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Evidentemente i cappelli hanno fatto scuola nel gruppo di ché alla serata inaugurale del Roma Jazz Festival, – sabato 14 novembre – assieme al leader avvolto nel suo caratteristico copricapo e copri-orecchie (ma non muore dal caldo sul palco con le luci addosso) anche il pianista e il contrabbassista si sono presentati con colorite coppole alla sicula.
Comunque, cappelli a parte, il vocalist americano ha ancora una volta dimostrato come non sia usurpata la fama di miglior vocalist jazz del momento e quanto sia giustificata la vittoria del Grammy come Best jazz vocal album nel 2014.
Ad onor del vero la serata non era iniziata sotto i migliori auspici per il vostro cronista: profondamente scosso per i fatti di Parigi, città che amo, in cui sono vissuto e in cui annovero ancora qualche caro amico, non avevo l'animo adatto per uscire da casa e andare ad un concerto. Poi mi son detto che non dovevo lasciarmi condizionare… e bene ho fatto.
Gregory Porter è uno di quegli artisti che, se lo accetti com'è, è in grado di farti trascorrere un paio d'ore ascoltando bella musica, senza alcuna pretesa intellettualistica o sperimentale: lui è lì, sul palco, pronto a darti la sua visione del  jazz che non sarà modernissima ma è sicuramente molto godibile.Dotato di uno strumento baritonale, questa volta più chiaro del solito, è comunque in grado di frequentare anche i registri medi fino a qualche intervento in falsetto sempre pertinente e rare incursioni in uno scat misurato e comunque coinvolgente.
Profondamente tributario di tutta la storia del jazz, Gregory non tenta minimamente di nascondere le sue influenze che affondano ovviamente nella tradizione jazzistica e quindi del blues… ma anche nel pop, nel soul, nel R&B… non a caso ha tributato un esplicito omaggio a Marvin Gaye accennando alla sua celeberrima “What's going on”.. per non parlare di pezzi ‘'storici' che fanno oramai parte del suo repertorio  , presentati anche sabato, come “Work Song” e “Papa was a rollin' stone”. Accanto a questi classici, Porter ha sciorinato il meglio del suo repertorio tratto dai suoi album; abbiamo, quindi, ascoltato, tra l'altro, “No love dying”, “Take me to the alley” nata durante uno spostamento in macchina nell'affollata New York, “Hay Laura”, “Musical Genocide”, “”,  “Liquid spirit”, sempre ottimamente supportato da Chip Crawford al piano, Jahmal Nichols al basso al posto di Aaron James, Emanuel Harrold alla batteria e  Keyon Harrold alla tromba in sostituzione del sassofonista Yosuke Sato . E mi pare che il gruppo sia migliore più coeso del precedente: ottima come sempre l'intesa tra Porter e Crawford, cui si aggiungono il formidabile supporto di una sezione ritmica allo stesso tempo discreta e fortemente propulsiva, con il contrabbassista in grande spolvero. Quanto all'unico fiato, ho particolarmente apprezzato Keyon Harrold che ha messo in mostra un bel sound, pieno, rotondo, senza vibrato, che ha saputo contrappuntare con grande eleganza il canto del leader assumendo altresì la responsabilità di lunghi e pregevoli assolo; e in questo senso l'ensemble ne ha guadagnato dal momento che Sato è, almeno a parere di chi scrive, sassofonista ferrato sotto il profilo tecnico, ma poco inventivo ed originale sul piano dell'assolo.

Infine una notazione cronachistica, a mio avviso non secondaria; tanto per sgombrare il campo da qualsivoglia equivoco, quanti seguono questo blog sanno perfettamente quanto io personalmente stimi i fotografi che considero essenziali per la divulgazione della ‘nostra musica'. Di qui la splendida collaborazione con Daniela Crevena che ancora una volta ringrazio dal più profondo del cuore per il fondamentale contributo dato a “A proposito di jazz”… di qui l'amicizia che oramai da lunghi anni mi collega a Roberto Masotti e Pino Ninfa, nomi illustri della fotografia jazz in Italia. Purtroppo, alle volte, anche i fotografi danno i numero. E veniamo al punto. Durante il concerto, Porter ha presentato due ballad con il solo accompagnamento del pianoforte. Nella prima, “Imitation of life”, non si capisce bene per quale motivo, i fotografi presenti in sala hanno cominciato a scattare senza soluzione di continuità cosicché la performance di Porter, così intima, raccolta, è stata fortemente disturbata dal continuo rumore degli apparecchi fotografici. A questo punto  mi sorgono spontanee tre domande: ma era proprio necessario fotografare proprio durante questa particolare esecuzione quando tutto il resto del concerto si è svolto su volumi piuttosto alti che sicuramente coprivano il rumore degli scatti? Ammesso che ‘l'artista dello scatto' abbia voluto immortalare l'espressione di Porter in quel determinato momento, non bastavano una decina di foto anziché quel profluvio rumoristico che ha veramente irritato il pubblico e probabilmente anche gli artisti sul palco? Infine, spesso abbiamo visto gli addetti dell'Auditorium rimproverare qualche spettatore impegnato a prendere una innocua foto con il telefonino; è possibile che questa volta non sia stato possibile intervenire?

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Domenica, al Teatro Studio, Ameen Salem alla testa del The Groove Lab completato da David Bryant al piano, Rhodes, Wurlitzer e organo, Marcus Strickland ai sassofoni tenore e soprano, Craig Magnano alla chitarra, Gregory Hutchinson batteria e percussioni e Mavis “Swan” Poole alla voce.
Ameen Saleem , contrabbasso e basso elettrico, nonché compositore di vaglia, è uno dei giovani jazzisti di maggior talento della scena internazionale: nato (nel 1979) e cresciuto a Washington D.C., Saleem ha studiato contrabbasso nel District of Columbia Youth Orchestra Program e alla Duke Ellington School of the Arts, laureandosi poi alla North Carolina Central University e specializzandosi ulteriormente alla Aaron Copland School of Music del Queens College. Ha fatto parte dei gruppi di Winard Harper e Marcus Strickland, ha collaborato e inciso con Frank Lacy e Gregory Hutchinson ma soprattutto, ormai da diversi anni, è il contrabbassista sia del quintetto sia della big band di Roy Hargrove, il quale, nelle note che illustrano lo splendido album inciso dal gruppo per la Via Veneto Jazz , afferma esplicitamente che Ameen Saleem è uno dei suoi musicisti preferiti per la sua grande versatilità. In effetti, ascoltando “The Groove Lab” si nota immediatamente come la sua musica sia il frutto di tutta una serie di   influenze musicali  che vanno dal soul , al jazz, dal rock al funky…; a questo proposito non sarebbe forse inopportuno rispolverare la vecchia e bistrattata etichetta di fusion che invece ha dato agli appassionati tanta bella musica. E se non ci credete andate a leggere l'ottimo libro di Vincenzo Martorella, “Storia della fusion” edito da Arcana . Di qui una musica che trova i suoi punti di forza da un canto nella bellezza dei temi, scritti dallo stesso Ameen Salem, dall'altro nella intesa dell'ensemble e nella bravura strumentale dei singoli che riescono a seguire perfettamente il leader, anche nei passaggi più complessi,  compresi quei repentini cambi di ritmo tanti cari ad alcuni grandi compositori e arrangiatori della storia del jazz. Ma il collante del settetto è sicuramente lui, il leader, in possesso di una straordinaria preparazione tecnica che gli consente di tessere raffinati tappeti armonici ma anche di intonare lunghe e suadenti linee tematiche sì da assurgere a vero e proprio solista principale del gruppo. Da sottolineare, infine, la performance della vocalist Mavis “Swan” Poole in possesso di una bella voce e di una trascinante presenza scenica.

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