I NOSTRI LIBRI

I NOSTRI LIBRI 

Jeroen De Valk – “Chet Baker – Vita e musica” – EDT – pgg.331 – € 20,00
Questo libro mi ha particolarmente colpito anche a livello emotivo. Ciò perché si parla di un musicista che io ho ben conosciuto in vita e di cui ho spesso parlato con quanti hanno avuto l’occasione di suonare con lui. E dirò immediatamente che tutti coloro che hanno avuto l’opportunità di suonare con Chet Baker semplicemente lo adorano e ne parlano con grandissima dolcezza. Altro motivo per cui il volume ha colto il mio interesse è la ricchezza di particolari, di episodi, di fatti che ci aiutano a meglio inquadrare la complessità di uno dei non molti giganti del jazz moderno. In effetti rimango sempre meravigliato quando leggo una biografia talmente esaustiva come se lo scrittore fosse stato una sorta di ombra vagante dietro l’artista. A questo punto vi sarete già resi conto he si tratta di un volume imperdibile e non solo per chi ha conosciuto e amato la musica di Chet Baker. In particolare si amo in presenza della riedizione di un volume che lo stesso de Valk aveva pubblicato in olandese un anno dopo la scomparsa del musicista ad Amsterdam nel 1988. Questa edizione è la versione, quindi, completamente riveduta, corretta e ampliata di quel libro pionieristico, nata dal fatto che l’autore ha conosciuto e intervistato lo stesso Baker, oltre che amici, mogli, colleghi e collaboratori di tutte le fasi della sua carriera. Di qui un ritratto tracciato con grande onestà intellettuale in cui l’ammirazione per l’artista non fa velo alla statura umana del personaggio la cui vita, purtroppo, è stata così strettamente legata ai problemi con la droga, di cui De Valk parla ampiamente. Il tutto citando le fonti e le interviste con personaggi che quegli eventi hanno vissuto in prima persona. Molti e ampi i riferimenti ai meriti artistici di Chet, alla sua voce così suadente seppur tutt’altro che robusta, al suo modo particolarissimo di suonare la tromba con quel sound che solo lui poteva creare. A chiusura del volume una serie di preziosi interventi di alcuni personaggi che hanno voluto omaggiare Chet, da Lee Konitz a Peter Huijts, da Harry Emmery a Cecco Maino. Ottima la discografia ben commentata dall’autore e, more solito, assai utile l’indice analitico.
Un’ultima considerazione tutt’altro che banale: il volume si avvale della preziosa traduzione di Francesco Martinelli che si esprime con il solito prezioso italiano e la ben nota proprietà di linguaggio.

Andrea Fabris – “La voce della felicità – dentro la musica di Jakob Bro “ – arcana – pp.130 – € 15,00
A mio avviso questo libro è un bel segnale per tutto il mondo dell’editoria jazzistica: in effetti, anziché puntare sui grandi nomi del jazz, su quelli che hanno fatto la storia, oramai da qualche tempo alcuni scrittori fanno oggetto delle loro indagini artisti eccellenti anche se non possono essere classificati come capiscuola o sconvolgenti innovatori. E’ certamente il caso di Jakob Bro chitarrista di grande valenza che negli ultimi tempi si è posto particolarmente in luce grazie ad una poetica molto personale e ad una preparazione tecnica molto molto raffinata. Classe 1978, danese, Jakob Bro è uno dei chitarristi più eclettici che il panorama jazzistico abbia partorito negli ultimi vent’anni. Inizia giovanissimo collaborando con i gruppi di Paul Motian e Tomasz Stanko, per poi assurgere a leader universalmente riconosciuto come evidenziato dai numerosi riconoscimenti ottenuti tra cui 6 Music Awards danesi e l’inserimento nella Jazz Denmark’s Hall of Fame. Incide 16 dischi da leader, suonando con musicisti quali Lee Konitz, Bill Frisell, Andrew Cyrille, Kenny Wheeler, Jon Christensen, Palle Mikkelborg, Joey Baron, Thomas Morgan, Larry Grenadier, Jorge Rossy, Craig Taborn, Mark Turner, Arve Henriksen. Ecco, il volume ben articolato ripercorre le tappe della vicenda umana e artistica di Jakob. Ne scaturisce un ritratto completo e complesso che ci restituisce un uomo e un jazzista che ha saputo nel suo stile far coesistere le influenze derivanti dalla lezione di Bill Evans, dal concetto di libertà proprio dell’improvvisazione europea e dalla particolarità della musica nord-europea costantemente sospesa tra musica classica e folk. Il libro si legge molto piacevolmente grazie all’ottimo italiano dell’autore che non disdegna narrare alcune significative esperienze personali. A completamento del tutto alcune belle foto in bianco e nero, una bibliografia per forza di cose non ancora nutritissima, una sitografia e soprattutto una buona discografia.

Amedeo Furfaro – “Nuovo Jazz Italiano in 100 Dischi” – The Writher – pgg.150 – € 12,00
Il nostro infaticabile collaboratore Amedeo Furfaro presenta questa sua nuova creatura dedicata, more solito, alla discografia. Di qui una domanda. Ma questi libri sono realmente utili? A mio avviso non solo sono utili ma sotto certi aspetti indispensabili. Dato per scontato che anche un critico di professione possa sbagliarsi nelle proprie valutazioni, ciò non toglie che soprattutto per chi si avvicina a questo genere musicale leggere i pareri di chi ha alle spalle ore e ore di ascolto può risultare di grande aiuto…anche perché nonostante di dischi se ne vendano sempre meno, il mercato è letteralmente inondato da una miriade di nuove produzioni, molte valide, molte altre un po’ meno. Ma veniamo a questo nuovo libro suddiviso in ben undici capitoli: Jazz di viaggio, Eva e il Jazz, Decathlon Discografico, La teoria dei gruppi, Pizzicanti in cordata, Insiemi di musica, Le band dei 4, Poetry in Jazz, La bellezza del Jazz, Il pianoforte ben temperato, Alla fiera del disco. Evidentemente siffatta suddivisione agevola la consultazione del volume stesso nel senso che si fa presto a individuare, ad esempio, uno strumento di proprio gradimento e andare a vedere quali e quanti dischi sono stati pubblicati. Al riguardo si precisa che gli album recensiti sono circa un centinaio, usciti tutti in un arco di tempo che comprende il 2022 e il 2023. Siamo quindi nel campo dell’attualità per cui, ad esempio, risulta particolarmente interessante il capitolo dedicato alle musiciste, a conferma che il jazz italiano si arricchisce sempre più di apporti al femminile. Un’ultima notazione non secondaria: il volume è liberamente consultabile presso il sito dell’autore: www. AmedeoFurfaro.it

Guido Michelone – “Il Jazz e l’Europa” – arcana – pgg.467 – € 25,00
Un altro autore molto prolifico è Guido Michelone che, dopo i viaggi nelle Americhe e in Asia, Africa, Oceania si ripresenta sul mercato con un ponderoso volume dal titolo “Il Jazz e l’Europa – Nuovi ritmi e Vecchio Continente 1850 – 2022”. Il titolo è già di per sé chiaramente esplicativo di ciò che si può trovare nelle oltre 400 pagine del volume: la narrazione, nei singoli capitoli, delle vicende del jazz di una quarantina fra stati, regioni, metropoli, servendosi di documenti storici, interviste ai protagonisti e soprattutto ascolto di dischi, questi ultimi fondamentali quali riferimento assoluto per conoscere di volta in volta l’Albania o la Svezia, la Cecoslovacchia o la Jugoslavia, Parigi o Barcellona… Quindi una preziosa opera di ricostruzione che fa capire al lettore come il jazz, sbarcato oltre un secolo fa, durante e dopo la Grande Guerra al seguito delle truppe statunitensi, abbia trovato subito una straordinaria accoglienza dai più svariati “pubblici” specialmente in Francia e in Inghilterra. C’è voluto del tempo ma durante il secolo scorso il Jazz è diventato linguaggio esso stesso europeo pur nelle diversità stilistiche connaturate a ciascun Paese.   Tendenza che si è vieppiù rafforzata in questi primi due decenni del secolo XXI. Insomma un libro che consiglierei a chiunque abbia un minimo di curiosità per andare a scoprire come va il jazz al di fuori dei nostri confini… e vi assicuro che ne scoprirete di belle!

Marco Molendini – “Pepito Il principe del Jazz” – minimum fax – pgg.138 – € 16,00
Devo confessare che mi ha fatto un certo effetto leggere vicende di cui almeno in parte sono stato anch’io spettatore. In effetti in questo libro Marco Molendini, traccia la figura di Pepito Pignatelli, al secolo Principe del S.R.I.,  XVI  principe di Castelvetrano,  XVI principe di Noja,  XVIII duca di Monteleone,  XVI duca di Terranova,  XVIII marchese di Cerchiara,  XVI marchese di Avola  e marchese di Caronia. Ma parlare di Pepito significa anche narrare la storia di uno dei più importanti locali di jazz italiani – il “Music Inn” – che lo scrivente ha frequentato innumerevoli volte conoscendo abbastanza bene Pepito e la sua splendida moglie, Picchi, nonché una caterva di musicisti ché il locale era veramente aperto a tutti non come oggi in cui per suonare occorrono altri requisiti oltre la bravura…per altro non sempre indispensabile. Ma veniamo al volume. Si parte da lontano, dal 1968 quando all’Helio Cabala si esibiscono Enrico Rava, Steve Lacy, Franco D’Andrea, Marcello Melis al contrabbasso e Pepito Pignatelli alla batteria. Da qui nasce tutto ciò che Marco ci racconta, la sua amicizia con il principe Pepito Pignatelli, batterista ma soprattutto grandissimo amante del jazz, che in una stagione indimenticabile, riuscì a portare nella Capitale il meglio del jazz mondiale. Nella prima parte il libro è incentrato sulle vicende di Pepito, nato in Messico ma cresciuto nella Roma fascista ove, appena ventenne, fonda il Mario’s Bar primo jazz club italiano, seguito sempre per sua iniziativa dal Blue Note e quindi dal Music Inn. Il racconto si sviluppa quindi avvincente come una sorta di romanzo, il romanzo di una coppia – Pepito e Picchi – follemente innamorati del jazz che riescono a produrre una sorta di miracolo: Purtroppo come tutte le cose, anche le più belle, Pepito morì giovane nel 1981 a soli 50 anni probabilmente usurato da una vita vissuta appieno seguito nel 1992 dalla moglie suicidatasi per il dolore di dover vivere un’esistenza da sola, senza l’amato compagno.

Gerlando Gatto

PER NON DIMENTICARE

Affrontare un nuovo anno è un po’ come prepararsi ad un’impresa impegnativa. In effetti occorrono diverse condizioni perché il futuro sia visto con un minimo di ottimismo. Innanzitutto, è indispensabile porsi degli obiettivi il più chiari possibile; in secondo luogo è sempre opportuno raffrontare tali obiettivi ai mezzi disponibili; terzo – ma non meno importante – avere un quadro chiaro della situazione appena trascorsa per individuarne eventuali lati deboli su cui agire. Insomma, a mio avviso, la conoscenza piena, compiuta, consapevole del passato è condizione indispensabile per affrontare il futuro.
Se fossi un imprenditore direi che la situazione è ancora molto ma molto pesante perché dopo la pandemia siamo dentro un contesto internazionale pesantissimo anche se i più recenti dati sull’economia italiana non sono malvagi.
Per fortuna non sono un imprenditore ma un giornalista professionista che dopo essersi occupato per trent’anni di economia, adesso segue la sua più grande passione: il jazz.
Ritornando al discorso di cui in apertura, qual è attualmente la situazione del comparto jazzistico nel nostro Paese? Indubbiamente pesante anche se ho la vaga impressione che si tenda a dimenticare quanto accaduto nel recente passato.
Ecco è proprio da questa esigenza, dall’esigenza che non si dimentichi quanto accaduto che ho deciso di scrivere il mio terzo libro che alcuni di voi già conoscono: “Il Jazz italiano in epoca Covid” (clicca sul link per acquistare la tua copia su Amazon)

Siccome siamo un Paese di ‘scordarelli’ non vorrei che passasse facilmente nel dimenticatoio quello che per molti musicisti, specialmente i più giovani, è stato un periodo che definire terrificante è quasi un eufemismo. Musicisti per mesi senza lavoro, senza concerti, senza serate, con pochissime occasioni di registrare, hanno dovuto faticare parecchio per uscirne fuori… È ammesso poi che ciò sia accaduto. Ecco, il mio intento era e resta quello di offrire una testimonianza di questo periodo drammatico, una testimonianza non mia ma di quanti molto più di me hanno dovuto subire questa situazione.
E devo constatare che l’obiettivo è stato raggiunto se molti dell’ambiente jazzistico, hanno espresso apprezzamento per il lavoro svolto.
Così, ad esempio, secondo Claudio Angeleri “È un libro da avere e leggere perché documenta un periodo difficile per tutti ma in particolare per i musicisti. E non dimenticare. Le testimonianze sono del marzo 2020. Sembra passato un secolo. Bravo per aver avuto questa idea e averla realizzata”.
Per Riccardo Scivales “Un libro importante per far capire a chi non lo sa cosa significa vivere di musica e le mille difficoltà e ostacoli posti ogni giorno a questa professione che non serve solo a far “divertire” la gente. Da avere assolutamente e grazie” a chi l’ha concepito e realizzato.
Dal canto suo Neri Pollastri scrive: “Un lavoro particolare, questo di Gerlando Gatto, nel quale si parla poco o niente di musica, più uno studio sociologico che un libro sul jazz; e tuttavia un lavoro non solo molto interessante, ma anche a suo modo necessario, per comprendere come davvero abbia vissuto la fase più acuta della pandemia (si spera, visto che oggi siamo di fronte a una forte recrudescenza) una delle categorie più colpite dalle sue conseguenze non sanitarie, ma esistenziali ed economiche, qual è quella dei musicisti jazz”.

Gerlando Gatto

I libri di interviste di Gerlando Gatto sbarcano su Amazon!

Cari amici,

abbiamo il piacere di comunicarvi che i libri di Gerlando Gatto: “Gente di Jazz“, “L’altra metà del Jazz” e l’ultimo, “Il Jazz Italiano in Epoca Covid” (anche in formato Kindle), sono disponibili sulla piattaforma Amazon.

CLICCA QUI PER ACQUISTARE LE TUE COPIE SU AMAZON

(MT – Redazione)

I nostri libri

Angela Davis – “Blues e femminismo nero” – Alegre – pgg. 320 – € 20,00

Quando si parla di Angela Davis il pensiero corre immediatamente all’attivista afro-americana che, nei decenni scorsi, fu protagonista di tante battaglie per l’emancipazione della gente di colore. Attività che si svolse anche attraverso importanti contributi letterari tra cui “Blues Legacies and Black Feminism” pubblicato nel 1998 e che adesso possiamo leggere in italiano grazie all’ottima traduzione di Mari Moise e Angelica Pesarini.
Della storia del blues si occupa compiutamente Ted Gioia nel volume che analizziamo qui di seguito. Questo volume analizza viceversa un aspetto particolare ma molto, molto importante del blues: il ruolo di tre vocalist – Gertrude “Ma” Rainey, Bessie Smith e Billie Holiday, appartenenti a tre generazioni diverse – nell’interpretare questo genere, sostanziandolo di contenuti che avrebbero influenzato lo sviluppo sociale nel suo insieme. Stiamo, infatti, parlando di un tema ancora oggi di attualità come l’emancipazione delle donne e l’importanza del loro ruolo.
Angela Davis, con la sua prosa partecipativa, analizza i testi dei brani interpretati dalle tre blueswoman e le loro performances, ricavandone tracce di tradizioni culturali risalenti al passato schiavista. Di qui un quadro esauriente di quali fossero le condizioni in cui le citate vocalist si sono trovate ad operare, un ambiente in cui era molto molto difficile contestare gli assunti patriarcali sul ruolo delle donne specie per quanto concerneva la sessualità. Per non parlare della marginalità che avevano gli artisti di colore nella nascente industria discografica. Ebbene queste tre artiste rivoluzionarono letteralmente l’industria discografica di massa assegnando un ruolo ben preciso e importante alle donne in genere, a quelle di colore in particolare. E si badi bene, si parla di musica, ma l’azione ‘rivoluzionaria’ qui accennata spinse i suoi orizzonti ben al di là del jazz degli anni Venti in quanto vi possiamo trovare i prodromi di quel femminismo che, come si accennava in apertura, avrebbe posto in primo piano il problema dell’emancipazione femminile, indipendentemente dal colore della pelle. Come a dire che sarebbe errato consegnare il monopolio della lotta femminista alle sole donne bianche della middle class, anche se “attribuire una coscienza femminista per come la definiamo oggi a Ma Rainey, Bessie Smith e Billie Holiday sarebbe insensato e poco interessante”. A dirlo è la stessa Angela Davis nell’introduzione al suo libro, affermando subito dopo: “Ciò che è più interessante e provocatorio della produzione artistica che ognuna di queste donne ha lasciato è il modo in cui dalla loro musica emergono – attraverso delle crepe all’interno dei discorsi patriarcali – tracce di un’indole femminista”.
E crediamo che questa sia una chiave di lettura assai utile per chi voglia intraprendere un viaggio nel tempo attraverso le parole di Angela Davis.

Amedeo Furfaro – “100 dischi di jazz italiano” – The Writer – pgg. 128 – € 12,00

Si succedono le fatiche editoriali del nostro collaboratore Amedeo Furfaro dedicate prevalentemente alla discografia. Quest’ultimo volume si pone come occasione di riflessione sulla produzione discografica compresa fra 2020 e inizio 2022, un periodo quindi particolarmente delicato e non solo per il jazz e i suoi musicisti.
Ecco quindi una selezione di album, successiva ai cinque tomi de “Il giro del jazz italiano in ottanta dischi”, in cui l’Autore ha messo assieme materiali sparsi per rappresentare il jazz italiano su disco in era pandemica. Un jazz, quello italiano, le cui quotazioni sono in netto rialzo anche a livello discografico grazie ai grandi maestri, alla “generazione di mezzo” e alle nuove leve che hanno saputo coniugare preparazione tecnica e originalità dei progetti attuati.
In effetti i musicisti italiani di jazz, pure in un momento di difficoltà operativa e di graduale ripresa dei rapporti col pubblico, non hanno rinunciato al proprio ruolo ritrovando proprio nei lavori discografici momenti di rivalsa verso le difficoltà   esterne. Certo, non tutte le produzioni discografiche del periodo assurgono ad un eccellente livello, ma in linea di massima siamo su standard qualitativi più che accettabili.
Il merito è sicuramente ascrivibile ai musicisti…ma non solo ché rilevante è stato anche il contributo di altre componenti quali le label che hanno acquisito una levatura professionale che le proietta sempre più spesso sul mercato internazionale e gli staff che in varie fasi hanno concorso a confezionare il prodotto discografico. Monitorando il jazz nazionale di inizio millennio l’Autore ha individuato alcune macro-tendenze, da quelle più attente alla tradizione afroamericana a quelle più radicali, da quelle affondate nell’humus del territorio alle più contaminate stilisticamente.
Dal turn over emerso si sono evidenziati interessanti talenti ma è un po’ tutto il  “sistema” jazzistico italiano che si va riconfigurando, a  partire da festival e rassegne che sono poi il campo in cui le idee si confrontano e ricevono il riscontro della critica e del pubblico. Quel pubblico che è anche acquirente di dischi in cui cerca di riassaporare il gusto di un live, di un contatto ravvicinato con i propri beniamini. Il saggio è impreziosito dall’inserto fotografico curato da Maria Gabriella Sartini.

Ted Gioia – “Delta Blues” – EDT, Siena Jazz – pgg. 460 – € 26,00

Prima di addentrarmi nelle valutazioni su quest’altro importante volume di Ted Gioia, vorrei premettere alcune considerazioni che mi sembrano importanti.
Innanzitutto devo confessare che pur amando il blues non ne sono un esperto per cui il volume in oggetto è stato come una sorta di manna avendomi fornita una messe enorme di informazioni che non possedevo.
In secondo luogo è straordinario il modo in cui Gioia è riuscito ad includere in questo volume quella messe enorme di informazioni cui prima facevo riferimento: tenete presente che il sottoscritto è da due anni che cerca di completare la biografia di un grande pianista ancora in esercizio, senza riuscirvi proprio per la difficoltà di trovare e sistematizzare dati biografici.
A questo punto vi sarete già fatta un’idea di quanto potrete trovare in “Delta Blues” ma vi assicuro che l’integrale lettura del libro sarà di gran lunga superiore alle vostre più rosee aspettative.
In effetti Gioia, nel tracciare la storia del Blues partendo da quegli artisti provenienti dalle zone poverissime del Delta del Mississippi a partire dai primi anni Venti del secolo scorso, in realtà ci racconta la storia di un genere musicale che ha avuto una influenza determinante sulla musica degli anni a venire. Ecco quindi i primi straordinari personaggi come Charley Patton, Son House, Skip James e Robert Johnson che hanno lasciato i primi semi fatti poi germogliare da artisti di caratura internazionale che hanno portato il blues al successo mondiale, da Muddy Waters a Howlin’ Wolf, da John Lee Hooker a B. B. King, fino al blues revival degli anni Sessanta, il tutto senza trascurare la scena contemporanea del Delta fino agli anni Duemila.
Insomma Ted Gioia, dopo aver tracciato un quadro esauriente di cosa fosse la regione del Delta agli inizi del secolo scorso, con una agricoltura ridotta ai minimi termini per la concorrenza del cotone proveniente dall’Asia e senza speranza di sviluppo data anche la mancanza di rilevanti fermenti culturali, ci fa capire passo dopo passo come proprio in questa poverissima regione siano da ricercare le radici della musica nera, fosse la stessa chiamata jazz, funky o rock’n’roll.
Ancora una volta, comunque, almeno a mio avviso, il volume di Gioia si caratterizza oltre che per la competenza (ma su questo non credo ci sia bisogno di aggiungere altro) anche – e forse soprattutto – per lo stile di scrittura, uno stile assolutamente piano ma non banale, comprensibile a tutti, in cui le vite e le azioni dei vari artisti si inseriscono a perfezione nelle trame di un racconto tanto appassionante quanto di straordinaria vivacità. Ci sembra quasi di vedere con i nostri occhi il contesto socio-economico in cui si svolge la vicenda, le piantagioni in cui i primi bluesmen operavano, le prigioni in cui molti di essi trascorsero del tempo, i locali in cui accorreva una massa di povera gente per ascoltare i loro eroi. E in questo racconto trovano il loro posto anche le altre figure che hanno contribuito all’affermazione del blues: i produttori, i discografici, i ricercatori grazie ai quali si devono importanti scoperte, i musicologi che hanno cercato di interpretare i più reconditi anfratti di questa musica. E a questo punto è doverosa una precisazione: se lo stile di Gioia risulta tanto potente anche nella nostra lingua lo si deve all’ottima traduzione operata da Francesco Martinelli non nuovo ad operazioni del genere, e in questo caso “responsabile” anche di un prezioso glossario, pubblicato alla fine del volume, in cui si spiegano molti termini che ai più potrebbero risultare assolutamente incomprensibili.
Il volume è arricchito, infine, da un indice analitico sempre opportuno, una discografia selezionata (i 100 ascolti imprescindibili) e una ricca bibliografia, in cui gli appassionati troveranno pane per i loro denti.

Leonardo Lodato – “Cielo, la mia musica!” – Domenico Sanfilippo Editore e Compagnia Nuove Indye – pgg. 145 – € 20,00

Dal Mississippi alla Sicilia: il salto è notevole ma non privo di qualche suggestione. A condurci per mano in questo immaginario viaggio attraverso una delle isole più belle del mondo, è Leonardo Lodato,  giornalista e saggista ovviamente siciliano, capo servizio Cultura e Spettacolo del quotidiano “La Sicilia” di Catania, che oramai da tempo dedica la sua attenzione al mondo musicale nelle sue più svariate accezioni.
La genesi del libro, giunto alla seconda edizione, è spiegata assai bene dallo stesso Lodato nel corso di un’intervista: “guardavo il cielo stellato e ascoltavo la mia musica preferita. E’ nato un gioco. Ogni stella veniva associata ad un artista o ad una canzone che avesse a che fare con il cielo, con la luce, con i colori. All’improvviso mi è venuto un flash e ho pensato: ma perché non costruire una piccola costellazione di artisti siciliani? E questo è il risultato”.
In particolare, l’autore è partito da una serie di domande davvero originali che tendono a coniugare il cielo con la musica (da cui il titolo): quanto influiscono la luce del sole, il suo calore, nell’essere siciliani? E tutto ciò quanto in particolare se si è musicisti? E il cielo, soprattutto, come lo vede chi suona, chi canta, chi compone? Insomma come influiscono sulla musica due delle principali caratteristiche del mondo siculo quali il calore del sole e la bellezza del cielo? Per offrire esaurienti risposte a tali interrogativi Lodato ha intervistato dodici musicisti, fortemente legati all’Isola, che citiamo uno per uno: Bob Salmieri (Milagro Acustico e Erodoto Project), Andrea Cantieri, Caterina Anastasi (Babil On Suite), Compagnia d’Encelado Superbo, Giuseppina Torre, Lello Analfino, Marian Trapassi, Mario Venuti, Paolo Buonvino, Pupi di Surfaro, Roberta Finocchiaro e Rosalba Bentivoglio.
Questi artisti, appartenenti a diversi generi musicali (tra cui ovviamente anche il jazz) hanno risposto cercando di offrire una propria personalissima visione di quale può essere per un artista il rapporto con gli elementi naturali che ci accompagnano giorno dopo giorno. Di qui interviste che si distanziano dal classico cliché per rappresentarci non tanto e non solo l’artista quanto l’uomo, la donna che vivono compiutamente la propria vita ponendosi interrogativi non banali. Ecco quindi, ad esempio, la vocalist jazz Rosalba Bentivoglio che afferma:” Questo è il cielo che sogna la terra e mi domando: è il cielo di tutti o solo il mio a darmi questa vertigine e farmi presentire l’essere mortale? Il mondo materiale che appare così solido alla percezione dei nostri cinque sensi è un universo di energia in movimento. Il macrocosmo ripete se stesso nell’uomo e il microcosmo è a sua volta riflesso in tutti gli atomi minori”. Alla successiva domanda di Lodato se esiste un altrove dove cercare Dio, la Bentivoglio risponde semplicemente “Questo, forse, taumaturgicamente, è la ricerca di Dio”.
Questa nuova edizione di “Cielo, la mia musica” è arricchita da una playlist, ascoltabile su Spotify, con i brani scelti dall’autore per raccontare il cammino che ha portato alla stesura del libro, mentre la prefazione è firmata dal tastierista dei Rockets, Fabrice Quagliotti.

Gerlando Gatto

I nostri libri

Ted Gioia – “Storia del Jazz” – EDT – pgg. 614 – € 35,00

Non molto tempo fa discutevo con un amico musicista (ma anche scrittore e più in generale attento osservatore della realtà) se nell’attuale situazione fosse o meno giustificata la pubblicazione di una nuova storia del jazz. Trovare un punto di intesa non è stato difficile: certo oramai molto si è scritto sulla storia della musica afro-americana ma molto resta ancora da scrivere, da scoprire, da chiarire. In buona sostanza una storia del jazz oggi si giustifica se risponde ad alcuni ben precisi requisiti: innanzitutto che sul passato ci dica qualcosa di nuovo rispetto a quanto finora scritto, sul presente che ci illumini su quanto sta accadendo sulla scena internazionale, sul futuro che vengano lumeggiate le nuove linee di tendenza. Il tutto accompagnato da una fluidità di racconto che eviti il più possibile incorniciati e box che finiscono con il distrarre e far perdere il filo del discorso.
Ebbene questi requisiti sono tutti presenti nella nuova edizione della “Storia del Jazz” di Ted Gioia pubblicata dalla EDT in collaborazione con Fondazione Siena Jazz – Accademia nazionale del jazz Centro di attività e formazione musicale, che si avvale della precisa traduzione di Francesco Martinelli il quale, com’è suo costume, scrive in maniera fluida, scattante, priva di qualsiasi autocompiacimento letterario sicché lo spirito dell’autore viene pienamente rispettato.
Il volume è diviso in undici capitoli (da “La preistoria del jazz” a “La resurrezione del jazz”) con l’aggiunta di quattro Note dedicate rispettivamente a “Letture consigliate”, “Ascolti consigliati”, “Ringraziamenti” e il sempre indispensabile “Indice analitico”. Da questa partizione si capisce come l’Autore parta dalle origini della musica afro-americana per giungere sino ai nostri giorni. Così, nella narrazione di Gioia, ritroviamo tutte le figure più importanti del jazz – da Jelly Roll Morton a Louis Armstrong, da Duke Ellington al Cotton Club, ai giganti del cool come Gerry Mulligan, Stan Getz, e Lester Young, Charlie Parker, Dizzy Gillespie, Ornette Coleman…fino ai postmodernisti della scena downtown – inseriti in una cornice politica e socio-economica che costituisce uno dei punti di forza delle opere di Gioia. In effetti la musica non nasce spontaneamente come una sorta di fungo ma è il portato di tutta una serie di esperienze: di qui fondamentale comprendere il contesto in cui un certo linguaggio nasce e si sviluppa. E Gioia è davvero un maestro nel descrivere tutto ciò, nel farci capire – ad esempio – che cosa significò per i musicisti di colore negli States rivolgersi al be-bop mentre la seconda guerra mondiale volgeva al termine.
Ma è nella seconda parte del libro che a nostro avviso troviamo le notazioni più interessanti. Sono le pagine in cui l’Autore esamina “La resurrezione del jazz” partendo dalla “Resurrezione del cantante di jazz”.
Convincente la tesi sostenuta da Gioia per cui, in questi ultimissimi decenni, il jazz ha riscoperto in qualche modo le sue radici di musica del popolo avviando un dialogo nuovo e non programmato con la cultura di massa. E il ponte che ha permesso tutto ciò è stato varato da artisti quali Kamasi Washington, Robert Glasper, Esperanza Spalding i quali – sono parole di Gioia – “hanno dimostrato che possono utilizzare tutta la gamma stilistica delle canzoni odierne senza perdere le proprie radici jazzistiche”.  Una visione, come si nota, assolutamente rivoluzionaria che rende finalmente obsoleto il dibattito circa la presunta “morte del jazz”. In tale quadro anche i cantanti hanno svolto un ruolo di primissimo piano tenendo strettamente collegato il jazz alla musica commerciale. Quasi inutile sottolineare come accanto alle notazioni di carattere sociale, Gioia mai dimentica di indicare le registrazioni che meglio possono corroborare il suo discorso.
Di grande utilità pratica le letture consigliate e gli ascolti consigliati che possono costituire una guida sia per chi voglia approfondire la materia sia per chi ad essa si avvicini per la prima volta
Insomma un volume che non può mancare nella libreria di chi ama la musica.

Amedeo Furfaro, Lionello Pogliani – “Musiche in mente” – The Writer – pgg. 127 – € 12,00

Scritto a due mani dal nostro collaboratore Amedeo Furfaro e da Lionello Pogliani, rispettivamente giornalista e critico musicale il primo, e collaboratore scientifico dell’Università di Valencia, il secondo, il volume affronta il problema del linguaggio musicale sotto il profilo sia delle cosiddette scienze sociali e umane sia delle scienze strettamente intese. Di qui una lettura interessante in quanto si intersecano due tipi di logica in un momento in cui, viceversa, si tende a parcellizzare ogni discorso e quindi a esaltare il ruolo della specializzazione sempre e comunque. In buona sostanza obiettivo del lavoro, perfettamente centrato, è mettere in campo una concezione organica della musica che viene ricondotta in un unico arco culturale combinando idee che in genere non sono messe in correlazione fra di loro. In particolare, nella prima parte Pogliani, avvalendosi anche della collaborazione di Michel Villaz e Laurent Vercueil, si muove tra fisica, chimica, astronomia, biologia, acustica, medicina, mentre nella seconda parte Furfaro, partendo dalla sua formazione storico-politologica e antroposociale oltre che musicale, illustra le sue idee traendo ispirazione dalle occasioni più disparate come una lettura, una serata al cinema, una foto, una ricorrenza, un’intervista tutte su filo del discorso musicale.
In conclusione un volume che vuole essere uno stimolo ad una riflessione complessiva su come lo sviluppo dell’arte musicale abbia interessato ed investito tutto l’arco dello scibile umano.

Amedeo Furfaro – “Pasolini – Luoghi, incontri, suoni” – The Writer – pgg. 103 – € 12,00

In questo ulteriore volume, pubblicato nei primi mesi di quest’anno, Furfaro raccoglie i suoi scritti dedicati a Pasolini e riguardanti essenzialmente tre aspetti, luoghi, incontri e suoni. Di particolare importanza, per quanto concerne “A proposito di jazz”, la terza tranche in cui si tenta una panoramica del rapporto di Pasolini con la musica. L’Autore esamina quindi i vari aspetti delle relazioni di Pasolini con la musica partendo dalle colonne sonore dei suoi film per passare ad una discografia essenziale (jazz escluso) che copre gli anni dal 1960 al 1975 in cui sono elencati brani che vedono Pasolini nella veste di paroliere. Negli anni ’80 si collocano alcuni lavori discografici che hanno il merito di ripercorrere tappe importanti dell’excursus creativo pasoliniano, come “La musica nel cinema di Pasolini” (General Music 1984) in cui Morricone riassume le sue musiche per cinque pellicole firmate Pasolini. Interessante anche un altro lavoro, sempre dell’84, “Pour Pier Paolo, Poèmes de Pier Paolo Pasolini mis en musique par Giovanna Marini (Le Chant du monde). Negli anni seguenti Pasolini continua ad ispirare molte pagine musicali, dagli omaggi espliciti di cantanti e gruppi come Pino Marino, Massimiliano Larocca, Radio Dervish fino a compositori come Nicola Piovani e a registi come Nanni Moretti.
Ovviamente anche il mondo del jazz ha omaggiato Pasolini; Furfaro ricorda al riguardo la performance del Roberto Gatto in “Accattone” e la “Suite per Pierpaolo” a cura di Glauco Venier con Alba Nacicovitch. Ma è in “Appunti per un’Orestiade Africana” che la relazione fra Pasolini e il jazz trova il suo baricentro; ciò in ragione del fatto che buona parte della colonna sonora è affidata a jazzisti quali Gato Barbieri, Marcello Melis e Famoudou Don Moye. A seguire una discografia in cui il jazz “latu sensu” tiene a sottolineare Amedeo, compare a fianco della figura di Pasolini.

Guido Michelone – “Il jazz e i mondi” – Arcana – pgg. 390 – € 24,00

Davvero infaticabile Guido Michelone, didatta, studioso, giornalista e scrittore tra i più prolifici che il mondo del jazz italiano conosca. Ecco, quindi, una sua nuova fatica editoriale significativamente intitolata “Il jazz e i mondi”. Un titolo che può esplicativo non potrebbe essere. Nelle circa 400 pagine del volume, l’Autore, grazie ai numerosi viaggi compiuti tra Usa, Brasile, Giappone, Canada, Nord Africa e Medioriente, ci racconta, in maniera chiara ed esplicita com’è suo costume, il come e perché il jazz ha trovato diritto di cittadinanza in tutti questi Paesi
Si tratta di una narrazione a tratti affascinante in quanto si capisce finalmente come il jazz abbia potuto perdere le sue caratteristiche originarie per assumere le connotazioni di una musica universale senza più confini ma specchio della civiltà di ogni singolo Paese, come risultato necessario di quella contaminazione tra le diverse culture di ogni angolo del mondo. Di qui una sorta di viaggio straordinario, suddiviso in 29 capitoli dedicati ognuno ad una parte del mondo, elencate in ordine alfabetico, per cui si parte dall’Afghanistan per chiudere con “Zingari in jazz” dedicato alla musica manouche. Nel libro, accanto a nome e cognome di ogni jazzman, viene indicato lo strumento musicale mentre alla fine di ogni capitolo è riportata tra parentesi la data, grosso modo compresa tra il 2001 e il 2022, ad indicare il periodo in cui viene redatto il resoconto musicale del viaggio compiuto nella nazione indicata.
Ogni capitolo è impreziosito da una accurata discografia mentre il volume nel suo insieme è completato da una sempre utile bibliografia. Purtroppo manca quell’indice analitico che in un volume del genere sarebbe risultato particolarmente importante.

Renzo Ruggeri – “Elementi di Musica Jazz: CORSO BASE per fisarmonica” – Voglia d’Arte Production – pgg.165 – € 25,00

“Questo lavoro di Ruggieri – condotto con serietà e competenza – è un avvenimento per la fisarmonica.” Gianni Coscia
Con queste parole il grande patriarca della fisarmonica jazz italiana ha tenuto a battesimo l’uscita della prima versione del testo, circa 25 anni fa, quando esso rappresentava il primo libro internazionale per questo strumento con elementi di jazz moderno.
Ruggieri – da esperto didatta – affronta la materia in maniera profonda proponendo una suddivisione razionale dei capitoli, non lesinando esercizi pratici di grande efficacia. La nuova versione si propone una riscrittura del testo, un ampliamento degli argomenti in base alle esperienze degli anni di utilizzo, una razionalizzazione degli schemi e degli esercizi. Sicuramente è stato il primo testo ad introdurre in maniera approfondita dei “policordi” ovvero la pressione di più tasti contemporaneamente nella mano sinistra, tecnica che lo stesso Ruggieri definisce imperfetta ma molto efficace.
La vera novità è rappresentata, comunque, dalle “backing tracks” dei brani del metodo (nuove composizioni sulle strutture armoniche di famosi standard) suonate da affermati professionisti: Maurizio Rolli (contrabbasso), Mauro De Federicis (chitarra), Niki Barulli (batteria). Quest’ultime tutte disponibili gratuitamente sui circuiti online sia in versione completa che “minus bass”, o “minus harmony”, o “minus drums” a simulare le diverse situazioni che lo studente incontrerà.
Da sottolineare la sempre “elegante ed efficace” vena melodica di Ruggieri che si manifesta anche negli esercizi.
Di prossima uscita la versione inglese e nei prossimi anni quella INTERMEDIA e AVANZATA.
Distribuito in tutto il mondo da AMAZON è possibile acquistarlo direttamente su:
https://www.amazon.it/dp/B095GD37SN
Le basi sono disponibili gratuitamente su:
SPOTIFY
https://open.spotify.com/album/3gupaPMqTIuQekv9J8cwzL?si=NG6oHNIfTKa9eGMQQDIyXA
YOUTUBE
https://youtu.be/r0EVSxyEOB4

Vincenzo Staiano – “Solid – Quel diavolo di Scott LaFaro” – Arcana – pgg. 174 – € 16,00

Ecco un volume che sarà ben accolto da tutti gli appassionati di jazz, in special modo dai pianisti e dai contrabbassisti. Racconta, infatti, la storia di un connubio assolutamente straordinario, un incontro che ha cambiato la storia del jazz in relazione al classico combo pianoforte, batteria, contrabbasso. Ci si riferisce ovviamente alla straordinaria intesa che nell’arco di pochissimo tempo si costituì tra Bill Evans e Scott LaFaro, un’intesa che sconvolse definitivamente la gerarchia degli strumenti nel trio (completato all’epoca da Paul Motian) cosicché il pianoforte perse il ruolo di guida per essere affiancato, a pari condizioni, da batteria e contrabbasso. Certo, a dirlo oggi, sembra qualcosa di scontato ma se si risale all’epoca in cui Evans e LaFaro si incontrarono, vale a dire il 1959, si scoprirà come la musica proposta dal trio fosse assolutamente rivoluzionaria. In questo suo scritto Staiano pone l’accento sulla figura del contrabbassista prematuramente scomparso nel 1961, offrendone un ritratto illuminante anche perché ci fa comprendere come, già prima di incontrare Bill Evans, fosse artista in possesso di una propria ben specifica cifra stilistica. Particolare attenzione viene, così, dedicata al periodo che va dal 1955, quando Scott lascia l’università di Itaca per iniziare il suo primo tour come professionista, sino a quel tragico incidente che il 6 luglio del 1961 gli costa la vita. Grazie ad un racconto ben articolato, sorretto da una prosa che conosce l’italiano, il volume si legge quasi tutto d’un fiato arricchito da una serie di contributi originali. In effetti in Italia pochissimo era stato scritto su LaFaro per cui il libro di Vincenzo Staiano assume un’importanza particolare. L’autore, per questa sua prima pregevole monografia, si è avvalso della biografia di Scotty (con questo nomignolo era noto LaFaro e questo si utilizza nel libro) redatta dalla sorella Helene, nonché di una grande quantità di contributi sull’artista, come l’intervista di Martin Williams apparsa sul periodico “Jazz Review”, un articolo del 1968 di Jean-Pierre Binchet su “Jazz Magazine”, un sito web a lui dedicato nel 1998 da Charles A. Ralston, nonché di moltissimi altri contributi elencati nella ricca appendice bibliografica e webgrafica, cui si affianca una discografia.
La figura di LaFaro assume così una valenza particolare sottolineata anche dal titolo del libro, “Solid”, che come ci spiega lo stesso Staiano richiama l’essenza di un messaggio inviato a Scott da Miles Davis, un messaggio con cui il trombettista gli faceva capire di volerlo nella sua formazione come contrabbassista.

Quando le foto parlano: due interessanti volumi di Roberto Masotti

Quanti seguono con un minimo di attenzione ”A Proposito di Jazz” si saranno resi conto di come questa testata abbia nel tempo dedicato la massima attenzione a tutte le forme attraverso cui si manifesta, si sviluppa la musica jazz. Quindi, ovviamente, anche la fotografia che anzi si è posta come elemento fondamentale per cogliere meglio l’evoluzione di questa musica. Si pensi, ad esempio, cosa ha significato per gli studiosi riuscire a carpire alcuni momenti dell’arte jazzistica quando ancora non esistevano o non erano così diffusi i filmati. Un solo esempio credo sia sufficiente a meglio spiegare quanto fin qui detto: nell’estate del 1958 venne scattata una delle foto più famose nel mondo del jazz, quella foto che ritrae, uno accanto all’altro, cinquantasette tra i migliori jazzisti di tutti i tempi in una strada di Harlem. Non musicisti qualsiasi, ma veri e propri “giganti” che hanno fatto la storia del jazz quali Armstrong, Duke Ellington, Count Basie, Dizzy Gillespie, Miles Davis, Sonny Rollins, Monk, Charlie Mingus, Coleman Hawkins.

Anche in Italia l’arte della foto-jazz, grazie all’opera appassionata di molti fotografi-artisti, ha raggiunto ottimi risultati di cui su questi spazi è stata fornita ampia documentazione. Tra quanti hanno contribuito in maniera determinante allo sviluppo di quest’arte nel nostro Paese c’è sicuramente Roberto Masotti che conosco bene oramai da tanti anni e i cui scatti mi hanno sempre appassionato e stupito per la carica di verità che contengono. Tracciare una biografia di Masotti in questa sede è tutto sommato inutile; basti sottolineare alcune tappe fondamentali: nel 1973 inizia una lunga e proficua collaborazione con ECM Records di cui è stato responsabile della comunicazione per l’Italia, oltre a veicolare nel mondo l’immagine della casa tedesca; dal 1979 al 1996 è il fotografo ufficiale del Teatro alla Scala di Milano con Silvia Lelli; nel 2005 viene realizzato un programma televisivo a lui dedicato per SKY/Leonardo nella serie Click… nel corso degli anni le sue fotografie sono state esposte in numerose città italiane ed europee. E proprio a questa sorta di “categoria” appartiene il primo dei due volumi che presentiamo in questa sede.

“Jazz Area – seipersei – Pgg.160 ” trae origine dalla mostra “Jazz Area la mia storia con il jazz in 25 quadri” commissionata dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Pavia nel  1999, e poi esposta   una decina di volte. Come sottolinea lo stesso Masotti, l’opera andrebbe considerata come “la mia storia attraverso il jazz più che con il jazz”.  Insomma una sorta di viaggio autobiografico il cui tragitto viene ripercorso attraverso una serie di immagini mai banali. Il libro si apre con la formazione “Detroit Free Jazz”, con Art Fletcher, Don Moye e Ron Miller al Conservatorio di Bologna nel 1968, e si chiude con un fotomontaggio relativo a Sun Ra.

Le foto sono impaginate in modo assai particolare: una stampa a colore argento su una carta spessa e nera, associate a titoli, didascalie, brevi testi, per cui, evidenzia ancora Masotti, è “più un progetto di mostra che un risultato fissato per sempre, più una riflessione sul jazz filtrata dalla mia personale esperienza che una storia del jazz per immagini per forza di cose limitata e parziale”. Così si susseguono una serie di istantanee accomunate da un filo rosso: l’intenzione di Masotti di non presentare una galleria di ritratti ma, in qualche modo, di interpretare il soggetto che viene ripreso in un momento di verità. Quindi nessuna posa ma scatti che colgono i musicisti o sul palco o in un momento di pausa. Le foto sono organizzate per aree tematiche tra cui: blues; blowers sassofoni; canto; Miles Davis; Sam Rivers – Archie Shepp, Jazz & Polities; Steve Lacy; Drums – drummers; Gruppi; Dave Holland big-band; Brotherhood of Breath; Jazz italiano; Jazz Rock; Chitarristi; ECM, Keith Jarrett… I protagonisti di questa galleria sono quindi  tantissimi e sarebbe inutile citarli tutti; valga comunque qualche nome: Miles Davis, Gato Barbieri, Steve Lacy, Max Roach, Ornette Coleman, Sonny Rollins, Archie Shepp, Carla Bley, Sam Rivers, Cecil Taylor, Charles Mingus, e, tra gli italiani, Stefano Bollani, Antonello Salis, Roberto Ottaviano, Gianluca Petrella.
Insomma un volume che sicuramente interesserà tutti gli appassionati di jazz.

“Keith Jarrett a portrait – seipersei – Pgg. 112” è invece di impostazione completamente diversa. Si tratta di un vero e proprio omaggio, o se volete un atto d’amore, che il fotografo dedica ad uno dei più grandi pianisti del jazz. Le foto sono accompagnate da testi di Geoff Dyer, Franco Fabbri e dello stesso Masotti il quale afferma esplicitamente che “In questa lunga serie di fotografie che osservo retrospettivamente, si gioca decisamente sulla presenza, quella del corpo e dello strumento, che compaiono nell’immagine. Le foto sono il risultato di una intima e oggettiva attenzione nei confronti di un artista a lungo seguito e ammirato, ma anche di una sua risposta che è consapevole accettazione, e soprattutto, partecipazione. Suo, solo suo, è il suono di una musica inconfondibile che la serie di fotografie ambisce di evocare e far risuonare.” In effetti Masotti ha assistito ad un centinaio di suoi concerti avendo così moltissime occasioni per estrinsecare la sua arte. Il libro si apre con una foto molti importante nella vita di Roberto: siamo nel 1969 e Keith Jarrett si esibisce al Teatro Comunale di Bologna nell’ambito del locale jazz Festival. Masotti non è ancora un professionista; fotografa con la Rolleiflex del padre, ma il risultato è talmente soddisfacente da indurlo a proseguire lungo la via delle foto. Dopo questa prima foto, gli scatti, esclusivamente in bianco e nero, sono organizzati in ordine cronologico fino al 2009… ed è davvero straniante constatare come l’aspetto del pianista sia cambiato con lo scorrere del tempo e come Masotti sia riuscito a cogliere gli aspetti più intimi della personalità dell’artista…anche perché è stato per lungo tempo l’unico fotografo ammesso alle prove di Jarrett. Ecco quindi il pianista impegnato durante un concerto… o in un momento di riposo accomodato in poltrona… o ancora seduto dietro una batteria o intento a suonare il sax soprano. E ammirando queste foto si ha quasi l’impressione di sentire le dita di Jarrett scorrere sulla tastiera per quelle straordinarie improvvisazioni che ci hanno deliziato fino al 2018 anno che ha segnato il definitivo abbandono delle scene da parte del pianista colpito da due ictus.

Gerlando Gatto