Lucrezio De Seta 4tet: Movin’on

deseta

Lucrezio de Seta: batteria
Gianni Denitto: sax contralto
Ettore Carucci: pianoforte
Leonardo De Rose: contrabbasso

Headache Production
HDC-M-028

Comincio la mia recensione consigliandovi di ascoltare prima di tutto l’ ultimo brano di questo “Movin’on”, disco di esordio come leader di Lucrezio De Seta, che spero non me ne vorrà per questa “deroga a fin di bene”.  Il brano si intitola “Seguendo la Luna Laerte veleggia verso Levante”. Ascolterete un lungo assolo di batteria in cui De Seta si prende il suo spazio per esprimersi soltanto attraverso il suo strumento. E lo fa percorrendo tutte le timbriche possibili della batteria, con un suono  morbido, i tamburi vibranti di armonici, le bacchette che tintinnano sui piatti o sul legno. I tom cantano per quarte, i battiti si intensificano o si dilatano. C’è un profondo studio timbrico anche nei contrasti tra legno metallo e pelli:  e ci si perde di fronte alle infinite possibilità solistiche di uno strumento quando a suonarlo è un musicista completo.
Dopo procedete all’ ascolto di tutto il cd,  e comprenderete che un batterista – musicista quando è leader di un gruppo, ma gli preme la musica, non diventa il sovrano assoluto di quella compagine ma, pur sedendo davanti ad uno strumento potenzialmente prevaricante, proprio perché in grado di fare gli assoli ascoltati in quell’ ultimo brano (e in “Die Ruckehr der Gotter”) , è capace di lavorare in totale interplay, alla pari con gli altri, per far scaturire musica, in questo caso Jazz,  non muscoli. E lo sa fare proprio perché sa suonare “in solo” come avete ascoltato nell’ ultimo (per voi diventato primo)  brano del disco.
De Seta certamente procede con intensità e infinita fantasia, ma non prevarica, non appiattisce, non fagocita il suono complessivo di un gruppo che peraltro è di ottimo livello: con lui Ettore Carucci al pianoforte, Gianni Denitto al sax contralto, Leonardo De Rose al contrabbasso. (altro…)

Raffaela Siniscalchi : io e Tom Waits

Foto di Claudio Martinez

 

Raffaela, dicci come nasce l’ idea di reinterpretare un autore particolare come Tom Waits.

Ho sempre amato la musica di Waits.  Mi regalarono un suo disco che ero bimba, e mi colpì moltissimo questa sua voce così calda che mirava dritto alla pancia… poi, parecchi anni dopo, mi capitò tra le mani un libro di sue canzoni con gli accordi:  mi divertii a suonarle e cantarle al piano, a volte anche senza aver ascoltato l’originale ,  e rimasi davvero stupita: ho scoperto che, nascosti dietro quella sua voce inconfondibile, c’erano incastri  melodico/armonici bellissimi, e testi che ti catturavano come fossero la sceneggiatura di un film.

Waits ha una voce inconfondibile che è parte integrante dell’espressività dei suoi brani. Come affronti questa che potenzialmente potrebbe rappresentare  una caratteristica persino paralizzante?

Hai ragione, ma in verità trovo questo l’aspetto più semplice e stimolante: penso che più la tua voce si allontana dall’ originale, più sei costretto a trovare la tua strada. Non volevo, naturalmente, l’imitazione,  anche se in alcuni punti avrei avuto bisogno di un esorcismo: giocando,  mi sono divertita a scendere giù giù timbricamente, “cercandolo,”cerca ndo Waits, e sono usciti suoni curiosi. Alla fine nell’insieme ho scoperto cose nuove della mia voce proprio perché ho giocato con quella libertà che credo sia il più grande insegnamento di Tom Waits.

Quali sono i brani che hai scelto per questo tuo progetto e con che criterio li hai scelti?

Impresa difficile, avevo selezionato circa una trentina di songs, una più bella dell’altra , alcune per le parole che mi avevano colpito molto tipo “All the world is green” e “San Diego Serenade”,  bellissimi testi d’amore,  o “Chocolate Jesus” ed “Ice cream Man”, per la loro ironia. Altre avevano melodie estremamente leggere e stimolanti, come “Telephone call from Istanbul” o “Jockey full of bourbon”: cantandole sentivo quasi i profumi dei luoghi nei quali erano ambientate. La scelta di “Clap Hands “, che è il brano che apre il disco e col quale amo iniziare i concerti,  è arrivata dopo un suggerimento di Massimo Antonietti , il mio chitarrista. Non era semplice darle carattere, con il tipo di organico che ho scelto, ma il testo mi piaceva molto: la denuncia della grande differenza tra poveri e ricchi a New York, raccontata come fosse una  filastrocca torbida.  Nel  disco avrà doppia versione perché mi sono divertita a cantarla sia col quartetto che da sola con i “Bamboo”, un gruppo che suona percussioni “urbane” quali bidoni, catene, ciotole colme di acqua, giocattoli elettronici per bambini: l’effetto è molto divertente, ed era esattamente ciò che immaginavo.
Come dicevo i brani in lizza erano tantissimi ma molti , cantandomeli da sola al piano , non andavano da nessuna parte , rimanevano quasi immobili. Altri invece si aprivano magicamente come scatole segrete, ed allora il gioco è stato quello di entrarci dentro per vedere cosa sarebbe successo.

Tom Waits è difficilmente collocabile in un genere preciso. Quale lato di lui ti ha parlato di più? Il blues, il jazz, la poetica dei testi … su cosa poni l’ accento?

E’ proprio questo suo essere poco collocabile che , secondo me , lo rende affascinante.. nel senso che ha risuonato in me quel miscuglio espressivo che anche io porto dentro da sempre e che mi somiglia. Ho cominciato a cantare a sedici anni il Jazz ed il blues e dunque questo è diventato il linguaggio col quale mi sono divertita ad affrontare tante cose diverse. In Tom Waits ho percepito il desiderio profondo di libertà, di non avere vincoli di nessun tipo . Naturalmente questo può avvenire quando si ha non solo il grande coraggio di essere se stessi,  ma anche una timbrica dalla personalità pazzesca come la sua, che diventa il filo rosso  che unisce, e che  permette di cantare cose solo apparentemente distanti.
Amo molto il suo essere ipnotico cantastorie ma anche questa la sua vena melodica, così affascinante.

Le melodie dei brani di Tom Waits sono effettivamente affascinanti (penso anche solo al suo LP” Blue Valentines” ) . Quanto conta per una cantante una melodia che abbia già di per se una valenza espressiva potente? Sei portata a preservarne  gelosamente il tema giocando creativamente su timbro e dinamiche  o è una base ispiratrice  da cui partire per inventare altro?

Credo che la melodia sia tutto , perché porta in se già un suo mondo armonico sotteso:  grandi musicisti con i quali ho avuto l’onore di cantare , penso a Giorgio Gaslini o  Ennio Morricone , mi hanno insegnato che bisogna rispettare profondamente una melodia, perché se è stata scritta così alla base c’è sempre un motivo profondo. Dunque prima di cambiarla bisogna avere la consapevolezza che ogni singola nota l’autore l’ha voluta seguendo un percorso anche sofferto o complesso:  per questo va rispettata e difesa. E’  vero anche che il jazz è improvvisazione ed è interpretazione:  l’importante è esserne consapevoli e variare , secondo il mio modesto parere, solo quando quelle varianti scaturiscono  da un’ urgenza espressiva. Dove improvvisi, e cambi, attiri naturalmente, e sposti,  l’attenzione di  chi ascolta.

 

Chi sono i musicisti che hai scelto per questo progetto?

Ho cercato un organico sospeso di tutte “corde”. Oltre alla mia voce c’è il violoncello di Giovanna Famulari, bravissima musicista che si è messa molto alla prova nel progetto:  è quella  meno abituata al jazz e all’improvvisazione, ma che si è divertita ad usare colori diversi e si è aperta a sperimentazioni varie pur mantenendo la sua grande liricità.  Alla chitarra c’è Massimo Antonietti, mio amico e chitarrista da parecchi anni:  condividiamo l’amore per Waits , anche lui ha il tocco della musica classica ma è un jazzista che ama oltrepassare i propri confini. Al contrabbasso ho voluto Andrea Colella, bravissimo musicista pugliese, che oltre ad avere un bel suono è molto creativo e ha dato un contributo davvero speciale al tutto. Ho scelto di non mettere la batteria perché volevo che la pulsazione ritmica , che riportasse i musicisti al centro di tutto, fosse sottintesa,  e la stessa per tutti. Questo ci ha costretti a cercare e cercarci molto, rimanendo davvero uniti . Nel disco ho voluto degli ospiti , tanti ospiti , tredici!!!  Volevo fosse una festa , volevo che ogni brano avesse il suo mondo il suo suono: d’altronde è il primo disco a mio nome dopo ventisette anni di musica e piu di venti dischi in progetti di altri, e mi sono assunta totalmente la responsabilità delle scelte che ho fatto, forse controcorrente, ma che mi rendono  felice .
Ho avuto la fortuna di avere Antonello Salis alla fisarmonica , Gabriele Mirabassi al clarinetto, Michele Rabbia alla batteria, proprio loro che considero i tre “folletti” del jazz italiano,  quelli che hanno avuto secondo me più di altri il coraggio di portare avanti un linguaggio trasversale, legato si al jazz, ma anche alla tradizione e dai quali ho imparato sicuramente il valore della “libertà” .
Nel disco sono stati davvero strepitosi, si sono dati ed affidati completamente mettendo molta energia e soprattutto cuore , elemento fondamentale quando si suona in un disco non nostro, e che per giunta si registra in una giornata o due . Poi c’è Alessandro Gwis al pianoforte ,in un brano bellissimo che abbiamo suonato anni fa insieme per la prima volta. Volevo che mettesse il suo mondo incantato in “The briar and the rose” e c’è riuscito. Poi in “Alice” e “San Diego serenade” c’è un musicista speciale per me perché lo considero il mio “fratello” della musica: Gabriele Coen,  che ha suonato sax soprano e clarinetto basso . Io e Gabriele siamo cresciuti insieme,  suoniamo insieme da 23 anni, che non sono pochi,  e ci tenevo che fosse anche lui in “Waitin’4Waits”. Il bimbo che si sente all’inizio di “Alice” è Adriano, suo figlio di 5 anni,  e al pianoforte  c’è Domenico Capezzuto, anche lui amico da tanto col quale ho condiviso molta musica e che ha messo il suo tocco poetico e la sua grazia espressiva. In “You can never hold back spring” ,uno dei brani piu recenti scritto da Waits per la colonna sonora di “La Tigre e la neve”, ho voluto ricreare un suono antico e ho registrato da sola con Marco Loddo al contrabbasso , musicista che adoro per la sua solidità e capacità espressiva rara, e Massimo Pirone al trombone, che riesce ogni volta a farmi fare un tuffo nel passato col suo timbro inconfondibile. Poi , come ti dicevo i Bamboo , giovani percussionisti divertenti e creativi: registrare con loro è stata un’esperienza magica, rarefatta, particolare.

Che sapore  ti ha lasciato questa esperienza?
La cosa fantastica è che di quasi tutti i brani ho scelto la prima take che era quasi sempre la migliore, e non ho sovrainciso nulla  . La musica su disco la immagino e la sento così, perché credo che la musica registrata debba essere una foto del moment. Non amo , di indole , le cose troppo costruite. Mi piace l’attimo,  l’istante,  la prima impressione, che spesso è quella giusta. Mi viene in mente Pedro Salinas che dice “Non ho bisogno di tempo per sapere come sei , conoscersi è luce improvvisa..” Ecco, la musica per me è “luce improvvisa”.
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Roberto Magris

Roberto Magris è nato a Trieste nel 1959. Ha iniziato la sua carriera jazzistica alla fine degli anni ’70. Ha realizzato 27 album ed ha sostenuto concerti in 41 paesi del mondo, suonando in Europa, America, Asia, Africa ed Australia. E’ direttore musicale della JMood Records, casa discografica jazz di Kansas City. In questa intervista Magris parla con estrema chiarezza, affrontando anche tematiche scottanti.

-Cos’è oggi per lei il jazz ?

E’ una musica nata e sviluppatasi nel secolo scorso, così come il rock, e che oggi tende ad unificarsi in altri generi musicali per diventare una musica “complessiva”: la musica del mondo globalizzato. Oggi, grazie alla diffusione globale del jazz e soprattutto alle scuole dove si studia ed impara il linguaggio del jazz, i musicisti sono così consapevoli e preparati da poter  “partire” dal jazz per dirigersi verso molteplici direzioni e stili musicali (un notevole passo avanti rispetto alla mia generazione che studiava invece per “arrivare” al jazz). Oggi quindi il jazz è sia “rivisitazione di un repertorio classico”, sia una musica “progressive” che segue l’evoluzione della società, cercando nuove strade per quella potrà essere la musica globale del futuro. A me, personalmente, piacciono ed interessano entrambe le direzioni.

-Come e quanto influisce sulla sua musica l’essere italiano e più precisamente vivere in una città così particolare come Trieste?

Influisce ed ha influito molto. Se guardiamo la carta geografica dell’Italia, Trieste è una città in posizione marginale, alla frontiera nord-orientale, distante da Milano ed ancor più dalla capitale Roma. Se invece guardiamo la carta geografica dell’Europa vediamo che Trieste si trova al centro, nel cuore della cosiddetta Mitteleuropa e con ben 6 capitali europee a portata di mano (Lubiana, Zagabria, Vienna, Bratislava, Budapest, Praga, oltre a Salisburgo e Monaco). Infatti non è un caso che Trieste abbia fatto parte dell’Austria per ben 600 anni e che il suo porto (che oggi è il primo porto petrolifero del Mediterraneo, dal quale parte l’oleodotto che copre tutto il fabbisogno di Austria, Rep. Ceca, Slovacchia, Ungheria e Baviera) continui ad operare massimamente per il bacino centroeuropeo. Nella mia città, qualunque iniziativa si voglia attivare, se si vuole aver successo si deve necessariamente puntare a quello che è geograficamente il suo hinterland naturale, ovvero il centroeuropa. Se invece ci si rivolge all’Italia, si entra in una dimensione di periferica provincialità. E’ successo anche a me con la musica e, sia chiaro, non si tratta assolutamente di una posizione anti-italiana ma soltanto della logica conseguenza del vivere in questa particolare città. Anzi, come musicista, mi sono sempre trovato a rappresentare all’estero il jazz italiano che però, paradossalmente, non mi ha mai riconosciuto e non mi riconosce tuttora tra i suoi esponenti più rappresentativi. In realtà, per certi versi a ragione… nel senso che io non sono certamente un “prodotto” della scena italiana del jazz, ma il mio retaggio culturale e relazionale e la mia esperienza musicale viene dalla scena jazz centroeuropea. I miei primi vent’anni di jazz, infatti, li ho spesi in gran parte suonando, oltreché nella mia città e nel vicino Veneto, soprattutto in Slovenia, Austria, Ungheria, Germania, Croazia, Rep. Ceca, Polonia ecc.. E’ vero che ho fatto delle puntate con il mio quartetto in quasi tutte le regioni d’Italia, suonando anche a diversi festival, ma la dimensione/rapporto può ben rappresentarsi nel seguente esempio: nella mia vita, finora, ho suonato a Roma un’unica volta, a Milano forse 4-5 volte, mentre a Praga (o a Kansas City, per dirne un’altra) siamo sulla ventina.

L’influenza di essere di Trieste nella mia musica si è esplicata soprattutto nei primi anni della mia vicenda musicale. Erano gli anni Ottanta, c’era la cortina di ferro, ed io ero uno dei pochi musicisti dell’Ovest a collaborare regolarmente con la scena jazz est-europea. Con il mio trio di allora, il Gruppo Jazz Marca, ero in contatto e sintonia con il lavoro di musicisti come Emil Viklicky, Janos Gonda, Bosko Petrovic, Tony Lakatos, Janusz Muniak, Sandor Szabo, e proponevo – mi si consenta, in anticipo con i tempi – un jazz di matrice europea basato su melodie popolari, retaggi classici e jazz modale. Registrai 3 Lp, tra cui uno dal titolo mitteleuropa che venne molto apprezzato a livello internazionale e pure recensito da Down Beat, parliamo di 25 anni fa… In Italia passò nel sostanziale disinteresse/incomprensione – eravamo nel periodo “free jazz politico” – così come il mio primo Lp dal titolo comunicazione sonora, che registrai nel 1981 a 22 anni (nel volume giapponese Jazz Critique dedicato al jazz europeo è tuttora presente). I conti comunque alla fine mi sono ritornati, dal momento che questi 3 Lp nel corso degli anni sono diventati dei “collector items” venduti alle aste online su internet e l’etichetta londinese Arision li ha infine ristampati su Cd. Ancora oggi, per quel mondo del jazz est-europeo fatto di etichette discografiche “di stato” come Jugoton, Pannonton, Supraphon, Amiga, Poljazz e di tanto jazz “valoroso” che aveva un significato di libertà, sotto l’icona di John Coltrane, provo una certa nostalgia per la sua sincerità e verità anche naif nel fare musica. La scorsa primavera sono ritornato a Praga, dopo alcuni anni, per 3 serate al Reduta, al Jazzdock ed all’Agharta, in trio con i miei vecchi amici Frantisek Uhlir e Jaromir Helesic. Arrivato ai club, ho trovato tutti i posti già “sold out” ed ho pensato “qui sono sempre a casa”. Poi, quando Pavel Smetacek – leader del Traditional Jazz Studio e poi politico dell’era Vaclav Havel – mi ha portato in regalo un libro sul jazz a Praga nel quale c’era anche un passaggio dedicato a me, con una mia foto, ho pensato: “questo in Italia proprio non lo sa nessuno”. Del resto, mentre in quel periodo in Italia c’erano i collettivi di musica improvvisata, io ero musicalmente e fisicamente tutto da un’altra parte.

-Se non sbaglio nei primi anni 2000 c’è stata anche l’esperienza dell’ Europlane Orchestra…

Esatto… nei primi anni 2000 ho avuto l’opportunità di fondare e dirigere l’Europlane Orchestra, l’orchestra jazz dei paesi centro-europei patrocinata e sostenuta politicamente e finanziariamente dall’INCE-CEI – Iniziativa Centro Europea, con sede a Trieste. E’ stato un periodo di felice ritorno e riscoperta, dopo vent’anni ed a condizioni politiche completamente mutate, di quello stesso mondo del jazz est-europeo, nel frattempo ormai “sdoganatosi” a livello internazionale. Con l’Europlane Orchestra – una specie di Vienna Art Orchestra di dimensioni più contenute – ho scritto composizioni ed arrangiamenti sempre nuovi, per ogni meeting annuale, sostenendo concerti (anche in situazioni istituzionali europee) e registrando 3 Cd (l’ultimo è current views. E’ stata una faticaccia, ma ne è valsa la pena e mi sono divertito con vecchi e giovani amici. Poi, una volta che le varie Ungheria, Romania, Polonia, Rep. Ceca ecc. sono entrate definitivamente nella Comunità Europea, la “mission” si è conclusa e con essa i finanziamenti e l’esistenza dell’orchestra stessa. Ma ancora fino a poco tempo fa i musicisti continuavano a scrivermi: quando ci rivediamo?

-Come spiega il fatto che probabilmente lei è più conosciuto e apprezzato all’estero che non in Italia?

Se da giovane mi fossi trasferito a Milano o a Roma mi sarei inserito nella scena jazz italiana, invece mi è stato più agevole rimanere a vivere a Trieste ed inserirmi direttamente nella scena jazz europea. Sembra una battuta, ma non lo è. Poi, a partire dagli anni Novanta ho cominciato a suonare anche e sempre di più in giro per il mondo. In America Latina ho praticamente suonato in quasi tutti i Paesi (da Buenos Aires a Lima, da Caracas a Città del Messico, da Montevideo a Managua in Nicaragua, Quito in Ecuador , Asuncion in Paraguay…). In Asia ho suonato in Cina, ad Hong Kong, in Uzbekistan, in Indonesia, nelle Filippine, poi in Australia, in Canada, ai Caraibi in Jamaica e Curacao, in Gabon in Africa e soprattutto negli Stati Uniti. Mi vien da dire che magari qualche festival in Italia in più  avrebbe anche potuto interessarsi alle mie proposte… ma ormai sono molti anni che ho smesso di “perdere tempo” e, semplicemente, se in Italia qualcuno mi chiama vengo volentieri altrimenti pazienza. Da quel che ho potuto toccare con mano, il mondo del jazz italiano (promoter e musicisti) è esattamente come l’Italia, un Paese che amo molto ma che, con ogni evidenza, ha qualche serio problema… con le dovute rare eccezioni, naturalmente. Per contro alla “situazione concerti” devo invece dire, con soddisfazione e gratitudine, che conto molti amici ed estimatori tra i critici jazz italiani, da lunga data, che mi hanno seguito e sostenuto con recensioni ed interviste; inoltre, ho avuto un ottimo rapporto con le etichette jazz italiane, soprattutto con la BlackSaint/Soulnote di Bonandrini, che ha pubblicato 3 miei Cd, che reputo i migliori da me realizzati con musicisti europei (in testa check in, con Tony Lakatos e Michi Erian)

-Lei ha una notevole frequentazione con gli States, in special modo con Kansas City; come è nato questo rapporto?

Semplicemente, il mio manager e produttore discografico negli USA è Paul Collins, che è di Kansas City. Più nel dettaglio, nel 2006 avevo dei concerti a Los Angeles assieme ad Art Davis (bassista di John Coltrane) e suonammo alla Jazz Bakery ed al Catalina Jazz Club di Hollywood, che ebbero un ottimo successo. L’anno seguente ci incontrammo di nuovo a Los Angeles per registrare il Cd mating call, assieme ad Idris Muhammad. Dopodiché fu naturale l’invito a Kansas City, per concerti e nuove registrazioni per la sua etichetta JMood Records, di cui poi mi ha chiesto di diventare il direttore musicale. Oggi, sono arrivato a quota 12 CD incisi a mio nome negli USA per un’etichetta americana, il che penso sia un record per il “jazz italiano”. Negli ulteriori CD per la JMood ho registrato varie volte con Albert Tootie Heath, con Sam Reed, ma anche con “giovani leoni” come Brandon Lee, Kendall Moore e Logan Richardson e la “mia ritmica” (Dominique Sanders al contrabbasso e Brian Steever alla batteria). Di particolare successo finora…  sono stati aliens in a bebop planet ed enigmatix, ma tutti i miei lavori vengono abitualmente promossi presso la rete delle radio jazz americane, con recensioni su Down Beat, JazzTimes, All About Jazz ecc. Oltre a ciò, va ricordato che Kansas City è una delle capitali del jazz ed è la città di Charlie Parker, Mary Lou Williams, Count Basie, Jimmy Lunceford, Jay McShann… ma anche di Bobby Watson e Pat Metheny…  ed a Kansas City c’è la sede dell’American Jazz Museum. Qualche anno fa, proprio in occasione di un mio concerto all’American Jazz Museum, in tributo all’appena scomparso Jay McShann (di cui conosco la famiglia, ho ricevuto in omaggio di alcuni suoi arrangiamenti originali e sul cui pianoforte ho personalmente suonato, a casa sua), il City Council di Kansas City mi ha conferito la cittadinanza onoraria, di cui sono particolarmente orgoglioso. Dopo tanti anni posso dire di essere (anche) un musicista della scena jazz di Kansas City e, anzi, negli USA vengo spesso direttamente presentato come un musicista di Kansas City (che è per me sempre un bel complimento!). Non è escluso che prima o poi mi trasferisca direttamente a vivere negli States, visto che anche a mia moglie piacciono molto. (altro…)

Franco D’Andrea

Foto Daniela Crevena

 

Franco D’Andrea è una delle punte di diamante del jazz internazionale. Grazie ad  una tecnica superlativa e ad una capacità improvvisativa che non teme confronti, il pianista di Merano è uno dei pochi artisti che riesca a coniugare, in mirabile sintesi, la tradizione e il linguaggio attuale del jazz. La sua oramai lunga carriera è costellata da esperienze tutte assai felici e da una serie di album che fanno oramai parte della storia del jazz italiano. Uomo affabile e dal facile eloquio, D’Andrea mai si sottrae ad un franco confronto…come accade nell’intervista che segue, realizzata in un ristorante di Ruvo di Puglia  sabato dieci ottobre, il giorno della sua esibizione al Talos Festival.

Tu sei uno dei pochi musicisti che suona un jazz estremamente moderno sulla base di una conoscenza approfondita della tradizione. Come sei arrivato a questo tuo linguaggio così particolare?

Questo fa parte della mia storia. Io, quand’ero ragazzino, mi sono innamorato del jazz ascoltando Louis Armstrong e ciò, prima o dopo, produce qualche effetto. Louis Armstrong con gli All Stars; ricordo che allora i dischi di Armstrong degli anni Venti erano difficili da ascoltare, gracchiavano , non si capiva granché; però quel disco degli All Stars che per caso mi fece ascoltare un mio compagno di scuola, era ben registrato, Louis Armstrong suonava al meglio con Barney Bigard al clarinetto, Trummy Young al trombone… insomma dei personaggi straordinari… davvero un bel gruppo. Mi piacque tantissimo per cui io ho cominciato ad interessarmi di jazz, a suonarlo con il jazz tradizionale. Ho voluto immediatamente comprare una tromba per cui hanno ragione quanti, tracciando la mia biografia, dicono che ho cominciato suonando la tromba. L’ho suonata veramente ma nel jazz tradizionale. Quando ho sentito Louis Armstrong avevo circa tredici anni per cui, circa quattro anni dopo, un mio amico – ma permettimi una digressione: io sono nato a Merano e Merano è un posto un po’ strano in quanto c’è una parte di lingua tedesca e una di lingua italiana – ebbene, questo mio amico di lingua tedesca ogni tanto andava a Monaco a cercare dei dischi particolari e mi portò un disco di Horace Silver. Era il primo disco che fecero con l’insegna dei Jazz Messengers, cioè non si era ancora deciso se il leader sarebbe stato Silver o Art Blakey. Era un bellissimo disco, c’erano pezzi come Nica’s Dream, Icaroh … è un disco che ancora oggi, quando l’ascolto, mi sembra bellissimo. Ecco, in quel momento ho capito che c’era un altro jazz, di un altro genere, egualmente bello, interessante. Io ero un tradizionalista convinto, potevo arrivare alla swing era, potevo spingermi sino a Benny Goodman ma di jazz moderno nulla conoscevo.

Quindi Silver ti ha aperto nuovi orizzonti.. ma hai avuto anche un ottimo viatico in quanto la musica di Silver è davvero trascinante, fresca ancora oggi a tanti anni di distanza.

Hai perfettamente ragione. Ho avuto fortuna perché Horace Silver è in effetti una buona porta d’ingresso per incontrare il jazz moderno: come tu dici, la sua è una musica piacevole, ha una sua melodicità, dei temi bellissimi, una semplicità molto accattivante. Partendo da lì è stato poi facile ascoltare tutto il resto e cioè Coltrane, Miles Davis, Cannonball Adderley… a quel punto però ero in gravi difficoltà. Io suonavo strumenti a fiato – oltre la tromba il clarinetto , il sax soprano – insomma tutti gli strumenti classici del dixieland, e non sapevo un accordo; da questo punto di vista la roba di Horace Silver era difficilissima.

-E’ questo che ti ha spinto verso il pianoforte?

Esatto. Trovandomi dinnanzi a queste difficoltà, ho cominciato a toccare il pianoforte che c’era a casa, il classico piano di famiglia, e lì – come dico spesso ai miei allievi – ci sono rimasto incollato. A quel punto della mia vita il pianoforte era indissolubilmente legato al jazz moderno; superati i venti anni, vado a Bologna e qui incontro un giro pazzesco; io ufficialmente avrei dovuto studiare a Bologna , all’Università, ma io coltivavo questa passione per la musica e così nella città felsinea trovo questi personaggi che mi traviano completamente: jam sessions che finivano alle cinque del mattino… Insomma finii con l’abbandonare l’Università; in compenso conobbi altre cose del jazz moderno a contatto con quell’ambiente.

-Ma chi erano i personaggi che animavano la scena bolognese di quegli anni?

Il personaggio più importante, l’animatore era Alberto Alberti che all’epoca vendeva dischi, soprattutto di jazz, e fomentava un enorme interesse, passione per questa musica. L’ambiente che gli stava attorno era costituito nella quasi totalità da musicisti appassionati e anche bravi, alle volte molto bravi… ricordo che tra questi musicisti c’era Lucio Dalla che all’epoca suonava il clarinetto, tra l’altro abbastanza bene . A un certo punto conosco Maurizio Maiorana che era il bassista di Amedeo Tommasi , però il Maiorana aveva avuto un invito per andare a Roma con Nunzio Rotondo. Maiorana mi aveva sentito in queste jam sessions e gli piaceva come suonavo; così mi raccomandò presso Nunzio Rotondo e mi propose di seguirlo nella Capitale. Così nel ’63 sono andato a Roma e a quel punto è cominciata la mia carriera da professionista, avevo ventidue anni. (altro…)

Alma Brazileira @ Zingarò Jazz Club, Faenza

Alma Brazileira @ Zingarò Jazz Club, Faenza

Alma Brazileira
Emiliano Rodriguez. sassofoni
Stefano Nanni. pianoforte
Roberto Bartoli. contrabbasso
Gianluca Nanni. percussioni

Mercoledì 18 novembre. ore 22
Zingarò Jazz Club
Faenza (RA). Via Campidori, 11.

web: www.twitter.com/zingarojazzclub ; www.ristorantezingaro.com

Mercoledì 18 novembre, alle 22, lo Zingarò Jazz Club di Faenza presenta Alma Brazileira, il viaggio all’interno delle tante anime musicali del Brasile proposto dal quartetto formato da Emiliano Rodriguez ai sassofoni, Stefano Nanni al pianoforte, Roberto Bartoli al contrabbasso e Gianluca Nanni alle percussioni. Il concerto avrà inizio alle 22 ed è ad ingresso libero.

Un viaggio attraverso le composizioni delle figure più eminenti della storia musicale brasiliana. Gismonti, Jobim, Pascoal, Villalobos, Guinga sono partiti dalla tradizione popolare per creare un linguaggio universale ed esprimere compiutamente l’anima del Brasile più profondo. Ciascuno con la propria sensibilità, questi grandi compositori hanno saputo filtrare e fondere insieme elementi popolari, riflessioni colti del mondo classico e influenze jazzistiche.

Alma Brazileira trae, perciò, linfa vitale dallo choro, dalla milonga, dai ritmi e dalle melodie più antiche e seducenti grazie alle versatilità di quattro solisti capaci di passare agevolmente dal classico al jazz, dall’etnico al contemporaneo. Il repertorio è arricchito da brani inediti legati alla cultura brasiliana composti dagli stessi musicisti. Gli arrangiamenti proposti dai quattro protagonisti prevedono ampi spazi dedicati all’improvvisazione e mirano a mantenere i colori cangianti e l’essenza del folklore brasiliano. Per il 2016 è in programma l’uscita del primo Cd con la partecipazione della prestigiosa orchestra d’archi “I Virtuosi Italiani”.

Emiliano Rodriguez, Stefano Nanni, Roberto Bartoli e Gianluca Nanni sono quattro musicisti familiari per il pubblico appassionato e competente dello Zingarò Jazz Club. Le loro collaborazioni spaziano in modo poliedrico attraverso i generi: le esperienze acquisite a fianco di artisti diversi, la capacità di lavorare sia con l’arrangiamento che con la composizione, l’interplay costruito nel corso degli anni sono gli elementi che rendono coerente e ispirato il percorso intrapreso dai quattro all’interno del vasto musicale brasiliano.

Le foto scattate da Lorenzo Gaudenzi ai protagonisti delle precedenti stagioni del club faentino fanno da cornice ai concerti dello Zingarò Jazz Club.

Lo Zingarò Jazz Club si trova a Faenza, in Via Campidori, 11.