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I NOSTRI CD

Omer Avital – “New Song” – Plus Loin Music 4568
Quintetto di tutte stelle questo guidato dal contrabbassista Omer Avital, con il trombettista Avishai Cohen, il sassofonista tenore Joel Frahm, il pianista Yonathan Avishai e il batterista Daniel Freedman . Israeliano di origini yemenite da parte di madre e marocchine da parte di padre, Avital è uno di quei personaggi che hanno scritto la storia del israeliano assieme a quel Avishai Cohen che non a caso figura anche in questo album. La sua è una cultura composita, poliedrica: amante del jazz conosce a fondo il blues, il gospel, il soul, così come la musica afro-cubana, i ritmi di estrazione africana… ma da artista, da uomo che vive il suo tempo, inserito in una realtà difficile come quella del suo Paese, non disconosce certo le sue origini. Di qui molti elementi della cultura araba che fatalmente si ascoltano nelle sue composizioni i cui titoli, d'altro canto, evidenziano assai bene questa sua attitudine a rivolgere lo sguardo sia verso l'occidente sia verso l'oriente: “Hafla”, “Tsafdina”, “Maroc” ad esempio richiamano il mondo arabo così come “Ballad for a friend” o “Small time shit” si rifanno a paesaggi, situazioni a noi più vicine. Ma non è solo una questione letteraria ché la musica rispecchia in qualche modo quanto su accennato. Così ad esempio il brano d'apertura, “Hafla”, si muove su coordinate che richiamano espressamente una melodia tradizionale israeliana coniugata con un linguaggio jazzistico ben evidenziato dal solismo di Avishai Cohen. Viceversa nella title track l'atmosfera è più chiaramente e inequivocabilmente jazzistica , con una dolce cantabilità evidenziata dal pianismo di Yonathan Avishai e ancora dalla tromba di Cohen con il leader che si produce in un accompagnamento tanto propulsivo quanto discreto unitamente alle spazzole egregiamente manovrate da Freedman. Con “Tsafdina” siamo sul versante afro-cubano sorretto da un pertinente backghround vocale e da un coinvolgente dialogo pianoforte-batteria che conduce all'assolo conclusivo di Cohen… e via di questo passo in un alternarsi di atmosfere che si protrae sino alla fine dell'album impreziosito da una mescolanza di colori, sapori, timbri che costituisce la forza dell'album. Ultima notazione: i brani sono tutti di Omer Avital.

Tim Berne's Snakeoil – “You've Been Watching Me” – ECM 2443
You've beenTim Berne è musicista “pericoloso” nel senso che se, tanto tanto ti azzardi non dico a parlarne male ma a dire che la sua musica non ti scalda più di tanto, ecco che le vestali “del vero jazz” si ergono indignate a tacciarti nel migliore dei casi di incompetente…altrimenti sei un venduto al soldo di qualche casa discografica concorrente. Ma abbiamo le spalle larghe e quindi sfideremo l'ira di chi ne sa più di noi per dire che Tim Berne è sicuramente un grande musicista ma altrettanto sicuramente che la sua musica non è in cima alla nostra personalissima scala di preferenze. Questo è il terzo album che Berne, con il suo nuovo gruppo “Snakeoil” incide per la ECM: nel 2011 il primo “Snakeoil” , nel 2013 il secondo “Shadow Man” (2013), ed ora questo “You've Been Watching Me”, registrato a dicembre del 2014. Il gruppo è rimasto sostanzialmente lo stesso vale a dire con il clarinettista Oscar Noriega, il pianista/tastierista Matt Mitchell e il batterista Ches Smith cui si aggiunge il chitarrista Ryan Ferreira. Come al solito le composizioni di Berne sono caratterizzate da strutture estremamente complesse nel cui ambito l'artista riesce a raggiungere un notevole equilibrio tra le parti d'assieme e lo spazio lasciato ai singoli solisti. Solisti che sono tutti dei fuoriclasse: a parte il leader che ben si ascolta in tutti i brani, Oscar Noriega si fa apprezzare a partire dal brano di apertura, “Lost In Redding”, mentre il chitarrista Ryan Ferreira da vita e spessore alla title track; notevoli l' utilizzo del vibrafono da parte di Ches Smith e l'impiego delle elettroniche da parte di Matt Mitchell che forniscono al tutto una timbrica e un colore nuovo. I brani sono tutti piuttosto lunghi e si avverte, sempre, la grande conoscenza che Berne ha dell'universo musicale inteso nella sua globalità dal momento che è possibile percepire una serie di influenze che vanno ben al di là del mondo jazz.

Ketil Bjørnstad-“Sunrise. A Cantata On Texts By Edvard Munch”- ECM 2336

Il pianista, compositore, scrittore e poeta Ketil Bjørnstad è una sorta di icona nell'ambito del mondo culturale norvegese e ben a ragione ove si consideri che si tratta di un artista che ha fatto dell'integrità, della sincerità d'espressione la sua particolarissima cifra stilistica. A tali regole non sfugge quest'ultimo album registrato a Oslo nell'aprile del 2012: si tratta di una commissione in quanto il lavoro è stato chiesto al compositore dai responsabili del Nordstrand Musikkselskap Choir in occasione del suo settantesimo anniversario, nel 2011, lavoro che è stato poi eseguito in concerto presso l'Auditorium dell'Università di Oslo; qiì, dietro al palco, si può ammirare il dipinto di Munch intitolato “The Sun”. Ed è proprio a Munch che è dedicata questa composizione in cui è racchiuso molto dell'animo norvegese. Come spiega lo stesso Bjørnstad nelle note che accompagnano l'album, Munch non si limitava a dipingere ma scriveva sia per meglio illustrare i suoi quadri sia per esprimere le proprie emozioni, i propri stati d'animo che ondeggiavano sempre tra un cupo pessimismo e la speranza della luce, speranza e delucidazioni che, ipotizza Bjørnstad, il pittore forse avrà trovato solo alla fine della sua esistenza. Bjørnstad ha cercato di trasporre in musica queste sensazioni, questi sentimenti: si è quindi avvalso di alcuni di questi scritti per costruirvi delle splendide melodie che sembrano fuori dal tempo e dallo spazio nella loro dolce cantabilità. Ad eseguire magnificamente queste partiture sono l'Oslo Chamber Choir, diretto da Egil Fossum, la vocalist Kari Bremnes e musicisti di diversa estrazione come il violoncellista Aage Kvalbein, l'alto sassofonista Matias Bjørnstad, il contrabbassista Bjørn Kjellemyr, il percussionista Hans-Kristian Kjos Sørensen e lo stesso Bjørnstad al pianoforte. L'atmosfera generale è chiaramente riconducibile ad un mix tra musica colta e musica pop mentre , oggettivamente, i riferimenti al jazz sono piuttosto labili.

Tore Brunborg – “Slow Snow” – Act 9586-2
Questo è l'album d'esordio in casa ACT del norvegese Tore Brunborg che già conoscevamo dalla fine degli anni Novanta quando incise, tra l'altro, due ottimi album, “Orbit” in compagnia del batterista Jarle Vespestad e “Lines” con Vigleik Storaas ( Key ),Olaf Kamfjord ( Bss ) e Trond Kopperud (Drs). Anche in questo debutto con la ACT, Brunborg evidenzia appieno tutte le sue qualità sia di eccellente polistrumentista (sax tenore e pianoforte) sia di compositore (il repertorio è composto unicamente da sue composizioni). Si tratta, insomma, dell'ennesimo jazzista talentuoso che la Norvegia sta producendo in questi anni, ed è una sorta di miracolo ove si pensi a quanto poco numerosa sia la popolazione che vive da quelle parti. Ed in effetti anche gli altri musicisti che accompagnano Brunborg sono norvegesi: Aivind Aarset alla chitarra, Steinar Raknes al contrabbasso e Per Oddvar Johansen alla batteria ed elettronica. Ciò detto, va sottolineato come la musica di Tore, seppure si inserisce in quel filone di “jazz nordico” che abbiamo imparato a conoscere ed ammirare nel corso di questi ultimi decenni , presenta tuttavia qualche particolarità. Così ritroviamo quegli spazi ampi, quella tessitura sofisticata, quella cura del suono , quelle atmosfere sognanti , quel caldo lirismo che caratterizzano in linea di massima la produzione dei musicisti norvegesi, ma accanto a ciò ascoltiamo episodi , ad esempio “Tune In” e “Light A Fire Fight A Liar”, in cui la musica si fa più dura, spigolosa quasi a voler reclamare una più precisa identità . E via di questo passo in un alternarsi di situazioni che, lungi dal significare disomogeneità, illustrano al meglio le qualità e dell'ensemble e dei singoli. Così se è vero che le luci sono focalizzate sul leader , è altrettanto vero che non mancano occasioni per evidenziare il talento degli altri: si ascolti l'assolo di Raknes in “History”, mentre Eivind Aarset, uno dei grandi innovatori della chitarra, si fa apprezzare in diversi momenti. Dal canto suo Johansen fornisce un drumming preciso e propulsivo per tutta la durata dell'album.

Terry Lyne Carrington – “The ACT Years” – ACT 9588-2
Preparare una compilation è impresa oggettivamente difficile in quanto si tratta di scegliere tra diverse opzioni e realizzare un album che possa raggiungere lo scopo prefissato. Scopo che può essere di natura differente a seconda che si tratti di lumeggiare un periodo particolare, uno stile, l'attività di una casa discografica o quella di un artista. E' il caso di questo album la cui protagonista è la celebre batterista Terry Lyne Carrington; sulla scena oramai da molti anni, la Carrington è a ben ragione considerata la migliore batterista-compositrice jazz oggi in esercizio, come d'altro canto affermato da Dizzy Gillespie che l'ascoltò agli inizi della carriera e successivamente confermato dal Grammy ottenuto nel 2011 con “The Mosaic Project” . In effetti Terry Lyne possiede tutte quelle doti che fanno un grande batterista: eccellente tecnica, senso del tempo, forte propulsione ritmica, fantasia, capacità di creare un tappeto ritmico cangiante a seconda delle necessità del solista…
In questo album possiamo ascoltare dodici brani tratti da tre CD “Jazz Is A Spirit” del 2002, “Purple : Celebrating Jimi Hendrix” di Nguyên Lee ancora del 2002 e “Structure” del 2004. La batterista figura accanto ad alcuni dei più bei nomi del jazz mondiale, da Herbie Hancock a Greg Osby da Kevin Eubanks a Wallace Roney, da Terence Blanchard a Gary Thomas… alla vocalist Aida Khann. Insomma un'ottima occasione non solo per rivisitare il drumming della Carrington, ma anche per ascoltare artisti che hanno scritto pagine indimenticabili. In tal senso particolarmente stimolante “Samsara (for Wayne) con Herbie Hancock, Kevin Eubanks, Gary Thomas e Bob Hurst.

Keith Jarrett – “Creation” – ECM 2450
A maggio, in occasione del settantesimo compleanno di Keith Jarrett, sono usciti per la ECM due album. Il primo, live, contenente due Concerti del Novecento per pianoforte e orchestra è già stato recensito su questo sito, con la solita competenza ed arguzia da Massimo Giuseppe Bianchi. Del secondo parliamo adesso. “Creation” raccoglie nove improvvisazioni in piano-solo registrate durante concerti tenuti a Tokyo, Toronto, Parigi e Roma in un breve arco di tempo che va dal 6 maggio all'11 luglio del 2014 e scelte dallo stesso Jarrett – per una volta senza l'apporto di Eicher – sì da farne una sorta di suite. Ora è indubbio che, al netto delle tante bizze che hanno contrassegnato gli ultimi anni della sua carriera, Jarret rimane un pianista straordinario, un artista che quando ritiene di aver trovato le condizioni giuste è in grado di sciorinare musica di ineguagliabile bellezza e valenza artistica. Ci è riuscito anche in questo album? L'interrogativo non è retorico dal momento che la cronaca ci racconta di alcune performances di Jarrett non proprio memorabili. Ecco, questo CD non può certo essere annoverato tra i capolavori del pianista anche se siamo, sempre, su livelli alti. Il fatto è che l'aver scelto improvvisazioni da diversi concerti ha sì fornito all'album una sua omogeneità ma non sempre questo è un fatto positivo. Nel caso in oggetto, infatti, molto si è perso di quella varietà di situazioni che spesso si registra nei concerti di Jarrett quando il pianista, nelle sue improvvisazioni, riflette l'umore del momento, l'ispirazione momentanea creando quel clima di incertezza, straordinariamente coinvolgente, che caratterizza le sue esibizioni. Ad esempio ricordiamo perfettamente una performance a Roma in cui ad una prima parte francamente noiosa fece seguito un secondo tempo di straordinaria brillantezza. Insomma forse non siamo molto lontani dal vero affermando che probabilmente il meglio di sé Jarrett lo ha già dato.

Leszek Możdżer & Friends – “Jazz at Berlin Philarmonic III” – ACT 9578-2
Jazz at the Berlin PhilarmonicIl pianista Leszek Możdżer, classe 1971, è uno dei maggiori esponenti del jazz polacco. Ha cominciato a studiare pianoforte all'età di cinque anni fino al raggiungimento del diploma al Conservatorio Stanislaw Moniuszko di Gdańsk nel 1996. Avvicinatosi al jazz, all'età di 18 anni, inizia la sua carriera con il gruppo del clarinettista Emil Kowalski . Nel 1991 è con il gruppo Miłość (« Amour »). Un anno dopo è premiato all' International Jazz Competition Jazz Juniors che si svolge a Cracovia. Per questo album registrato live alla Berlin Philharmonie si presenta con il suo trio abituale completato dal contrabbassista svedese Lars Danielsson e dal batterista israeliano Zohar Fresco, con l'aggiunta dell'Atom String Quartet. Il repertorio è basato in massima parte su originals del leader che evidenziano appieno le grandi doti di questo artista. In possesso, come si accennava, di una solida preparazione di base innervata da una cultura classica, Leszek si esprime con un linguaggio che coniuga efficacemente stilemi jazzistici, echi folk con modalità proprie della musica classica, in cui si avverte, evidente, l'influenza dell'eroe nazionale della musica polacca, Chopin . Il tutto impreziosito da un sound affatto particolare che attribuisce all'intero album un'atmosfera suggestiva; in effetti il trio, che ha raggiunto una grande intesa cementata da molti anni di stretta collaborazione, è completamente sintonizzato sulle idee del leader che riesce a fondere il sofisticato gioco di batterista e contrabbassista all'interno di un puzzle cameristico in cui l'Atom String Quartet riveste un ruolo tutt'altro che secondario. E non è certo un caso che molti critici pongano quasi sullo stesso piano il Kronos Quartet e l'Atom String Quartet data la straordinaria capacità improvvisativa dei componenti quest'ultimo gruppo. Si ascolti, al riguardo, le romantiche sonorità del quartetto in “Love Pastas”  

Gerardo Nuñez, Ulf Wakenius – “Jazzpaña live” – ACT 9585-2
Jazzpana liveAlbum sotto certi aspetti storico questo “Jazzpaña live”; in effetti quando ACT iniziò la sua attività nel 1992, lo fece proprio con un CD significativamente intitolato “Jazzpaña” a sintetizzare la filosofia della nuova etichetta tendente a fondere diversi generi in un unicum di assoluta originalità. Quel primo album, candidato due volte al Grammy, metteva assieme le stelle del Nuevo Flamenco spagnolo con grandi nomi del jazz americano come Michael Brecker, Peter Erskine e Al Di Meola, accompagnati dalla WDR Big Band e con gli arrangiamenti curati dall'oggi giustamente celebrato Vince Mendoza. Nel 2000 il secondo atto di questa avventura con l'album “Jazzpaña” in cui accanto a Gerardo Nuñez e Chano Dominguez figuravano artisti del calibro di Jorge Pardo, Perico Sambeat e ancora Michael Brecker. Adesso eccoci al terzo atto con questo CD registrato dal vivo presso la Berlino Philharmonie Kammermusiksaal e il WDR 3 Jazzfest a Dortmund, rispettivamente nell'ottobre del 2014 e nel gennaio del 2015. Ancora una volta “Jazzpaña” si caratterizza per lo straordinario mix tra jazz e flamenco: accanto al protagonista principale, il chitarrista spagnolo Gerardo Núñez considerato l'erede di Paco de Lucía, figurano il chitarrista Ulf Wakenius, e il pianista cubano Ramón Valle; l'organico è completato dall'altro pianista Chano Dominguez, dal bassista Omar Rodriguez Calvo, dal batterista Liber Torriente , dal percussionista Cepillo e dal sassofonista Christof Lauer. Il gruppo evidenzia una notevole empatia per cui gli assolo si susseguono fluidi così come le parti d'assieme sempre ben coordinate dal leader che si segnala anche come compositore dal momento che sui sette brani eseguiti due sono suoi, uno è un traditional arrangiato dallo stesso Nuñez, due sono di Chano Dominguez, uno di Gill Evans “Blues for Pablo” ed un altro, celeberrimo di Ernesto Lecuona, quel “Siboney” inciso da moltissimi jazzisti tra cui Dizzy Gillespie e Stan Getz nel '53, Ruben Gonzalez e Bebo Valdes con Javier Colina.

Gary Peacock Trio – “Now This” – ECM 2428
Now ThisTra i contrabbassisti che hanno scritto alcune delle pagine più interessanti nel jazz degli ultimi decenni c'è sicuramente Gary Peacok il quale, alla veneranda età di ottanta anni (compiuti il 12 maggio), sembra non aver perso alcunché dell'originario smalto. Abbiamo imparato a conoscerlo ed apprezzarlo in alcuni trii di grande spessore come quelli di Bill Evans, Paul Bley e Keith Jarrett. In questo album, registrato nel luglio del 2014 ad Oslo, Gary è alla testa del suo attuale trio completato da Marc Copland al piano e Joey Baron alla batteria. Il repertorio è composto per sette undicesimi da composizioni originali del leader cui si aggiungono due brani di Marc Copland, uno di Joey Baron e uno di Scott LaFaro. Chi conosce bene il jazz sa cosa aspettarsi da questo CD; per gli altri è opportuno sottolineare come si tratti di un jazz ‘moderno', di straordinaria fattura, in cui la splendida vena melodica di Peacock si sposa con il pianismo meditativo di Copland ed il sostegno ritmico di Baron, un sostegno che alle volte quasi sussurrato, altre più esplicito accompagna sempre i due compagni d'avventura (eccellente il suo lavoro in “Gaia”). Ma il mattatore è comunque lui, Peacock, che fa cantare il suo strumento come pochi altri, con un sound sempre fresco ed originale, senza trascurare quel ruolo ritmico-armonico proprio del contrabbasso. Si ascolti al riguardo il supporto fornito da Peacock in “This” un suo brano, il convincente ed originale assolo eseguito su “And Now” di Marc Copland e l'ancora sorprendente vibrato messo in mostra in “Gloria's Step” lo splendido brano di Scott LaFaro. Per chi ama le ballad, un ascolto attento ,lo merita “Christa” ancora di Gary Peacock.

Perko & Rantala Duo Art – “It Takes Two To Tango” – ACT 9629-2
It takes two toIn campo jazzistico, la formula del duo è, se possibile, ancora più rischiosa della solo-performance; in effetti, quando il musicista si esprime in splendida solitudine, è lui, e lui solo, ad avere in mano le fila del discorso, è lui a decidere che direzione prendere, dove andare a parare. In buona sostanza, se l'artista possiede una buona tecnica di base e sufficienti capacità improvvisative e costruttive, bene o male un risultato decente a casa lo porta. Del tutto diverso il discorso del duo: qui i protagonisti devono strettamente correlarsi, l'uno deve conoscere perfettamente l'altro, essere in grado di raccoglierne gli umori, i segnali e svilupparli nell'ambito di un discorso coerente. Di qui l'oggettiva difficoltà di ascoltare delle esibizioni in duo che raggiungano livelli di assoluta eccellenza. Livelli che, invece, sono toccati in questo nuovo album registrato il 6 novembre del 2014 da Iiro Rantala e Jukka Perko ovvero due straordinari musicisti, due artisti che rappresentano altrettante punte di diamante e del jazz finlandese e del jazz europeo più in generale. Di Iiro Rantala abbiamo parlato diverse volte per cui è sufficiente ricordare come si tratti di un pianista-compositore che si è fatto apprezzare sia in campo jazzistico sia nell'ambito della musica colta con alcune composizioni che vengono eseguite con grande successo. Il sassofonista Jukka Perko si è fatto le ossa suonando con la “Dizzy Gillespie 70th anniversary big band” con cui ha effettuato tournées in tutta Europa e negli States, prima di collaborare con alcuni grandissimi nomi del jazz mondiale quali Red Rodney e McCoy Tyner e , come Iiro, è ben conosciuto ed apprezzato anche in ambito classico. Ora non è detto che mettere assieme due grandi artisti sia di per sé sufficiente a produrre musica eccellente…occorre un quid in più che in quest'album si percepisce chiaramente sin dalle primissime note. E il quid è rappresentato da un idem sentire, da un identico modo di percepire la musica che consente ai musicisti di affrontare qualsivoglia difficoltà con la sicurezza che il compagno d'avventura è lì pronto a percepire ogni minimo segnale, a catturare qualsivoglia input per trasformarlo in nuovo materiale da forgiare e offrire all'ascoltatore. A ciò si aggiunga le felicissima scelta del repertorio incentrato sul tango, ovvero un genere musicale che in Finlandia gode di grandissima popolarità. Consci di questa realtà, Perko e Rantala affrontano sia brani della tradizione finlandese (come “Minun kultani kaunis on—My sweetheart is a beauty” o “Romanssi”) e di quella napoletana (“Dicetencello vuie” di Rodolfo Falvo) sia pezzi riconducibili a grandi autori internazionali quali Jacob Gade, Charles Aznavour, Victor Young … il tutto completato da una duplice versione della celeberrima “Finlandia” di Jan Sibelius. I due eseguono questi brani con grande rispetto ritagliandosi ampi spazi per succose improvvisazioni ma tenendo sempre ben presente l'obiettivo di far emergere, ove possibile, l'essenza, il ritmo del tango. E a questo scopo si piegano la perfezione tecnica dei due strumentisti, le straordinarie capacità auto-ironiche di Rantala, il lirismo sempre misurato di Perko.

Andy Sheppard – “Surrounded By The Sea”- ECM 2432
In un momento in cui si cercano via alternative, spesso astruse e senza costrutto, il sassofonista Andy Sheppard si affida ancora una volta a quelle che sono le sue qualità migliori: purezza di suono e spiccato senso melodico. Queste caratteristiche lo avvicinano fatalmente ad alcuni grandi artisti del Nord-Europa, primo fra tutti, Jan Garbarek, ma Sheppard sembra non curarsene e a nostro avviso fa benissimo. In effetti il suo lirismo mai è fine a sé stesso e si coniuga felicemente con il mood che il gruppo riesce ad esprimere nelle persone di Seb Rochford drums e percussioni, Eivind Aarset chitarra elettrica ed electronics e Michel Benita basso. Così il clima generale dell'album è , spesso, evocativo di quelle atmosfere sospese che caratterizzano il jazz nordico cui prima si faceva riferimento. Si ascolti al riguardo soprattutto “I Want To Vanish” di Elvis Costello e “The Impossibility Of Silence” dello stesso Sheppard, resi in maniera splendida dal sassofonista inglese, il quale ovviamente si accosta ad ogni brano con la stessa propensione lirica in ciò ben coadiuvato dai compagni d'avventura. In effetti la sezione ritmica, costituita dal contrabbassista francese Michel Benita e dal batterista Seb Rochford, fornisce una spinta sempre presente pur nella sua estrema leggerezza , mentre il chitarrista norvegese Eivind Aarset si fa notare una volta di più per l'originalità del suo stile e l'espressività che riesce a infondere nei suoi interventi. Il repertorio si basa quasi tutto su brani originali, eccezion fatta per il già citato pezzo di Costello e per il traditional gaelico “Aoidh, Na Dean Cadal Idir” ripreso per ben tre volte come a costituire una sorta di filo rosso dell'intero album. A chiudere un pezzo di Sheppard dedicato ad Ornette Coleman, “Looking For Ornette”, e in questo caso il clima cambia leggermente nel senso che il pezzo è più mosso degli altri pur conservando una sua intima coerenza con il resto dell'album.

Baba Sissoko – “Jazz (R)Evolution” – Caligola 2200
JazzRevolutionDue mostri sacri delle percussioni quali Baba Sissoko e Famoudou Don Moye e uno tra i più immaginifici improvvisatori europei quale Antonello Salis, in questa occasione al piano, fisarmonica e tastiere. Questi i tre protagonisti di “Jazz (R)Evolution” registrato live al Teatro Formia di il 28 novembre del 2014. I curricula dei tre sono ben noti per cui in questa sede basta ricordare come Don Moye abbia militato dal 1970 nella leggendaria Art Ensemble of Chicago, mentre il maliano Baba Sissoko, classe 1963, griot e polistrumentista, sia da tempo impegnato nella duplice missione di coniugare la musica etnica e il jazz, e di diffondere la tradizione musicale del suo Paese. Antonello Salis è fin troppo noto per aggiungere qualcos'altro. Alle prese con dieci composizioni di Sissoko, i tre si lasciano andare ad un gioco fortemente percussivo inframmezzato dalle spettacolari uscite di Salis particolarmente convincente alla fisarmonica: toccante, al riguardo, – e non poteva essere altrimenti – il brano dedicato a “Isio Saba” in cui l'artista sardo si lascia trascinare da una certa triste e dolce malinconia che si trasmette all'ascoltatore. Per il resto l'album si dipana piacevolmente attraverso le pieghe di un gioco percussivo condotto con mano sicura da Sissoko e Don Moye mentre Salis evidenzia di non essere un corpo estraneo nel flusso prodotto dai due “colleghi” in quanto come sottolinea l'amico e collega Ugo Sbisà il pianista sardo – che com'è noto suona ad orecchio – è per molti versi il più “fisico” ed africano dei jazzisti italiani e sa muoversi con eccezionale creatività sui sentieri delle improvvisazioni più ardite.” Ciò detto a mio avviso l'album conosce qualche momento di stanca data soprattutto dalla eccessiva omogeneità del sound complessivo.

Rotem Sivan Trio – “A New Dance” – Fresh Sound New Talent 480
Musica elegante, raffinata anche se non di straordinario impatto il contenuto di questo album firmato dal trio del chitarrista Rotem Sivan coadiuvato da Haggai Cohen-Milo al basso e Colin Stranahan alla batteria. Il chitarrista di origini israeliane ma di stanza a New York dal 2008, è al suo terzo album da leader dopo “Enchanted Sun” per la Steeple Chase Records del 2013, e “For Emotional Use Only” ancora per la Fresh Sound New Talent Records. Salutato dai commentatori del DownBeat Magazine come “un talento notevole e una nuova gradita voce sulla scena” il chitarrista conferma quanto aveva già avuto modo di evidenziare nei precedenti lavori. Vale a dire una eccellente preparazione tecnica, una delicata sensibilità, un buon senso del ritmo e un'ottima conoscenza della musica nel suo insieme. In effetti nelle corde della sua chitarra si avvertono nitide influenze provenienti da quei diversi input culturali che si registrano a Gerusalemme, sua città natale. A tutto ciò va aggiunta la profonda intesa che si registra all'interno del trio, intesa che appare evidente sin dalle prime note dell'album che si articola attraverso un repertorio fatto di original tutti firmati dal leader e di standard quali ‘Angel Eyes' di Earl Brent-Matt Dennis, ‘In Walked Bud' di Thelonious Monk e ‘I Fall in Love Too Easily' di Jule Styne-Sammy Cahn. Le composizioni originali denotano una certa predilezione di Sivan per linee melodiche ampie, suadenti; da segnalare al riguardo “Almond Tree” unico brano che si avvale di una voce, quella di David Wright, che interpreta con pertinenza una deliziosa ballata …ma la valenza del trio si manifesta anche nell'interpretazione degli standard: in particolare in “In Walked Bud” il chitarrista sceglie di porgere il tema in modo assolutamente originale, con sonorità particolari specie in apertura mentre il brano finale, ‘I Fall in Love Too Easily', si avvale dell'apporto del sassofonista israeliano Oded Tzur che riesce ad infondere quell'energia, quella carica che risulta piuttosto carente nel resto dell'album.

John Taylor – “2081” – CamJazz 7889-2
Album molto particolare, questo, e per più di un motivo: innanzitutto si tratta del secondo lavoro che esce dopo la scomparsa del pianista inglese e al riguardo la CAM precisa di aver proceduto alla pubblicazione dell'album in accordo con la famiglia di John proprio in omaggio alla sua vita ed alla sua arte. La seconda peculiarità concerne l'organico: si tratta, infatti, di una sorta di “progetto di famiglia” dal momento che accanto a John, autore delle musiche, figurano il figlio Alex, cantautore nonché responsabile delle liriche, Leo Taylor batterista ben noto per la sua militanza nel gruppo rock “The Invisible”; il quartetto è completato da Oren Marshall alla tuba, vecchio e caro amico dei Taylor. Particolare anche il repertorio: si tratta di una commissione fatta a Taylor da BBC Radio 3 per essere presentata al Cheltenham Jazz Festival e trae ispirazione da una storia pubblicata da Kurt Vonnegut nel 1961 intitolata “Harrison Bergeron”, e ambientata per l'appunto nel 2081. Originariamente scritta per ottetto, l'opera è stata appositamente riadattata per il quartetto che ascoltiamo nell'album. Definite genesi e natura del progetto, occorre sottolineare come ancora una volta la musica di John Taylor lasci il segno. In effetti se da un lato ritroviamo il Taylor di sempre, lirico, amante delle melodie ampie e soffuse, dall'altro ascoltiamo un Taylor che , in coerenza con la storia cui si ispira questa volta, cambia decisamente atmosfera e ci trasporta in un universo più cupo, inquietante facendo ricorso ad input i più disparati e provenienti tanto dal pop quanto dalle tipiche ambientazioni filmiche. In tale contesto un ruolo interessante lo giocano Oren Marshall che con la sua tuba conferisce al tutto una timbrica particolare e Alex Taylor che adatta perfettamente la sua vocalità alla natura della storia narrata dal gruppo, elementi, questi, che risaltano evidenti sin dal brano d'apertura , “Doozy”, e rimangono tali sino alla chiusura dell'album con la ripresa di “Doozy”.

Third Reel – “Many More Days” – ECM 2431
Molte sono le ragioni per apprezzare questo secondo album del trio svizzero italiano Third Reel composto da Nicolas Masson al sax tenore, soprano e clarinetto, Roberto Pianca alla chitarra e Emanuele Maniscalco al pianoforte e batteria. Innanzitutto c'è un'accurata ricerca timbrica: avvalendosi del fatto di poter contare su organici diversi, i tre riescono ad esprimere una purezza di suono fuori del comune che oggi raramente si ascolta nel campo prettamente jazzistico. E proprio a questo proposito si innesta l'altro motivo che ci induce a consigliarvi l'ascolto di questo album: l'assoluta originalità e particolarità della musica. I tre si muovono su un repertorio scritto esclusivamente da loro, brevi composizioni (intorno ai tre minuti) che trasportano l'ascoltare su un terreno tanto accidentato quanto affascinante nella misura in cui, volutamente, i tre abbandonano un'espressività legata a stilemi jazzistici per approdare ad un universo che si colloca quasi a metà strada fra il jazz e la musica colta contemporanea. Emblematico, al riguardo, “Aftewards” scritto da Emanuele Macaluso. Tuttavia non mancano brani in cui la cantabilità si appalesa più chiaramente (“Lara's Song” di Roberto Pianca e “White” di Nicolas Masson): in questi due casi i tre dimostrano di conoscere il jazz e soprattutto il sassofonista, quando imbraccia il tenore, evidenzia una profonda ammirazione per il sound di Jan Garbarek; in particolare “Lara's Song”, grazie anche al fatto che Maniscalco suona il piano, risulta particolarmente equilibrata tanto da potersi considerare uno dei brani meglio riusciti. Soffermandosi brevemente sui tre artisti, Masson è forse quello che convince maggiormente, grazie a quella straordinaria pulizia di suono cui prima si faceva riferimento e all'assoluto diniego di qualsivoglia virtuosismo per affidarsi all'espressività ed è davvero strano pensare che Nicolas si sia avvicinato alla musica come chitarrista heavy metal. Emanuele Maniscalco si fa valere sia al pianoforte sia alla batteria; su quest'ultimo strumento dimostra di aver molto ascoltato Paul Motian. Infine il chitarrista Roberto Pianca si muove con grande padronanza all'interno di queste rarefatte atmosfere evidenziando una particolare sintonia soprattutto con i tamburi e i piatti di Maniscalco.

David Torn – “Only Sky” – ECM 2433
Album di non facile lettura questo “Only Sky” registrato nel febbraio del 2014 presso la Experimental Media and Performing Arts Center di Troy, New York e la Cell Labs sempre di New York. Protagonista David Torn, in questa sede chitarrista e specialista di oud elettrico ma nella vita anche produttore, improvvisatore, autore di musiche per film…insomma una personalità estremamente variegata. Torn non lo scopriamo certo adesso: in passato aveva già inciso per la ECM figurando degnamente accanto a musicisti del calibro di Jan Garbarek (“It's OK To Listen To The Gray Voice” dell'84), Manu Katché (“Playground” del 2007) mentre in “Prezens” del 2005 il leader era lui coadiuvato da Tim Berne alto sax, Craig Taborn fender rhodes, hammond b3, mellotron, elettronica, Tom Rainey e Matt Chamberlain batteria. In quest'ultimo album, sempre targato ECM, Torn dà un saggio di cosa è possibile fare avendo in mano una chitarra e un oud corredati da un uso sapiente dell'elettronica creando una musica di impatto quasi orchestrale. Chi volesse avvalersi degli usuali parametri per valutare questo tipo di espressione rimarrebbe spiazzato; qualsiasi paragone con altri dischi di chitarra-solo non è proponibile essendo l'intento di Torn completamente diverso. Qui, se si escludono rari momenti (ad esempio in “Spoke With Folks”), è difficile rintracciare una qualche traccia di melodia così come è del tutto carente la carica ritmica. L'artista disegna atmosfere aperte, a tratti oniriche, soffermandosi spesso su piccole cellule reiterate in modo ipnotico (“Was A Cave , There…”). E non si può non apprezzare la capacità dell'artista nel creare suoni ora duri e graffianti, ora dolci e suadenti che in qualche modo possiamo riconoscere come familiari, collocandoli nell'ambito del traffico caotico delle megalopoli, così come nei meandri più profondi del nostro animo magari a recuperare memorie antiche che magari si ritenevano perdute. Insomma un album sotto certi aspetti straniante ma che illustra, come meglio non si potrebbe, la personalità di David Torn quale si è sviluppata sino ad oggi.

Israel Varela – “Invocations” – Alfa Music 179
Chi non conosce la cultura sud americana, la profonda religiosità di queste popolazioni, di come la fede sia vissuta interiormente non già come un qualcosa di lontano ma come elemento immanente alla vita di tuti giorni, non può capire la natura profonda di questo album. La musica prende ispirazione da un fatto ben preciso: la grave malattia della madre; di qui il desiderio di Varela di innalzare, attraverso la musica, una preghiera, una invocazione a Dio per la guarigione che può essere fisica ma anche spirituale, sottolineando allo stesso tempo di come ci si debba rendere conto del grande dono che abbiamo aprendo gli occhi e vivendo giorno dopo giorno. Per raggiungere questo obiettivo, il celebre batterista, compositore e vocalist messicano si è circondato di musicisti di alto livello quali Alfredo Paixao al basso elettrico, Angelo Trabucco al piano, Paola Repele back vocale ; negli ultimi due brani, “Everything is no” e “Cuando” troviamo Rita Marcotulli in duo con il leader; particolarmente toccante l'interpretazione di quest'ultimo brano , “Cuando” ovvero “Quando” di Pino Daniele le cui liriche sono state tradotte in spagnolo dalla stesso Varela. Nella title track d'apertura, il jazz di Varela si sposa con il flamenco della ballerina Karen Rubio Lugo, secondo una ricerca stilistica che i due stanno portando avanti da diverso tempo. E è forse questa la nota caratterizzante lo stile di Varela, vale a dire l'ida di coniugare diversi linguaggi – jazz , flamenco, stilemi indiani, indonesiani , tradizione messicana, e influenze europee – il tutto impreziosito da uno spiccato senso melodico non disgiunto da un senso ritmico molto personale (si ascolti al riguardo “Kairos” ). Un'ultima non secondaria annotazione: l'album si articola attraverso otto brani tutti scritti dal leader eccezion fatta per il già citato “Cuando” e “Everything is not” di Rita Marcotulli.

Alune Wade & Harold Lopez-Nussa – “Havana-Paris-Dakar” – World Village 479112
I legami tra il Continente Nero e Cuba non sono certo nuovi e hanno caratterizzato molte pagine della storia del jazz, pagine che si rinnovano ancora oggi grazie anche all'apporto dei due artisti che ascoltiamo in questo pregevole album: il cubano Harold Lopez-Nussa pianista e il senegalese Alun Wade vocalist, bassista e compositore, coadiuvati da un gruppo di validi sidemen come Reinaldo Melian alla tromba, e Hervé Samb alla chitarra. Pubblicato nel marzo di quest'anno, l'album è il primo di questa collaborazione che, speriamo, si protragga nel tempo visti i risultati; i due artisti si sono incontrati quasi per caso nel 2012 in un piccolo villaggio della Germania: il trio di Harold doveva esibirsi in un jazz club ma all'ultimo momento il bassista aveva dato forfait; a rimpiazzarlo fu chiamato Alune Wade e nonostante non ci fosse stata alcuna prova, l'intesa fu – come spiega lo stesso Lopez-Nussa – immediata. Di qui l'idea di collaborare per una realizzazione discografica di cui possiamo ascoltare i frutti. L'album è solare caratterizzato da una varietà di ritmi: si va dal cha-cha-cha alla rumba…alla salsa su un repertorio di dodici pezzi di cui alcuni originali e molti brani ‘ripresi' tra cui “Aye Africa” di Manu Dibango e Franklin Boukaka , “Yarahya” lo standard du chaâbi, “Petit Pays”, portata al successo da Cesaria Evora e interpretata in questa sede da Sara Tavares, “Indépendance Cha Cha” di Joseph Kabasele , “Aminata” un hit di Labah Sosseh e “Seydoy” di Salif Keita. Comunque, sin dalla prima nota, quel che colpisce è la perfetta integrazione tra ritmi cubani e ritmi africani, tra il sound latino e quello africano secondo una strada che Lopez-Nussa aveva già dimostrato di saper percorrere con grande perizia come dimostrano i suoi due precedenti album, “El país de las maravillas” del 2011 e “New Day” del 2013.

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