Lo stregone ammalia anche il pianoforte

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Dino Saluzzi, bandoneonista e compositore argentino nato nel 1935, non appartiene in apparenza al mondo della cosiddetta musica classica e neppure a quella nicchia mondiale conosciuta sotto il nome di ‘musica contemporanea', come se la contemporaneità fosse un genere, una tipologia precisa dell'oggetto e non l'agire nel proprio tempo; o saperlo travalicare che è dono di pochissimi. Saluzzi è un musicista del popolo, uno Stregone, uno che insegue, direbbe Borges “l'altra tigre, quella che non è nei versi”.

In un'intervista di molti anni fa si chiedeva ad Astor Piazzolla di enumerare i colleghi secondo lui più significativi nell'esprimere la famosa poetica del ‘tango' argentino. Piazzolla, che non ebbe in quel frangente parole particolarmente benevole per nessuno, nominò Dino Saluzzi esprimendo ammirazione ma anche la propria distanza nei confronti di una ricerca astratta, lontana dal recupero e dal rinnovamento di quella tradizione popolare che lui aveva inaugurato.
Non saprei davvero collocare Saluzzi nel tormentato quadrante della musica latinoamericana, e il problema, da ascoltatore, confesso che non mi tocca per nulla. A me personalmente pare che l'opera sua sia non meno, e forse anche più importante di quella del più celebre Piazzolla: ammesso poi che simili paragoni abbiano senso.
Dino Saluzzi abita la propria Argentina in un palazzo mentale, labirintico, un sancta sanctorum. Quel canto ancestrale si sente risuonare qui tra gli alabastri, riverberato da marmi lucidi e impenetrabili.
Non sembra esserci in Saluzzi il desiderio di piacere, che affiora invece, sincero, in alcuni 'Libertango'; c'è semmai quello di sedurre mediante l'affabulazione. Il suo è un versificare ermetico: un pò scrittore, un pò pittore di suoni, ci fissa negli occhi parlando in una lingua magica.
I suoi , che segnano una collaborazione di lunga data con l'etichetta ECM, sono viaggi misteriosi che lambiscono le coste del jazz come della musica classica, le foreste amazzoniche come gli alti palazzi di New York. Sono tutti interessanti, complessi, romantici, col falsetto del suo strumento a coronare, quale luce stellare, mossi paesaggi notturni.
Qui, con “Imágenes” (sempre ECM) siamo di fronte a una nuova pubblicazione del tutto singolare: musica pianistica (apparentemente) scritta fino all'ultima nota. Non già il suono del bandoneon, che è il colore del tango, ma il pianoforte da concerto.
Confesso di aver preso il disco a scatola chiusa. Come suonerà, mi chiedevo, la musica di Saluzzi sul mio strumento? E già mi immaginavo programmi concertistici pazzi, tipo: Mozart, Prokofiev, Saluzzi, oppure: Bach, Saluzzi… cose così; chi è pianista forse mi può capire.
Ho ascoltato poi tutto d'un fiato e l'ho trovato, per fortuna, bellissimo.
E' musica pensosa che, come per un mesmerismo, calamita, incanta… esteticamente è bella, ti cattura però per le idee.
Non c'è virtuosismo, non di rado il cantare è persino monodico; talvolta, appaiono fascinose stratificazioni sonore che però si configurano come sovrapposizioni di timbri più che linee di contrappunto.
Come sempre, con questo musicista, le melodie sono liriche e contorte e proprio in questo rovello risiede grande parte del loro fascino.Il pianista Horacio Lavandera compare anche fotografato nel booklet accanto al compositore, che deve aver seguito personalmente le sessioni di registrazione. Forse un pò intimidito dalla sua presenza, suona però correttamente e restituisce bene queste strutture libere all'ascolto: si desidererebbe ora avere accesso alle partiture, chissà se pubblicate, e da chi.
La registrazione, secondo i tipici canoni estetici dell'etichetta monacense, è calda, riverberante, assai ravvicinata. Disco nel quale immergersi lentamente.Un'interessante acquisizione di repertorio che mi auguro si faccia strada anche sul piano concertistico, anche se dubito che ciò avverrà in Italia, dove si ascoltano quasi sempre gli stessi programmi e autori, per ogni dove.

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