Udine&Jazz 2015 – Intervista con il grande flautista friulano

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Massimo De Mattia è uno dei principali esponenti della musica improvvisata o forse sarebbe meglio dire della composizione istantanea. Flautista autodidatta, di assoluto livello internazionale, ha al suo attivo una lunga carriera costellata da alcune produzioni discografiche mai banali. A Udine ha tenuto un applauditissimo concerto il 30 giugno e noi lo abbiamo intervistato il giorno dopo.

-Tu sei a ben ragione considerato uno dei massimi esponenti della cosiddetta “area creativa”; ma per te cosa significa improvvisare?
“A questo tipo di concezione sono arrivato per gradi sviluppando tutto il percorso che prevede la pratica dell'improvvisazione jazzistica. Quindi gli standards, la frequentazione delle pagine più rilevanti del be bop, hard bop etc… Sono approdato all'improvvisazione libera ben consapevole della mia vocazione, sento di esprimermi bene in questo ambito creativo. Io credo davvero nella musica organizzata istantaneamente, o meglio, nella composizione istantanea più che nella improvvisazione tout court, perché questo termine presenta spesso risvolti ambigui e in realtà prima ancora credo nella libertà”.

-Sì, ma il termine libertà abbraccia campi molto vasti; qual è quello che in particolare si riferisce alla tua musica?
“Si tratta di libertà sempre sorvegliata, mai arrendevole al caso … insomma una sorta di liberazione individuale e collettiva attraverso la musica ma sempre con molta attenta consapevolezza, coscienza e soprattutto con un atteggiamento etico”.

-Costruendo la musica secondo queste modalità, non c'è il pericolo che vengano fuori dei patterns, dei modelli che si sono introitati in precedenza?
“Sì, assolutamente; il rischio è molto forte … dipende dalla sincerità e onestà dell'approccio alla libertà … concetto che ovviamente non vale solo per la musica… sono convinto che questo modo di perseguire la libertà nella musica sia un punto di arrivo, al di là del percorso formativo di ognuno nell'arte, nella vita sociale, nella visione politica, del mondo, delle letture che hai fatto, del bagaglio culturale con cui ti sei attrezzato. Poi, tornando alla tua domanda, è inevitabile che i retaggi affiorino e ci confondano talvolta, e che di conseguenza si inneschino certi automatismi … la libertà ‘musicale' ti espone a rischi grandi, a momenti di impasse spesso perfino drammatici, di stasi creativa; sono proprio questi i punti in cui rischi di ripeterti, di cadere nei luoghi comuni, di celebrarti, di tradire te stesso … insomma di essere poco onesto, poco etico”.

-Come evitare, allora, questo pericolo?
“Come dicevo si tratta di un percorso di vita, di crescita individuale per cui l'ideale è di aspirare ad un tipo di libertà nella musica che sia pura”.

-Come si concilia questo concetto di libertà con il fatto che, ad esempio, nel concerto di ieri sul palco c'erano i leggii con relativi spartiti?
“La libertà non è incompatibile con la disciplina, la scrittura, la struttura. Intendo struttura mentale, oppure schema compositivo atto a permetterti di agire all'interno di questo spazio amministrando il flusso del tuo discorso, proprio come si fa quando si parla. Quando noi colloquiamo sostanzialmente improvvisiamo ma occorre mantenere comunque un controllo sul senso, altrimenti diventiamo ostaggio del caso e del caos. Noi non vogliamo fare musica a caso, vogliamo fare musica secondo logica”.

-Questo significa che nel corso delle esecuzioni ci sono dei punti di incontro, degli appuntamenti prefissati? Insomma come intendi la struttura del brano?
“Non sempre premeditiamo degli appuntamenti. Ad esempio per il concerto di ieri sera a Udin&Jazz (“The Erotic Variations” con Luca Grizzo e Alessandro Turchet) avevamo prestabilito alcuni punti di incontro o di fuga e quindi un minimo di stesura, meglio, una drammaturgia, però semplicemente come pretesto, occasione, giusto proprio per orientare la bussola di tanto in tanto. Un concerto comporta una liturgia. Più spesso scelgo la libertà assoluta e non prevedo parti scritte; cerco di lavorare su strutture temporali oppure evidenziando e condividendo intenzioni, quindi: la dinamica, il pieno e il vuoto, la prospettiva, la rinuncia, l'omissione, la sottrazione … e questi sono i criteri che abitualmente mi guidano per garantire forme adeguate ai contenuti”

-La musica ascoltata ieri era molto materica; è un tipo di musica che frequenti abitualmente o l'esperienza è limitata a questo particolare trio?
“La mia musica è sostanzialmente densa e materica: il mio approccio allo strumento, in virtù di una formazione da autodidatta, non è certamente di tipo accademico. Sto cercando ancora di costruire un mio particolare e personale linguaggio; lavoro molto su multifonici, armonici, uso del corpo, della voce, utilizzo in forma percussiva mani, dita… diteggiature anomale che ho elaborato, un fraseggio spesso rotto, spaccato… a tutto questo si innesta il suono dei musicisti con cui collaboro… le persone non si incontrano a caso… si cercano, specialmente se parliamo di questa musica. Il mio modo d'essere quindi è anche il risultato della crescita che mi ha garantito la lunga frequentazione di persone forti, ad esempio Giovanni Maier (contrabbassista n.d.r.), Daniele D'Agaro ( sassofonista e clarinettista n.d.r.) Claudio Cojaniz (pianista n.d.r.), Zlatko Kaucic, Bruno Cesselli. ”.

-Queste concezioni di musica libera, improvvisata che analogie o viceversa che differenze presentano rispetto al movimento “free”?
“Il movimento free è stato un lungo momento culturale, storico, artistico di fondamentale e assoluta importanza. E' stato un movimento di liberazione intellettuale e sociale di estrema rilevanza, dal mio punto di vista, emblematico e rivoluzionario. Ha suggerito l'idea e la promessa possibile, non più come utopia, di nuclei sociali paradigmatici di un mondo ideale. Detto questo, il free è un lungo periodo artistico oramai storicizzato: non si deve più parlare di free jazz perché oggi la musica è UNA, una sola; quindi forse bisognerebbe parlare della nostra come di una musica ad alto tasso di libertà rispetto ad altre piuttosto che di Free; tutto ciò ora prescinde dagli stili, dai generi: ci può essere libertà nel rock, nella musica “colta”, in quella popolare… è un argomento molto ampio e secondo me oggi, come una cinquantina d'anni fa, offre risvolti illuminanti dato il momento storico e di pensiero che stiamo vivendo. L'approcciarsi a questa nostra musica presuppone un feroce desiderio di democrazia, consapevoli che il nostro arbitrio farà inevitabilmente i conti con l'arbitrio altrui e che il nostro spazio dovrà essere condiviso. Questo secondo me è progressismo vero, sincero ed è molto bello da con-vivere”.

-Non pensi che sotto questo ombrello della libertà, così come è successo con il free jazz, possano trovare rifugio clamorosi bluff?
“Purtroppo sì: il rischio è molto alto e sta a tutti noi non mistificare, guardare bene intorno, sorvegliarci e sorvegliare, soprattutto non mentire mai al pubblico e agli altri, perché l'etica è tutto, anche per le persone che hanno a cuore e che si occupano di questa musica come voi – giornalisti e critici – che la vedete nascere, svilupparsi e giungere a livelli artistici anche importanti. Comunque, come dicevo prima per rispondere alla tua domanda, sì, il rischio è molto elevato”.

-Parliamo della tua ultima realizzazione discografica: il doppio album “Skin” realizzato con Caligola. Perché questo titolo e che cosa rappresenta l'album nella tua carriera umana ed artistica?
“ ‘Skin' ovviamente traduce Pelle, ho voluto fare il punto del nostro stato incontrando i musicisti dell'area friulana e veneta con i quali in passato ho avuto i rapporti più significativi; credo molto nel fatto – come dicevo prima- che le persone si riconoscano e si cerchino: ho deciso di far loro visita nei propri spazi abituali. Ecco, invece di coinvolgerle in un luogo forse troppo rigido, frigido, sterile, all'interno di uno studio di incisione, ho preferito armarmi di registratore digitale e documentare alcuni momenti di convivialità creativa. “Skin”, come hai detto, è un CD doppio ma con tutto il materiale raccolto avrebbe potuto essere un triplo, quadruplo… ho dovuto e voluto distillare, tagliare, mondare. Questo tipo di approccio, la composizione istantanea, ti consente di entrare immediatamente in sintonia, di parlare con chiunque senza blocchi linguistici, culturali e geografici. Rende immediati e facili i rapporti ”.

-Il Friuli-Venezia Giulia si sta dimostrando una regione straordinariamente ricca di talenti; a cosa attribuisci tale fenomeno?
“E' davvero difficile rispondere a questa domanda. Per molti anni abbiamo creduto che questo si spiegasse grazie al fatto che il Friuli è terra di confine, di passaggio; invece adesso sta diventando – me ne rendo perfettamente conto – non solo per noi veterani ma anche per le nuove generazioni un'area di riferimento. Insomma si sta sviluppando qualcosa che per contagio si propaga, grazie agli intrecci che siamo riusciti a creare, al lavoro importante svolto da alcune forti personalità quali Giovanni Maier, Zlatko Kaucic appena al di là del confine Sloveno, Bruno Cesselli, che lavorano con i più giovani, portano idee nuove in conservatorio, creano nuove aggregazioni. L'esperienza di DobiaLab, ad esempio. E' una realtà, quella friulana e si sta consolidando. A questa esistenza stanno guardando con interesse anche altre aree del Paese, regioni magari in cui accadono fatti altrettanto importanti ma più episodici”.

-Come sei arrivato al Jazz?
“Il mio percorso non è quello classico. Ho iniziato a suonare a undici anni nella banda della mia città, Pordenone. Il mio maestro di musica, Mario Volpe, insegnava vari strumenti ed è stato lui a impostarmi. Ma mi considero un vero autodidatta”.

-Ti sei indirizzato immediatamente al ?
“Sì, è stato un amore immediato, a prima vista, amore mai tradito”.

-Come mai questa scelta di uno strumento abbastanza atipico almeno per il jazz?
“Me ne sono innamorato ascoltando Ivano Fossati con i suoi ‘Delirium'. La cosa potrà sembrare strana oggi ma agli inizi Ivano era un valente flautista. Inoltre in quegli anni, primi '70, il flauto era presente in tutti i gruppi più importanti della scena rock, pop, prog, un po' come la chitarra elettrica: “Traffic”, i “Focus”, la “Premiata Forneria Marconi”, gli “Osanna”, “Jethro Tull”, “King Crimson”. Al jazz sono arrivato come conseguenza di uno spostamento di interesse da Jan Anderson a Roland Kirk e quindi a tutto il patrimonio del Jazz, non solo flautistico”.

-C'è un qualche modello ideale cui hai fatto riferimento?
“I modelli sono inevitabili, per quanto riguarda il flauto mi piacciono soprattutto i flautisti meno allineati… ad esempio Julius Hemphill. Ovvio che in cima a tutti pongo Eric Dolphy; volendo puntualizzare occorre ancora dedicare ripetuti ascolti e forte attenzione al suo assolo in “You don't know what love is”, nella versione contenuta in “Last Date”: la zona finale del brano offre formule future tutte ancora da decifrare”.

-Si può dire che in qualche modo la tua musica sconfina nel campo della musica contemporanea?
“Come asserivo prima, credo nell'unità della musica, oggi inevitabile. Il musicista oggi deve saper osservare tutto. Parlando del flauto, Musica Jazz e Contemporanea hanno assicurato un domani a questo strumento. Un fatto interessante è poi che certa musica (Nono) sia stata e sia pensata e composta “addosso” a certi interpreti“.

-Resta però il fatto che molta della musica contemporanea resti inascoltabile anche per un pubblico non proprio di digiuno di conoscenze musicali…
“E' vero! Forse in questi ultimi anni, anche nell'ambito del jazz, abbiamo sbagliato tipo di messaggio… bisogna arrivare più vicino alle persone. Il pubblico del jazz sta invecchiando, molto; abbiamo bisogno di avvicinare i giovani, che non sono refrattari. Si tratta solo di trovare il linguaggio giusto, più adatto per far breccia nella loro sensibilità”.

-Io credo che, nel campo della musica contemporanea, molti compositori pensano solo a sé stessi senza alcun riguardo per il pubblico…la musica è un linguaggio, se non comunichi resta lì…
“Sono assolutamente d'accordo con le tue considerazioni. IL compositore deve avere un atteggiamento più democratico nei confronti del pubblico. Questo non significa scendere a patti, significa cambiare atteggiamento: talvolta abbandonare il palcoscenico e stare di più in mezzo alla gente… non restare arroccato nei teatri ma scendere in piazza, andare nei quartieri popolari, uscire dai salotti, visitare le periferie, arrivare alla gente, portare doni”.

-Progetti?
“Tra poco pubblicherò un cd con “Setole di maiale”, “Meats”, una registrazione per flauto solo; era già deciso, poi farò un lunga analisi coscienziosa. Penso che talvolta si debba anche rimanere fermi, immobili e concentrati, scrivere, leggere, pensare, evolvere. E promettersi d'essere più pragmatici; ottimizzare, dare e condividere di più. Che senso ha fare altri dischi? Bisogna ristabilire un certo senso del pudore. Bisogna sapersi autocensurare. Se potessi toglierei di mezzo molto di quello che ho pubblicato; vorrei poterlo fare, vorrei ci fosse meno musica inutile”.

Foto Luca d'Agostino/Phocus Agency © 2013

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