano” (Erga Edizioni, pp.152,  14 euro).

La prefazione al testo è stata scritta dal nostro collaboratore Luigi Onori e la pubblichiamo (con l’autorizzazione di Colombo) per segnalare le tematiche affrontate.


Tracce_sfumate_559f742f1d7d3

Prefazione

Roberto G. Colombo ha già regalato ai cultori ed agli appassionati di jazz due approfonditi testi dedicati a Django Reinhardt (2007) – con la sua “via non americana al jazz”, uno dei temi centrali nella riflessione dell’autore – e a Charlie Christian (2009) all’interno di “una storia filosofica della chitarra jazz”.

In “Tracce sfumate” Colombo sceglie di raccogliere  sei saggi scritti tra il 2011 ed il ‘15, cui aggiunge un inedito degli anni ’90 (sul rapporto tra solismo e composizione). Passa così dai chitarristi-cardine della storia del jazz (quindi dalla “macrostoria”) ad una serie di “microstorie” che approfondiscono al microscopio argomenti storici, musicologici, organologici spesso tra loro intrecciati che hanno come oggetto musicisti sconosciuti, modelli di chitarra, album celebri… Proporre insieme i sette saggi è anche un’occasione per il lettore di vedere come dietro a studi più ampi ed organici ci sia un lavorìo critico-analitico che nutre ed alimenta le “macrostorie”; indagare su aspetti solo in apparenza secondari consente, in realtà,  di giungere a questioni fondamentali che riguardano il jazz nella sua complessità di musica del Novecento. Il saggismo di Colombo – docente di Filosofia e Storia, chitarrista, musicologo e compositore –  offre infatti una serie di “spaccati musical-discografici” ricchi di riferimenti sociali e critici, documentati con quel rigore estremo e quell’ampiezza dei dati ai quali l’autore ci ha abituato. Il tutto viene espresso con un linguaggio chiarissimo, che poco o nulla concede al letterario o all’aneddotico, anche se in alcune sue parti “Tracce sfumate” è di certo un libro per iniziati.

Al centro – materiale ed ideologico – del volume spiccano i saggi “To Free or Not to Free” e “Parker e i chitarristi”: il primo è lo studio più ampio e l’unico che non abbia come oggetto chitarristi e chitarre ma l’album di Sonny Rollins “Sonny Meets Hawk”  del 1963, studio caratterizzato da una prospettiva di indagine originale di cui si parlerà; il secondo passa in rassegna i chitarristi che hanno attraversato il bop, soprattutto nella sua fase iniziale, per rivelare uno strumentista quasi completamente sconosciuto (Ronnie Singer, morto nel 1953).

L’inizio e la fine del volume vedono, invece, le vicende esemplari di due chitarristi italiani (uno napoletano e l’altro siciliano) quali Henri Crolla ed Alfio Grasso nel loro agire in Francia e in Germania (“Un italiano a Parigi”; “Un italiano a Berlino”). Incastonati tra questi tasselli due saggi “organologici” che hanno come argomento “La chitarra ecumenica” e “La chitarra trasversale”, pagine in cui Roberto G.Colombo scava in modo approfondito e specifico tra liutai, pick-up, registrazioni.

All’interno di questo impianto generale è importante evidenziare un metodo di lavoro e di studio che si fonda su un ascolto attento, analitico e comparato delle fonti sonore, con riferimenti sempre puntuali. Altrettanto l’autore fa con le fonti documentarie italiane e straniere, svolgendo nei suoi scritti una preziosa funzione di divulgazione di una saggistica quasi mai tradotta in italiano; peraltro si sondano, in modo critico, anche le pubblicazioni su web con una precisa azione di filtro e “validazione”.  Ciò, tuttavia, non è volto a fini accademici o di referenzialità ristretta: Roberto G. Colombo con le sue “storie di jazz che le storie del jazz non raccontano” (come recita il sottotitolo del volume) mette in luce argomenti importanti quali la creazione di un jazz europeo non imitativo rispetto a quello americano, il ruolo svolto dalle comunità italiane (e non solo) nel melting pot sonoro americano, il processo di sviluppo artistico nelle sue fasi di crisi e contraddizione, lo scontro/incontro generazionale, i “modelli stilistici” ed il rapporto con essi.

Mi si consenta, ora, di percorrere velocemente i saggi per enuclearne i passaggi salienti, rimandando alla loro lettura integrale perché è questa che davvero conta.

“Un italiano a Parigi” parla di Henri Crolla, chitarrista napoletano vissuto nella Francia della Quarta Repubblica, un musicista che accompagnava, improvvisando, le poesie di Jacques Prévert ed era spesso al fianco di Yves Montand. Egli <<ha dimostrato che è possibile partecipare all’elaborazione di un jazz autenticamente europeo senza necessariamente essere plagiati da colui che ne è stato in qualche modo il fondatore (…) Reinventare Django Reinhardt per legittimare l’aspirazione a praticare la musica afroamericana nel vecchio continente: è stato questo il programma estetico di Henri Crolla, l’ideologo dell’universalità del jazz>>.

Nel dettagliato percorso de “La chitarra ecumenica” si ricostruisce la figura del liutaio dell’Illinois Bill Barker (chitarrista ed insegnante di jazz), esponente di una delle due linee di liuteria impostesi negli Stati Uniti: una linea svedese (a cui apparteneva) e una linea italiana. Egli, contro tutti i collezionismi, <<era convinto, infatti, che le chitarre andassero suonate, piuttosto che esposte o contemplate. La chitarra è, per definizione, strumento: mezzo, non fine. Strumento per esprimere la propria visione del mondo o, più semplicemente, se stessi>>.

“To Free or not to Free?” ha come suo fulcro l’incisione nel 1963 di “Sonny Meets Hawk” da parte di Rollins e Coleman Hawkins al sax tenore, Paul Bley al piano e sezione ritmica, dopo un’esibizione a Newport organizzata da George Wein. Colombo giunge alla registrazione dopo aver passato al setaccio i quattro anni che precedono l’incisione, indagando nelle carriere ed inquietudini dei tre musicisti di differenti generazioni. Si sofferma su Rollins, affascinato dal free jazz e <<dall’idea di poterne essere considerato un autorevole esponente. Ma c’era, in lui, come un freno inibitore che lo tratteneva (…) per dirla in termini freudiani, è un po’ come se il giovane Sonny avesse introiettato la figura del padre elettivo (Hawkins) senza più riuscire, in seguito, a sbarazzarsene>>. Analizza anche il padre del sax tenore ed il giovane pianista di origine canadese così vicino al “jazz informale” di Ornette Coleman. <<Tre percorsi diversi, ma, convergenti, conducono Sonny Rollins, Coleman Hawkins e Paul Bley a incrociarsi sul palco di Newport, per ritrovarsi una settimana dopo in studio di registrazione. Trattasi di rotte di collisione? Apparentemente, sì: futuro contro passato, allievo contro maestro, free come scelta (Bley) contro free come problema (Rollins) (…) Eppure tutti e tre i musicisti condividono la volontà di andare oltre il già noto, di superare se stessi, di contribuire ad un profondo rinnovamento del linguaggio musicale consolidato>>. Qui mi sembra risiedere una delle lezioni fondamentali del jazz, unita all’analisi dettagliata del travaglio che porterà Sonny Rollins a trovare un nuovo, dinamico, possente e meraviglioso equilibrio artistico.

“Parker e i chitarristi” passa in rassegna Tiny Grimes, Arvin Garrison, Remo Palmieri, Barney Kessel per giungere a colui che <<sembra possedere la chiave per tradurre fedelmente sulla chitarra le linee complesse di Bird. Si tratta di Ronnie Singer, morto suicida nel 1953 alla giovanissima età di 25 anni>>. Qui Colombo divulga le ricerche  del chitarrista Axel Hagen, cui si deve la riscoperta recente  di  Singer, basata su una manciata di registrazioni amatoriali dove appare <<il tassello mancante nella storia della chitarra jazz: un esempio inconfutabile di come lo strumento che era stato al servizio delle grandi orchestre da ballo potesse infine padroneggiare, complice la rivoluzione elettrica di Charlie Christian, persino un codice che sembrava essere stato formulato ad hoc per trombe e sassofoni>>. E’ opinione di Hagen – e Colombo è d’accordo – che <<la storia della chitarra jazz si sarebbe sviluppata diversamente se il talento di Ronnie Singer avesse avuto solo il tempo di fiorire attraverso una serie di registrazioni ufficiali>>. Ciò fu concesso (dal destino? dalla Storia? dagli uomini?) a Christian e a Jimmy Blanton ma non a Singer, morto di overdose.

Ne “La chitarra trasversale” oggetto d’indagine è la Gibson ES-300, in particolare quando nel 1946 l’usarono l’esperto George Barnes e <<il novizio>> Django Reinhardt che la impiegò per il tour americano ma che poco era avvezzo allo strumento elettrico. Di grande respiro è l’ultimo saggio – “Un italiano a Berlino” – in cui l’autore si serve delle tesi di Tom Williams per spiegare la costante presenza di italoamericani nelle vicende chitarristiche del jazz e della musica statunitense. Si parte dal “Concerto per mandolino e orchestra” di Antonio Vivaldi per arrivare alle ondate migratorie tra fine Ottocento ed inizio Novecento, gravide di strumenti a corda. Del resto sarà Nick Lucas (Lucanese) ad incidere nel 1922 i primi brani per sola chitarra. In riferimento a Joe Pass, che fu incoraggiato dal padre, Williams precisa che <<il patrimonio musicale italiano (folclorico, classico, operistico) avrebbe fornito il terreno favorevole perché venisse coltivato un talento naturale che, in  altre condizioni, avrebbe potuto essere trascurato (..) aggiungendo che (…) la chitarra (…) in una famiglia di immigrati può diventare una preziosa fonte di reddito  finanche uno strumento di promozione sociale>>. Colombo, dopo aver citato importanti chitarristi italiani quali il friulano Luciano Zuccheri e il pugliese Cosimo Di Ceglie, si sofferma sul siciliano trapiantato in Germania Alfio Grasso. Solista originalissimo, in apparenza senza modelli, si rifaceva – secondo lo studioso italiano – all’argentino trasferito in Europa (1929-1939) Oscar Alemàn.

Ora le “tracce” sono meno sfumate e la storia si è fatta più nitida.

 

Ron Carter ad Atina Jazz XXX edizione

15715_1383524596997_1498449943_31029260_2087973_n (1) 15715_1383524476994_1498449943_31029257_4020349_n (1) 15715_1383524797002_1498449943_31029265_5249322_n

Foto di repertorio di Daniela Crevena

Atina, 25 Luglio, ore 22

Ron Carter, contrabbasso.

Jacky Terrasson, pianoforte.

Payton Crossley, batteria.

Rolando Morales-Matos, percussioni

In questi anni di Jazz, e cominciano ad essere tanti, pochissime volte mi è capitato di vedere il pubblico alzarsi in piedi per una standing ovation.
Solitamente, se il concerto è stato bello, gradito, c’è una entusiastica richiesta di bis, applausi, fischi, urla, ma che tutti si alzino in piedi non è cosa molto usuale. Ad Atina Jazz, arrivata al suo trentennale, sabato sera tutta la piazza si è alzata in piedi davanti ad un artista che continua ad essere un mito del Jazz. Continua ad essere IL Jazz.
E i motivi sono, prima di tutto, musicali, e non “folcloristici”. Ron Carter è tutt’ altro che un simulacro del Jazz degli anni mitici di Miles Davis.
Ron Carter è un grande contrabbassista. Lo dimostra il fatto, ad esempio,  di aver scelto per questo concerto in cui egli figura come leader una formazione potenzialmente deflagrante (che prevede batteria e percussioni), senza la paura di venirne fagocitato.  Ciò che gli preme è il risultato complessivo, la musica, il quartetto  nel suo insieme: non certo  “fare i numeri” con il suo contrabbasso. Non ha bisogno, Ron Carter, del silenzio intorno, per emergere: gli basta il suo carisma, il suo suono inconfondibile, la sua sensibilità armonica, il suo personalissimo fraseggio.
Del contrabbasso percorre tutte le potenzialità: armonica, nei momenti in cui lo spessore del suono è totale e decide di contribuire a rendere tondi e strutturati gli accordi del pianoforte; melodica, quando durante gli assolo fa cantare il suo strumento con voce intensa regalando vere e proprie nuove “composizioni” estemporanee , non semplici improvvisazioni ma piccoli brani con una loro vera e propria struttura; ritmica, quando sapientemente inventa riff insieme a batteria e percussioni,  o impone efficaci stop time che nutrono i suoni precedenti e successivi incorniciandoli con silenzi provvidenziali e suggestivi, o dialogando quasi da percussionista con Morales Matos e Crossley.

Ron Carter suona in quella sorta di pacifica e sognante trance che è tutto fuorché esibizione estetica – voglia di stupire – compiacersi narcisisticamente sul palco. Il lavoro di scegliere un repertorio piacevole per chi ascolta è un lavoro svolto prima. Carter vuole comunicare, con il suo stile, e si prepara il terreno per questo. Dunque si troverà nella scaletta anche una “My funny Valentine”, davanti alla quale i più severi jazzofili diranno “no! ancora! ” . Ma quella “My funny Valentine” è tutt’ altro che ammiccante, o strappa applausi, o gigiona, o furba. Ron Carter la suona da Jazzista, nel suo modo leggere il brano, amandola, trasformandola, filtrandola. Una volta sul palco Ron Carter viaggia, ed è la musica a parlare per lui.
Terrasson, Crossley, Morales  – Matos sono avviluppati anch’ essi in questa atmosfera benefica e a loro volta pongono di continuo spunti creativi, ognuno con la sua personalità ben definita: con un un simile leader, che non ha paura delle caratteristiche personali dei suoi compagni di viaggio, il risultato è pieno di colori, di suggestioni, armonicamente cuciti in un’ unico flusso di suoni.
Terrasson ha un pianismo estroverso ed elegante. Crossley un drumming intenso, preciso e connotato da una squisita compostezza – potremmo chiamarla così . Morales Matos è entusiastico ma mai debordante, e inventa raffinatezze che si intrecciano in un dialogo speciale con il contrabbasso. L’ interplay è perfetto. Il pubblico è in visibilio, ed applaude in piedi, in una piazza già bella di per se, e stasera ricolma di musica: Antonio Pascuzzo, direttore artistico di questa importante trentesima edizione, può ben vantarsi di aver fatto centro.
Aggiungerò una riflessione. Ron Carter è vestito, sempre, in maniera elegante, impeccabile. Allora i soliti maligni potrebbero parlare di pura vanità, ininfluente ai fini della musica. E invece no: secondo me Ron Carter prova una forma di profondo rispetto verso il Jazz, verso il palcoscenico, e anche verso il pubblico. Un concerto è un evento di grande rilievo, per Ron Carter. Il pubblico è importante. Quando appare sul palco si ha la sensazione che stia per accadere qualcosa di irripetibile, di unico. Gli americani, davanti a tale carisma, e anche di fronte a tanta umiltà, esclamano, a ragione, “Respect”.

Renato Strukelj: Il jazz deve ritrovare un suo pubblico

Musicista eclettico, in possesso di una solida preparazione di impronta classica, Renato Strukelj è una delle punte di diamante del jazz friulano. Pianista e arrangiatore di vaglia, ha presentato a “Udin&Iazz” il suo ultimo lavoro discografico, “Giammai”, con Maurizio Giammarco. E noi lo abbiamo intervistato proprio all’indomani dell’applaudito concerto svoltosi presso la Corte di Palazzo Morpurgo il 29 giugno scorso.  

-Come valuti la situazione del jazz nella tua regione, in Friuli?

“Attualmente in Friuli c’è molto movimento e quindi numerose proposte di carattere anche assai diversificato, non necessariamente legate alla tradizione, ma innovative e sperimentali. Sulle varie riviste leggo anche che il jazz proveniente dal Friuli viene apprezzato anche al di fuori della nostra regione e quindi sono ben orgoglioso di far parte di questo movimento”.

-In un tale contesto, ci pare di poter dire abbastanza positivo, che ruolo hanno avuto le autorità pubbliche? Cioè il jazz è in qualche modo sostenuto con appositi finanziamenti?

“Credo che un ruolo determinante l’abbiano svolto dapprima i musicisti con la propria tenacia e caparbietà; poi magari qualcuno s’è accorto che c’era del materiale da poter valorizzare per cui effettivamente qualcosa si è mosso. Comunque risulta sempre difficile trovare gli sbocchi perché spesso i primi passi bisogna farli da soli e le vetrine per i musicisti locali non sono molte. Ora ho potuto partecipare a questo Udin&jazz e per me è stata un’occasione molto importante, anche perché ho avuto modo di suonare con un grande nome del jazz quale Maurizio Giammarco”.

-Vista la reazione del pubblico, mi sembra che il concerto sia andato piuttosto bene…

“Sì, anch’io ho avuto la stessa sensazione e ne sono ovviamente felice. Ne ho parlato con Maurizio (Giammarco) e abbiamo convenuto sul fatto che nonostante siano stati fatti finora pochi concerti – quattro o cinque – il gruppo abbia sviluppato una bella intesa. In effetti, il mio trio completato da Simone Serafini al contrabbasso e Luca Colussi alla batteria, ha già una buona intesa di base e solitamente ognuno di noi fa molta attenzione a rapportarsi con l’ospite che accompagniamo, in questo caso Giammarco”.

-Tra l’altro vorrei dire che la sezione ritmica è una delle più collaudate non a livello regionale ma a livello nazionale…

“Sì, Luca e Simone hanno un’intesa straordinaria determinata dal fatto che sostanzialmente vivono assieme, provano e studiano insieme da una decina di anni, suonano in diverse formazioni, per cui si trovano a menadito. E questo durante i live si percepisce immediatamente: basta un’occhiata e qualsiasi problema viene risolto all’istante. Al riguardo c’è da sottolineare come, anche quando si suona a livello professionale, le cose riescano assai meglio se di base c’è anche un’intesa sul piano umano, caratteriale”.

-Come ti sei avvicinato alla musica e in particolare al jazz?

“Ho cominciato con gli studi classici, mi sono diplomato al Conservatorio di Udine ho provato la carriera concertistica, ma ben presto mi sono accorto di non essere adatto a fare il concertista classico. Quindi mi sono lasciato prendere dal jazz, passione che ho sempre coltivato perché mio padre, ex sassofonista, mi proponeva sin da piccolo l’ascolto degli standards. Ricordo che insisteva nel farmi affrontare brani di Cole Porter, George Gershwin, Hoagy Carmichael e soprattutto brani importanti come “Smoke gets in your eyes” ricchi di melodie suadenti e giri armonici affascinanti. Io ci provavo senza sapere esattamente come interpretare a dovere le sigle degli accordi più complessi. In seguito, studiando con Glauco Venier, che mi ha aiutato particolarmente nella prima fase, e poi con Renato Chicco che mi ha dato solidi consigli e spunti importanti per l’accompagnamento e l’improvvisazione, ho cominciato ad intravedere una strada percorribile. L’orecchio classico però mi portava spesso ad apprezzare in maniera particolare la musica di Bill Evans e forse questo ha paradossalmente rallentato un po’ il mio percorso”.

-In che senso?

“Nel senso che entravo nel grattacielo del jazz dal diciasettesimo piano, non dal piano terra … Trovavo le affinità tra Bill Evans e certi autori impressionisti quali Debussy, Ravel ,ma mi mancava un solido studio del linguaggio base, lo stride piano, lo swing, il bebop…insomma tutti quegli elementi che prima ancora di Bill Evans risultavano di fondamentale importanza nel pianismo jazz tra gli anni ‘40 e ‘60 . Quindi ho cercato di recuperare facendo un percorso a ritroso che è stato lungo e faticoso. Ho pensato di partecipare ai vari importanti seminari e workshop in Italia tra cui in particolare citerei quelli con Barry Harris e Kenny Barron. Contemporaneamente ho continuato ad ascoltare il filone evansiano, quindi Jarrett, Mehldau e ho frequentato workshops con Kenny Wheeler , John Taylor, Fred Hersch. Di conseguenza il mio modo di sentire e di suonare risulta ad oggi necessariamente composito e non saprei dire in quale percentuale sia basato sulla tradizione americana, nera, oppure si poggi maggiormente sullo stile europeo o neo-classico. Vorrei sottolineare però l’importanza che ha avuto per me John Taylor per la ricerca della “musica nella musica” , ovvero il desiderio di ricavare da ogni elemento musicale un contenuto superiore e profondo. Attualmente quindi, sono alla ricerca di un linguaggio personale basato su un equilibrio fra tradizione swing e bebop, Bill Evans, John Taylor, sperimentazione, musica classica”

-Frequenti ancora questo territorio?

Continuo a studiare musica classica e lo ritengo un fattore molto importante anche perché risulta determinante per lo sviluppo di una buona tecnica”.

-Ti sei mai cimentato nel campo della musica contemporanea?

“Se intendi contemporanea … diciamo “colta” … in realtà no; ho affrontato l’improvvisazione totale in campo jazzistico ma questa è altra cosa. Mi sono fermato alla musica del tardo ‘900. Al riguardo il musicista che amo in modo particolare è Alexander Skrjabin tant’è vero che alla prova di diploma ho portato una sua Sonata, la n.10 op.70, quindi l’ultima dell’ultimo periodo compositivo. Ricordo che nell’ affrontarla notavo delle attinenze con le armonie di Bill Evans e tutto sommato anche del jazz in generale, tanto che in molti casi per decifrare e rendermi più familiare il contenuto armonico della Sonata facevo largo uso di sigle jazzistiche. In effetti, analizzando la sonata attraverso le conoscenze armoniche jazzistiche ho potuto verificare quali fossero degli elementi comuni. Ho cercato di approfondire e provare a tracciare un filo conduttore tra Skrjabin ed il jazz ed ho individuato in Joseph Schillinger, un didatta e musicista russo, una figura di collegamento. Trasferitosi nei primi anni del ‘900 a New York, Schillinger ha portato con sè le innovazioni che a Mosca aveva sentito da Skrjabin: armonie estese…undicesime, tredicesime, accordi alterati, amore per il tritono… Ci sono degli accordi di Skrjabin che contengono addirittura tre tritoni, oppure poliaccordi formati da due o tre triadi diverse sovrapposte, o ad esempio il cosiddetto “Accordo mistico” che nel jazz potremmo paragonare ad una tetrade Lidia-Dominante. Joseph Schillinger è stato uno degli insegnanti di George Gershwin soprattutto nel periodo della composizione di “Porgy and Bess” e in quest’opera si individuano delle attinenze con la musica di Skrjabin come ad esempio nella sezione B di “I Loves you Porgy”, dove troviamo sette-otto accordi con quinte e none alterate in rapida successione che fanno suonare l’episodio molto “jazzy” ma al tempo stesso anche skrjabjniano!”.

-Se non sbaglio tu hai anche preparato un progetto piuttosto originale su Skrjabin…

“Si, ho preparato un progetto su Skrjabin che nasce proprio dal fatto che il mio sentire , dopo il diploma di musica classica, collegava i due mondi forse anche in maniera inconscia. Ho estrapolato dei temi , dei frammenti dalle composizioni di Skrjabin e li ho rielaborati in chiave jazzistica, cercando però immediatamente, come primo must, di evitare il kitsch che è sempre in agguato in operazioni di questo tipo. Ritmicamente ho cercato di usare molto poco lo swing”.

-Credo tu voglia riferirti all’album “Round about Skrjabin” inciso per Artesuono nel marzo del 2010 con Saverio Tasca al vibrafono e Giovanni Maier contrabbasso.

“Esatto. In questo album penso che ci sia solamente un 5-10 % di swing a scapito invece invece di un largo uso di soluzioni ritmiche in ottavi regolari. Il progetto è nato parlando con il contrabbassista Giovanni Maier ed il vibrafonista Saverio Tasca anche loro estimatori di Skrjabin. Successivamente ho dedicato due anni a ricercare ed elaborare il materiale per questo progetto.”

-Tutto ciò ha influito sulla tua maniera di comporre?

“Credo proprio di sì; l’ascolto attento, lo studio della musica di Skrjabin in qualche maniera ritorna nel mio approccio alla composizione e all’improvvisazione. Cerco però sempre di trovare un equilibrio, perché nel jazz ci sono comunque dei canoni ai quali bisogna in qualche modo sottostare; nonostante non sia una musica fatta di regole e dogmi, ci sono degli obblighi sottintesi e delle prassi che è bene rispettare. In questo la ritmica che ho attualmente ( Serafini e Colussi) mi aiuta molto perché conosce numerose stimolanti soluzioni di accompagnamento e quindi mi indirizza e mi sostiene nell’improvvisazione”

-Attualmente a quanti progetti lavori?

“Credo che si debba lavorare a tanti progetti per scoprire quali veramente siano quelli da portare avanti. Recentemente ho suonato con Ares Tavolazzi e Nico Gori e anche in questa occasione si è creato un buon feeling, ma per ora non abbiamo sviluppato un progetto preciso. Inoltre sono ancora attivo nel campo classico: in particolare in questo periodo ho un gruppo molto singolare composto da ben dodici pianoforti con cui affrontiamo un repertorio che va da Bach a Mussorgsky, finanche alla musica balcanica e al pop. Con questo progetto si cerca di avvicinare il pubblico alla musica classica. E’ un’esperienza assolutamente diversa, ma molto interessante perché ci sono, come dicevo, dodici pianoforti con altrettante partiture diverse”

-Gli arrangiamenti sono tuoi?

“No, sono prevalentemente di Valter Sivilotti, un compositore friulano molto bravo, e di altri pianisti che fanno parte di questo gruppo. Inoltre lavoro spesso con delle vocalist. Mi piace accompagnare e così suono spesso con cantanti e tra queste mi trovo particolarmente bene con Francesca Bertazzo che è una cantante/chitarrista di Bassano del Grappa. Mi piacciono molto i quartetti vocali nello stile “Manhattan Transfer” oppure “New York Voices”: uno dei miei sogni nel cassetto è di riuscire a formare una big band con un quartetto vocale… Peraltro talvolta mi piace suonare in gruppi senza batteria come nel progetto discografico che ho realizzato nel 2004 con Salvatore Maiore al contrabbasso e Kyle Gregory , trombettista e flicornista americano. Il titolo dell’album , “Liricordo”, riassume in una sola parola il tentativo di legare assieme due importanti aspetti musicali, il lirismo e l’accordo”.

-Quanti album hai inciso?

“Di jazz sostanzialmente quattro. Il primo album è stato registrato nel ’98 in trio con Luca Colussi alla batteria e Roberto Franceschini al contrabbasso; questo CD, dal titolo “Se” (Aua), è dedicato al mio paese di nascita, Cave del Predil, che si trova nella punta estrema dell’Italia a Nord-Est. Un paese singolare che si è sviluppato attorno ad una miniera. Ho vissuto la mia gioventù in questo paese ricco di iniziative ed attività culturali dovute al fatto che la miniera offriva molto lavoro e senso di aggregazione e di conseguenza c’era un’intensa vita socio-culturale: c’era una scuola di musica, balletto, teatro e penso che sia nata proprio da lì la mia passione per la musica; ho voluto dedicare questo disco al mio paese per celebrare questo strano ma validissimo connubio tra la fatica del minatore e la voglia di fare attività artistiche, musicali, teatrali. Poi c’è stato “Liricordo” (Splasc’h) nel 2004 con mie composizioni influenzate in modo particolare da un seminario con John Taylor e Kenny Wheeler . Nel 2010 è uscito “Round about Skrjabin” (Artesuono) su cui ci siamo già soffermati in precedenza. Per ultimo c’è “Giammai” (Artesuono), progetto con il quale credo di essere giunto ad un’efficace sintesi compositiva. E per questo lavoro di sintesi tra la complessità e la semplicità un “orecchio” di riguardo è andato anche nei confronti del pubblico cercando di non eccedere in complessità forzate fine a se stesse. E’ vero che nel jazz la ricerca, la sperimentazione e l’improvvisazione sono elementi di primaria importanza, ma ritengo ci sia bisogno di comunicare maggiormente con il pubblico, altrimenti finisce che ce la cantiamo e ce la suoniamo da soli”