Giorgia Sallustio ovvero la naturalezza del canto

 

Udine, 08/07/2017 – UDIN&JAZZ 2017 – ETHNOSHOCK – Corte Palazzo Morpurgo – GIORGIA SALLUSTIO 5ET “Around Evans” – Giorgia Sallustio, voce / Roberto Cecchetto, chitarra / Rudy Fantin, piano rhodes, hammond / Roberta Brighi, basso / Evita Polidoro, batteria – Foto Luca A. d’Agostino/Phocus Agency © 2017

Nata a Palmanova in provincia di Udine, Giorgia Sallustio è artista dotata di significativa preparazione di base. Diplomata col massimo dei voti e laureata presso il conservatorio G.Cantelli di Novara in chitarra classica, ha studiato canto lirico, moderno e jazz, conseguendo una seconda laurea in canto jazz presso il conservatorio G. Verdi di Como. La sua passione per il canto si rivela precocemente all’età di 3 anni, quando vince il suo primo concorso canoro locale. Nel corso degli anni partecipa e vince numerosi concorsi locali ed internazionali. Quest’anno ha partecipato con successo al Festival Udin&Jazz presentando il suo ultimo progetto “Around Evans”. E noi l’abbiamo intervistata proprio alla fine dell’applaudita performance.

Come è nata l’idea di questo progetto?

“Direi in modo del tutto naturale. Ho sempre amato Bill Evans e ho sempre pensato che un giorno o l’altro mi sarebbe piaciuto cimentarmi con questo tipo di repertorio. Quando ho ritenuto che finalmente fosse giunto il momento, ho chiamato alcuni eccellenti musicisti ed abbiamo realizzato il disco che forse conoscerai “Around Evans” uscito per la Caligola nel 2015”.

  • Sì, lo conosco e devo aggiungere che si tratta di un album apprezzabile; ma l’organico è completamente diverso rispetto a quello con cui ti sei presentata a Udin&Jazz

“Certo nel disco ci sono Nevio Zaninotto al sax tenore e soprano, Alessandro Castelli al trombone, Rudy Fantin al piano e al Rhodes, Raffaele Romano al contrabbasso e Nicola Stranieri alla batteria cui si sono aggiunti in alcuni brani come special guests Alberto Mandarini tromba e flicorno e Giuseppe Emmanuele piano e arrangiatore del pezzo di Bacharach “A House Is Not a Home”. Ma, come puoi ben capire, portare in giro un gruppo così numeroso oggi è impresa a dir poco difficile. Di qui la necessità di ricorrere ad un organico più leggero”.

  • Che comunque ha dato risultati eccellenti…

“Sì, sono molto soddisfatta del risultato. Ma i musicisti che hanno suonato con me sono tutti di ottimo livello, sono davvero fortunata e onorata di poter condividere la musica ed il palco con loro.”

  • Vogliamo ricordarli?
  • “Certo: ancora Rudy Fantin, e poi Roberta Brighi basso, Evita Polidoro batteria e Roberto Cecchetto alla chitarra”.

  • Una curiosità: dove hai scovato la bassista davvero brava sia per il sound sia per il senso della costruzione armonica?

“Hai ragione, è davvero molto brava. Comunque per rispondere alla tua domanda, abbiamo studiato assieme al Conservatorio di Como e suoniamo insieme da qualche tempo in un’altra formazione (L.W. sextet) capitanata dalla stessa Roberta Brighi con cui abbiamo di recente registrato ciò che già proponevamo dal vivo ovvero musiche di Ornette Coleman di cui Roberta ha curato interamente gli arrangiamenti.”

  • Come mai hai inserito una chitarra?

“Come abbiamo visto, nel disco c’erano i fiati; per i live era quindi necessario uno strumento che in qualche modo li rimpiazzasse, essendo però in grado di interloquire con il piano. Ecco, la chitarra mi ha sembrava uno strumento adatto soprattutto se suonato da un artista come Cecchetto capace di creare delle atmosfere uniche mettendosi completamente a servizio della musica”.

  • Adesso parliamo un po’ del repertorio; come hai scelto i brani?

“Beh, questo è stato un lavoro piuttosto difficile essendo tanti i brani di Evans che conosco e che mi affascinano. Comunque ho scelto quelli che sentivo più vicini alla mia sensibilità cui ho aggiunto alcuni standards jazz che egli aveva amato e riproposto nelle registrazioni e dal vivo, inserendo in repertorio anche alcune composizioni originali”.

  • Sia ascoltando il disco sia nella performance di poco fa, c’è un elemento che mi ha colpito: l’estrema naturalezza con cui canti, con cui interpreti brani anche difficili. Da dove ti deriva questa sorta di sicurezza?

“Sono felice che traspaia questo, il canto è stato per me canale espressivo privilegiato sin dalla tenera età, cantavo come azione spontanea e in qualche modo liberatoria, ludica ed inconsapevole come solo i bambini sanno fare. Sono cresciuta in una famiglia di amanti della musica anche se non di musicisti che ha saputo nonostante tutto assecondarmi nelle mie inclinazioni naturali e passioni. Ho ancora memoria della prima esibizione durante un concorso locale all’età di tre anni, quando ancora del tutto inconsapevole, mi apprestavo a fare ciò che mi divertiva e piaceva, non ci fu nessuna forzatura da parte della mia famiglia ma già una mia totale e spontanea adesione alla musica ed in particolare al canto. Per anni è prevalsa la componente istintiva nel canto inteso come urgenza espressiva anche se nel frattempo decisi di cimentarmi nello studio della chitarra classica in conservatorio e per alcuni anni del clarinetto. Ho vissuto per molto tempo questa sorta di dualità, spaccata tra studi accademici che ho portato a termine con determinazione e ottimi risultati, ed una modalità di apprendimento che definirei di “tradizione orale” basato principalmente sulla pratica, su quella sul campo e anche sullo studio inizialmente con approccio imitativo, di maestri che definirei inconsapevoli attraverso l’ascolto dei loro dischi, o dei concerti. Probabilmente non è un caso che attraverso il canto mi sia avvicinata in tarda adolescenza al jazz ed abbia continuato ad amarlo facendone motivo successivamente di studio continuativo ed approfondito anche attraverso seminari, workshops sino alla volontà di seguire comunque un percorso accademico anche per la voce come per la chitarra, nell’intento di cercare la mia strada. Credo alla fine che questa dualità da me percepita, a tratti con sofferenza, sia stata fondamentale nel mio percorso di musicista e mi abbia in realtà permesso da un lato di acquisire degli strumenti di conoscenza infondendomi inoltre un senso della disciplina e del raggiungimento degli obiettivi e dall’altro, la possibilità di preservare la manifestazione della mia espressività ed individualità scongiurando mi auguro, un’omologazione in cui si può incappare in ciò che spesso è accademia e proposta accademica. Penso che questa naturalezza di cui parli anche nell’interpretazione di brani difficili, sia il prodotto di tutto ciò che ho descritto sopra, delle mie esperienze sul campo acquisite negli anni e nella scelta di un repertorio sentito e a me congeniale. Sulla sicurezza invece devo confessare di doverci ancora lavorare parecchio…è pazzesco come la maggior consapevolezza che dovrebbe essere motivo di fiducia nelle proprie capacità diventi per me spesso motivo di incertezza…è nella mia natura di persona emotiva e a tratti molto severa, autocritica e perfezionista ma credo che questa mia caratteristica rappresenti nel contempo la mia fragilità ma anche la mia forza e probabilmente sia frutto più di un travaglio interiore che di una reale evidenza delle cose.”

  • Cosa ha significato l’essere diventata musicista a tutto tondo e a tempo pieno? Come ha influito sulla tua crescita di donna?

“Ha significato più di ogni altra cosa passione, dedizione e cura. Penso di non esagerare quando dico di aver votato l’esistenza alla musica. Con una buona dose di entusiasmo, curiosità e spirito di sacrificio ho tracciato il mio percorso musicale, fatto naturalmente come per tutti, di alti e bassi e di momenti facili e altri meno. Mi piace dare poi un duplice significato alla parola cura quando penso alla musica, da un lato la premura, l’impegno, porre un’attenzione particolare e quotidiana a ciò che si fa per farlo al meglio possibile e dall’altro cura come medicina e balsamo per l’animo che si nutre di bellezza, nel senso lato del termine. Penso che la musica sia stata un’ottima compagna di vita sino ad adesso e mi auguro lo sia ancora per molto tempo ed ha senz’altro influito in maniera decisiva nella mia crescita prima che come musicista come appunto donna: diventare musicista ha comportato e continua ad implicare per me un’incessante riflessione sulla mia persona, sui miei limiti e possibilità, sulla gestione delle emozioni, sull’espressione autentica di se stessi, sulla comunicazione e l’interazione con l’altro e molto altro ancora, quando non è puro piacere e immersione totale nel repertorio che si sta affrontando o creazione di qualcosa ex novo. All’atto pratico direi poi che per una donna ma in generale per ogni individuo, senza fare distinzioni di sesso, è sempre complicato far coincidere tutto ciò che implica semplice gestione delle cose di vita quotidiana, affetti e lavoro, però quando accade qualcosa di meraviglioso come il contatto con la musica, quando le tue passioni ed inclinazioni naturali finiscono per coincidere con il tuo stesso lavoro, quando esso sia suonare, calcare un palco o trasmettere la propria esperienza ad altri, non si può che essere grati alla vita.”

  • Puoi ricordarci le tappe fondamentali della tua carriera?

“Mi sono affacciata al mondo della musica ed in particolare del canto sin da piccola e nel corso degli anni ho sentito la necessità di approfondire gli studi, conseguendo dapprima diploma e laurea in chitarra classica e successivamente quella in canto jazz, presso i conservatori di Novara e Como. Mi piace definirmi senza presunzione alcuna, una musicista dalla formazione poliedrica poiché durante il mio percorso musicale ho spaziato molto, senza aver avuto in un certo senso la fortuna di un tracciato lineare sin da subito, come ad alcuni ragazzi capita. Ho quindi un passato musicale caratterizzato anche da incursioni nel pop-soul. Nel frattempo non ho mai abbandonato la mia grande passione per il jazz continuando a coltivarla approfondendo le tecniche di improvvisazione vocale e partecipando a diversi seminari e workshops tenuti da artisti tra i quali Norma Winstone, Sheila Jordan, Maria Pia de Vito, Tiziana Ghiglioni, Jay Clayton, Gianna Montecalvo, Bob Stoloff, Roberta Gambarini, Jen Shyu, Cinzia Spata e vincendo alcune borse di studio in palio per i migliori corsisti. Continuo a dedicare al jazz il mio presente musicale ed ho avuto la fortuna di avere degli ottimi insegnati e di collaborare con importanti musicisti della scena jazz italiana esibendomi presso diverse rassegne, festival, teatri, sale da concerto e club. Nonostante sia attiva da molti anni con concerti, progetti, collaborazioni ed incisioni, mi considero sostanzialmente agli esordi, poiché mi sono timidamente affacciata al mondo del jazz con il mio primo lavoro discografico da leader, solo pochi anni fa, nel 2015. Il disco dal titolo “Around Evans”, come si diceva, è uscito per la Caligola records e contiene i brani che poi ho presentato con una nuova formazione al concerto di Udin&Jazz.”

  • Qual è l’artista cui ti senti spiritualmente più vicina?

“Potrei citare tantissimi nomi di artisti del passato ed attuali che mi piacciono, che mi hanno influenzato, che stimo musicalmente ma sentirsi spiritualmente vicino ad un artista è qualcosa di più che tutto ciò. Perciò a rischio di sembrare ripetitiva e monotematica, devo fare il nome di Bill Evans. Per me questa vicinanza è data dall’affinità profonda che percepisco con la sua musica, un amore che è puro, disinteressato e non è un caso che il mio primo disco da leader sia un omaggio proprio alla sua figura. È qualcosa di viscerale che muove dentro, difficile da descrivere, è quella spinta propulsiva che ti spinge a voler approfondire ogni aspetto non solo musicale attraverso lo studio dei suoi brani ma dell’intera figura dello stesso, l’uomo che era e le vicende di vita riportate nei libri, per captare qualcosa in più, per poter comprendere di più la figura dell’artista nella sua interezza. Il lirismo ed il potere evocativo della sua musica, a mio avviso d’una struggente bellezza, musica che contiene in sé i germi della modernità e che trovo possa essere per certi versi ancora attuale, che ascolterei senza stancarmi mai ed in cui trovo continuamente qualcosa di cui sorprendermi. Riconosco infine in Evans una figura di sintesi e collegamento tra aspetti importanti per una musicista che come me non è nata in America ma in Europa ed è alle prese con una musica di matrice afro-americana proposta in un contesto europeo in cui è nata e cresciuta e da cui è inevitabilmente influenzata.”

  • Come mi accennavi, qualche volta ti sei avvicinata anche al pop…

“Si in passato, poco più che ventenne, incisi per le major discografiche Warner e Sony alcuni brani che a livello commerciale ebbero un inaspettato successo ed in seguito mi portarono in tour all’estero e in Italia ed a partecipare a trasmissioni televisive della Rai e delle principali emittenti radiofoniche. Successivamente collaborai con i “Dirotta su Cuba” per un periodo, dopo che la storica cantante Simona Bencini aveva lasciato il gruppo per intraprendere la carriera solista, entrando a far parte del loro nuovo progetto multi-featuring. Sono state esperienze musicali che ormai sento lontane ma che mi hanno permesso di conoscere e collaborare con musicisti di valore di cui conservo ancora un ottimo ricordo.”

  • Nell’attuale situazione cosa può dare il pop al jazz e cosa può dare il jazz al pop?

“È davvero difficile rispondere a questa domanda…le classificazioni sono forme di semplificazione che aiutano in qualche modo a contestualizzare e forse abbiamo tutti bisogno chi più chi meno, di circoscrivere e a volte incasellare, dare un nome alle cose, per imparare anche a discernere l’offerta musicale ma ultimamente mi sto sempre più convincendo che la cosa importante nella musica sia abbandonarsi a quello che si è, a prescindere dal linguaggio, stile, genere con cui si sta comunicando e quindi considerare la musica come un luogo in cui non vi siano confini a patto che ci si faccia portatori di un messaggio autentico e sincero. Non è certo cosa facile ma è cosa auspicabile per chiunque voglia fare della musica la propria professione e ovviamente richiede intelligenza, sensibilità e capacità di assimilazione e approfondimento dei linguaggi, poi rispetto e curiosità e tanta voglia di esplorare. In quest’ottica direi che un certo tipo di pop ha dato e può dare al jazz la possibilità di allargare lo spazio circostante e sconfinare in altri territori, il musicista diventa un vero e proprio viaggiatore che ha sempre voglia di esplorare, di aggiungere possibilità di espressione e mi viene subito in mente l’esempio di Mehldau…e ad ogni modo credo che vi sia un precedente di tutto ciò nella tradizione jazzistica dato dalla consuetudine di proporre il repertorio pop della propria epoca, basti pensare che molti standards sono comunque canzoni che arrivano da Broadway o da Hollywood. Il jazz di contro credo sia portatore sano di libertà che trova sua espressione in particolare nell’improvvisazione individuale e collettiva, sempre coscienziosa e mai lasciata completamente al caso. Al pop potrebbe dare un approccio diverso cui guardare al materiale musicale. Forse in entrambi i casi potrebbe avvicinare un certo tipo di pubblico ad una musica che normalmente non ascolterebbe.

 Come valuti questa sorta di moda per cui molti cantanti “leggeri” si ripresentano con una sorta di riverniciatura jazz?

“Nella risposta precedente parlavo della necessità di percepire la musica senza distinzioni come una totalità, come esperienza se vogliamo universale che va abbracciata nella sua interezza. Rimane il fatto che il confine tra la naturale mescolanza e reciproca influenza a cui è sottoposta la musica da sempre e che si rivela specchio di ciò che normalmente accade all’umanità in particolare nell’epoca in cui viviamo dove la globalizzazione ha accelerato il processo di circolazione delle informazioni ed il continuo flusso di scambi, diventa veramente labile se si perde di vista a mio avviso una cosa fondamentale: la sincerità nell’espressione e l’autenticità. Il più delle volte tradire se stessi si accompagna a poca onestà intellettuale e si rischia così di far diventare talvolta la musica una mera operazione commerciale con l’unico intento di guadagnare denaro. È così che considero questa “moda”, non sempre sia chiaro ma solo laddove scorgo disonestà intellettuale e mancanza di autenticità, ho la tendenza a percepirla come una sorta di rappresentazione grottesca del jazz dove non c’è un vero e proprio vissuto, non c’è organicità, dove la musica è svuotata di significato e contenuti. Una musica che non ha nulla a che fare con la mescolanza, commistione, crossover che portano alla scoperta di percorsi inediti, e ha un senso artistico o comunque di ricerca personale, ma che punta esclusivamente al guadagno facile con l’impiego di risorse minimo”.

 

 

“Il jazz italiano per le terre del sisma” con oltre 30.000 partecipanti

 

La scossa di martedì scorso (5 settembre) – con epicentro a Campotosto vicino L’Aquila – ha ricordato quanto sia ancora profonda e aperta la “ferita” dei terremoti che hanno colpito quattro regioni dell’Italia centrale (Lazio, Abruzzo, Umbria e Marche) tra il 2009 e il 2016. Attraverso la musica, la solidarietà, la mobilitazione di jazzisti e pubblico – in una chiave ricostruttiva e positiva – la rassegna “Il jazz italiano per le terre del sisma” (31 agosto-3 settembre) aveva riacceso i riflettori sui luoghi terremotati pochi giorni prima, per non dimenticare e per guardare al futuro.  Iniziata a Scheggino e transitata per Camerino, la manifestazione ha fatto tappa il 2 ad Amatrice. Qui sarà costruito ex-novo un Centro Polifunzionale, uno spazio per le arti; vista l’impossibilità di riedificare lo storico cinema-teatro Garibaldi, tutti i fondi raccolti dall’iniziativa dei jazzisti italiani (fin dall’edizione 2016) saranno destinati a questo luogo-simbolo. Nel sito dove sorgerà il Centro Polifunzionale di Amatrice hanno suonato Paolo Fresu e Daniele di Bonaventura, tromba e bandoneon, in un evento di apertura promosso dalla Croce Rossa Italiana (proseguito, poi, con altri concerti nel piazzale dell’ex Istituto Alberghiero).

Ma è stato a L’Aquila – come nella I edizione del 2015 – che si è concentrata domenica 3 settembre la maggioranza degli eventi: diciotto palchi sparsi nella città dove circa settecento jazzisti italiani di varie regioni, stili e generazioni (in base ad un democratico criterio di rotazione) hanno suonato (esibendosi gratuitamente) dalle 11 all’una di notte.

Alle spalle di questa mobilitazione di energie positive ci sono enti, strutture e persone. “Il jazz italiano per le terre del sisma” è stato promosso da Mibact, 723a Perdonanza Celestiniana nonché dalle città de L’Aquila, Amatrice, Scheggino e Camerino. Sponsor principale è la SIAE ma la costruzione materiale dell’esteso happening sonoro è frutto del lavoro del direttore artistico Paolo Fresu, di I-Jazz (che raccoglie parecchi festival e organizzatori nazionali), dell’associazione MIDJ (Musicisti Italiani di Jazz, con la sua dinamica presidentessa Ada Montellanico) e della romana Casa del Jazz. Come per le precedenti edizioni, si è realizzato un coordinamento di settore non comune nel nostro Paese, attraverso un lavoro preparatorio (volontario e gratuito) durato molti mesi.

Tanto lavoro ha rischiato di esser messo in forse dal maltempo ma – dopo una notte di forti temporali –  il sole si è alternato alle nubi consentendo lo svolgimento della rassegna all’aperto (anche se erano state predisposte situazioni al chiuso). Trentamila le persone che sono alla fine transitate a L’Aquila per “Il jazz il jazz italiano per le terre del sisma”, un risultato importante considerate le minacce atmosferiche e il ripetersi “usurante” di iniziative di solidarietà.

Pubblico, musicisti e politici (dal ministro Franceschini al sindaco Pierluigi Biondi) si sono ritrovati nel concerto di apertura alla Fontana delle 99 Cannelle alle 11: luogo fortemente simbolico per la gente aquilana, restaurato e magnifico sotto il sole; ben visibile, tuttavia, dalla fontana un edificio transennato ed inagibile. La voce di Peppe Servillo ed i Solis String Quartet hanno dato corpo alla magia della musica, a quell’immateriale che serve al materiale per credere ancora nella vita, nella bellezza. Gli artisti si sono esibiti in un repertorio di brani della canzone napoletana, con omaggi a Fausto Cigliano e Nino Taranto. Il primo appuntamento ha visto anche discorsi e premi, con un chiaro impegno per la ricostruzione da parte della politica e la volontà concreta di contribuire alla rinascita della città da parte del jazz italiano.

Per il secondo concerto (ore 12) si è saliti dalla Fontana delle 99 Cannelle all’area dov’era la Casa dello Studente (vi hanno cantato le Saint Louis Voices, dirette da Milena Nigro); il percorso mette drammaticamente in evidenza quanto ancora ci sia da riedificare. Ancora sul posto una parte delle macerie dell’edificio dove sono morti otto studenti universitari ma altri quarantasette – alloggiati in case private – sono scomparsi per il terremoto del 2009. Sono stati ricordati prima del concerto e si è chiesto un “luogo della memoria” per non dimenticarli.

Dalle 14 sino all’una di notte “Il jazz italiano per le terre del sisma” si è articolato su altri sedici palchi; ben presenti misure di sicurezza che, comunque, non hanno limitato la possibilità di fruire dei molteplici appuntamenti e percorsi sonori. Dal duo alla big-band si è ascoltato un variegato spaccato stilistico e generazionale della musica di ispirazione afroamericana nel nostro paese. In ogni sede di concerto c’era, inoltre, la possibilità di versare un contributo economico per il centro polifunzionale di Amatrice; il pubblico, soprattutto a partire dalle ore 16, è iniziato ad aumentare fino alla cifra già ricordata di 30.000 persone. In vendita in alcuni punti c’era anche il nuovo libro curato dall’associazione MIDJ che racconta – attraverso foto e testimonianze di musicisti – l’edizione dell’altr’anno: “il jazz italiano per Amatrice” (coordinamento editoriale di Marcello Allulli; comitato redazionale di Maria José Galindo e Paolo Soriani; 190 pagine, euro 25). I fondi raccolti con la vendita del volume di grande formato, pagate le spese di realizzazione, andranno sempre per la struttura culturale amatriciana.

Un vero peccato che la parte serale dei concerti tenutasi nel piazzale davanti alla Basilica di Collemaggio (ancora in restauro) – condotta da Geppi Cucciari –  sia slittata di un’ora e mezza nel suo svolgimento. Per questo motivo hanno suonato ad ora troppo tarda il pianista Enrico Intra (in duo con Marcella Carboni all’arpa) e Marcello Rosa (con una formazione di soli tromboni), musicisti ultraottantenni di grandissima levatura a cui, peraltro, MIDJ ha dato un premio alla carriera. Uno svarione organizzativo che ha visto il pubblico, complici le temperature rigide, scemare dopo il concerto di Mario Biondi (preceduto da banda di Paganico, big-band del Conservatorio de L’Aquila diretta da Massimiliano Caporale, quartetto di Gegè Munari e seguito dal duo Franco Ambrosetti/Dado Moroni) e prima dei “senatori” Intra e Rosa: si sarebbe potuto evitare modificando la scaletta degli interventi, che sono proseguiti con i recital di Gegè Telesforo “SoundzforChildren”, del pianista Rossano Sportiello, di Remo Anzovino e Roy Paci in “Fight for Freedom – Tribute to Muhammad Ali”.

Nel corso del pomeriggio chi scrive ha avuto la possibilità di ascoltare alcuni recital, che si susseguivano nei vari luoghi a distanza di un’ora o quarantacinque minuti. La centrale piazza Duomo – dove i restauri procedono – ha ospitato in un vasto palco formazioni orchestrali, tra cui la Roberto Spadoni & New Project Orchestra; la formazione – diretta dal chitarrista e didatta romano – vede, tra gli altri, Roberto Cipelli al piano, Giovanni Falzone alla tromba e Mauro Beggio alla batteria ed ha un repertorio vivace ed originale che si rifà all’album “Travel Music: l’Italia dal finestrino” (Alfa Music). Lungo l’asse centrale di corso Vittorio Emanuele si affacciano edifici storici i cui chiostri sono stati luoghi di musica. A palazzo Cappa Cappelli il trombettista/flicornista Giovanni Di Cosimo si è esibito con il gruppo elettrico “Nu”, in una formula che attualizza il linguaggio davisiano arricchendolo di tensioni e visioni contemporanee. Poco distante c’è Palazzo Natellis che ha visto l’applaudito recital di Marco Colonna (ance), Eugenio Colombo (ance, flauto) ed Ettore Fioravanti (batteria), il trio “Rahsaan” che propone un’originale e policroma lettura del repertorio di Roland Kirk.

Centralissimi la basilica di San Bernardino e la scalinata ad essa antistante. Come nel 2015, all’interno della magnifica chiesa si sono susseguiti recital pianistici fra cui quelli di Roberto Magris e Mario Piacentini. Quest’ultimo ha saturato lo spazio con brani dal sapore ora minimalistico ora più decisamente jazzistico, arrivando a distillare suoni in grande sintonia con lo spazio e gli spettatori. Sulla scalinata – con una magnifica vista sugli Appennini e su una zona de L’Aquila ancora caratterizzata dalle gru – ha suonato l’orchestra “L’Insiùm” del pianista Glauco Venier e del direttore-arrangiatore Michele Corcella, formazione eccellente con musicisti friulani e di varie parti d’Italia (Mirco Cisilino, Antonello Sorrentino, Simone La Maida, Michele Polga, Alfonso Deidda tra gli altri). Questo “laboratorio permanente di ricerca musicale” ha proposto prevalentemente musiche del cinquecentesco Giorgio Mainiero, oltre ad un “Dear Lord” in omaggio a Coltrane davvero mistico. Sempre sulla scalinata si è materializzata la musica di Jimi Hendrix nella non-filologica e corrosiva versione del gruppo MIDJ Espresso: Giovani Leoni “Purple Whales”, con – tra i vari – Simone Graziano, Alessandro Lanzoni e Dimitri Grechi Espinoza. Alla fine del corso V.Emanuele, in direzione della basilica di Collemaggio, c’era il palco della Villa Comunale che ha offerto il MatTrio, con il sax tenore di Marcello Allulli, la chitarra di Francesco Diodati e la batteria di Ermanno Baron: un gruppo dal linguaggio intenso e tagliente che declina il jazz nelle tensioni e nella dimensione contemporanea.

Tanti altri musicisti in tanti altri luoghi: piazza S.Margherita e piazza dei Gesuiti, l’interno e l’esterno dell’Auditorium del Parco (creato da Renzo Piano), palazzo Lucentini Bonanni, il ponte della Fortezza Spagnola, piazza Chiarino, parco del Castello, chiese del Crocifisso e di S.Giuseppe Artigiano… Camminando tra un concerto e l’altro un anonimo ha detto ai suoi amici: “Questa è L’Aquila che mi ricordo”; speriamo che non lo sia per un giorno l’anno e che tutti i luoghi colpiti dal sisma possano risorgere in una rinnovata dimensione, con l’aiuto – piccolo o grande – del jazz italiano che nel 2018 sarà per l’ultima volta a L’Aquila nella formula solidale e militante sinora utilizzata.

 

I NOSTRI CD. Musica per tutti i gusti dalle colonne sonore al medioevale

Daymé Arocena – “Cubafonia” – Browns Wood
Viene da Cuba Daymé Arocena da molti considerata una delle voci più interessanti e personali della moderna musica cubana. Ed in effetti non si può disconoscere il talento di questa vocalist che con “Cubafonia” (suo secondo album registrato a Cuba con musicisti cubani) si propone un obiettivo quanto mai stimolante e impegnativo: coniugare la musica etnica con input provenienti da mondi diversi quali, soprattutto, il jazz e poi la classica, la world music, il soul, il pop, la musica latina, anche se in effetti il punto di riferimento principale è costituito   dai diversi ritmi e stili dell’isola caraibica – dal changüí di Guantanamo, al guaguancó… alle ballate degli anni ’70. Risultato raggiunto? Sì… ma non del tutto. Certo, se l’attenzione dell’ascoltatore si concentra esclusivamente sulle capacità vocali dell’artista, se ne rimane colpiti, data la facilità, la naturalezza con cui Daymé affronta anche i passaggi più ardui mai denotando un attimo di incertezza. Il suo senso del ritmo è davvero straordinario così come la capacità di dialogare con la formazione piuttosto estesa. Se invece si allarga l’orizzonte anche al materiale tematico, il discorso cambia. Tutti i brani del CD sono stati composti dalla stessa vocalist e affrontano i territori più disparati cercando di mantenere come filo conduttore il valore delle tradizioni. Ecco, l’unico neo dell’album sta proprio in questa forse eccessiva eterogeneità, questo volersi muovere all’interno di universi sonori caratterizzati da situazioni, da paesaggi molto diversi. Intendiamoci: l’artista c’è sicuramente, le potenzialità sono straordinarie, ma proprio per questo è lecito attendersi qualcosa di più.

Avishai Cohen – “My Palm With Silver” – ECM 2548
Un anno dopo il successo dell’album di esordio per ECM “Into The Silence”, il trombettista Avishai Cohen si ripresenta con il suo quartetto completato da Yonathan Avishai piano, Barak Mori contrabbasso e Nasheet Waits batteria. Ancora una volta Cohen si conferma grande musicista non solo per le capacità tecniche e compositive ma anche – e forse soprattutto – per i sentimenti, le sensazioni che riesce a comunicare con la sua tromba. Emblematico, al riguardo, l’assolo che apre l’intero album: Cohen procede quasi a piccoli passi sulle note acute, creando un clima piuttosto cupo, con pianoforte e contrabbasso che contribuiscono in maniera determinante all’affermazione dell’atmosfera voluta dal leader. Al sassofonista americano e amico Jimmy Greene è dedicato il brano successivo, “Theme For Jimmy Greene”, in cui la tromba evidenzia il suo coté più lirico con Nasheet Waits in bella evidenza. In “340 Down”, il brano più breve del repertorio, Cohen dialoga con sobrietà con la sezione ritmica senza che il pianoforte faccia sentire la sua voce, pianoforte che ritorna in primo piano nel successivo “Shoot Me In The Leg” introducendo il brano che man mano assume un andamento sempre più frastagliato con la tromba a lambire territori caratterizzati da una totale improvvisazione e il pianoforte che a metà del brano s’incarica di ricondurre il pezzo ad atmosfere più liriche. L’album si conclude con un brano dalle forti connotazioni socio-politiche: “50 Years And Counting” si riferisce alla risoluzione 242 dell’ONU emanata mezzo secolo fa, che stabiliva il ritiro di Israele dai territori occupati, e che mai è stata applicata per problemi interpretativi e burocratici. Il tutto ben reso dall’intero quartetto che si esprime con compattezza.

Lars Danielsson – Liberetto III – ACT 9840-2
Eccoci al terzo capitolo di questo “Liberetto” ovvero del gruppo che il contrabbassista svedese Lars Danielsson ha creato nel 2012; da allora molta della classica acqua è passata sotto i ponti ma il combo mantiene quasi intatta la sua struttura originaria in quanto sono rimasti al loro posto John Parricelli alla chitarra e Magnus Öström batteria e percussioni mentre Tigran al piano è stato sostituito dall’astro nascente franco-caraibico Grégory Privat; a loro si aggiungono, come ospiti, i trombettisti Arne Henriksen e Mathias Eick , Björn Bohlin all’oboe d’amore e al corno inglese, Dominic Miller alla chitarra acustica e Hussam Aliwat all’oud. More solito le composizioni sono tutte del leader che ad onor del vero comincia a denotare qualche segno di stanchezza…almeno da questo punto di vista. In effetti se i primi due album erano stati caratterizzati dalla bellezza del materiale tematico, questo terzo capitolo mostra un po’ la corda dal momento che ad una prima parte convincente fa seguito una seconda parte in cui sembra quasi che sia andato perso il bandolo della matassa alla ricerca di un vacuo espressionismo fine a se stesso. La musica perde mordente, fascinazione; di qui il ricorso a facili stilemi: si ascolti al riguardo “Sonata in Spain” in cui la chitarra di John Parricelli sembra evocare Paco De Lucia. Ciò non toglie, comunque, che anche nella seconda parte dell’album si ascoltino momenti felici come “Mr Miller” in cui Danielsson riesce a ben amalgamare la natura di jazzista scandinavo con l’amore per la musica mediterranea. L’album si chiude con una ballade, “Berchidda”, che evidenzia ancora una volta il senso melodico del compositore.

Bill Frisell, Thomas Morgan – “Small Town” – ECM 2525
Sono passati più di 30 anni da quando Bill Frisell esordiva in casa ECM con “In Line” un album in duo con il contrabbassista Arild Andersen. Adesso il chitarrista ritorna alla formula del duo assieme a quel Thomas Morgan che compare anche in “When You Wish Upon A Star” del 2015. Questo “Small Town”, registrato dal vivo al mitico Village Vanguard di New York nel marzo del 2016, è semplicemente superlativo sia per la ben nota maestria dei protagonisti, sia per l’empatia che si è sviluppata tra i due, sia per la valenza del materiale tematico scelto con accuratezza e comprendente un sentito omaggio a Paul Motian con “It Should Have Happened a Long Time Ago” brano inciso per la prima volta nel 1985 per l’ esordio del trio Motian-Frisell-Lovano, il country song “Wildwood Flower” portato al successo nel 1928 dalla Carter Family, il trascinante “What a Party” del rocker di New Orleans Fats Domino, l’hit di Lee Konitz’ “Subconscious-Lee”, il celebre tema di “Goldfinger” scritto da John Barry, cui si aggiungono tre original di Frisell di cui uno scritto con Morgan. In questa occasione Frisell dà l’ennesimo saggio delle sue capacità tecnico-interpretative: il suo linguaggio è del tutto personale riuscendo a coniugare i diversi input che da anni contribuiscono a determinarne la forza espressiva (jazz, rock, blues, folk); di qui l’alternarsi di frasi costituite da poche note a più complessi fraseggi con cui Frisell racconta le sue storie. Il tutto in un clima intimistico caratterizzato da un sound spesso ovattato e comunque mai gridato. Dal canto suo Morgan si dimostra partner ideale: il suo suono così personale, bellissimo, si sposa magnificamente con la chitarra di Frisell esprimendosi su un piano di assoluta parità; lo si ascolti con quanta personalità e sicurezza interpreta “It Should Have Happened a Long Time Ago”, brano di apertura che introduce al meglio l’intero, straordinario album. (altro…)

CIVITAFESTIVAL: la mini rassegna Jazz chiude con Duke Ellington

Foto di Laura Girolami

21 Luglio, Cortile Maggiore Forte Sangallo
Ore 21:30
Giorgio Cuscito & Massimo Pirone Big Fat Band in “ Ellingtoniana”

Trumpets: Massimo Patella, Flavio Patella, Paolo Federici,
Trombones: Palmiro Del brocco,Loredana Marcone anche Vocal, Massimo Cuomo
Sassofoni: Alessio DiGiulio, Giorgio Guarini, Stefano Angeloni,Enrico Guarino,Adriano Piva
Piano: Flavio Bonanno
Contrabbasso: Dario Pimpolari
Batteria: Davide Diana

L’ ultimo concerto di Jazz previsto al CivitaFestival è appropriatamente scelto dal direttore artistico Fabio Galadini all’insegna del Jazz tradizionale.
La scelta cade sulla Big Band di Massimo Pirone, ottimo trombonista e direttore d’orchestra, che porta nel suggestivo palco di Forte Sangallo il progetto Ellingtoniana.
Arrangiamenti originali di Duke. Sezione fiati poderosa. Solisti di classe: Pirone il trombone lo suona con maestria, Giorgio Cuscito è un virtuoso del sassofono, ama lo swing di un amore viscerale e comunica questo suo amore con una gioia contagiosa.

Le musiche sono bellissime: le ha scritte Duke Ellington, che va oltre il Jazz, siamo davanti ad un genio della musica contemporanea. E voi non sapete dopo mille concerti di Jazz, alcuni dei quali basati su progetti nuovissimi, giovani talenti, sperimentazioni, spesso molto belle e coinvolgenti (come avrete letto in questo stesso blog) quanto comunque sia utile, e piacevole, e importante ogni tanto “tornare alle origini”, ascoltando quel Jazz che in fondo era quello che ci ha fatto innamorare… del Jazz.
La “sigla” della Big Fat Band? Take the A Train.
“Eh ma uno l’ha sentita mille volte”…
No, non è così. Di solito evitiamo di ascoltarla dicendo a noi stessi “Take the A Train no, la so a memoria”.
Poi la si ascolta dal vivo, dopo un sacco di tempo che in realtà non capitava, nell’arrangiamento originale di Duke Ellington, e ci si ricorda che è bellissima, che quando la si sente è un balsamo per le orecchie, e, guarda caso, non si può fare a meno di tenere il tempo e di cantarla insieme all’ orchestra!

E così accade quando parte Black and Tan fantasy, che viene suonata con tutti i crismi e con il trombone con la sordina e il sax che ruggisce vibrando nella affascinante tonalità in minore così black. Così accade quando la tromba solista esegue il tema di Concerto for Cootie, scritta per l’amatissimo Cootie Williams. E ancora, così accade, quando partono ballad come Prelude to a Kiss, o Sophisticated Lady, così intense e quasi drammatiche nella voce del sax.

Accade lo stesso con  Pyramid, e la sua introduzione tribale di batteria, e quando i sax baritoni accarezzano il tema di I let a song go out of my heart. E quando parte  It don’t mean a thing, con quell’inconfondibile incalzare swingante e l’orchestrazione pensata così in grande.

E ancora accade così quando si ascolta dalla bella voce di Loredana Marcone (anche trombonista) I got it bad,  e le immortali, geniali melodie costruite con poche note ma arrangiamenti sontuosi di Caravan o C Jam Blues.


Per non parlare dei background perfetti, gli special della sezione fiati dietro al solista, così ricchi di ritmo e dai voicing imponenti, delle dinamiche pensate a settori, della pienezza dello spessore sonoro, della cura compositiva dei dettagli, dei temi melodici che vagano per tutta la tessitura della musica scritta. Insomma, ogni tanto, concedetevi di riascoltare la musica di Duke Ellington dal vivo: ne varrà la pena, sempre. C’è ben altro, in giro, con cui annoiarsi.

ORTACCIO JAZZ ed il gran finale italo argentino

Le foto sono di Adriano Bellucci

Ortaccio Jazz Festival
16 luglio 2017, ore 22

PARIENTES
Peppe Servillo, voce
Javier Girotto, sax
Natalio Mangalavite, pianoforte e elettronica

La serata finale di questo Festival così ricco di bella musica e di pathos positivo è affidata ad un Trio molto noto e (giustamente) molto amato di artisti: Peppe Servillo, Javier Girotto e Natalio Mangalavite, che portano in scena il loro ultimo progetto, Parientesedito da Egea.
Come in occasione degli altri concerti cui ho assistito, ho intervistato brevemente i componenti del gruppo per Radio Tuscia Events: ecco come mi hanno descritto questo bellissimo lavoro insieme .
Dico “Portano in scena” perché questo concerto è separato dal concetto di  “spettacolo teatrale” solo da una parete sottile di finissima carta di riso: Servillo canta ma allo stesso tempo vive le sue canzoni, quasi sceneggiandole, e il suo cantare è anche un evocativo recitare.
Italiani che vanno a vivere e a lavorare in Argentina, e che poi tornano, come Natalio Mangalavite, o arrivano, come Javier Girotto, in Italia. Per stessa definizione del trio, Parientes è una specie di ponte tra i due paesi. Le canzoni teatrali raccontano nostalgia, ricordi o piccole storie: e sono bellissime.
Il vento che per tutto il pomeriggio imperversava sulla piazzetta e preoccupava gli organizzatori e gli stessi artisti si placa tramutandosi in una fresca brezza: e il concerto comincia.
A Girotto e Mangalavite il compito di aprire: sax soprano e pianoforte cantano all’unisono un piccolo tema poetico in 3/4: alimentano l’attesa dell’entrata applauditissima di Servillo, che comincia subito a cantare una deliziosa Milonga Sentimental. Musica argentina, testo italianissimo, pianoforte di una delicatezza irresistibile.

Quando nel brano successivo si passa ad un Tango, ci si rende conto che il sax di Girotto è quasi un alter ego della voce caratteristica di Servillo, e comincia una specie di viaggio emotivo che non finisce più. Fatto di piccole introduzioni di sax e pianoforte, che poi diventano bellissimi episodi improvvisati, di testi arguti, o comici, o struggenti. Di canzoni (vedi Cambalache) immaginate come le invettive di un rigattiere tano, così venivano chiamati i napoletani in Argentina: tanos. Piccoli capolavori narrativi con un impianto musicale old style che ben si addice al ricordo. In cui pianoforte e sax sono attori esattamente come lo è Servillo: in cui Servillo è strumento esattamente come pianoforte e sax.
Mangalavite usa un altro strumento, oltre a pianoforte e tastiere: la sua bellissima voce, che appare durante una introduzione, con un falsetto che la rende immateriale, e che produce una specie di canto senza tempo, lontano e vicinissimo. Questa digressione sulla voce di Mangalavite è data dal fatto che mi sono ripromessa, in ogni concerto a cui capiterò nel quale potrò ascoltarla, di sottolineare nei miei scritti quanto meravigliosa sia la voce di Mangalavite: è una cosa che farò sempre, anche se canterà per meno di un minuto. Chiudo la parentesi.


Dopo l’introduzione entra Girotto con il sax baritono, che quasi assume la funzione di contrabbasso. Il pianoforte procede parallelamente, e Servillo canta Chiquilín de Bachin ” E lasciami tre rose che portano spine, per tutto il rancore che io canterò”. Poi la ricetta cantata di Come si usa col ragù , sempre con quel sax di Girotto che traduce  in musica ciò che la voce racconta cantando.

Tra una canzone e l’altra si ha anche il privilegio di ascoltare Peppe Servillo che legge brani delle opere di quel genio irriverente e surreale di Julio Cortazar, magari proprio quello sul pudore di Lucas, raccontato con una maestria ed una leggerezza che regala sorrisi, e risate del tutto privi di un ipotetico potenziale imbarazzo, dato l’argomento descritto (però andatevelo a leggere da soli, non contate su di me! )
Il bis è richiesto per un sincero bisogno di sazietà non ancora raggiunta: chi mi conosce sa bene quanto io non ami i bis. Ma ne valeva la pena stavolta. Girotto al tamburo in duo con Servillo, la canzone parte come argentina e arriva a U piscispada italianissima drammaticissima, e Servillo trasforma una volta di più la sua voce espressiva e potente. Un ponte ancora tra Argentina ed Italia. E dopo, si canta tutti insieme Felicità, di Lucio Dalla: è il tris e io me lo godo fino alla fine.
Ortaccio Jazz si chiude in bellezza: un po’ di malinconia nel lasciare quella piazzetta mi rimane. Ma ora so che di certo ci saranno per me altre volte, a descrivere questo piccolo grande Festival fatto di famiglie, giovani, anziani, cuoche, cuochi e musicisti felici di suonarvi, al di là del compenso. Vi assicuro, una cosa rara.

CivitaFestival e il Jazz: Blue Moka feat. Fabrizio Bosso

 

Foto in B/N di Damiano Rosa

Foto a colori di Laura Girolami

Cortile Forte Sangallo, mercoledì 19 luglio, ore 21:30
BLUE MOKA feat. Fabrizio Bosso
Fabrizio Bosso, Trumpet
Alberto Gurrisi, Hammond
Emiliano Vernizzi,Sax
MIchele Bianchi, Guitar
Michele Morari, Drums

Il secondo concerto Jazz al CivitaFestival vede salire sul palco un gruppo di musicisti giovani e giovanissimi che, pur scegliendo deliberatamente di ispirarsi ad un Jazz “noto” (loro stessi dichiarano di fare un hardbop rivisitato, riletto e riproposto in chiave nuova), hanno suonato per un’ora e mezzo facendo musica fresca, energica, interessante e formalmente ineccepibile. Eseguendo quasi tutti brani originali, per di più.
Il gruppo comincia a vedersi parecchio in giro e si chiama Blue Moka. I suoi componenti sono Alberto Gurrisi, Emiliano Vernizzi, Michele Bianchi e Michele Morari. Con loro Fabrizio Bosso, in veste di ospite, certo, ma che collabora proficuamente con il quartetto da tempo: e infatti è prevista l’uscita di un album insieme a breve.


Un quartetto impeccabile di musicisti giovani, energici, creativi, in possesso di una tecnica invidiabile, e un indiscusso fuoriclasse della tromba sono stati gli addendi di un evento musicale notevole.
L’inizio è già bruciante: Bacon contro Tofu, di Emiliano Vernizzi, comincia con l’esposizione del tema da parte di sax e tromba, prosegue con l’assolo  funambolico di Alberto Gurrisi, poi Emiliano Vernizzi, poi Fabrizio Bosso, poi Michele Bianchi. Infine si torna al tema iniziale. Tutte le armi tecniche, pressoché prodigiose, vengono mostrate da subito, e anche l’andamento lineare del procedere dei brani: esposizione, sviluppo, assoli e improvvisazione in sequenza, ritorno all’esposizione.
Eppure ad un tale rigore strutturale non corrisponde una percezione della musica dal sapore scontato: questo perché i brani sono quasi tutte composizioni originali, ma anche perché tutti i componenti di questo quintetto sono solisti ed improvvisatori di classe. Hanno una tecnica ferrea, e si ha il piacere di assistere ad episodi strumentali da quel punto di vista ragguardevoli, ma sempre finalizzati ad una musicalità con un certo livello espressivo. Anche in presenza di standard notissimi come Body and Soul non si ascolta un semplice replicare di cose già accadute.


Le sezioni scritte sono formalmente precise, gli obbligati della sezione fiati sono eseguiti in maniera perfetta ma si aprono sempre in episodi improvvisati per nulla prevedibili: anche per il groove, occorre notare, che Michele Morari sa imprimere, bilanciandosi perfettamente con le personalità spiccatissime degli altri componenti del gruppo. La chitarra di Michele Bianchi procede con fraseggi ampi, aperti, gioca con la tromba strepitosa di Fabrizio Bosso, che è davvero un mattatore, sul palco. La sua tromba è versatile, e viene usata in tutta la gamma timbrica: senza mai però attirare l’attenzione solo su di sé.  ln questo senso l’abusato termine interplay mi tocca citarlo per forza, perché è costantemente presente: i cinque musicisti sono in continua e proficua relazione sul palco, sia nel complesso, sia quando l’organico va ad assottigliarsi.

E così fa Emiliano Vernizzi, che ha suono e creatività positivamente dirompenti, quando si intreccia con Alberto Gurrisi, che con il suo Hammond sembra un’intera orchestra, per quanto multifunzionale è il suo apporto ritmico, armonico e melodico. Quando simula il contrabbasso lo fa tutt’altro che banalmente: la sua creatività diventa quella di un contrabbassista, pur mantenendo una mentalità “d’insieme”.
Sale sul palco Gegé Telesforo, che era tra il pubblico, e si unisce alla musica: duetta con tromba e sax, tre voci invece di due, mentre la ritmica procede in un crescendo energico fino ad arrivare ad un finale applauditissimo.


Il bis, richiesto a gran voce, è un adrenalinico e vertiginoso tema dei Flinstones! Pubblico comprensibilmente impazzito e un altro colpo messo a segno dal direttore artistico Fabio Galadini: non basta il sold out a decretare il successo di una scelta: occorre anche il successivo riscontro del gradimento. Che in questo caso è stato totale.