Il Premio Internazionale a Castelfidardo: quando la fisarmonica la fa da padrona

Entusiasmante, coinvolgente l’atmosfera che si respira a Castelfidardo durante la settimana in cui si svolge l’annuale Premio Internazionale della Fisarmonica (PIF), esplicitamente riconosciuto come uno dei più importanti concorsi in ambito internazionale. Ed in effetti Castelfidardo è conosciuta in tutto il mondo proprio per la sua produzione di tali strumenti: è in questa cittadina delle Marche, in provincia di Ancona che nel 1864 ad opera di Paolo Soprani viene riprodotto uno strumento che anticipa in qualche modo la moderna fisarmonica; da quel momento, Castelfidardo diviene la “patria della fisarmonica” in Italia da tutti unanimemente riconosciuta.

A Castelfidardo, musica da ogni dove, in ogni strada, in ogni vicolo, in ogni angolo… mentre nei luoghi deputati i giovani si affrontano a colpi di mantice per conquistare gli ambiti riconoscimenti. Per un amante della fisarmonica come il sottoscritto, è stata una vera goduria non solo ascoltare tanti eccellenti strumentisti, ma avere la possibilità di visitare lo splendido museo storico la cui collezione è composta da circa 350 esemplari tutti diversi tra loro, molti dei quali “pezzi unici” provenienti da ventidue Paesi diversi. Alle pareti, oltre ad una interessantissima documentazione fotografica dal 1890 al 1970, sono collocate opere di artisti quali Marc Chagall, Tonino Guerra, Silvia Bugari, Rodolfo Gasparri e fedeli riproduzioni pittoriche di Giovanni Boldini, Fernand Leger, Gino Severini. Dislocate inoltre nelle varie sale, opere di scultura di Stefano Pigini, Franco Campanari, Edgardo Mugnoz. Tra le curiosità una lettera di Federico Fellini, il primo disco registrato con la fisarmonica da Pietro Deiro, la partitura originale di “Adios Nonino” di Astor Piazzolla. Tra le altre curiosità che ho avuto modo di vedere, la fisarmonica più grande del mondo, una “creatura” alta 253 cm, larga 190 cm, pesante circa 250 kg, che può essere essere realmente suonata grazie al supporto costruito a mano, come ogni suo componente, da Giancarlo Francenella felicemente coadiuvato da moglie e figlie.

Ma adesso, dopo questi inevitabili richiami di carattere cultural-turistici, veniamo alla gara vera e propria. Quest’anno, dietro esplicita richiesta di Renzo Ruggieri, musicista che non ha certo bisogno di ulteriori presentazioni, è stata reintrodotta la categoria Jazz a dirigere la cui giuria è stato chiamato il sottoscritto unitamente a Samuele Garofali eccellente trombettista, Simone Zanchini fisarmonicista tra i più spericolati sperimentatori, Marc Berthoumieux fisarmonicista e compositore tra i più quotati in quel di Francia e Giovanni Mirabassi pianista che proprio oltr’Alpe si è costruita una solida e meritata reputazione.

Ai nastri di partenza cinque formazioni: due provenienti dall’Italia e tre rispettivamente dalla Francia, dalla Polonia e dalla Bielorussia. Ad esclusione del trio francese “Sasusi” costituito da artisti di strada indubbiamente molto bravi ma assolutamente fuori contesto, gli altri gruppi hanno presentato tutti un livello più che accettabile. Il primo premio è andato al trio del polacco Arek Czernysz; già conosciuto e apprezzato nel suo Paese, Arek ha evidenziato una tecnica più che matura con buone doti improvvisative e quindi buona conoscenza del linguaggio jazzistico; ottima l’intesa con gli altri due compagni di strada. Unico neo, se così lo si può definire, una scarsa presenza scenica che, comunque, potrà essere acquisita con l’esperienza.

Al secondo posto un altro Trio, questa volta bielorusso, guidato dal fisarmonicista Anatoly Taran; anche in questo caso bella tecnica, ottima padronanza dello strumento, perfetta empatia fra i tre… solo che il polacco si è fatto preferire per una più spiccata propensione ad improvvisare e quindi per una maggiore aderenza all’espressione jazzistica.

Al terzo posto il trio italiano formato da Antonino De Luca fisarmonica, Massimo Manzi batteria e Emanuele Di Teodoro al contrabbasso; la formazione non ha certo sfigurato di fronte agli altri gruppi e non a caso a De Luca è andato un premio speciale della critica quale miglior solista.

Quarto il Giuseppe Di Falco Jazz Ensemble che nonostante una performance attanagliata dall’emozione, ha ricevuto, grazie alla bontà dei suoi arrangiamenti, un altro premio speciale costituito dalla possibilità di esibirsi in un concerto ad hoc.

Momenti di grande commozione la serata finale al Teatro Astra quando è stato chiamato sul palco il grandissimo Peppino Principe che proprio lo stesso giorno ha compiuto 90 anni; a questo eccezionale fisarmonicista, che per tanti anni si è sobbarcato quasi da solo il compito di non far scivolare in un colpevole oblio la fisarmonica, è stata conferita l’onorificenza di “ambasciatore della fisarmonica”. Dopo la premiazione dei vincitori delle categorie jazz e varieté, sono saliti sul palco Marc Berthoumieux e Giovanni Mirabassi per un concerto che meglio non avrebbe potuto chiudere la manifestazione; i due, oltre ad essere eccellenti strumentisti, hanno sviluppato nel tempo una pregevole intesa che li porta ad esibirsi su standard molto, molto elevati.

Gerlando Gatto

 

I NOSTRI CD. Dalle parole ai fatti: fisarmonicisti jazz, qualche suggerimento d’ascolto

E parlando di Castelfidardo, di fisarmonica, mi sembrava opportuno segnalarvi qualche CD più o meno recente inciso da fisarmonicisti che si esprimono con un linguaggio jazzistico.

Frank Marocco – “Ballads” – Artist Signed Records 12/009

Frank Marocco, Daniele Di Bonaventura – “Two For The Road” Artist Signed Records 11/008

E questa mini-rassegna discografica non poteva che iniziare con Frank Marocco, sicuramente una delle voci più originali nell’ambito della fisarmonica jazz. Un vero e proprio gigante che ha saputo dare una svolta al modo stesso di concepire lo strumento, di adattarlo a quelle che sono le pronunce jazzistiche grazie anche ad una tecnica formidabile ma posta sempre al servizio della musicalità, dell’espressività. Ne abbiamo probanti esempi in questi due album.

In “Ballads” Marocco si esprime in splendida solitudine affrontando con classe e pertinenza una serie di ballads molto famose come, tanto per citarne qualcuna, “Lover Man”, “In a Sentimental Mood”, “Smoke get’s In Your Eyes”. L’album ha anche un valore storico in quanto si tratta del suo ultimo CD, prima della scomparsa il 3 marzo del 2012 all’età di 81 anni, prodotto in Italia e pubblicato il 28 settembre del 2011. L’Italia è sempre stato un Paese molto amato da Marocco e non solo per le sue origini (il padre era di Caserta, la madre emiliana). Frank ha infatti continuamente collaborato con nostri musicisti tra cui il bandoneonista Daniele Di Bonaventura col quale ha anche inciso in duo il cd “Two For The Road”. L’album è un vero e proprio gioiellino la cui valenza travalica la bellezza dei temi scelti; i due artisti si integrano alla perfezione con le linee di fisarmonica e bandoneon che ora si intrecciano, ora si affiancano a disegnare un universo sonoro di rara suggestione. Splendida, tra le altre, l’interpretazione di “Pure Immagination” di Leslie Bricusse e Anthony Newley.

Renzo Ruggieri – Live Improvisations – APA 109 2 cd

(Da una recensione di Daniela Floris)

Renzo Ruggieri decide di assemblare in maniera ragionata una serie di registrazioni live di suoi concerti in solo, avvenuti nell’ arco temporale tra il 1998 e il 2010, con il preciso intento di porre l’accento sull’improvvisazione libera e sul coesistere del suo accordion con effetti elettronici e loop station: dunque un disco in solo ma con la possibilità di replicare, doppiare, distorcere e rendere mutevoli la voce di uno strumento molto connotato, che siamo abituati ad associare ad un tipo di musica tradizionale, nonostante nel Jazz lo stesso accordion oramai sia sempre più presente ed in alcuni casi innovativo. In questo percorso ardito, quasi una ricerca sperimentale avvenuta negli anni, (questo cd chiude un trittico cominciato con la registrazione in studio di Improvvisazioni Guidate VAP100 e Storie di Fisarmonica Vissuta VAP101 ), Ruggieri si lascia andare ad un’esplorazione integrale (e dal vivo) delle possibilità del proprio strumento, disvelandone le notevoli possibilità espressive, anche quelle più estreme. Quindici i brani in scaletta, ognuno un piccolo mondo a sé, da ascoltare rigorosamente con la totale apertura mentale che permetta di godere senza pregiudizi di suoni a volte anche ostici, ma sempre inseriti in un disegno che ha un qualcosa di ineluttabile, che in qualche modo va “nel modo giusto”. Perché in fondo sono l’espressione di un messaggio profondamente sentito dal musicista che estemporaneamente lo sta formulando: bisogna fidarsi di lui e con lui decidere di partire per quel viaggio in zone inesplorate.

Klaus Paier, Asja Valcic – “Timeless Suite” – ACT 9598-2

Album molto particolare questo che vede l’uno accanto all’altra Klaus Paier all’ accordion e al bandoneon e Asja Valcic al cello, impegnati su un repertorio assai variegato in cui accanto agli original dei due compaiono brani di Stravinsky, di Bach e di Piazzolla opportunamente arrangiati. Il risultato è notevole soprattutto perché alla fine dell’ascolto si resta allo stesso tempo affascinati e straniati, affascinati perché il sound che i due riescono ad esprimere è davvero unico, travolgente nella sua classica modernità. La tecnica messa in campo è straordinaria ma tutto viene declinato con la massima semplicità, senza alcuno sforzo apparente, con grande fantasia tanto che riesce difficile distinguere tra pagina scritta e parti improvvisate… il che se ci riferiamo ai due strumenti a mantice siamo ancora nel solco del prevedibile, mentre il discorso cambia radicalmente se prendiamo in esame il violoncello ché in ambito jazzistico gli esempi di violoncellisti bravi improvvisatori sono rari. Di qui lo stupore, lo straniamento cui si accennava in precedenza in quanto non si riesce a ben identificare se si tratti di jazz, di world music o di cos’altro. Un consiglio? Lasciate da parte le etichette e ascoltate l’album senza porvi eccessivi interrogativi; ne vale la pena!

Antonino De Luca – “Walkin’ On My Way” – Barvin 14/014

Antonino De Luca è uno dei partecipanti al concorso di Castelfidardo su cui ci siamo soffermati nel precedente articolo. Siciliano di nascita, De Luca oramai da anni si è trasferito proprio in quel di Castelfidardo affinando un talento che gli consentirà, quanto prima di raggiungere prestigiosi traguardi. In questo album inciso nel marzo del 2014, si avvale della collaborazione di Luca Pecchia (chitarra), Gabriele Pesaresi (contrabbasso), Federico Nelson Fioravanti (batteria e percussioni) con lo special guest Josè Luis Fioravanti (percussioni). L’album è declinato attraverso dieci brani in cui accanto a composizioni di Victor Young, Michel Petrucciani, Richard Rodgers, Johnny Green, Frank Marocco e Matt Dennis figurano cinque brani dello stesso De Luca che evidenzia in tal modo una bella propensione compositiva. Così il fisarmonicista riesce a transitare con disinvoltura da terreni più propriamente jazzistici ad atmosfere più propriamente brasiliane e funky. Il tutto senza perdere alcunché della propria identità stilistica. Non a caso lo stesso De Luca, nelle brevi note che accompagnano l’album, sostiene “la necessità di comunicare uno stato d’animo, di tirar fuori tutte le proprie emozioni” e come quindi la musica rappresenti il mezzo per comunicare una storia.

Tango transit – “Blut” – Artist Signed Records – 11/007

Il fisarmonicista Martin Wagner, nato nel 1967 a Francoforte, è il fondatore del trio “Tango Transit” completato da Hanns Hohn al contrabbasso e Andreas Neubauer alla batteria. Negli ultimi venticinque anni, questa formazione ha partecipato a numerosi festival prevalentemente di carattere jazzistico (Israele, Scozia, Italia, Francia, Svizzera, Romania) e realizzato quattro albums tra cui questo “Blut” registrato nel 2010 e un DVD live (“Live im Thalhaus” nel 2013). Trattandosi di musicisti di estrazione diversa, il trio ha elaborato uno stile affatto personale in cui confluiscono input provenienti da mondi diversi quali il jazz, il tango… fino al funky e alla musica Cajon. Elementi, questi, che si ritrovano appieno nell’album in oggetto che si articola su un repertorio di 12 brani tutti scritti dal leader, di cui i primi tre fanno parte di un’articolata e lunga suite, che rappresenta, a nostro avviso, la parte migliore dell’album. Tutta giocata e sull’abilità del leader e sull’intesa con gli altri due partners (in special modo con il contrabbassista) la suite si articola su momenti diversificati ben resi dal trio: così dopo un’intro dal sapore vagamente classicheggiante, si instaura prepotentemente un clima tanguero, soppiantato a sua volta da frammenti in cui ha la prevalenza un linguaggio più strettamente jazzistico… e via di questo passo sino alla fine della terza parte assai vicina all’espressività jazzistica anche per merito del già citato contrabbassista.

Massimo Mazzoni, Christian Riganelli – “New Klezmer Tales”Artist Signed Records – 15/015

L’album si avvale di un organico assolutamente inusuale, almeno per gli amanti del jazz: Massimo Mazzoni sax tenore e soprano, Christian Riganelli fisarmonica, cui si aggiungono in due brani, come special guests, Gabriele Mirabassi al clarinetto e Gabriele Pesaresi al contrabbasso. Mazzoni e Riganelli affrontano un repertorio molto impegnativo costituito da sette composizioni originali d’ispirazione klezmer per sassofono e fisarmonica in cui elementi tradizionali si mescolano con input più moderni in una sorta di coinvolgente mistura che raccoglie altresì suggestioni provenienti dalla musica contemporanea, dal contrappunto di marca bachiana e dalle armonizzazioni proprie del jazz; a queste sette composizioni si aggiungono standard della tradizione popolare (Der Heyser Bulgar,  The Blessing Nigun, Badeken Die Kallah, Ballad for a Klezmer)  ed una rivisitazione del III tempo (lamentoso e grottesco) dalla “Hot Sonate” di Erwin Schuloff. Ascoltando l’intero album non si può fare a meno di notare l’amore, la passione e soprattutto l’onestà intellettuale con cui i due hanno affrontato la difficile impresa: nessuno sfoggio virtuosistico, nessuna pretesa di stupire ma la sincera e assidua volontà di aderire a stilemi propri di una musica che per anni e anni ha narrato le vicende, le sofferenze di un intero popolo.

Gerlando Gatto

 

Un(Folk)ettable Two di Nico Morelli all’Auditorium Parco della Musica

Foto di Adriano Bellucci

Roma, 14 settembre, ore 21
Sala Teatro Studio Luigi Borgna

Un(Folk)ettable two

Nico Morelli, pianoforte
Camillo Pace, contrabbasso
Mimmo Campanale, batteria
Davide Berardi, voce e chitarra
Barbara Eramo, voce
Paolo Innarella, sax soprano

Il Jazz ospita la pizzica, anzi no. La pizzica ospita il Jazz: si incontrano in campo neutro e si avvicendano prendendosi per mano e rimanendo ognuno ben saldo nel proprio mondo. Non “contaminazione”, piuttosto il coesistere di due generi che per contrasto esaltano reciprocamente bellezza e la forza dei punti in comune.
Nico Morelli è un jazzista, italiano, che vive e suona a Parigi oramai da un po’. Nico Morelli è anche pugliese di origine, un pugliese che con  “Un(Folk)ettable two edito da Cristal Records e Puglia Sounds, decide per la seconda volta di riappropriarsi delle proprie origini e di esprimersi attraverso due linguaggi apparentemente lontani e così profondamente radicati in lui: il Jazz, appunto, e la musica tradizionale della sua Puglia.

Per realizzare questo progetto un po’ visionario sceglie di avere con sé musicisti pugliesi: decisione importante, visto il risultato della performance percettibilmente autentica, dal punto di vista squisitamente emotivo. Pianoforte, contrabbasso, batteria, voci e l’incursione, una sola purtroppo, di Paolo Innarella con il suo sax soprano, un vero cameo, lirico come non mai, e un’energia notevole del gruppo dal primo all’ultimo minuto.
E’ proprio il contrabbasso che introduce la pizzica, percuotendo ritmicamente le corde con l’archetto: è una specie di evocazione suggestiva che apre il concerto, fino a quando il suono non si riempie anche di accordi del pianoforte e del groove della batteria.

I ritmi cambiano quasi improvvisamente e si viene trascinati nel Jazz, nell’improvvisazione, nello swing.
Da questo inizio incalzante fino al termine del concerto si oscilla di continuo dalla musica tradizionale al Jazz con una particolarità: lo stacco da una all’altra non crea traumi, non provoca scossoni: a stupire è la naturalezza con cui i due generi si avvicendano, trascinando chi ascolta in un flusso continuo di ritmi ed armonie cangianti, eppure mai in contrasto netto tra loro.
La pizzica è lo spunto per arrivare al Jazz. Il Jazz è lo spunto per tornare alla pizzica. La pizzica può essere anche in 5/4 e il jazz può avere la scansione ritmica della pizzica. Senza mischiarsi, ma scambiandosi suggestioni reciproche che vanno a permeare un tessuto sonoro ricco, connotato dal sommarsi di episodi colmi di pathos. Un pathos a volte garantito dalle due bellissime voci di Barbara Eramo e Davide Berardi, splendidi interpreti di questa musica così legata alle loro stesse origini, altre dal drumming multiforme e trascinante di Mimmo Campanale altre ancora del contrabbasso vivido, espressivo, basilare di Camillo Pace.


Il garante del flusso di questa bella performance che è quasi anche un flusso narrativo è Nico Morelli, che firma i brani, li riempie di vitalità e di vita vissuta e li materializza in un pianoforte che diventa di volta in volta (non vi paia strano) anche organetto, o  tamburello, persino, ma anche elemento fondamentale di un notevolissimo trio Jazzistico.


Ascoltare Un(Folk)ettable rivela che il Jazz e la Pizzica non sono mondi poi così distanti. Che è benefico, ad ascoltare un tale scorrere di suoni, scoprire punti in comune coltivando le differenze. Un messaggio importante al di là della musica e che arriva alla mente ed al cuore d’istinto, solamente ascoltando: l’unione di due culture, di due mondi lontani è possibile ed è una ricchezza. Un pensiero a cui se non arriviamo con il raziocinio possiamo arrivare con la musica. E gli applausi entusiasti alla fine del concerto lo hanno dimostrato.

I NOSTRI CD. Luci ed ombre dalle novità discografiche dall’Italia e dall’estero

Antonella Chionna – “Rylesonable” – Dodicilune 371
Spero di non attirarmi la solita valanga di critiche quando mi capita – ad onor del vero piuttosto raramente – di parlare male di qualche disco. Ecco questo “Rylesonable” è un album che ben difficilmente ascolterei una terza volta (prima di recensirlo l’ho ascoltato attentamente due volte). Nato nel corso di un tour della Chionna negli Stati Uniti e registrato nel Rear Window Studio di Brookline, l’album presenta accanto alla vocalist, il pianista Pat Battstone, il contrabbassista Kit Demos e il vibrafonista Richard Poole. Un combo, quindi, di tutto rispetto che si avventura, però, su un territorio che il vostro cronista non apprezza particolarmente. In repertorio otto brani frutto della collaborazione tra i quattro musicisti, cui si aggiungono “Sophisticated Lady” di Duke Ellington, Irving Mills e Mitchell Parish, “Lover Man / Nature Boy” di Jimmy Davis, Roger Ramirez, James Sherman ed Eden Ahbez, “Fida (to Carla)” con testo della Chionna su musica del chitarrista e compositore pugliese Gabriele di Franco e “Rather Life”, liberamente ispirato da un poema di André Breton. Dopo il lavoro in duo “Halfway to Dawn” con il chitarrista Andrea Musci, la giovane cantante tarantina Antonella Chionna ritorna, quindi, con un altro disco che evidenzia le potenzialità della sua voce. E su questo non ci sono dubbi. Ma allora perché estremizzare la performance, perché spingere il tutto come a voler rifiutare qualsivoglia leggibilità? L’impressione è che alle volte, spinti dalla voglia di evidenziare le proprie potenzialità, alcuni musicisti – soprattutto giovani – insistano un po’ troppo sul lato tecnico dimenticando che la musica è anche, se non soprattutto, trasmissione di emozioni.

Claudio Cojaniz – “Stride Vol.3 – Live” – Caligola 2223
“Sound of Africa – Caligola 2228
Claudio Cojaniz è musicista sincero, coraggioso, che non ha paura di esprimere le proprie convinzioni sia con le parole sia con la musica. Questi due album ne sono l’ennesima conferma, se pur ce ne fosse stato bisogno.
Il primo, registrato il 18 luglio del 2015 durante un concerto all’Arena del Parco Azzurro di Passons in provincia di Udine, rappresenta il terzo episodio di una riuscitissima serie che la Caligola sta dedicando alla valorizzazione di questo artista friulano. In questo terzo volume Cojaniz esegue in piano-solo un repertorio in cui a brani tratti dal songbook jazzistico si alternano canzoni come “Il nostro concerto” o “Michelle” e un pezzo folkloristico macedone. Indipendentemente dal materiale che si trova ad affrontare, il pianismo di Cojaniz mantiene una sua intima coerenza: robusta tecnica ma usata con parsimonia, armonizzazioni mai banali, spiccata sensibilità melodica (si ascolti al riguardo il brano d’apertura (“I loves you Porgy” di George & Ira Gershwin), perfetta padronanza della dinamica, uno spiccato senso del blues (particolarmente evidente in “Nobody knows you when you’re” down and out), assoluta coerenza nel mai disgiungere il suo impegno politico dalla musica (ecco quindi la riproposizione di “Gracias a la vida” di Violeta Parra) e quindi nessuna paura di osare quando lo ritiene necessario. In questo senso da segnalare, in conclusione, la toccante versione de “Il nostro concerto” un brano che tra le dita di Claudio riesce a esprimere tutta la delicatezza e l’amore di cui era capace Umberto Bindi.
Abbiamo già parlato dell’impegno politico di Cojaniz e questo “Sound of Africa” si inserisce proprio in tale contesto. Realizzato nel marzo del 2017, è frutto di una collaborazione tra l’associazione TimeforAfrica di Udine e Caligola Records di Venezia; il ricavato andrà infatti a finanziare un progetto educativo per le famiglie dei minatori sudafricani di Marikana, sterminati dalle forze di polizia nel 2012 durante uno sciopero indetto per protestare contro le condizioni di vita. L’album è stato presentato in prima assoluta durante “Udin&Jazz 2017” con grande successo; il disco ricrea appieno le atmosfere vissute durante il live. Splendidamente completato da Alessandro Turchet, contrabbasso, Luca Grizzo, percussioni e voce e Luca Colussi, batteria, il quartetto non scimmiotta posticce atmosfere africane, ma si rifà alla cultura di quel continente per trarne fonte di ispirazione: quindi l’Africa come una sorta di madre musicale, da cui ha preso le mosse anche il jazz. Non a caso l’album inizia con l’esecuzione per piano solo dell’inno nazionale sudafricano, anche se già dopo un minuto entrano in azione gli altri tre musicisti ed il brano, sorta di medley, diventa così –informa una nota della Caligola – “una composizione originale di Cojaniz, Capetown, contrariamente a quanto indicato nelle note di copertina”. E non a caso Cojaniz ha composto e incluso nell’album il brano “Marikana” proprio in ricordo di quella strage cui prima si faceva riferimento. Insomma un’altra, l’ennesima, prova di maturità del pianista friulano che si esprime al meglio anche come compositore dal momento che la quasi totalità delle composizioni sono sue.

eMPathia – “COOL Romantics” – mpi 2316
“eMPathia” è un duo che ti conquista immediatamente sia che lo ammiri in concerto sia che ascolti un suo disco. E i motivi sono molteplici. Innanzitutto la bravura dei musicisti: Mafalda Minnozzi è una vocalist dotata di grandi mezzi vocali, di squisita sensibilità e di una rara presenza scenica; oramai da molti anni si è fatta ambasciatrice della buona musica italiana nel mondo ottenendo straordinari successi soprattutto in Brasile, sua seconda patria. Paul Ricci, chitarrista di origini italiane, è strumentista che coniuga una tecnica sopraffina ad una non comune capacità di arrangiare i brani non facili che i due presentano. Lavorando assieme da molti anni, i due hanno sviluppato una bella intesa declinata attraverso un’operazione a sottrarre nel senso che hanno ricercato l’essenziale, risultato perfettamente raggiunto in questo album che rappresenta il coronamento di una trilogia, iniziata con “eMPathia jazz duo” e proseguita con “Inside”. Alle prese con un repertorio di estrema difficoltà, comprendente brani arci noti tratti dal pop, dal jazz, dalla musica brasiliana, dalla musica cantautorale italiana come “Insensatez”, “Dindi”, “Triste sera” di Luigi Tenco, “Nuages” forse la più bella composizione di Django Reinhardt, “Via con me” di Paolo Conte, i due riescono a trascendere le sonorità proprie dei linguaggi su accennati per attingere ad una forma espressiva nuova, originale. Forma espressiva che trae origine da un lato dalle diverse esperienze che i due hanno vissuto lavorando sui palcoscenici di mezzo mondo – dall’ Europa all’America latina… agli Stati Uniti d’America, dall’altro dalla facilità con cui i due riescono a improvvisare sulla scena sorretti da quell’intesa cui prima si faceva riferimento e da un gusto particolare per fitte trame melodico-armoniche sorrette sempre da un ritmo, alle volte sotto traccia, che Paul riesce a infondere in ogni esecuzione.

Fatsology – “A Tribute To The Music of Fats Waller” – abeat 170
Un sestetto di All Stars impegnate in un tributo a Fats Waller, pianista, cantante, interprete e compositore di alcuni brani memorabili. Protagonisti Gianni Cazzola il decano della batteria jazz italiana essendo sulla scena da oramai una sessantina d’anni, Sandro Gibellini chitarrista di ampie vedute e di altrettanto ampi consensi, Alan Farrington eccellente crooner, Alfredo Ferrario uno dei migliori clarinettisti di genere traditional in Italia, Marco Bianchi vibrafonista di grande sensibilità, Roberto Piccolo contrabbassista tra i più richiesti. La musica di Fats Waller è straordinaria contenendo in sé una valenza che per tanti anni non ha trovato eguali: non a caso era la musica che ha fatto ballare l’America per tanti anni e non a caso alcuni suoi brani sono rimasti immortali. Nel programma del CD tredici brani arrangiati in modo magistrale da Sandro Gibellini che guida il gruppo con energia, con classe inducendo tutti a suonare con gioia e partecipazione. Tutto bene, quindi? Non proprio ché alla freschezza del gruppo nella sua versione strumentale, si contrappone una voce che per quanto valida poco si adatta, almeno a nostro avviso, ad eseguire questo particolare repertorio. In effetti le interpretazioni di Fats Waller rimangono irraggiungibili quanto a musicalità e senso dell’ironia, dote, quest’ultima, cha manca completamente al pur bravo Alan Farrington; e per rendersene conto basta ascoltare i due brani più celebri di Waller, “Ain’t Misbehavin” e “Honeysuckle Rose”.

Paolo Fresu – “Two ” – Tuk 016
“Magister Giotto” – Tuk 020
Paolo Fresu è attualmente, senza ombra di dubbio, la punta di diamante del movimento jazzistico italiano. E questo non solo per le straordinarie capacità musicali, per lo smisurato talento, ma anche per la personalità dell’uomo che ama spendersi nelle più diverse occasioni, che mai si tira indietro, che ama- come suol dirsi- metterci la faccia. Emblematico, al riguardo, il suo contributo per organizzare i grandi concerti de L’Aquila. Il tutto senza minimamente incidere sulla qualità delle sue produzioni artistiche. E ne abbiamo un altro esempio in questi due album, l’uno più bello dell’altro.
In “Two Minuettos”, ad 8 anni di distanza dall’ultima collaborazione documentata dall’album “Think” uscito per la Blue Note/Emi, Fresu è tornato a duettare con il pianista Uri Caine in occasione dei tre concerti milanesi che il duo tenne al Teatro dell’Elfo dal 27 febbraio al 1 marzo 2015. Si, tratta, quindi di un live articolato su nove brani molto differenti che vanno da Bach a Bruno Lauzi passando attraverso Gershwin, Mahler, Joni Mitchell, Eden Ahbez e Barbara Strozzi, compositrice e soprano (1619 -1677), figura di rilievo della musica barocca veneta, oggi conosciuta soltanto da pochi esperti, a conferma di quanto possa essere vasto e completo l’universo musicale frequentato dal trombettista sardo. Ed è un vero godimento per le orecchie ascoltare con quanta passione, competenza, determinazione i due affrontano pagine musicali talmente distanti tra di loro. Il flicorno di Fresu disegna, con la solita eleganza, eleganti linee melodiche ben sorrette da un Uri Caine, con il suo classico contrappunto, assolutamente a suo agio nel completare quell’universo jazzistico in cui inserire le esecuzioni. Ecco quindi le note dei due che si incastonano a meraviglia sì da far assurgere a nuova modernità quei pezzi classici cui prima si faceva riferimento.
“Magister Giotto” è un album particolare: il trombettista sardo, in occasione dell’esposizione “Magister Giotto”, in programma dal 13 luglio al 5 novembre prossimo, presso la Scuola Grande della Misericordia a Venezia, per i 750 anni della nascita del grande artista fiorentino, ha realizzato uno speciale CD, dal titolo omonimo e dal formato assolutamente atipico, con in copertina una delle immagini celebri di Giotto, “Incontro di Anna e Gioacchino alla Porta d’Oro”, per gentile concessione del Comune di Padova. Graficamente splendido anche il libretto d’accompagno con una serie di foto che richiamano diversi colori e che contengono le indicazioni sui brani. A quest’ultimo riguardo occorre precisare che Fresu ha scelto alcuni pezzi del già ricco catalogo Tuk Music, la casa discografica da lui stesso fondata, per creare una sorta di colonna sonora che accompagna il pubblico durante il suo viaggio alla scoperta di Giotto. Così accanto al trombettista abbiamo modo di ascoltare, divisi in vari organici ancora Uri Caine, Omar Sosa, Jaques Morelembaum, Daniele di Bonaventura, Gianluca Petrella, I Virtuosi Italiani, Michele Rabbia, Leila Shirvani, William Greco, Marco Bardoscia, Emanuele Maniscalco. Insomma una realizzazione molto, molto particolare che non a caso inaugura la Tuk Art, sezione della Tuk Music dedicata alle forme del figurativo.

Roberto Gatto – “Now!” abeat 172
Roberto Gatto è unanimemente considerato uno dei migliori batteristi, non solo italiani, attualmente in esercizio. Sorretto da una grandissima passione, si è fatto le ossa studiando sodo e collaborando con artisti di assoluto livello quali Johnny Griffin, George Coleman, Joe Zawinul, Curtis Fuller … tra gli altri. Oggi ovunque si vada Roberto è uno dei non molti jazzisti italiani conosciuti ed apprezzati. E questo album conferma quanto già di buono si sapeva sul suo conto non solo come batterista ma anche come leader e fautore di validi progetti. Ad accompagnarlo Alessandro Presti alla tromba, Alessandro Lanzoni al piano (vincitore del TOP JAZZ 2013, nella categoria Miglior Nuovo Talento) e Matteo Bortone al contrabbasso (cui è stato assegnato il premio Maletto del Top Jazz 2015). Insomma un quartetto di eccellenti musicisti che si misura su un repertorio che annovera nove originals, due standards (“I’ve Got You Under My Skin” di Cole Porter e “Thelonious” di Monk) e una moderna composizione di Chris Potter “Tick Tock”. Il terreno su cui si muovono i quattro è quello prettamente jazzistico, senza se e senza ma, vale a dire la giusta carica di swing, il piacere dell’interplay, la propensione ad improvvisare… e soprattutto quel lirismo, quel gusto per le belle melodie che sono patrimonio precipuo dei jazzisti italiani. Roberto sostiene il gruppo con il suo impeccabile drumming, con quel senso del tempo che tutti gli riconoscono e riesce così di volta in volta a lanciare i vari solisti che hanno modo di estrinsecare tutte le proprie potenzialità. Ad esempio ascoltiamo Alessandro Presti disegnare le ardite volute di “Tick Tock” con un suono netto, quasi senza vibrato e interpretare con sincera partecipazione il suo brano “Amastratum” mentre Matteo Bortone, valido partner di Gatto in tutto il disco, si fa particolarmente apprezzare sia in “Thelonious” sia nella sua “May”; infine Lanzoni dimostra di essere musicista oramai maturo anche dal punto di vista compositivo grazie al suo convincente “Brendy”.

Tigran Hamasyan – “Atmosphères” ECM 2414/15
“An Ancient Observer”
Tigran Hamasyan, giovane e dotato pianista di origine armena, si ripresenta con due realizzazioni discografiche: un doppio CD per la ECM e un album per la Nonesuch. Ambedue gli album confermano appieno quanto di buono già si conosceva di questo talento anche perché lo si ascolta in contesti diversi. Ma procediamo con ordine.
Il titolo “Atmosphères” illustra assai bene il relativo contenuto musicale, vale a dire le atmosfere cangianti, ora oniriche, ora più materiche (si ascolti “Trace II”) proprie della cifra stilistica del pianista armeno. L’album, registrato nel giugno del 2014 presso l’Auditorio della Radiotelevisione Svizzera a Lugano, coglie Tigran accompagnato da un trio di straordinari musicisti norvegesi quali Arve Henriksen alla tromba (magnifici i suoi assolo in “Traces IV” e in “Garun A”), Eivind Aarset alla chitarra e Jang Bang ai campionamenti. Sciolti da ogni legame precostituito, i quattro danno libero sfogo alla propria creatività producendo una musica in cui non è facile distinguere tra pagina scritta e parti improvvisate… ammesso che ciò sia importante. Invece è determinante il fatto che Hamasyan e compagni riescono a coniugare il linguaggio jazzistico – anche il più spinto – con la tradizione armena; funzionale a tale obiettivo è la scelta del repertorio costituito sia da composizioni originali sia da brani di Padre Komitas Vardapet, forse il più importante rappresentante della moderna musica armena. Di grande sostanza il pianismo di Tigran, che senza esagerare, senza forzare, gioca sulla dinamiche, sul timbro dello strumento ottenendo risultati del tutto personali. Dal canto loro i musicisti norvegesi – ma non è certo una sorpresa – seguono perfettamente gli intenti del leader aggiungendo un tocco di sognante impressionismo che qualifica ulteriormente l’album.
In “An Ancient Observer” ritroviamo Tigran Hamasyan in solitaria, impegnato sia al pianoforte sia alla voce, sia alle tastiere e agli effetti elettronici. E le impressioni non mutano, salvo il fatto che non sentendosi in qualche modo vincolato dalla presenza di altri musicisti, il pianista dà libero sfogo al proprio talento riuscendo ad esprimere appieno tutte le varie sfaccettature della sua complessa personalità. In qualche caso, specie quando abbandona il pianoforte, ciò lo porta ad esagerare, ad abbandonare quella sorta di minimalismo che invece caratterizzava il precedente doppio album. Eccolo comunque, passare con disinvoltura dalla danza barocca all’hip-hop, dalla musica da camera al cantautorato, dal jazz al folk tenendo, però, sempre ben presente le sonorità del suo paese. Tigran esegue dieci nuove composizioni che, come egli stesso afferma, sono “delle osservazioni musicali sul mondo nel quale viviamo, e sul peso della storia che portiamo con noi.” E sono composizioni che evidenziano appieno il suo profondo senso compositivo, con equilibrio strutturale e linee melodiche alle volte di straordinaria suggestione.

Hard Up Trio – “Waves” – CDLN
Quando si parla di post free, di jazz informale, di musica improvvisata…o comunque la si voglia chiamare credo sia giunto il momento di porre qualche punto fermo ad evitare che si ascolti musica di nulla o scarsa valenza. Ecco, a mio avviso, quando ci si cimenta con questo genere di linguaggio, occorre che sia rispettata almeno una delle seguenti condizioni: che si tratti di musica totalmente improvvisata sì da configurare una sorta di composizione istantanea (alla De Mattia tanto per intenderci), o che gli artisti siano talmente ad alto livello da presentare un jazz originale che non contenga alcunché di scontato. Purtroppo in questo album non sentiamo soddisfatta alcuna delle suddette condizioni. L’ “Hard Up Trio”, al secolo Andrea Morelli sax tenore, soprano, sopranino, Massimo “Maso” Spano contrabbasso, Alessandro Garau batteria sono musicisti ben preparati, conoscono i rispettivi strumenti e possono anche contare su una buona intesa dato che suonano assieme da qualche tempo e questo è il loro secondo album. Ma tutto ciò non basta. La loro è una musica che si lascia ascoltare, a tratti anche con interesse dato il mélange di diversi input, ma non si avverte alcun guizzo che ridesti l’attenzione dell’ascoltatore né dal punto di vista esecutivo né da quello compositivo (tutti i nove brani sono composizioni originali, tre di Garau, cinque di Morelli e una di Spano). Insomma, per dirla con Ashley Khan, manca quel quid “di casual e organico che può fare di una band molto di più della somma delle sue parti”.

Sean Jones – “Live From Jazz at The Bistro” – Mack Avenue
Registrato a St. Louis’ Jazz al the Bistro club dal 3 al 5 dicembre del 2015, questo album ci presenta l’abituale quartetto guidato dal trombettista e flicornista Sean Jones con il pianista Orrin Evans, il bassista Luques Curtis e il batterista Obed Calvaire, sostituito in quattro brani da Mark Whitfield Jr. mentre in altri quattro pezzi si ascolta un altro vecchio e caro amico di Jones, vale a dire il sassofonista alto e soprano Brian Hogans. La prima impressione che si ricava dall’ascolto dell’album – l’ottavo firmato da Sean per la Mack Avenue – è quella di una perfetta intesa e ciò si spiega con il fatto che il quartetto di Jones lavora assieme da ben undici anni, cosa di certo poco comune nell’attuale panorama jazzistico internazionale. In un contesto talmente ben collaudato è risultato facile l’inserimento degli altri due musicisti cosicché l’album nulla perde della sua intrinseca coerenza a prescindere dall’organico. In programma sette composizioni originali di cui quattro del leader, una cadauno rispettivamente di Brian Hogans e Orrin Evans e il traditional “Amazing Grace”. Sin dalle primissime note, tutti i brani evidenziano quella compattezza cui prima si accennava (si ascolti già nel brano d’apertura “”Art’s Variable” dedicato a Art Blakey l’entusiasmante intesa tra il leader e la sezione ritmica con il pianista Orrin Evans che si produce in un notevole assolo) e la capacità dei musicisti di porsi a totale servizio della musica pur conservando ampi spazi di improvvisazione. Comunque in primo piano è quasi sempre Sean Jones con il suo sound così caldo, corposo, capace di transitare con facilità da atmosfere melodiche a climi ben più arroventati. (altro…)

Giorgia Sallustio ovvero la naturalezza del canto

 

Udine, 08/07/2017 – UDIN&JAZZ 2017 – ETHNOSHOCK – Corte Palazzo Morpurgo – GIORGIA SALLUSTIO 5ET “Around Evans” – Giorgia Sallustio, voce / Roberto Cecchetto, chitarra / Rudy Fantin, piano rhodes, hammond / Roberta Brighi, basso / Evita Polidoro, batteria – Foto Luca A. d’Agostino/Phocus Agency © 2017

Nata a Palmanova in provincia di Udine, Giorgia Sallustio è artista dotata di significativa preparazione di base. Diplomata col massimo dei voti e laureata presso il conservatorio G.Cantelli di Novara in chitarra classica, ha studiato canto lirico, moderno e jazz, conseguendo una seconda laurea in canto jazz presso il conservatorio G. Verdi di Como. La sua passione per il canto si rivela precocemente all’età di 3 anni, quando vince il suo primo concorso canoro locale. Nel corso degli anni partecipa e vince numerosi concorsi locali ed internazionali. Quest’anno ha partecipato con successo al Festival Udin&Jazz presentando il suo ultimo progetto “Around Evans”. E noi l’abbiamo intervistata proprio alla fine dell’applaudita performance.

Come è nata l’idea di questo progetto?

“Direi in modo del tutto naturale. Ho sempre amato Bill Evans e ho sempre pensato che un giorno o l’altro mi sarebbe piaciuto cimentarmi con questo tipo di repertorio. Quando ho ritenuto che finalmente fosse giunto il momento, ho chiamato alcuni eccellenti musicisti ed abbiamo realizzato il disco che forse conoscerai “Around Evans” uscito per la Caligola nel 2015”.

  • Sì, lo conosco e devo aggiungere che si tratta di un album apprezzabile; ma l’organico è completamente diverso rispetto a quello con cui ti sei presentata a Udin&Jazz

“Certo nel disco ci sono Nevio Zaninotto al sax tenore e soprano, Alessandro Castelli al trombone, Rudy Fantin al piano e al Rhodes, Raffaele Romano al contrabbasso e Nicola Stranieri alla batteria cui si sono aggiunti in alcuni brani come special guests Alberto Mandarini tromba e flicorno e Giuseppe Emmanuele piano e arrangiatore del pezzo di Bacharach “A House Is Not a Home”. Ma, come puoi ben capire, portare in giro un gruppo così numeroso oggi è impresa a dir poco difficile. Di qui la necessità di ricorrere ad un organico più leggero”.

  • Che comunque ha dato risultati eccellenti…

“Sì, sono molto soddisfatta del risultato. Ma i musicisti che hanno suonato con me sono tutti di ottimo livello, sono davvero fortunata e onorata di poter condividere la musica ed il palco con loro.”

  • Vogliamo ricordarli?
  • “Certo: ancora Rudy Fantin, e poi Roberta Brighi basso, Evita Polidoro batteria e Roberto Cecchetto alla chitarra”.

  • Una curiosità: dove hai scovato la bassista davvero brava sia per il sound sia per il senso della costruzione armonica?

“Hai ragione, è davvero molto brava. Comunque per rispondere alla tua domanda, abbiamo studiato assieme al Conservatorio di Como e suoniamo insieme da qualche tempo in un’altra formazione (L.W. sextet) capitanata dalla stessa Roberta Brighi con cui abbiamo di recente registrato ciò che già proponevamo dal vivo ovvero musiche di Ornette Coleman di cui Roberta ha curato interamente gli arrangiamenti.”

  • Come mai hai inserito una chitarra?

“Come abbiamo visto, nel disco c’erano i fiati; per i live era quindi necessario uno strumento che in qualche modo li rimpiazzasse, essendo però in grado di interloquire con il piano. Ecco, la chitarra mi ha sembrava uno strumento adatto soprattutto se suonato da un artista come Cecchetto capace di creare delle atmosfere uniche mettendosi completamente a servizio della musica”.

  • Adesso parliamo un po’ del repertorio; come hai scelto i brani?

“Beh, questo è stato un lavoro piuttosto difficile essendo tanti i brani di Evans che conosco e che mi affascinano. Comunque ho scelto quelli che sentivo più vicini alla mia sensibilità cui ho aggiunto alcuni standards jazz che egli aveva amato e riproposto nelle registrazioni e dal vivo, inserendo in repertorio anche alcune composizioni originali”.

  • Sia ascoltando il disco sia nella performance di poco fa, c’è un elemento che mi ha colpito: l’estrema naturalezza con cui canti, con cui interpreti brani anche difficili. Da dove ti deriva questa sorta di sicurezza?

“Sono felice che traspaia questo, il canto è stato per me canale espressivo privilegiato sin dalla tenera età, cantavo come azione spontanea e in qualche modo liberatoria, ludica ed inconsapevole come solo i bambini sanno fare. Sono cresciuta in una famiglia di amanti della musica anche se non di musicisti che ha saputo nonostante tutto assecondarmi nelle mie inclinazioni naturali e passioni. Ho ancora memoria della prima esibizione durante un concorso locale all’età di tre anni, quando ancora del tutto inconsapevole, mi apprestavo a fare ciò che mi divertiva e piaceva, non ci fu nessuna forzatura da parte della mia famiglia ma già una mia totale e spontanea adesione alla musica ed in particolare al canto. Per anni è prevalsa la componente istintiva nel canto inteso come urgenza espressiva anche se nel frattempo decisi di cimentarmi nello studio della chitarra classica in conservatorio e per alcuni anni del clarinetto. Ho vissuto per molto tempo questa sorta di dualità, spaccata tra studi accademici che ho portato a termine con determinazione e ottimi risultati, ed una modalità di apprendimento che definirei di “tradizione orale” basato principalmente sulla pratica, su quella sul campo e anche sullo studio inizialmente con approccio imitativo, di maestri che definirei inconsapevoli attraverso l’ascolto dei loro dischi, o dei concerti. Probabilmente non è un caso che attraverso il canto mi sia avvicinata in tarda adolescenza al jazz ed abbia continuato ad amarlo facendone motivo successivamente di studio continuativo ed approfondito anche attraverso seminari, workshops sino alla volontà di seguire comunque un percorso accademico anche per la voce come per la chitarra, nell’intento di cercare la mia strada. Credo alla fine che questa dualità da me percepita, a tratti con sofferenza, sia stata fondamentale nel mio percorso di musicista e mi abbia in realtà permesso da un lato di acquisire degli strumenti di conoscenza infondendomi inoltre un senso della disciplina e del raggiungimento degli obiettivi e dall’altro, la possibilità di preservare la manifestazione della mia espressività ed individualità scongiurando mi auguro, un’omologazione in cui si può incappare in ciò che spesso è accademia e proposta accademica. Penso che questa naturalezza di cui parli anche nell’interpretazione di brani difficili, sia il prodotto di tutto ciò che ho descritto sopra, delle mie esperienze sul campo acquisite negli anni e nella scelta di un repertorio sentito e a me congeniale. Sulla sicurezza invece devo confessare di doverci ancora lavorare parecchio…è pazzesco come la maggior consapevolezza che dovrebbe essere motivo di fiducia nelle proprie capacità diventi per me spesso motivo di incertezza…è nella mia natura di persona emotiva e a tratti molto severa, autocritica e perfezionista ma credo che questa mia caratteristica rappresenti nel contempo la mia fragilità ma anche la mia forza e probabilmente sia frutto più di un travaglio interiore che di una reale evidenza delle cose.”

  • Cosa ha significato l’essere diventata musicista a tutto tondo e a tempo pieno? Come ha influito sulla tua crescita di donna?

“Ha significato più di ogni altra cosa passione, dedizione e cura. Penso di non esagerare quando dico di aver votato l’esistenza alla musica. Con una buona dose di entusiasmo, curiosità e spirito di sacrificio ho tracciato il mio percorso musicale, fatto naturalmente come per tutti, di alti e bassi e di momenti facili e altri meno. Mi piace dare poi un duplice significato alla parola cura quando penso alla musica, da un lato la premura, l’impegno, porre un’attenzione particolare e quotidiana a ciò che si fa per farlo al meglio possibile e dall’altro cura come medicina e balsamo per l’animo che si nutre di bellezza, nel senso lato del termine. Penso che la musica sia stata un’ottima compagna di vita sino ad adesso e mi auguro lo sia ancora per molto tempo ed ha senz’altro influito in maniera decisiva nella mia crescita prima che come musicista come appunto donna: diventare musicista ha comportato e continua ad implicare per me un’incessante riflessione sulla mia persona, sui miei limiti e possibilità, sulla gestione delle emozioni, sull’espressione autentica di se stessi, sulla comunicazione e l’interazione con l’altro e molto altro ancora, quando non è puro piacere e immersione totale nel repertorio che si sta affrontando o creazione di qualcosa ex novo. All’atto pratico direi poi che per una donna ma in generale per ogni individuo, senza fare distinzioni di sesso, è sempre complicato far coincidere tutto ciò che implica semplice gestione delle cose di vita quotidiana, affetti e lavoro, però quando accade qualcosa di meraviglioso come il contatto con la musica, quando le tue passioni ed inclinazioni naturali finiscono per coincidere con il tuo stesso lavoro, quando esso sia suonare, calcare un palco o trasmettere la propria esperienza ad altri, non si può che essere grati alla vita.”

  • Puoi ricordarci le tappe fondamentali della tua carriera?

“Mi sono affacciata al mondo della musica ed in particolare del canto sin da piccola e nel corso degli anni ho sentito la necessità di approfondire gli studi, conseguendo dapprima diploma e laurea in chitarra classica e successivamente quella in canto jazz, presso i conservatori di Novara e Como. Mi piace definirmi senza presunzione alcuna, una musicista dalla formazione poliedrica poiché durante il mio percorso musicale ho spaziato molto, senza aver avuto in un certo senso la fortuna di un tracciato lineare sin da subito, come ad alcuni ragazzi capita. Ho quindi un passato musicale caratterizzato anche da incursioni nel pop-soul. Nel frattempo non ho mai abbandonato la mia grande passione per il jazz continuando a coltivarla approfondendo le tecniche di improvvisazione vocale e partecipando a diversi seminari e workshops tenuti da artisti tra i quali Norma Winstone, Sheila Jordan, Maria Pia de Vito, Tiziana Ghiglioni, Jay Clayton, Gianna Montecalvo, Bob Stoloff, Roberta Gambarini, Jen Shyu, Cinzia Spata e vincendo alcune borse di studio in palio per i migliori corsisti. Continuo a dedicare al jazz il mio presente musicale ed ho avuto la fortuna di avere degli ottimi insegnati e di collaborare con importanti musicisti della scena jazz italiana esibendomi presso diverse rassegne, festival, teatri, sale da concerto e club. Nonostante sia attiva da molti anni con concerti, progetti, collaborazioni ed incisioni, mi considero sostanzialmente agli esordi, poiché mi sono timidamente affacciata al mondo del jazz con il mio primo lavoro discografico da leader, solo pochi anni fa, nel 2015. Il disco dal titolo “Around Evans”, come si diceva, è uscito per la Caligola records e contiene i brani che poi ho presentato con una nuova formazione al concerto di Udin&Jazz.”

  • Qual è l’artista cui ti senti spiritualmente più vicina?

“Potrei citare tantissimi nomi di artisti del passato ed attuali che mi piacciono, che mi hanno influenzato, che stimo musicalmente ma sentirsi spiritualmente vicino ad un artista è qualcosa di più che tutto ciò. Perciò a rischio di sembrare ripetitiva e monotematica, devo fare il nome di Bill Evans. Per me questa vicinanza è data dall’affinità profonda che percepisco con la sua musica, un amore che è puro, disinteressato e non è un caso che il mio primo disco da leader sia un omaggio proprio alla sua figura. È qualcosa di viscerale che muove dentro, difficile da descrivere, è quella spinta propulsiva che ti spinge a voler approfondire ogni aspetto non solo musicale attraverso lo studio dei suoi brani ma dell’intera figura dello stesso, l’uomo che era e le vicende di vita riportate nei libri, per captare qualcosa in più, per poter comprendere di più la figura dell’artista nella sua interezza. Il lirismo ed il potere evocativo della sua musica, a mio avviso d’una struggente bellezza, musica che contiene in sé i germi della modernità e che trovo possa essere per certi versi ancora attuale, che ascolterei senza stancarmi mai ed in cui trovo continuamente qualcosa di cui sorprendermi. Riconosco infine in Evans una figura di sintesi e collegamento tra aspetti importanti per una musicista che come me non è nata in America ma in Europa ed è alle prese con una musica di matrice afro-americana proposta in un contesto europeo in cui è nata e cresciuta e da cui è inevitabilmente influenzata.”

  • Come mi accennavi, qualche volta ti sei avvicinata anche al pop…

“Si in passato, poco più che ventenne, incisi per le major discografiche Warner e Sony alcuni brani che a livello commerciale ebbero un inaspettato successo ed in seguito mi portarono in tour all’estero e in Italia ed a partecipare a trasmissioni televisive della Rai e delle principali emittenti radiofoniche. Successivamente collaborai con i “Dirotta su Cuba” per un periodo, dopo che la storica cantante Simona Bencini aveva lasciato il gruppo per intraprendere la carriera solista, entrando a far parte del loro nuovo progetto multi-featuring. Sono state esperienze musicali che ormai sento lontane ma che mi hanno permesso di conoscere e collaborare con musicisti di valore di cui conservo ancora un ottimo ricordo.”

  • Nell’attuale situazione cosa può dare il pop al jazz e cosa può dare il jazz al pop?

“È davvero difficile rispondere a questa domanda…le classificazioni sono forme di semplificazione che aiutano in qualche modo a contestualizzare e forse abbiamo tutti bisogno chi più chi meno, di circoscrivere e a volte incasellare, dare un nome alle cose, per imparare anche a discernere l’offerta musicale ma ultimamente mi sto sempre più convincendo che la cosa importante nella musica sia abbandonarsi a quello che si è, a prescindere dal linguaggio, stile, genere con cui si sta comunicando e quindi considerare la musica come un luogo in cui non vi siano confini a patto che ci si faccia portatori di un messaggio autentico e sincero. Non è certo cosa facile ma è cosa auspicabile per chiunque voglia fare della musica la propria professione e ovviamente richiede intelligenza, sensibilità e capacità di assimilazione e approfondimento dei linguaggi, poi rispetto e curiosità e tanta voglia di esplorare. In quest’ottica direi che un certo tipo di pop ha dato e può dare al jazz la possibilità di allargare lo spazio circostante e sconfinare in altri territori, il musicista diventa un vero e proprio viaggiatore che ha sempre voglia di esplorare, di aggiungere possibilità di espressione e mi viene subito in mente l’esempio di Mehldau…e ad ogni modo credo che vi sia un precedente di tutto ciò nella tradizione jazzistica dato dalla consuetudine di proporre il repertorio pop della propria epoca, basti pensare che molti standards sono comunque canzoni che arrivano da Broadway o da Hollywood. Il jazz di contro credo sia portatore sano di libertà che trova sua espressione in particolare nell’improvvisazione individuale e collettiva, sempre coscienziosa e mai lasciata completamente al caso. Al pop potrebbe dare un approccio diverso cui guardare al materiale musicale. Forse in entrambi i casi potrebbe avvicinare un certo tipo di pubblico ad una musica che normalmente non ascolterebbe.

 Come valuti questa sorta di moda per cui molti cantanti “leggeri” si ripresentano con una sorta di riverniciatura jazz?

“Nella risposta precedente parlavo della necessità di percepire la musica senza distinzioni come una totalità, come esperienza se vogliamo universale che va abbracciata nella sua interezza. Rimane il fatto che il confine tra la naturale mescolanza e reciproca influenza a cui è sottoposta la musica da sempre e che si rivela specchio di ciò che normalmente accade all’umanità in particolare nell’epoca in cui viviamo dove la globalizzazione ha accelerato il processo di circolazione delle informazioni ed il continuo flusso di scambi, diventa veramente labile se si perde di vista a mio avviso una cosa fondamentale: la sincerità nell’espressione e l’autenticità. Il più delle volte tradire se stessi si accompagna a poca onestà intellettuale e si rischia così di far diventare talvolta la musica una mera operazione commerciale con l’unico intento di guadagnare denaro. È così che considero questa “moda”, non sempre sia chiaro ma solo laddove scorgo disonestà intellettuale e mancanza di autenticità, ho la tendenza a percepirla come una sorta di rappresentazione grottesca del jazz dove non c’è un vero e proprio vissuto, non c’è organicità, dove la musica è svuotata di significato e contenuti. Una musica che non ha nulla a che fare con la mescolanza, commistione, crossover che portano alla scoperta di percorsi inediti, e ha un senso artistico o comunque di ricerca personale, ma che punta esclusivamente al guadagno facile con l’impiego di risorse minimo”.

 

 

“Il jazz italiano per le terre del sisma” con oltre 30.000 partecipanti

 

La scossa di martedì scorso (5 settembre) – con epicentro a Campotosto vicino L’Aquila – ha ricordato quanto sia ancora profonda e aperta la “ferita” dei terremoti che hanno colpito quattro regioni dell’Italia centrale (Lazio, Abruzzo, Umbria e Marche) tra il 2009 e il 2016. Attraverso la musica, la solidarietà, la mobilitazione di jazzisti e pubblico – in una chiave ricostruttiva e positiva – la rassegna “Il jazz italiano per le terre del sisma” (31 agosto-3 settembre) aveva riacceso i riflettori sui luoghi terremotati pochi giorni prima, per non dimenticare e per guardare al futuro.  Iniziata a Scheggino e transitata per Camerino, la manifestazione ha fatto tappa il 2 ad Amatrice. Qui sarà costruito ex-novo un Centro Polifunzionale, uno spazio per le arti; vista l’impossibilità di riedificare lo storico cinema-teatro Garibaldi, tutti i fondi raccolti dall’iniziativa dei jazzisti italiani (fin dall’edizione 2016) saranno destinati a questo luogo-simbolo. Nel sito dove sorgerà il Centro Polifunzionale di Amatrice hanno suonato Paolo Fresu e Daniele di Bonaventura, tromba e bandoneon, in un evento di apertura promosso dalla Croce Rossa Italiana (proseguito, poi, con altri concerti nel piazzale dell’ex Istituto Alberghiero).

Ma è stato a L’Aquila – come nella I edizione del 2015 – che si è concentrata domenica 3 settembre la maggioranza degli eventi: diciotto palchi sparsi nella città dove circa settecento jazzisti italiani di varie regioni, stili e generazioni (in base ad un democratico criterio di rotazione) hanno suonato (esibendosi gratuitamente) dalle 11 all’una di notte.

Alle spalle di questa mobilitazione di energie positive ci sono enti, strutture e persone. “Il jazz italiano per le terre del sisma” è stato promosso da Mibact, 723a Perdonanza Celestiniana nonché dalle città de L’Aquila, Amatrice, Scheggino e Camerino. Sponsor principale è la SIAE ma la costruzione materiale dell’esteso happening sonoro è frutto del lavoro del direttore artistico Paolo Fresu, di I-Jazz (che raccoglie parecchi festival e organizzatori nazionali), dell’associazione MIDJ (Musicisti Italiani di Jazz, con la sua dinamica presidentessa Ada Montellanico) e della romana Casa del Jazz. Come per le precedenti edizioni, si è realizzato un coordinamento di settore non comune nel nostro Paese, attraverso un lavoro preparatorio (volontario e gratuito) durato molti mesi.

Tanto lavoro ha rischiato di esser messo in forse dal maltempo ma – dopo una notte di forti temporali –  il sole si è alternato alle nubi consentendo lo svolgimento della rassegna all’aperto (anche se erano state predisposte situazioni al chiuso). Trentamila le persone che sono alla fine transitate a L’Aquila per “Il jazz il jazz italiano per le terre del sisma”, un risultato importante considerate le minacce atmosferiche e il ripetersi “usurante” di iniziative di solidarietà.

Pubblico, musicisti e politici (dal ministro Franceschini al sindaco Pierluigi Biondi) si sono ritrovati nel concerto di apertura alla Fontana delle 99 Cannelle alle 11: luogo fortemente simbolico per la gente aquilana, restaurato e magnifico sotto il sole; ben visibile, tuttavia, dalla fontana un edificio transennato ed inagibile. La voce di Peppe Servillo ed i Solis String Quartet hanno dato corpo alla magia della musica, a quell’immateriale che serve al materiale per credere ancora nella vita, nella bellezza. Gli artisti si sono esibiti in un repertorio di brani della canzone napoletana, con omaggi a Fausto Cigliano e Nino Taranto. Il primo appuntamento ha visto anche discorsi e premi, con un chiaro impegno per la ricostruzione da parte della politica e la volontà concreta di contribuire alla rinascita della città da parte del jazz italiano.

Per il secondo concerto (ore 12) si è saliti dalla Fontana delle 99 Cannelle all’area dov’era la Casa dello Studente (vi hanno cantato le Saint Louis Voices, dirette da Milena Nigro); il percorso mette drammaticamente in evidenza quanto ancora ci sia da riedificare. Ancora sul posto una parte delle macerie dell’edificio dove sono morti otto studenti universitari ma altri quarantasette – alloggiati in case private – sono scomparsi per il terremoto del 2009. Sono stati ricordati prima del concerto e si è chiesto un “luogo della memoria” per non dimenticarli.

Dalle 14 sino all’una di notte “Il jazz italiano per le terre del sisma” si è articolato su altri sedici palchi; ben presenti misure di sicurezza che, comunque, non hanno limitato la possibilità di fruire dei molteplici appuntamenti e percorsi sonori. Dal duo alla big-band si è ascoltato un variegato spaccato stilistico e generazionale della musica di ispirazione afroamericana nel nostro paese. In ogni sede di concerto c’era, inoltre, la possibilità di versare un contributo economico per il centro polifunzionale di Amatrice; il pubblico, soprattutto a partire dalle ore 16, è iniziato ad aumentare fino alla cifra già ricordata di 30.000 persone. In vendita in alcuni punti c’era anche il nuovo libro curato dall’associazione MIDJ che racconta – attraverso foto e testimonianze di musicisti – l’edizione dell’altr’anno: “il jazz italiano per Amatrice” (coordinamento editoriale di Marcello Allulli; comitato redazionale di Maria José Galindo e Paolo Soriani; 190 pagine, euro 25). I fondi raccolti con la vendita del volume di grande formato, pagate le spese di realizzazione, andranno sempre per la struttura culturale amatriciana.

Un vero peccato che la parte serale dei concerti tenutasi nel piazzale davanti alla Basilica di Collemaggio (ancora in restauro) – condotta da Geppi Cucciari –  sia slittata di un’ora e mezza nel suo svolgimento. Per questo motivo hanno suonato ad ora troppo tarda il pianista Enrico Intra (in duo con Marcella Carboni all’arpa) e Marcello Rosa (con una formazione di soli tromboni), musicisti ultraottantenni di grandissima levatura a cui, peraltro, MIDJ ha dato un premio alla carriera. Uno svarione organizzativo che ha visto il pubblico, complici le temperature rigide, scemare dopo il concerto di Mario Biondi (preceduto da banda di Paganico, big-band del Conservatorio de L’Aquila diretta da Massimiliano Caporale, quartetto di Gegè Munari e seguito dal duo Franco Ambrosetti/Dado Moroni) e prima dei “senatori” Intra e Rosa: si sarebbe potuto evitare modificando la scaletta degli interventi, che sono proseguiti con i recital di Gegè Telesforo “SoundzforChildren”, del pianista Rossano Sportiello, di Remo Anzovino e Roy Paci in “Fight for Freedom – Tribute to Muhammad Ali”.

Nel corso del pomeriggio chi scrive ha avuto la possibilità di ascoltare alcuni recital, che si susseguivano nei vari luoghi a distanza di un’ora o quarantacinque minuti. La centrale piazza Duomo – dove i restauri procedono – ha ospitato in un vasto palco formazioni orchestrali, tra cui la Roberto Spadoni & New Project Orchestra; la formazione – diretta dal chitarrista e didatta romano – vede, tra gli altri, Roberto Cipelli al piano, Giovanni Falzone alla tromba e Mauro Beggio alla batteria ed ha un repertorio vivace ed originale che si rifà all’album “Travel Music: l’Italia dal finestrino” (Alfa Music). Lungo l’asse centrale di corso Vittorio Emanuele si affacciano edifici storici i cui chiostri sono stati luoghi di musica. A palazzo Cappa Cappelli il trombettista/flicornista Giovanni Di Cosimo si è esibito con il gruppo elettrico “Nu”, in una formula che attualizza il linguaggio davisiano arricchendolo di tensioni e visioni contemporanee. Poco distante c’è Palazzo Natellis che ha visto l’applaudito recital di Marco Colonna (ance), Eugenio Colombo (ance, flauto) ed Ettore Fioravanti (batteria), il trio “Rahsaan” che propone un’originale e policroma lettura del repertorio di Roland Kirk.

Centralissimi la basilica di San Bernardino e la scalinata ad essa antistante. Come nel 2015, all’interno della magnifica chiesa si sono susseguiti recital pianistici fra cui quelli di Roberto Magris e Mario Piacentini. Quest’ultimo ha saturato lo spazio con brani dal sapore ora minimalistico ora più decisamente jazzistico, arrivando a distillare suoni in grande sintonia con lo spazio e gli spettatori. Sulla scalinata – con una magnifica vista sugli Appennini e su una zona de L’Aquila ancora caratterizzata dalle gru – ha suonato l’orchestra “L’Insiùm” del pianista Glauco Venier e del direttore-arrangiatore Michele Corcella, formazione eccellente con musicisti friulani e di varie parti d’Italia (Mirco Cisilino, Antonello Sorrentino, Simone La Maida, Michele Polga, Alfonso Deidda tra gli altri). Questo “laboratorio permanente di ricerca musicale” ha proposto prevalentemente musiche del cinquecentesco Giorgio Mainiero, oltre ad un “Dear Lord” in omaggio a Coltrane davvero mistico. Sempre sulla scalinata si è materializzata la musica di Jimi Hendrix nella non-filologica e corrosiva versione del gruppo MIDJ Espresso: Giovani Leoni “Purple Whales”, con – tra i vari – Simone Graziano, Alessandro Lanzoni e Dimitri Grechi Espinoza. Alla fine del corso V.Emanuele, in direzione della basilica di Collemaggio, c’era il palco della Villa Comunale che ha offerto il MatTrio, con il sax tenore di Marcello Allulli, la chitarra di Francesco Diodati e la batteria di Ermanno Baron: un gruppo dal linguaggio intenso e tagliente che declina il jazz nelle tensioni e nella dimensione contemporanea.

Tanti altri musicisti in tanti altri luoghi: piazza S.Margherita e piazza dei Gesuiti, l’interno e l’esterno dell’Auditorium del Parco (creato da Renzo Piano), palazzo Lucentini Bonanni, il ponte della Fortezza Spagnola, piazza Chiarino, parco del Castello, chiese del Crocifisso e di S.Giuseppe Artigiano… Camminando tra un concerto e l’altro un anonimo ha detto ai suoi amici: “Questa è L’Aquila che mi ricordo”; speriamo che non lo sia per un giorno l’anno e che tutti i luoghi colpiti dal sisma possano risorgere in una rinnovata dimensione, con l’aiuto – piccolo o grande – del jazz italiano che nel 2018 sarà per l’ultima volta a L’Aquila nella formula solidale e militante sinora utilizzata.