Ciao Franco

La mattina, appena sveglio – maledetta abitudine – per prima cosa do uno sguardo alla rassegna stampa che mi arriva sul telefonino. E così ho fatto anche stamane; ad un certo punto, ancora non del tutto sveglio, noto la foto di un bell’uomo, giovane. Tra me e me penso: ma questo lo conosco. A poco a poco i neuroni si mettono in moto e lo riconosco, è lui, è Franco e capisco immediatamente: Franco Fayenz se ne è andato in un luogo, per chi ci crede, sicuramente migliore di questa terra.

La notizia è di quelle che si fatica a digerire anche se l’età di Franco (92 anni) ci aveva messo tutti in preallarme. Ma, come al solito, una cosa è immaginare altra cosa è vivere una determinata realtà.

Cercherò in questo breve ricordo di non lasciarmi andare a quell’ondata di tristezza che mi ha avvolto questa mattina anche se lo confesso non è facile. Conoscevo Franco non so bene se da 40 o 50 anni. Il nostro era un bel rapporto sempre improntato al sorriso, allo scherzo, al comune amore per il jazz.

Quando ci incontravamo o ci sentivamo per telefono lui amava prendersi gioco di me, inventando giochi di parole sui miei nome e cognome, ma lo faceva in modo così amorevole, col sorriso sulle labbra che sembrava voler dire “non badare alle mie parole, ti voglio bene” che era impossibile arrabbiarsi.

 

Ovviamente c’erano anche momenti più seri, quelli in cui si parlava di musica ed era un piacere ascoltarlo anche perché lui ti raccontava eventi, episodi vissuti in prima persona. Eventi che lo hanno visto protagonista della scena jazzistica almeno per trent’anni di fila in cui Franco si è segnalato come un grande divulgatore grazie ai suoi articoli, ai suoi libri e alle sue apparizioni in TV. Non dimentichiamo che negli anni Settanta Fayenz, assieme a Franco Cerri, collabora a “Jazz in Italia”, un programma di Carlo Bonazzi declinato attraverso una serie di interviste ai jazzisti le cui performances in giro per i jazz club della Penisola venivano mandati in onda. La sua brillante carriera è stata costellata da molti riconoscimenti che riteniamo superfluo ricordare in questa sede. Basti solo considerare il fatto che la stima da parte dei musicisti mai è venuta meno nei suoi confronti anche quando, per lunghi anni, ha lavorato per un quotidiano che mai è stato in cima alle preferenze dell’ambiente jazzistico globalmente considerato.

L’ultima volta che ci siam visti è stato nel 2015 durante il Festival Udine Jazz e non è stato un bel vedere dal momento che si vedeva come Franco, purtroppo, accusasse il peso dell’età anche se l’arguzia e la voglia di scherzare erano quelle di sempre.

Adesso non scherza più… almeno su questa terra. Ciao Franco, vai ad ascoltare altre melodie!

 

Gerlando Gatto

Phil Markowitz: è fondamentale suonare creativamente

Pianista e compositore raffinato ma anche uomo di rara disponibilità e gentilezza, Phil Markowitz – classe 1952 – è a mio avviso uno dei tanti musicisti ancora sottovalutato. E dire che nella sua vita di cose ne ha fatte tante. Basti al riguardo scorrere la sua ricca discografia e lo troviamo sia alla testa di proprie indimenticabili formazioni, sia come sideman accanto ad altri veri e propri giganti del jazz quali Chet Baker, Dave Liebman e Bob Mintzer.
Di recente abbiamo ascoltato il doppio album inciso in solitaria durante un concerto all’Auditorium Parco della Musica di Roma il 9 maggio del 2006. Ne siamo rimasti particolarmente colpiti e abbiamo avuto il desiderio di intervistarlo. Ci siamo rivolti all’amico Giorgio Enea, dell’ufficio stampa dell’Auditorium, il quale ci ha fornito un contatto mail. Così ci siamo scritti e Phil ci ha risposto immediatamente. Di qui l’intervista che pubblichiamo di seguito.

-Partiamo da un doppio album registrato live a Roma, all’Auditorium Parco della Musica, il 9 maggio del 2006 ma pubblicato solo poche settimane fa. Ricorda qual era il suo stato d’animo quando suonò questa splendida musica?

“Ero davvero felice di suonare in concerto da solo e ovviamente anche un po’ nervoso prima di salire sul palco, cosa assolutamente normale. Ricordo di essermi molto concentrato per questa performance, considerato che si trattava di una scaletta parecchio impegnativa, e di essere stato infine molto soddisfatto grazie alla magnifica risposta del pubblico, cosa molto incoraggiante. I tre bis, poi, sono stati semplicemente meravigliosi”.

-Nel frattempo, sono trascorsi ben 16 anni; come è cambiato Phil Markowitz in questo lasso di tempo?
“Penso che quando uno arriva ai 50 anni più o meno sa chi è, ergo ci sono stati degli sviluppi da quel giorno ma essenzialmente il mio cammino musicale ha seguito la stessa strada eclettica che ho sempre intrapreso”.

– Qual è attualmente il suo approccio verso la musica?
“Da un punto di vista compositivo il mio approccio è quello di creare strutture in ambienti molto ben definiti e di suonare creativamente e inventivamente all’interno di esse. Per quanto riguarda le performance in gruppo è ed è sempre stato lo stesso: supportare la band, essere preparati e saper giocare di squadra”.

– Adesso riandiamo indietro nel tempo: un po’ come tutti i musicisti di jazz, anche lei prima di guidare propri gruppi ha militato come sideman in formazioni guidate da altri. Quanto ciò è importante nella formazione di un musicista?
“Se sei un musicista che si occupa del ritmo, che sia il pianoforte, il basso, la batteria o altri strumenti a corda, è cruciale per il tuo sviluppo musicale. Si deve saper valutare ogni situazione musicale e ogni musicista che si accompagna; ciò affina le tue abilità musicali e devi essere un artista maturo per avere successo. Io dico sempre ai miei studenti che le abilità di accompagnatore sono la parte più importante della disciplina di ognuno: una cosa è essere un gran solista, altra cosa è saper accompagnare. È la capacità di accompagnare che ti permette di far suonare bene la musica e di farti conservare il lavoro dato che così facendo metti il tuo leader nelle condizioni migliori!”.

– C’è stato un momento nella sua vita, nel suo percorso artistico che le ha fatto capire di essere in grado di affrontare una sua personalissima carriera?
“Non sono sicuro di aver capito la domanda ma in sintesi è stato il mio amore per la musica improvvisata che suoniamo e ovviamente i numerosi e incredibili maestri che ho avuto durante il mio percorso a spingermi verso una carriera fatta di musica. Inoltre, ho capito molto presto che è assolutamente importante essere un compositore con una propria, ben specifica unicità che ti consente di creare quegli ambienti nei quali s’innesta il panorama sonoro che ti rende immediatamente riconoscibile”.

– Lei ha ottenuto, per l’appunto, una straordinaria visibilità anche come compositore quando ha suonato con Toots Thielemans a NYC. Come ricorda quel periodo?
“New York negli anni Ottanta era magnifica, c’era un sacco di lavoro. Suonavo con Chet Baker, Toots, la Mel Lewis Big Band e, poco prima, con Joe Chambers; mi guadagnavo da vivere suonando nella downtown, in concerti con diversi gruppi. In sintesi, è stato un periodo molto fertile. Ovviamente sono molto grato a Toots, con il quale ho lavorato per quattro anni e che fu anche uno dei miei primi mentori quando studiavo al College nella Eastman School of Music. C’era questa meravigliosa confluenza di circostanze: ad esempio Bill Evans veniva al nostro concerto a N.Y. e noi suonavamo “Sno’ Peas”, un pezzo che Toots eseguiva ogni sera”.

Tra gli artisti con i quali ha suonato a lungo figurano Chet Baker e Dave Liebman, musicisti differenti quasi da ogni punto di vista. Qual è stato il suo rapporto con i due?
“Con Chet avevo un bellissimo rapporto anche se era più anziano di noi. In quel tempo – quando ero più vicino ai trenta che ai vent’anni – suonavo con la band. Lui era molto paziente con noi e dava il buon esempio a tutti. Ho certamente imparato l’arte dell’accompagnamento durante questo periodo; se qualcuno suonava un accordo sbagliato dietro a Chet rovinava le sue meravigliose e incontaminate sortite solistiche degne di Mozart. Quando mi sono trasferito a New York negli ultimi anni Settanta, conoscevo già Dave Liebman dalle sue registrazioni con Miles ed Elvin Jones e la band “Quest”, che aveva con Richie Beirach. Quando ero in città andavo quasi ad ogni concerto in cui c’erano loro; era sempre stato il sogno della mia vita suonare con Dave e nei primi anni Novanta il mio desiderio venne esaudito. Lui è sempre stato per me un assiduo e sincero maestro, mi ha sempre appoggiato ed ha avuto una grande e meravigliosamente positiva influenza nella mia vita. Penso che l’aver avuto, sin da giovanissimo, un interesse molto forte per la musica del XX secolo e per l’armonia cromatica mi abbia reso più pronto per i suoi concerti. La  “Saxophone Summit” è stata senza dubbio la miglior band con cui abbia suonato e quell’esperienza ventennale rimane la più entusiasmante che abbia vissuto nel mondo del jazz. Ci sono moltissime registrazioni meravigliose con quel gruppo e aver suonato con Joe Lovano, Michael Brecker, Ravi Coltrane, Greg Osby e naturalmente Dave Liebman è stata un’esperienza formativa dal valore incommensurabile. Per non parlare di Billy Hart che è senza ombra di dubbio il miglior batterista con cui abbia avuto il piacere di suonare”.

– Lei suona da solo, in combo e in big band. In quale situazione preferisce esprimersi?
“Adoro il piano trio perché come leader ti dà la maggior flessibilità mentre plasmi la musica. Anche il duo è estremamente gratificante, sebbene sia più difficile: devi accompagnare, essere tutta la band e suonare da solo. È un ambiente meraviglioso. D’altro canto, suonare con la sezione fiati è stato molto bello; in effetti per la big band è una lunga storia ma basti sapere che se si è pianisti in quel contesto è necessario sapere tutto ciò che l’arrangiatore ha messo in ogni spartito. La mia band con il violinista Zach Brock (jazzista statunitense, classe 1974, membro degli Snarky Puppy dal 2007 n.d.a.) è stata molto gratificante; ho sempre voluto lavorare con un violinista e ho sempre creduto che piano e violino siano un perfetto abbinamento sonoro”.

– Oggi il jazz è diventato materia di insegnamento e Lei se ne occupa appieno. A suo avviso, quanto è importante per il futuro della ‘nostra’ musica questo tipo di formazione?
“L’educazione jazz è una sorta di spada a doppio taglio. Ritengo che in questo momento sia importante perché la scena è molto più ristretta adesso rispetto a quanto lo fosse negli anni ’70 e ’80. Sono grato per la mia esperienza universitaria alla Eastman School of Music, dove ho incontrato Gordon Johnson (contrabbassista e chitarrista statunitense classe 1952 n.d.a) e il batterista Ted Moore con i quali ho fondato una band chiamata “Petrus” che vinse un concorso nazionale per il miglior gruppo jazz giovane con in palio una performance al Newport Jazz Festival del 1973. Nei prossimi mesi rilasceremo finalmente le nostre registrazioni in studio, che avevo conservato nel mio armadio… suonano come se fossero di oggi. Tutto ciò non sarebbe mai successo se non ci fossimo incontrati in Conservatorio. Le connessioni che si creano in ambito musicale con le persone che incontri, gli insegnamenti che puoi ricevere da grandi musicisti che normalmente non avresti opportunità di incontrare e la musica che crei, durano per la vita. E sono cose che non si dimenticano. È chiaro che per avere una preparazione più approfondita si deve studiare in Conservatorio, e ciò prevede dei costi; certo, si possono trovare insegnanti anche tra i musicisti di strada, ma non è la stessa cosa; tuttavia, nella scena attuale ognuno deve avere la consapevolezza di ciò cui va incontro: non tutti diventano star o super star, spesso i migliori musicisti non sono i più famosi, e spesso i più famosi non sono i migliori. Io ritengo che la pedagogia, come io l’ho sviluppata nei numerosi anni in cui sono stato educatore, specie negli ultimi 20 anni nel programma di laurea e dottorato nella “Manhattan School of Music”, mi abbia aiutato a definire il mio stile. Imparare ad insegnare può agevolare notevolmente il proprio sviluppo”.

– C’è qualche musicista che ritiene particolarmente importante per la Sua di formazione?
“Tutta la gente che ho menzionato in precedenza è molto importante: Chet Baker, Dave Liebman e posso aggiungere Bob Mintzer e Maurizio Giammarco in Italia. Queste sono le persone principali con cui ho avuto lunghe collaborazioni. Ma ovviamente ce ne sono state tante altre lungo il cammino dalle quali, ogni qualvolta si suoni assieme, si impara qualcosa”.

– Quando pensa di tornare in Italia?

“Si spera il prima possibile: È il mio posto preferito dove suonare”.

E noi ce lo auguriamo di tutto cuore; a presto Phil…

Gerlando Gatto

Un critico, una musica, una pandemia: “Il Jazz italiano in Epoca Covid”. Gerlando gatto dialoga con Guido Michelone

Pubblichiamo con grande piacere una nuova intervista al nostro direttore Gerlando Gatto, in cui racconta la genesi e le motivazioni che hanno portato alla pubblicazione dell’instant-book “Il Jazz italiano in Epoca Covid”.
L’intervista, pubblicata sul portale “Doppio Jazz”, è stata realizzata da Guido Michelone, docente di Storia della Musica Afroamericana al Master in Comunicazione Musicale presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, e Popular Music e Storia ed Estetica del Jazz presso il Conservatorio Vivaldi di Alessandria. (Redazione)

Questo è il link a Doppio Jazz e di seguito la trascrizione dell’intervista.

quote
// di Guido Michelone //

Alcuni mesi fa, autoprodotto, esce un interessantissimo volume “Il jazz italiano in epoca covid”, scritto o meglio curato da Gerlando Gatto, tra i più autorevoli critici italiani, ormai specializzati in libri di interviste, come dimostrano anche i due precedenti “Gente di jazz” e “L’altra metà del jazz”. In questo nuovo Gatto intervista 41 noti jazzmen italiani – Angeleri, Ascolese, Bearzatti, Bosso, la DeVito, Favata, Fresu, la Marcotulli, Piana, Tucci per citarne solo alcuni – in piena emergenza Covid affinché essi raccontino il loro lockdown e il loro modo di vivere un’esperienza per tutti senza precedenti. Ne parla direttamente l’Autore in un dialogo molto preciso e molto franco.

-Gerlando, quali sono i motivi che ti hanno spinto a scrivere il libro?
“Scusa se la prendo da lontano ma è importante per rispondere compiutamente alla tua domanda. Nella mia vita io ho sempre fatto il giornalista; sono diventato professionista nel 1974 e da allora mi sono guadagnato da vivere facendo il giornalista ‘economico’ nel senso che oltre a non essere particolarmente esoso, mi occupavo di economia. Trattando una materia così delicata posso affermare con orgoglio che mai ho ricevuto una smentita o una querela. A questo punto ti starai chiedendo: ma tutto questo che c’entra con il libro? C’entra in quanto è rimasto forte in me il desiderio di documentare, di raccontare i fatti come li vedo, a differenza di quanto fanno oggi i miei colleghi che scendono in campo lancia in Testa non già per raccontare fatti, ma per distruggere l’avversario politico ovviamente in linea con gli interessi dell’editore.

-E quindi hai voluto differenziarti nell’affrontare la professione giornalistica?

A ciò aggiungi il fatto che il jazz è sempre stato la mia passione, un universo in cui rifugiarmi e trovare quella bellezza fuori difficile da riscontrare. Da quando sono in pensione ho abbandonato l’economia e mi occupo solo di musica. Partendo da queste considerazioni, durante il periodo del lockdown, quando non si sapeva bene cosa fare, con un governo che stentava a trovare una via precisa, ho sentito forte l’esigenza non già di esprimere un mio parere, ma di documentare una realtà, quella dei tanti musicisti di jazz italiani che stavano vivendo un periodo così terribile. Ecco, il libro nasce da questa esigenza di far conoscere al di fuori del nostro microcosmo jazzistico la situazione di una importante categoria di artisti”.

-Il tuo è forse l’unico instant book italiano sul jazz: condividi l’inserimento in questa ‘categoria che ha spesso (come nel tuo caso) una valenza positiva?
“Onestamente non so cosa dirti. Probabilmente è vero: è un instant book e non mi pare siano stati pubblicati altri documenti di questo tipo su questa triste vicenda; ciò detto se lo consideri un fatto positivo, lo prendo come un complimento e ti ringrazio”.

-Come hanno reagito gli intervistati alle tue richieste?
“Devo confessarti che avendo programmato di porre delle domande a volte scomode, a volte potenzialmente irritanti, ho scelto con una certa cura i personaggi da intervistare. Di qui la preferenza in primo luogo di artisti che conosco da molti anni e con i quali c’era una confidenza tale da potermi consentire di porre certe questioni. Per il resto sono andato un po’ ad intuito e devo dire che mi è andata bene perché non ho trovato un solo jazzista che si sia rifiutato di rispondermi o che lo abbia fatto con fastidio o insofferenza”.

-Hai notato se i jazzisti hanno amato di più certe domande rispetto ad altre?
“Quelle che hanno amato di più sono state le seguenti: ”È soddisfatto di come si stanno muovendo i vostri organismi di rappresentanza?”; “Se avesse la possibilità di essere ricevuto dal Governo cosa chiederebbe?”. Rispondendo a queste domande hanno, infatti, avuto modo da un canto di esprimere tutto il carico di frustrazione che si viveva in quel momento, dall’altro di poter almeno dire a chiare lettere quali fossero le aspettative e cosa si aspettassero dal Governo da molti considerato in quei momenti, a torto o a ragione, completamente assente”.

-Quali sono i tratti comuni che accomunano i jazzmen italiani durante il lockdown?
“Devo dire che i tratti comuni erano veramente pochi per i motivi che spiegherò tra poco. Comunque un tratto che accomuna quasi – e sottolineo la parola quasi – tutte le risposte è la speranza in un domani migliore. Tornando al perché dei pochi tratti in comune, ciò deriva dal fatto che gli intervistati si possono grosso modo dividere in tre categorie con vissuto e interessi molto diversificati. Così ci sono alcuni grandi del jazz italiano (Rava, Fasoli, D’Andrea, Intra…) che hanno avuto una carriera splendida e che poco hanno sofferto, almeno dal punto di vista economico, per le ristrettezze causate dalla pandemia; ci sono poi molti musicisti nella fascia di età compresa tra i 40 ei 60 anni che se la sono cavata abbastanza bene anche perché molti di questi insegnano nei Conservatori; chi invece se l’è vista brutta sono i tanti giovani che senza concerti e senza insegnamento non hanno avuto molte occasioni di guadagno”.

-Che conclusioni puoi trarre oggi (a pandemia finita o quasi) sulla situazione di allora (2 anni fa) e su quella odierna (post-Covid)?
“Purtroppo nessuna conclusione particolarmente ottimistica. Ricordo che in quel periodo, forse per consolarci vicendevolmente, ci dicevamo che ne saremmo usciti tutti più buoni, più comprensivi. Ecco, devo constatare che nulla di tutto ciò è avvenuto sul piano umano: ne siamo usciti tutti più incazzati, se mi consentite il termine. Dal punto di vista prettamente musicale, l’unica nota positiva è che in qualche modo si è ripreso a fare musica dal vivo. Con quali esiti? Anche al riguardo non vedo grandi luci… ma qui mi fermo perché non voglio farmi più nemici di quanti già non ne abbia”.

-Gerlando, altro, infine, da aggiungere sul libro?
“Solo che mi è costato molta fatica in quanto rivolgere domande tipo “Come riesce a sbarcare il lunario?” o “Vive da solo o in compagnia?” non è stato particolarmente facile specie in certe situazioni. Comunque penso sia valsa la pena. Ma questo probabilmente devono dirlo altri”.

Cfr.: Gatto Gerlando, “Il jazz italiano in epoca covid”, GG, Roma, 2021, pagine 219, s.i.p.
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Gerlando Gatto e Guido Michelone a RSI Radio Televisione Svizzera – il podcast

Lo scorso 12 settembre, in diretta da RSI Radio Televisione Svizzera, il direttore Gerlando Gatto e Guido Michelone hanno dialogato con i conduttori Patricia Barbetti e Giovanni Conti su un argomento singolare che non mancherà di suscitare curiosità e che è stato sicuramente poco dibattuto: “Jazz per pregare”.
Pubblichiamo di seguito il link per ascoltare la trasmissione. (Redazione)

CLICCA QUI PER ASCOLTARE IL PODCAST DELLA TRASMISSIONE

courtesy RSI

L’abbinamento fra jazz e religione sembra a prima vista improbabile, eppure sono moltissimi i musicisti jazz che hanno composto Messe, opere sacre o legate al mondo spirituale. La Messe des Saintes-Maries-de-la-Mer, scritta negli anni ‘40 da Django Reinhardt per celebrare il popolo Rom, è rimasta inedita a lungo, ma le cose cambiano dagli anni ‘60 in poi. Jazzisti come Lalo Schfrin, Dave Brubeck, J.J. Wright, Mary Lou Williams e, più vicini a noi, Enrico Intra e Giorgio Gaslini, si lanciano nell’impresa, anche se la tipologia più diffusa di Sacred jazz (o Jazz Mass) è quella un genere suonato perlopiù in forma concertistica e discografica che negli ambienti specifici del culto.
Potrebbe il jazz essere accettato nella Messa moderna? Il suo ingresso nella liturgia potrebbe gettare una nuova luce sul culto e aprirlo a un nuovo pubblico?
Domande che Patricia Barbetti e Giovanni Conti porranno a Guido Michelone, scrittore e docente di Storia, Analisi ed Estetica della Musica Jazz al Conservatorio Vivaldi di Alessandria e all’Università Cattolica di Milano e a Gerlando Gatto, giornalista musicale e insegnante di Storia del Jazz e Analisi delle forme presso il Conservatorio Respighi di Latina.

Cristina Zavalloni: devo sentire mio ogni progetto che affronto

Vocalist di grande spessore, Cristina Zavalloni è una delle poche artiste italiane ad aver frequentato con successo e competenza ambedue gli ambiti del jazz e della musica colta. Percorrere le tape della sua lunga e luminosa carriera in questa sede sarebbe assolutamente inutile. Basta, forse, sottolineare come da 1982 ad oggi abbia registrato a suo nome una quindicina di album, l’ultimo dedicato alle musiche di Nino Rota che abbiamo recensito in questi stessi spazi. Ed è proprio da “Parlami di me” le canzoni di Nino Rota, che prende il via questa nostra intervista realizzata a Roma di recente.

– Come è nata l’idea di questo disco?
“L’idea è stata di Tonino Miscenà, patron dell’Egea, etichetta con cui avevo già collaborato in passato lungamente per tre o quattro dischi; successivamente c’è stata una pausa nell’attività dell’etichetta in quanto Miscenà ha fatto un’esperienza di lavoro diversa in Colombia e poi ha avuto il desiderio di ripartire con la musica, con produzioni un po’ ragionate, pensate. E tra queste rientra proprio questo album di cui stiamo parlando. E’ stato lui a propormi di incidere un disco con le musiche di Nino Rota ben sapendo che non avrei detto immediatamente di sì”.

– Per quale motivo?
“Perché dovevo prima studiare bene la situazione, capire di cosa si stava parlando, innamorarmi del progetto come faccio sempre quando la proposta arriva dall’esterno. E quindi aderire se la cosa mi convinceva completamente. Ci son voluti vari mesi ma non perché la musica non fosse bellissima ma perché si trattava di capire quale potesse essere la mia versione dei fatti. Poi ad un certo punto ho immaginato questo filo rosso cui accenno sempre quando parlo di questo lavoro”.

– Vale a dire?
“Intendo riferirmi alle carrellate femminili, ai ruoli di personaggi femminili un po’ evinte dai film da cui sono tratte le canzoni che hanno dei testi aggiunti a posteriori. Proprio oggi ascoltavo un poadcast su Pasolini: fa parte di quella tendenza che si era affermata subito dopo la guerra di vedere se dei grandi intellettuali, dei letterati, dei poeti potessero mettere dei versi a delle canzoni che erano parte dell’immaginario di tutti e che quindi erano popolari; in questo senso è stata una sfida, io credo, riuscitissima in quegli anni. Tornando a noi, quando mi sono immaginata questa carrellata di personaggi femminili mi è scattata una scintilla sul percorso da fare all’interno di queste canzoni, come poter entrare, in altre parole come se fossi un personaggio all’interno di un’opera”.

– Partendo da ciò che mi hai appena detto, la scelta dei pezzi e dei musicisti è stata fatta assieme con Miscenà?
“Tutto è stato fatto di comune accordo ma lui ha sempre lasciato che la proposta venisse da me. Questo lavoro io l’ho fatto a quattro mani con Cristiano Arcelli che è l’arrangiatore ed anche il mio compagno nella vita. Insomma abbiamo deciso tutto assieme. Particolarmente importante la scelta dell’ensemble: io ci tenevo molto ad evitare quella direzione bandistica che spesso è associata alla musica di Rota perché mi sembra che questo coté sia già stato molto esplorato. Mi sembrava più importante dare maggiore spazio alla dimensione di compositore colto di Rota che pure si coglie nella sue canzoni. Di qui la scelta di un gruppo classico, il ClaraEnsemble, fondato nel 2019 e con cui ho sempre lavorato da allora, abbinato a dei musicisti di jazz, anche loro compagni di viaggio oramai da lunga pezza. Ecco quindi al clarinetto Gabriele Mirabassi, al sassofono soprano Cristiano Arcelli, al trombone Massimo Morganti, al pianoforte, Manuel Magrini e al contrabbasso Stefano Senni. Devo comunque confessarti che la prima scintilla per la scelta dell’organico è scaturita da una versione di Caetano Veloso di “Parlami di me” o di “Come tu mi vuoi” tradotta in portoghese…lì c’è come al solito Jaques Morelenbaum al violoncello ma ci sono anche gli archi. Ho mandato il file a Miscenà e lui aveva paura che il disco diventasse troppo colto…ma alla fine ho avuto ragione io”.

– Tu hai fatto poco fa dei riferimenti al jazz. Ma come si fa a definire oggi se un disco è jazz oppure no? Francamente io non ci riesco.
“Neppure io, se è per questo. Per quanto concerne il disco di cui stiamo parlando era importante che ci fosse anche dell’improvvisazione…che non fosse tutta musica scritta. Ad esempio il pianoforte non ha tutta la parte scritta”.

– Ma il vocale non mi sembra improvvisato
“In effetti non lo è. Io non improvviso mai; anche quado insegno improvvisazione vocale, io mai improvviso in quanto non ho quell’amore, non mi riconosco in quella pratica… poi in realtà improvviso ma lo faccio sulla modifica di una cellula melodica oppure improvviso con le parole, sul testo, aprire degli spazi improvvisi. Ciò perché io vengo da quelle esperienze: i collettivi di improvvisazione radicale e nel frattempo studiavo musica classica”.

– C’è in tal senso una cantante che per te possa costituire un punto di riferimento?
“Ce ne sono tante così come tanti sono gli album. Ce n’è uno in cui Bill Evans suona con una cantante svedese, Monica Zetterlund, e il disco è semplicemente meraviglioso in quanto lei canta con una semplicità ed una naturalezza semplicemente straordinarie (“Waltz for Debby” del 1964 con Monica Zetterlund n.d.r. ). Poi quando senti Cécile McLorin Salvant che improvvisa, è bellissimo ma è il suo linguaggio, la sua storia…non la mia”.

– Oggi cosa rappresenta la musica per te?
“Questa è una domanda tutt’altro che banale. Ho dato per scontato che fosse la mia ragione di vita per un lungo lasso di tempo poi, quando sono diventata mamma, molto tardi, questa mia percezione è un po’ cambiata. Negli ultimi anni, per effetto anche delle circostanze esterne, ci siam dovuti fermare e allora mi sono interrogata: innanzitutto volevo continuare a fare musica così come avevo fatto in passato?…domanda cui non ho dato una risposta. Comunque a conti fatti penso che la musica ancora oggi sia il mio destino: io vengo da una famiglia di musicisti, mio padre era un musicista e c’erano molte aspettative sul fatto che io facessi la musicista…in realtà mi sento di non avere scelta. La fortuna è però che tutto questo, fare musica, mi piace da impazzire, quindi è un destino che accolgo alle volte in modo un po’ conflittuale ma più in generale con grande gioia, perché questa è la mia vita. Quando si comincia a suonare tutto scompare e resta questo grande, immenso piacere di fare musica, di fare ciò che mi piace”.

– E L’attività didattica…?
“No, non è un ripiego se è questo che volevi chiedermi. Ho la fortuna di vivere di musica e come ti dicevo vengo da una famiglia in cui la musica era di casa. Mio padre ha costruito una sorte di ricchezza con la musica per cui io mai sono partita da una situazione di bisogno che mi spingesse a fare qualcosa a scapito di qualcos’altro. Così io non ho mai insegnato in Conservatorio, non ho fatto graduatorie per insegnare. Ad un certo punto è arrivato questo invito dal St. Louis di Roma quando mia figlia aveva due, tre anni ed ero quindi entrata nella modalità di occuparmi anche degli altri. Da questo dare è fiorito l’amore per l’insegnamento che rimane però altalenante: ci sono periodi in cui, se ho molte cose da fare, parecchi progetti da portare avanti anche nel campo della musica classica per cui ho bisogno di studiare molto, le energie per l’insegnamento vengono un po’ meno. Intendiamoci: io do sempre il massimo, ma di quello che posso e io stessa mi rendo conto che in alcuni casi non è abbastanza”.

– Tocchiamo un altro tasto particolarmente delicato: qual è oggi il tuo rapporto con la critica o se preferisci con i critici musicali?
“Mi ha sempre fatto molta tenerezza l’affermazione di alcuni miei colleghi che mi dicevano ‘ma lascia perdere i critici tanto le recensioni non le fa più nessuno, nessuno ti critica…’io viceversa ho avuto la fortuna di essere stata spesso oggetto di molte critiche, anche feroci, ma è stimolante perché se ti criticano significa che ti hanno ascoltato attentamente. Certo si soffre, ci si sta male ma bisogna accettarle perché queste sono le regole del gioco. Certo è importante l’onestà intellettuale di chi ti critica. Quando invece questa critica è gratuita, allora cerco di proteggermi, di tutelarmi”.

 – Perché molti musicisti reagiscono male anche ad una leggera critica?
“Perché si soffre”.

– Ho capito. Ma queste, come si diceva, sono le regole del gioco…se ci si mette in gioco questo è l’eventuale prezzo da pagare…Anzi oggi purtroppo di critiche negative se ne vedono troppo, troppo poche…
“Certo ma non tutti sono disposti a soffrire per crescere”.

Durante il periodo della pandemia si era detto: ‘ne usciremo bene, saremo tutti più buoni, più tolleranti’. Non mi pare che le cose stiano andando proprio così…
“E’ proprio vero. Al contrario siamo tutto incattiviti ma più che violenza noto una preoccupante miseria emotiva. L’unica spiegazione che riesco a darmi è che la gente ha paura di perdere la possibilità di vivere di musica e questa è una possibilità purtroppo oggettiva”.

– Ma questa acredine che travalica i confini della musica per investire tutti gli ambiti del vivere civile?
“A mio avviso c’è sempre stata solo che ora si manifesta di più come se la gente avesse perso qualche forma inibitoria: bisogna proteggersi in primo luogo circondandosi di persone che hanno una luce diversa, una energia diversa. Io vado sui social il meno possibile, li uso solo per fini promozionali per la stessa ragione per cui leggo con pudore le interviste”.

 

Gerlando Gatto

I nostri libri

Angela Davis – “Blues e femminismo nero” – Alegre – pgg. 320 – € 20,00

Quando si parla di Angela Davis il pensiero corre immediatamente all’attivista afro-americana che, nei decenni scorsi, fu protagonista di tante battaglie per l’emancipazione della gente di colore. Attività che si svolse anche attraverso importanti contributi letterari tra cui “Blues Legacies and Black Feminism” pubblicato nel 1998 e che adesso possiamo leggere in italiano grazie all’ottima traduzione di Mari Moise e Angelica Pesarini.
Della storia del blues si occupa compiutamente Ted Gioia nel volume che analizziamo qui di seguito. Questo volume analizza viceversa un aspetto particolare ma molto, molto importante del blues: il ruolo di tre vocalist – Gertrude “Ma” Rainey, Bessie Smith e Billie Holiday, appartenenti a tre generazioni diverse – nell’interpretare questo genere, sostanziandolo di contenuti che avrebbero influenzato lo sviluppo sociale nel suo insieme. Stiamo, infatti, parlando di un tema ancora oggi di attualità come l’emancipazione delle donne e l’importanza del loro ruolo.
Angela Davis, con la sua prosa partecipativa, analizza i testi dei brani interpretati dalle tre blueswoman e le loro performances, ricavandone tracce di tradizioni culturali risalenti al passato schiavista. Di qui un quadro esauriente di quali fossero le condizioni in cui le citate vocalist si sono trovate ad operare, un ambiente in cui era molto molto difficile contestare gli assunti patriarcali sul ruolo delle donne specie per quanto concerneva la sessualità. Per non parlare della marginalità che avevano gli artisti di colore nella nascente industria discografica. Ebbene queste tre artiste rivoluzionarono letteralmente l’industria discografica di massa assegnando un ruolo ben preciso e importante alle donne in genere, a quelle di colore in particolare. E si badi bene, si parla di musica, ma l’azione ‘rivoluzionaria’ qui accennata spinse i suoi orizzonti ben al di là del jazz degli anni Venti in quanto vi possiamo trovare i prodromi di quel femminismo che, come si accennava in apertura, avrebbe posto in primo piano il problema dell’emancipazione femminile, indipendentemente dal colore della pelle. Come a dire che sarebbe errato consegnare il monopolio della lotta femminista alle sole donne bianche della middle class, anche se “attribuire una coscienza femminista per come la definiamo oggi a Ma Rainey, Bessie Smith e Billie Holiday sarebbe insensato e poco interessante”. A dirlo è la stessa Angela Davis nell’introduzione al suo libro, affermando subito dopo: “Ciò che è più interessante e provocatorio della produzione artistica che ognuna di queste donne ha lasciato è il modo in cui dalla loro musica emergono – attraverso delle crepe all’interno dei discorsi patriarcali – tracce di un’indole femminista”.
E crediamo che questa sia una chiave di lettura assai utile per chi voglia intraprendere un viaggio nel tempo attraverso le parole di Angela Davis.

Amedeo Furfaro – “100 dischi di jazz italiano” – The Writer – pgg. 128 – € 12,00

Si succedono le fatiche editoriali del nostro collaboratore Amedeo Furfaro dedicate prevalentemente alla discografia. Quest’ultimo volume si pone come occasione di riflessione sulla produzione discografica compresa fra 2020 e inizio 2022, un periodo quindi particolarmente delicato e non solo per il jazz e i suoi musicisti.
Ecco quindi una selezione di album, successiva ai cinque tomi de “Il giro del jazz italiano in ottanta dischi”, in cui l’Autore ha messo assieme materiali sparsi per rappresentare il jazz italiano su disco in era pandemica. Un jazz, quello italiano, le cui quotazioni sono in netto rialzo anche a livello discografico grazie ai grandi maestri, alla “generazione di mezzo” e alle nuove leve che hanno saputo coniugare preparazione tecnica e originalità dei progetti attuati.
In effetti i musicisti italiani di jazz, pure in un momento di difficoltà operativa e di graduale ripresa dei rapporti col pubblico, non hanno rinunciato al proprio ruolo ritrovando proprio nei lavori discografici momenti di rivalsa verso le difficoltà   esterne. Certo, non tutte le produzioni discografiche del periodo assurgono ad un eccellente livello, ma in linea di massima siamo su standard qualitativi più che accettabili.
Il merito è sicuramente ascrivibile ai musicisti…ma non solo ché rilevante è stato anche il contributo di altre componenti quali le label che hanno acquisito una levatura professionale che le proietta sempre più spesso sul mercato internazionale e gli staff che in varie fasi hanno concorso a confezionare il prodotto discografico. Monitorando il jazz nazionale di inizio millennio l’Autore ha individuato alcune macro-tendenze, da quelle più attente alla tradizione afroamericana a quelle più radicali, da quelle affondate nell’humus del territorio alle più contaminate stilisticamente.
Dal turn over emerso si sono evidenziati interessanti talenti ma è un po’ tutto il  “sistema” jazzistico italiano che si va riconfigurando, a  partire da festival e rassegne che sono poi il campo in cui le idee si confrontano e ricevono il riscontro della critica e del pubblico. Quel pubblico che è anche acquirente di dischi in cui cerca di riassaporare il gusto di un live, di un contatto ravvicinato con i propri beniamini. Il saggio è impreziosito dall’inserto fotografico curato da Maria Gabriella Sartini.

Ted Gioia – “Delta Blues” – EDT, Siena Jazz – pgg. 460 – € 26,00

Prima di addentrarmi nelle valutazioni su quest’altro importante volume di Ted Gioia, vorrei premettere alcune considerazioni che mi sembrano importanti.
Innanzitutto devo confessare che pur amando il blues non ne sono un esperto per cui il volume in oggetto è stato come una sorta di manna avendomi fornita una messe enorme di informazioni che non possedevo.
In secondo luogo è straordinario il modo in cui Gioia è riuscito ad includere in questo volume quella messe enorme di informazioni cui prima facevo riferimento: tenete presente che il sottoscritto è da due anni che cerca di completare la biografia di un grande pianista ancora in esercizio, senza riuscirvi proprio per la difficoltà di trovare e sistematizzare dati biografici.
A questo punto vi sarete già fatta un’idea di quanto potrete trovare in “Delta Blues” ma vi assicuro che l’integrale lettura del libro sarà di gran lunga superiore alle vostre più rosee aspettative.
In effetti Gioia, nel tracciare la storia del Blues partendo da quegli artisti provenienti dalle zone poverissime del Delta del Mississippi a partire dai primi anni Venti del secolo scorso, in realtà ci racconta la storia di un genere musicale che ha avuto una influenza determinante sulla musica degli anni a venire. Ecco quindi i primi straordinari personaggi come Charley Patton, Son House, Skip James e Robert Johnson che hanno lasciato i primi semi fatti poi germogliare da artisti di caratura internazionale che hanno portato il blues al successo mondiale, da Muddy Waters a Howlin’ Wolf, da John Lee Hooker a B. B. King, fino al blues revival degli anni Sessanta, il tutto senza trascurare la scena contemporanea del Delta fino agli anni Duemila.
Insomma Ted Gioia, dopo aver tracciato un quadro esauriente di cosa fosse la regione del Delta agli inizi del secolo scorso, con una agricoltura ridotta ai minimi termini per la concorrenza del cotone proveniente dall’Asia e senza speranza di sviluppo data anche la mancanza di rilevanti fermenti culturali, ci fa capire passo dopo passo come proprio in questa poverissima regione siano da ricercare le radici della musica nera, fosse la stessa chiamata jazz, funky o rock’n’roll.
Ancora una volta, comunque, almeno a mio avviso, il volume di Gioia si caratterizza oltre che per la competenza (ma su questo non credo ci sia bisogno di aggiungere altro) anche – e forse soprattutto – per lo stile di scrittura, uno stile assolutamente piano ma non banale, comprensibile a tutti, in cui le vite e le azioni dei vari artisti si inseriscono a perfezione nelle trame di un racconto tanto appassionante quanto di straordinaria vivacità. Ci sembra quasi di vedere con i nostri occhi il contesto socio-economico in cui si svolge la vicenda, le piantagioni in cui i primi bluesmen operavano, le prigioni in cui molti di essi trascorsero del tempo, i locali in cui accorreva una massa di povera gente per ascoltare i loro eroi. E in questo racconto trovano il loro posto anche le altre figure che hanno contribuito all’affermazione del blues: i produttori, i discografici, i ricercatori grazie ai quali si devono importanti scoperte, i musicologi che hanno cercato di interpretare i più reconditi anfratti di questa musica. E a questo punto è doverosa una precisazione: se lo stile di Gioia risulta tanto potente anche nella nostra lingua lo si deve all’ottima traduzione operata da Francesco Martinelli non nuovo ad operazioni del genere, e in questo caso “responsabile” anche di un prezioso glossario, pubblicato alla fine del volume, in cui si spiegano molti termini che ai più potrebbero risultare assolutamente incomprensibili.
Il volume è arricchito, infine, da un indice analitico sempre opportuno, una discografia selezionata (i 100 ascolti imprescindibili) e una ricca bibliografia, in cui gli appassionati troveranno pane per i loro denti.

Leonardo Lodato – “Cielo, la mia musica!” – Domenico Sanfilippo Editore e Compagnia Nuove Indye – pgg. 145 – € 20,00

Dal Mississippi alla Sicilia: il salto è notevole ma non privo di qualche suggestione. A condurci per mano in questo immaginario viaggio attraverso una delle isole più belle del mondo, è Leonardo Lodato,  giornalista e saggista ovviamente siciliano, capo servizio Cultura e Spettacolo del quotidiano “La Sicilia” di Catania, che oramai da tempo dedica la sua attenzione al mondo musicale nelle sue più svariate accezioni.
La genesi del libro, giunto alla seconda edizione, è spiegata assai bene dallo stesso Lodato nel corso di un’intervista: “guardavo il cielo stellato e ascoltavo la mia musica preferita. E’ nato un gioco. Ogni stella veniva associata ad un artista o ad una canzone che avesse a che fare con il cielo, con la luce, con i colori. All’improvviso mi è venuto un flash e ho pensato: ma perché non costruire una piccola costellazione di artisti siciliani? E questo è il risultato”.
In particolare, l’autore è partito da una serie di domande davvero originali che tendono a coniugare il cielo con la musica (da cui il titolo): quanto influiscono la luce del sole, il suo calore, nell’essere siciliani? E tutto ciò quanto in particolare se si è musicisti? E il cielo, soprattutto, come lo vede chi suona, chi canta, chi compone? Insomma come influiscono sulla musica due delle principali caratteristiche del mondo siculo quali il calore del sole e la bellezza del cielo? Per offrire esaurienti risposte a tali interrogativi Lodato ha intervistato dodici musicisti, fortemente legati all’Isola, che citiamo uno per uno: Bob Salmieri (Milagro Acustico e Erodoto Project), Andrea Cantieri, Caterina Anastasi (Babil On Suite), Compagnia d’Encelado Superbo, Giuseppina Torre, Lello Analfino, Marian Trapassi, Mario Venuti, Paolo Buonvino, Pupi di Surfaro, Roberta Finocchiaro e Rosalba Bentivoglio.
Questi artisti, appartenenti a diversi generi musicali (tra cui ovviamente anche il jazz) hanno risposto cercando di offrire una propria personalissima visione di quale può essere per un artista il rapporto con gli elementi naturali che ci accompagnano giorno dopo giorno. Di qui interviste che si distanziano dal classico cliché per rappresentarci non tanto e non solo l’artista quanto l’uomo, la donna che vivono compiutamente la propria vita ponendosi interrogativi non banali. Ecco quindi, ad esempio, la vocalist jazz Rosalba Bentivoglio che afferma:” Questo è il cielo che sogna la terra e mi domando: è il cielo di tutti o solo il mio a darmi questa vertigine e farmi presentire l’essere mortale? Il mondo materiale che appare così solido alla percezione dei nostri cinque sensi è un universo di energia in movimento. Il macrocosmo ripete se stesso nell’uomo e il microcosmo è a sua volta riflesso in tutti gli atomi minori”. Alla successiva domanda di Lodato se esiste un altrove dove cercare Dio, la Bentivoglio risponde semplicemente “Questo, forse, taumaturgicamente, è la ricerca di Dio”.
Questa nuova edizione di “Cielo, la mia musica” è arricchita da una playlist, ascoltabile su Spotify, con i brani scelti dall’autore per raccontare il cammino che ha portato alla stesura del libro, mentre la prefazione è firmata dal tastierista dei Rockets, Fabrice Quagliotti.

Gerlando Gatto