Riflettori puntati su Carla Marcotulli, Greg Burk e Riccardo Fassi

Questa volta vorrei soffermarmi su tre artisti che conosco da tempo e che stimo perché mai deludono, sia che li si ascolti su disco sia che li si apprezzi dal vivo.

La prima è Carla Marcotulli, vocalist e didatta di spessore (insegna canto jazz al Conservatorio Santa Cecilia di Roma); Carla ha da poco inciso per la Parco della Musica Records “Love is the Sound of Surprise”, con l’ausilio di una folta schiera di eccellenti musicisti quali il pianista e tastierista Dick Halligan (già nei Blood Sweat & Tears), suo collaboratore da molti anni (sostituito in due track da Greg Burk e in uno da Gilda Buttà), Bruce Ditmans alla batteria, Antonio Leofreddi alla viola, Sandro Gibellini alla chitarra, Marco Siniscalco al basso, Giovanni Tommaso e Stefano Cantarano al contrabbasso, Pietro Tonolo al sax soprano, Giancarlo Maurino al tenore, Rossano Emili al baritono, Aldo Bassi alla tromba, Mario Corvini, Stan Adams al trombone e, in una track, Israel Varela alle percussioni. In repertorio dodici brani tutti originali, eccezion fatta per un pezzo di Schubert (con un tocco di Gershwin) arrangiato da Dick Halligan, e per lo standard “God Bless the Child”, un omaggio a Billie Holiday, la cantante più amata dalla Marcotulli. Particolarmente spumeggiante l’apertura affidata a “Io non sono nessuno”, con liriche della Marcotulli ispirate al poema “I am nobody! Who are you?” di Emily Dickinson e musica di Dick Halligan.

Il tutto dà vita ad una produzione di grande livello per più di un motivo: le qualità della Marcotulli (su cui ci soffermeremo tra poco), la bravura di tutti i musicisti che l’accompagnano, distribuiti in vari organici, la valenza artistica dei brani proposti. Brani molto variegati che danno modo alla Marcotulli di estrinsecare tutte le proprie potenzialità come il perfetto controllo dell’emissione, frutto evidente di un accurato studio del canto lirico (la si ascolti in ‘Gretchen am Spinnrade’ del già citato Schubert). Ma dopo questo saggio di bravura estraneo al jazz, ecco Carla rientrare nel mondo jazzistico con quella che è forse la migliore interpretazione dell’album, “God Bless the Chid” porto con sincera partecipazione. Ma al di là delle mie personalissime preferenze, c’è da sottolineare come la Marcotulli sia superlativa in ogni momento dell’album: sempre precisa, puntuale, con il giusto accento (il che cantando jazz in italiano non è proprio impresa facilissima), una convincente carica ritmica mitigata, all’occorrenza, da una “giusta” dolcezza (la si ascolti in “Live to Give”).

Insomma davvero un bel disco e non si spiega perché questo “Love is the sound of surprise” arrivi a distanza di 10 anni dall’ultimo lavoro discografico di Carla Marcotulli.

Con nelle orecchie ancora le atmosfere del CD, il 22 aprile ho voluto ascoltare Carla dal vivo, recandomi al Conservatorio Santa Cecilia per il concerto conclusivo di “Percorsi jazz”, il festival giunto alla sua XII edizione ideato e sviluppato in seno al Dipartimento di Jazz, Musiche Improvvisate e Audiotattili del Conservatorio diretto da Paolo Damiani. Ed è stato ancora una volta un bel sentire, nonostante l’infelice acustica della sala che ha reso praticamente inascoltabile il suono della batteria. La Marcotulli era coadiuvata da Greg Burk al pianoforte, Stefano Cantarano al contrabbasso, Bruce Ditmans alla batteria e un coro formato dai migliori allievi del corso di canto jazz curato dalla stessa Marcotulli. Sono stati presentati alcuni dei brani presenti nel CD e, nonostante l’ovvia differenza dal disco, data la diversità dell’organico, la Marcotulli ha avuto modo di evidenziare ancora una volta quelle doti che ne fanno una delle migliori vocalist del jazz italiano… e non solo!

Come detto, nel concerto della Marcotulli al Conservatorio, al pianoforte sedeva un artista che mi consentirete di considerare italiano a tutti gli effetti, dato che già da tempo ha scelto l’Italia come paese d’elezione. Sto parlando, ovviamente, di Greg Burk, artista che meriterebbe molto più di quanto abbia finora raccolto.

Pianista e compositore di rara raffinatezza, Greg nasce a Detroit in una famiglia di musicisti classici: il padre, figlio di immigrati russi e polacchi, era un direttore d’orchestra e la madre, di origine italiana, una cantante lirica. Inizia il suo percorso musicale a 16 anni, nella città natale, suonando con veterani del bebop come Larry Smith, Marcus Belgrave e Roy Brooks, e con giovani emergenti come James Carter, Rodney Whittaker e Gerald Cleaver. Prosegue i suoi studi musicali con grandissimi nomi del jazz internazionale come Yusef Lateef, Archie Shepp, George Russell e, infine, Paul Bley, che lo incoraggia a sviluppare e approfondire un suo stile personale. Nel 2002 esce il suo primo disco per la Soul Note Records. Nel 2004 si trasferisce definitivamente in Italia. Oggi Burk vanta 12 dischi a suo nome, compreso l’ultimo nato “The Detroit Songbook”, su cui vale la pena spendere qualche parola.

Registrato per la prestigiosa SteepleChase nel maggio del 2017 (è il secondo album del pianista per questa etichetta), Burk suona in trio con Matteo Bortone al basso e John B. Arnold alla batteria.

Il titolo ha una sua precisa ragion d’essere in quanto l’album racchiude una serie di brani scritti dal pianista dal 1991 al 1993, quando risiedeva a Detroit e mai più suonati né tanto meno incisi. E nelle note che accompagnano il disco, Greg rievoca la sua passione di quegli anni, ricorda gli altri giovani musicisti che con lui dividevano la scena musicale di Detroit, da Larry Smith a George Goldsmith, da Antonio Ciacca a Kelvin Sholar… insomma una sorta di amarcord, un sentito omaggio all’ambiente in cui si è formato, ma che nulla ha di stantio. Tutt’altro! La musica è fresca, coinvolgente, originale a dimostrazione di un artista a tutto tondo. E in questo album si possono soprattutto ammirare le capacità compositive di Burk, tenuto anche conto del fatto che i brani risalgono ad un periodo in cui l’artista non aveva ultimato il suo percorso formativo.

I pezzi appaiono tutti ben strutturati, sorretti da un solido impianto formale su cui si innestano le escursioni improvvisative certo non estranee al bagaglio dell’artista. Il trio si muove sulle coordinate dettate dal leader il cui fraseggio è sempre elegantemente ritmico, anche perché giunge a maturazione quell’insieme di input, di influenze, quella varietà di approcci che, come afferma lo stesso Burk, partendo da punti di vista diversi si integrano l’uno con l’altro. Non a caso la varietà è uno degli elementi che hanno sempre caratterizzato la sua musica. In questo senso un ruolo particolarmente importante è affidato alla sezione ritmica che deve essere in grado di seguire le intenzioni del leader pur nel variare delle atmosfere. E occorre sottolineare come sia Bortone sia Arnold abbiano fornito un supporto prezioso e determinante per la bella riuscita dell’album, il cui valore, a mio avviso, va al di là del fatto squisitamente musicale in quanto rappresenta anche la testimonianza, viva, pulsante, ancora attuale di un’intera generazione di musicisti che hanno contribuito in maniera determinante allo sviluppo del jazz negli ultimi trent’anni.

E veniamo a Riccardo Fassi e al “suo” Zappa.

Interessante, divertente, onirica, visionaria, trascinante, intrigante, ironica, ribelle… questi sono solo alcuni degli aggettivi che si potrebbero utilizzare per definire la musica di Frank Zappa, ma non sarebbero in ogni caso sufficienti ché la musica del compositore, chitarrista di Baltimora non può essere racchiusa nell’ambito di una qualsivoglia classificazione. Probabilmente l’unica parola che, seppure alla lontana, potrebbe dare un significato a ciò che la musica di Zappa ha rappresentato e ancora oggi rappresenta è il termine “attualità”. In effetti, ad oltre venticinque anni dalla scomparsa di Zappa, la sua musica risulta sempre fresca, di assoluta modernità come se fosse stata scritta solo pochi mesi fa. E un’ulteriore conferma se ne è avuta proprio in questi giorni ascoltando sia il recente CD inciso dalla Tankio Band di Riccardo Fassi sia il concerto del 26 aprile all’Auditorium Parco della Musica di Roma, dedicato alla presentazione dell’album in oggetto (“Riccardo Fassi Tankio Band plays Zappa – The Return of The Fat Chicken – Alfa Music 200”).

Riccardo Fassi è pianista, compositore, arrangiatore tra i più preparati che il jazz italiano possa vantare. Costituita nel 1983, la “Tankio Band” si è immediatamente imposta all’attenzione di critica e pubblico per la particolare strutturazione dell’organico, che si traduce in una coloritura ed in una timbrica assolutamente originale. Dal canto suo Fassi è sempre stato innamorato della musica di Zappa, che conosce a menadito. Di qui l’idea di inserire nel repertorio dell’orchestra un programma dedicato a Zappa; di qui l’incisione di due CD.

Quest’ultimo, registrato nel novembre del 2016 e nel maggio del 2017, accanto alle composizioni di Zappa che abbracciano vari periodi dai primi anni ‘70 ai ‘90, presenta la celebre “Uncle Remus” di George Duke e alcuni pezzi di Fassi e Salis. Dal punto di vista dell’organico, la Tankio è “rinforzata” dalla presenza di prestigiosi ospiti quali Napoleon Murphy Brock vocalist e sassofonista che per oltre dodici anni militò nelle formazioni dirette da Zappa, Alex Sipiagin tromba e flicorno, Gabriele Mirabassi clarinetto, Antonello Salis accordeon, Ruben Chaviano violino e Mario Corvini trombone.

Il risultato è eccellente: Fassi si dimostra ancora una volta artista di assoluto livello, riuscendo a cucire addosso alla musica di Zappa degli arrangiamenti che pur nell’assoluto rispetto dell’originale portano la musica su un versante prettamente jazzistico consentendo ai vari solisti di esprimersi al meglio anche attraverso spazi improvvisativi assenti nelle partiture originali.

Ciò detto, trasferite queste considerazioni al concerto del 26 aprile ed avrete un’idea chiara della musica che Fassi ci ha offerto.

Pur annoverando tra gli ospiti il solo Gabriele Mirabassi, la band ha macinato musica come un treno, precisa, trascinante, senza un attimo di stanca: così uno dopo l’altro abbiamo ascoltato alcuni capolavori di Zappa, da “Little Umbrellas” a “Uncle Meat” impreziosito dal primo dei molti assolo che Gabriele Mirabassi ci avrebbe regalato nel corso della serata, da “Oh no” ad un medley comprendente “Let’s Make The Water Turn Black” con in primo piano l’ensemble dei fiati, “Eat That Question” e “I’m the Slime”, da “Sofa” una delle poche ballad zappiane all’ironico “Take Your Clothes Off When You dance” dedicato ai “frichettoni” anni ‘70, da “It Must Be A Camel” a “G-Spot Tornado”, una delle ultime composizioni di Zappa originariamente tutta scritta e nel cui ambito Fassi ha invece introdotto una struttura di improvvisazione, per chiudere con “Uncle Remus” che come accennato fu scritto da George Duke per Zappa il quale scrisse un testo cantato. Come bis non poteva mancare quello che forse è il brano più celebre di Zappa, vale dire “Peaches en Regalia”, interpretato ancora una volta magnificamente dalla band. Ed a proposito dell’orchestra, data la valenza della stessa, credo valga la pena citarne tutti i componenti: Giancarlo Ciminelli e Sergio Vitale alle trombe, Massimo Pirone trombone, Roberto Pecorelli tuba, Sandro Satta sax alto, Torquato Sdrucia sax baritono, Steve Cantarano contrabbasso, Pietro Iodice batteria, Riccardo Fassi piano, tastiere, direzione e arrangiamenti oltre al già citato ospite Gabriele Mirabassi al clarinetto.

Gerlando Gatto

La redazione di A Proposito di Jazz ringrazia i fotografi Paolo Soriani e Adriano Bellucci rispettivamente per le immagini di Rita Marcotulli e Riccardo Fassi, Tankio Band.

In dirittura finale l’Orpheus 2018

Alle strette finali l’Orpheus Award 2018. Organizzato dal 2009 dall’Associazione Promozione Arte, l’Orpheus è un Premio della Critica dedicato alle produzioni fisarmonicistiche (compresi bandoneon, melodiche, armoniche, diatonici, etc.) italiane dell’anno. Attuale direttore artistico il sottoscritto (fino al 2012, Fabio Ciminiera).

Ma come si articola il premio? La parola spetta agli utenti, ai musicisti e ai critici che segnalano le produzioni dell’anno precedente. Il termine produzione indica il CD come base ma vengono accettate anche produzioni “digitali” o DVD da cui viene estratta la parte audio. I CD vengono raccolti in pagine protette online e queste rese accessibili ai critici che hanno deciso di votare.

Tre sono le categorie in cui vengono catalogate le varie produzioni (ammesso che abbia ancora un senso catalogare nel 2018):

Classica: in pratica il focus andrà sull’aspetto compositivo/interpretativo;

Jazz: con particolare attenzione all’improvvisazione e alla creatività;

World: dove progettualità e provenienza autoctona diventano gli elementi chiave per le votazioni.

Fino a questo momento particolarmente affollata risulta la sezione jazz con la presenza di alcuni dei migliori specialisti della materia che hanno presentato produzioni di sicuro spessore per cui il compito dei votanti risulterà difficile, a ulteriore conferma del livello qualitativo raggiunto dal “premio”. D’altro canto occorre ancora una volta sottolineare come l’Orpheus rappresenti un unicum sia per l’oggetto (un premio ai fisarmonicisti), sia per la qualità dei giurati. Questi sono critici/giornalisti/musicisti che hanno rubriche attive su riviste o web magazine. Ogni giurato ha la possibilità di votare con il seguente punteggio 1 stella scarso, 2 stelle sufficiente, 3 stelle buono, 4 stelle ottimo, 5 stelle eccellente. La raccolta dei voti che avviene generalmente nella prima parte dell’anno porta ad una fase preliminare che propone le NOMINATION (5 nomination per categoria a meno di ex-aequo) e in una successiva che assegna gli ORPHEUS. I voti dei nominati sono resi pubblici.

Gli artisti debbono essere leader o co-leader delle produzioni; nei casi dubbi rilasciano una dichiarazione firmata in cui si assumono la responsabilità delle loro dichiarazioni. A volte si verificano casi in cui CD riportino date di uscita diverse da quanto richiesto e anche in questo caso viene richiesta una dichiarazione scritta degli artisti che attestano la reale data del rilascio. E’ necessario inoltre che gli artisti abbiano la nazionalità italiana anche se con etichette straniere

I nostri libri

I nostri libri

Krin Gabbard – “Charles Mingus – L’uomo, la musica, il mito” – EDT pgg.330 €22,00

Accingersi alla lettura di un nuovo libro è avventura sempre entusiasmante…ci si immerge in un universo sconosciuto, disegnato dall’autore, e al termine di questo percorso puoi sentirti arricchito o deluso. Le aspettative sono di solito alte, gli esiti incerti. Di qui l’importanza delle primissime pagine che possono spingerti a proseguire con entusiasmo o, viceversa, a guardare con diffidenza ciò che segue.
Al riguardo devo precisare che quando mi accingo a leggere un volume che so di dover recensire, cerco di non perdere alcunché di ciò che l’autore vuol comunicare. Quindi attribuisco una certa importanza anche all’introduzione. Ed è proprio in questa primissima parte del volume che ho trovato una perfetta concordanza con il ‘sentire’ dell’autore Krin Gabbard, già docente di Letteratura comparata alla State University, a capo del dipartimento di Jazz Studies alla Columbia University e insegnante di tromba alla New York Jazz Academy. Gabbard definisce il gruppo che Mingus guidava nel ’75 come il ‘suo ultimo grande quintetto’ un gruppo che sapeva accelerare o rallentare in perfetta sincronia in un modo che nessun’altra formazione riusciva a fare. Insomma qualcosa di unico. Valutazione su cui concordo pienamente. In effetti quando mi si chiede qual è il concerto che più mi è rimasto impresso, io rispondo senza esitazioni quello del gruppo di Mingus che si esibì al Sistina di Roma il 17 marzo del 1975 e che annoverava Don Pullen al piano, Dannie Richmond alla batteria, Jack Walrath alla tromba e George Adams al sax tenore… insomma proprio la stessa formazione citata da Gabbard.
E proseguendo nella lettura del libro, un altro elemento che mi ha particolarmente colpito è la capacità dell’autore di farti entrare talmente dentro la materia trattata da invogliarti ad approfondirla ancora di più. Ecco quindi che leggendo questo “Charles Mingus” ho sentito il desiderio di riprendere in mano l’autobiografia del contrabbassista per meglio comprenderla alla luce delle osservazioni di Krin.
Al di là di queste preliminari osservazioni, tutto il libro è godibile dalla prima all’ultima riga, grazie anche ad una prosa fluida, scattante, priva di qualsiasi autocompiacimento letterario (ma in ciò un ruolo importante lo gioca la traduzione sempre puntuale di Francesco Martinelli).
Molto funzionale ed intelligente la quadripartizione del volume. Nella prima parte – “Un circo in una vasca da bagno” – si affronta la vita e la carriera artistica di Mingus illustrate con dovizia di particolari e con un andamento narrativo che non conosce pause. Il lettore è catturato dalle vicende umane e musicali di Mingus, da quanto i suoi problemi di salute fisica e mentale abbiano influito sugli alti e bassi della sua carriera e deve, perciò, seguirlo fino all’epilogo. Particolarmente toccanti le pagine in cui si parla, per l’appunto, della malattia che porterà l’artista ad una fine prematura.
Assolutamente originale ed innovativa la seconda parte – “Poeta, paroliere, autobiografo” – in cui le doti di Mingus quali per l’appunto l’essere ‘poeta, paroliere e autobiografo’ vengono inquadrate nel più generale contesto dei rapporti tra jazz e letteratura. Di qui alcune caratteristiche che rendono particolare la personalità di Mingus: così, a differenza di Baraka, Mingus non crede che le opere d’arte possano essere separate dal caos giornaliero della storia e della politica, tutt’altro! Non è quindi un caso che le parole scritte da Mingus per i suoi brani mettano in evidenza diversi aspetti della sua poetica: dall’amore perduto al paranormale… fino alla stupidità del razzismo foriero di tanta infelicità e alla altrettanto stupida resistenza dei bianchi ad accettare l’idea che l’umanità sia una sola. Secondo Gabbard il Mingus letterato verrà, comunque ricordato soprattutto per “Beneath the Underdog”, la sua autobiografia che l’autore mette a confronto con altre autobiografie di musicisti jazz sottolineandone gli aspetti di assoluta originalità specie laddove il contrabbassista mette a nudo la sua ricerca di una identità coerente, identità complessa che però non gli viene riconosciuta in una società da cui è visto semplicemente come “nero”.
Nella terza parte, “La musica della Third Stream e il resto della storia del jazz”, l’autore, nell’evidenziare i diversi aspetti che in qualche modo legano Mingus da un lato sia al bop sia al cool, dall’altro alla musica popolare del Sud America (con una spiccata predilezione per quella messicana) e al flamenco, fa rilevare un lato ancora poco lumeggiato della poetica mingusiana. Ci riferiamo alla sua monumentale composizione “Epitaph” eseguita nel 1989 al Lincoln Center, composizione che secondo Gabbard avvicina in modo inequivocabile Mingus a quella Third Stream teorizzata tra gli altri da Gunther Schuller.
Nella quarta parte, “Sul palco e fuori con Richmond, Dolphy e Knepper”, l’attenzione viene incentrata su questi tre musicisti che sono stati tra i collaboratori più fedeli e duraturi di Mingus nonostante i rapporti alle volte burrascosi specie con Jimmy Knepper.
Nell’ “Epilogo” si parla dei film che vedono la partecipazione di Mingus sia come autore della musica sia addirittura come comparsa non trascurando le pubblicità televisive che hanno a volte utilizzato musiche mingusiane a lumeggiare un altro aspetto della composita personalità dell’artista.
A completare il volume una ricca bibliografia e una ‘discografia scelta’ nonché un utilissimo indice analitico.
Insomma un libro da non perdere.

Ashley Kahn – “Kind of blue. New York, 1959. Storia e fortuna del capolavoro di Miles Davis” – Il Saggiatore – pgg 292 €28,00

I lettori di “A proposito di jazz” conoscono già Ashley Kahn in quanto è stato recensito il suo splendido volume “Il rumore dell’anima”. Lo scrittore si ripresenta al pubblico internazionale con questa nuova perla dedicata a “Kind of Blue” un album che a ben ragione viene considerato una pietra miliare nella storia musicale del ‘900. In effetti è praticamente impossibile che un amante del jazz non conservi nei suoi scaffali almeno una copia di questo capolavoro, magari una in LP e un’altra in CD. Ma, attenzione, il titolo non deve trarre in inganno: certo, la parte centrale del volume è imperniata sull’album in oggetto, ma c’è di più, molto di più. In effetti delle sedute di incisione che portarono alla nascita del capolavoro si comincia a parlare solo a pag. 112.
In precedenza, Ashley, con l’acume che gli è congeniale, si incarica di tracciare un quadro del musicista seguendone gli sviluppi stilistici e inquadrando il tutto nel contesto di una società statunitense che in quegli anni (siamo nella prima metà degli anni ’50) sta conoscendo profondi cambiamenti. E’ in questo periodo che nasce quel sound che caratterizzerà Miles nel corso di tutta la sua carriera, quel sound che troverà la sua massima esplicazione alla fine del decennio quando, nel 1959, darà vita al capolavoro in oggetto.
Come suo solito Kahn entra dentro le cose – se mi consentite l’espressione – nel senso che non si accontenta delle testimonianze raccolte a piene mani ma vuole vedere, constatare personalmente tutto ciò che riguarda l’oggetto della sua indagine. Di qui l’esame delle partiture originali, la visione di tutti i documenti che riguardano le sedute di incisione (anche se non strettamente inerenti al fatto musicale), l’ascolto attento, quasi maniacale dei nastri originali delle due sessioni che diedero alla luce Kind of Blue… insomma un esame a 360 gradi i cui risultati sono ora a disposizione di tutti.
Ed è davvero straordinario poter ascoltare l’album avendo a disposizione una sorta di guida all’ascolto che ti consente di penetrare nelle più recondite pieghe di una musica straordinaria. Così, attraverso le parole di Bill Evans, di John Coltrane e degli altri musicisti è come se noi stessi, con un balzo all’indietro di 59 anni, fossimo lì, in quello studio della Columbia, sulla trentesima strada di New York, a sentire le battute che si scambiarono i musicisti in quelle ore, i dubbi e le discussioni che segnarono la ricerca di una nuova strada che avrebbe portato al jazz modale… a partecipare, insomma, alla nascita di un capolavoro che, ovviamente, non veniva considerato tale da chi in quel momento lo stava creando ovvero Miles Davis, John Coltrane, Bill Evans, Cannonball Adderley, Jimmy Cobb, Paul Chambers e Wynton Kelly.

Amedeo Furfaro – “Agenda Jazz – Appunti di Jazz Appreciation” – CJC – pgg143 €8,00

Giornalista, critico musicale e musicista Amedeo Furfaro evidenzia una bella facilità di scrittura dando alle stampe una nutrita serie di volumi. L’ultimo arrivato è questo “Agenda Jazz” che prende spunto dalle vicende personali dell’autore che in tanti anni di attività pubblicistica, legata al jazz, ha avuto modo di approfondire molte situazioni legate a questo genere musicale. Di qui la ricchezza dei temi trattati nel libro così come brevemente elencati dallo stesso Furfaro nell’introduzione: “Jarrett ed Hancock, Mozart e Puccini, il latin tinge e i colori del jazz, la filatelia e la fotografia, la grafica umoristica e gli autografi, l’improvvisazione e il futurismo”.
Gustoso il primo capitolo in cui l’autore cerca di fornire delle risposte a quanti si chiedono quanto possa valere oggi un autografo di un grande del jazz.
Particolarmente stimolante –e proprio per questo degno di ulteriori approfondimenti – il capitolo dedicato al rapporto tra jazz e cartoni animati, rapporto che vive un momento particolarmente difficile dato che, eccezion fatta per sporadici episodi, il jazz sembra rarefarsi sempre più nei commenti sonori.
Fa riflettere il capitolo dedicato alla “Filatelia” laddove l’autore pone giustamente in rilievo come mentre in tutte le altre parti del mondo anche l’emissione filatelica abbia dato il giusto spazio e la dovuta importanza alla musica jazz, nel nostro Paese non si registra alcuna apertura costante al grande jazz italiano nonostante alcune figure del jazz made in Italy siano oramai apprezzate se non osannate a livello internazionale.
Dopo brevi scritti dedicati a Hancock, Jarrett, Patitucci ecco forse quella che a nostro avviso, è la parte più curiosa e interessante dell’intero volume vale a dire una raccolta di vignette già uscite in forma sparsa su “Musica News” in cui si ironizza sul jazz, sui jazzisti dimostrando, così, come si possa fare satira bonaria su un universo così particolare come quello jazzistico.
Non mancano riflessioni sulla musica colta (Il rapporto tra Mozart e il jazz), sulla lirica (Puccini), sul tango, alcune interviste (Noa Anja Lechner e Riccardo Fassi sulla musica di Zappa) e una serie di scatti fotografici “strappati – sottolinea l’autore a concerti degli anni ’80 con mezzi di fortuna “.
Il volume è corredato da tre indici. dei gruppi musicali, dei brani, dei musicisti

Pino Ninfa – “Racconti in Jazz” – Postcart – pgg.163 €13,50

Ninfa è uno dei migliori fotografi che il panorama culturale italiano possa vantare, e non abbiamo usato la parola ‘culturale’ a caso ché l’arte di Pino non si estrinseca solo nel jazz andando ben al di là dei confini nazionali con straordinari reportage focalizzati sul sociale e realizzati in località molto lontane e non particolarmente tranquille, per usare un eufemismo. Al riguardo mi piace ricordare “Round about Township”, un viaggio fotografico in cui Ninfa racconta con toccante sensibilità e partecipazione le difficili condizioni di vita delle periferie urbane di Johannesburg e Città del Capo, luoghi storici dell’apartheid, ancora oggi simbolo di povertà e malessere sociale.
Ma veniamo al libro in oggetto: spesso si sente dire che la fotografia rappresenta una sorta di documentazione ‘oggettiva’. A mio avviso niente di più sbagliato; la fotografia risente, eccome, da chi la fa: è il fotografo che sceglie l’inquadratura, le condizioni di luce, il momento in cui azionare lo scatto… è il fotografo, insomma, che crea la fotografia. E per rendersene conto basta osservare con attenzione quanto pubblicato nel libro in oggetto.
Tutti noi potremmo fotografare in un club o in teatro musicisti come, tanto per fare qualche nome, Enrico Intra, Abdullah Ibrahim, i Funk Off, ma saremmo in grado di dare alla foto la stessa forza espressiva, la stessa carica comunicativa che Ninfa infonde nelle sue creazioni? Francamente ne dubito dal momento che l’essere artisti non è prerogativa di tutti.
Ché, lo ripeto, di vere e proprie creazioni artistiche si tratta: c’è chi si esprime con il pennello, chi con le note, chi, come fa Pino, con la macchina fotografica. E i risultati sono eccellenti, dal momento che le immagini di Ninfa non si lasciano racchiudere in una cornice spazio-temporale ma raccontano storie ed emozioni che si prolungano nel tempo. La cosa è ancora più vera quando, come nel caso in oggetto, alle foto si accompagna una breve introduzione, un breve scritto che serve a contestualizzare la foto. Ninfa sa perfettamente di non essere uno scrittore e proprio per questo, nel corso di un’intervista, spiega come “il mio uso della parola è molto vicino al parlare quotidiano, mentre attraverso la mia sensibilità visiva riesco a essere più personale nel trovare storie da raccontare agli altri e a me stesso”.
Molte di queste foto le ho viste nel corso di una mostra realizzata all’Auditorium Parco della Musica di Roma e ricordo perfettamente l’impressione di ammirato stupore che mi hanno trasmesso nonostante conosco e apprezzo Pino da molto tempo. Questo per dire che non c’è una foto che mi abbia impressionato più delle altre: è un racconto che va gustato attimo dopo attimo, immagine dopo immagine.

I NOSTRI CD. Tra Jazz e non Jazz

Roberta Brighi L.W. 6Tet – “Lonely Woman” – Caligola 2234

Solo pochi mesi fa, rispondendo ad alcune domande, una jazzista sottolineava come tutto sommato fossero ancora poche le musiciste che si dedicavano al basso. Ebbene nel giro di poco tempo le cose stano cambiando tanto è vero che in questa rubrica sono presenti ben due bassiste: Roberta Brighi, per l’appunto, al basso elettrico e Rosa Brunello di cui ci occupiamo nella successiva recensione. Ma soffermiamoci sulla Brighi. Roberta ha solo 24 anni e ha appena completato gli studi al Conservatorio di Como sotto la guida di Marco Micheli. Evidentemente affascinata dalle teorie armolodiche di Ornette Coleman, presenta un repertorio basato totalmente su quattro album del primo quartetto di Ornette con Don Cherry registrati tra il 1959 e il 1961. Per questa difficile impresa ha chiamato accanto a sé Gianluca Zanello al sax alto, Natan Sinigaglia al sax tenore, Lorenzo Biardone al piano, Andrea Bruzzone alla batteria e Giorgia Sallustio alla voce che i lettori di “A proposito di jazz” forse ricorderanno protagonista di una lunga intervista concessaci durante “Udine&Jazz” 2017. A questo punto credo che sia già possibile farsi un’idea della musica contenuta nel CD: resta, comunque da definire se l’esecuzione sia o meno all’altezza dell’originale. Precisando che si tratta di un repertorio di complessa decifrazione, bisogna comunque dire che il gruppo se la cava assai bene soprattutto per merito della sezione ritmica che riesce a rileggere in maniera intelligente le note di Coleman, con la Brighi sempre presente seppure mai invadente (eccellente l’incipit di “Ramblin”) e il batterista Bruzzone preciso, originale a dialogare magnificamente con gli altri compagni d’avventura tra i quali si segnala il pianista Lorenzo Biardone soprattutto per lo splendido assolo di “Congeniality”. Per quanto concerne i singoli brani, sempre affascinante la “title-track”.

Rosa Brunello Y Los Fermentos – “Volverse” – Cam Jazz 79252

La contrabbassista Rosa Brunello giunge al suo terzo CD da leader (il secondo per la Cam Jazz) alla testa di un quartetto con Luca Colussi alla batteria, Alessandro Presti alla tromba e Filippo Vignato al trombone ed effetti elettronici. L’album, registrato durante un concerto alla Casa della Musica di Trieste il 20 febbraio 2017, è godibile e trova la sua principale ragion d’essere nell’ottimo equilibrio raggiunto tra pagina scritta e improvvisazione e nelle diverse strutturazioni dell’organico che conferiscono al tutto una bella varietà timbrica. Ovviamente il merito maggiore di tutto ciò è della Brunello che, oltre ad aver composto quattro sui sei brani in scaletta, sa guidare con mano sicura il gruppo, oltre che farsi valere come strumentista. Eccola, quindi, in funzione meramente di accompagnamento cesellare poche ma “giuste” note, duettando con la batteria o con i fiati; eccola in veste solistica far cantare il proprio strumento; eccola in veste di leader disegnare le varie atmosfere, connettere il tutto sia concedendo ad ognuno il giusto spazio sia richiamando i quattro ad unisoni di rilevante intensità. In tali contesti spiccano, come si accennava, le qualità individuali di Presti trombettista di rara solidità e di Filippo Vignato, rivelazione degli ultimissimi tempi a costituire una front-line molto efficace con interventi solistici di largo respiro, ambedue in grado di perfettamente dialogare con la batteria di Luca Colussi, che oramai da tempo si è affermato come uno dei più innovativi drummer della sua generazione. I brani sono tutti ben costruiti con una prevalenza, assolutamente soggettiva, per “Christmas Tree” caratterizzato da una illuminante introduzione di Luca Colussi che è anche l’autore del brano.

Danish String Quartet – “Last Leaf” – ECM 2550

Non è facile ascoltare musica del genere sia per la qualità intrinseca della stessa sia per l’assoluto livello dell’esecuzione. In effetti il “Danish String Quartet” è, nel suo genere, uno dei numeri uno a livello mondiale. Dopo aver inciso sempre per la ECM un album pubblicato nel 2016 e dedicato a Thomas Ades, Per Norgard e Hans Abrahamsen, il quartetto torna in pista con questo “Last Leaf” che conferma quanto di buono il gruppo aveva già evidenziato. Il quartetto d’archi, cui in alcuni brani si aggiungono un pianoforte e un harmonium, affronta questa volta un repertorio basato sulla musica folcloristica dei Paesi del Nord Europa. In particolare, come spiegano i quattro musicisti, l’album trae ispirazione da un canto natalizio danese “Now Found Is The Fairest Of Roses” pubblicato nel 1732 dal teologo e poeta danese H. A. Borson. Di qui tutta una serie di riletture, reinterpretazioni di brani che fanno parte della tradizione di quei fantastici luoghi e che, sempre secondo le note che accompagnano l’album, avevano una funzione sociale. Il “Danish String Quartet” è andato a ripescare questi tesori e ce li propone in una veste smagliante, a tratti affascinante, ammaliante senza alcunché tradire dell’originario spirito. E rendere attuali pezzi non classici che hanno alcuni secoli di storia è impresa tutt’altro che semplice. Si ascolti, ad esempio con quanta grazie e maestria è presentata “Dromte mig en drom”, una ballata danese del ‘300, mentre per il suo andamento ritmico si fa particolarmente apprezzare “Shine you no more” scritto da uno dei componenti il gruppo, il violinista Sorensen. Ma ogni singolo pezzo è da ascoltare con la massima attenzione date le molte sorprese che riserva e che si possono scoprire man mano dopo ripetuti ascolti. Il fatto è che, come si accennava in apertura, il “Danish String Quartet” è uno dei migliori ensemble da camera oggi in circolazione: l’empatia tra i quattro è semplicemente stupefacente, serrato lo scambio tra i musicisti, sempre ben calibrate le armonizzazioni, perfetto il controllo ritmico così come il controllo della dinamica. Non a caso nei “pieni” si ha quasi la sensazione di ascoltare un’intera orchestra d’archi e non quattro soli artisti. Insomma un disco imperdibile per chi ama la buona musica al di là delle etichette…ché come avrete già capito in questa circostanza non è proprio il caso di parlare di jazz.

De Mattia, Pacorig, Maier, Giust – “Desidero vedere, sento” – Setola di maiale

De Mattia Suono madre – “Ethnoshock!” – Caligola

Ogni volta che ascoltiamo Massima De Mattia ci chiediamo da quale recondito anfratto della sua anima sgorghi questa musica al tempo stesso così coraggiosa, vitale e assolutamente coerente pur nella sua assoluta estemporaneità. In effetti, come lo stesso flautista ama spesso ripetere, la sua non è tanto ‘musica improvvisata’ quanto ‘creazione istantanea’ ovvero musica composta sul momento e fortemente influenzata da tutto ciò che sta attorno: quindi rumori del traffico, suono di campane, atteggiamento del pubblico e via di questo passo. Se ne volete una prova ascoltate con attenzione il secondo album, “Ethnoshock!”, registrato dal vivo durante ‘Udin&Jazz’ del 2017 che non caso si intitolava per l’appunto “Ethnoshock!”. Già in sede di recensione del Festival avevamo sottolineato come questa performance fosse stata una delle migliori, se non la migliore in assoluto, performance della manifestazione. De Mattia, ben sostenuto da Luigi Vitale vibrafono, balafon ed effetti elettronici, Giorgio Pacorig al Fender Rhodes e Zlatko Kaucic alla batteria e percussioni sfodera una sicurezza ed una visione d’assieme assolutamente straordinarie; il quartetto si muove praticamente ad occhi chiusi senza un attimo di stanca di indecisione. Insomma non possiamo che ribadire quanto già scritto a proposito del Festival di Udine a cui rimandiamo i lettori che volessero ulteriormente approfondire.
Un altro quartetto è il protagonista anche del primo album, “Desidero vedere, sento”. Questa volta De Mattia suona con Giorgio Pacorig al piano, Giovanni Maier al contrabbasso e Stefano Giust alla batteria in una performance registrata dal vivo all’ Angelica – Centro di Ricerca Musicale (art director: Massimo Simonini) di Bologna l’11 ottobre del 2016. Ancora una volta la dimensione live enfatizza le doti non solo di De Mattia ma anche dei suoi compagni di viaggio a costituire un combo di straordinari improvvisatori. Forse non ci sarebbe bisogno di sottolinearlo, ma i quattro si muovono nell’ambito di una dimensione libera, scevra di qualsivoglia condizionamento ma proprio per questo assai pericolosa. Il rischio di cadere nel manierismo, nel deja-vu, nello scontato è dietro l’angolo, può palesarsi in ogni momento: basta un calo di tensione, un input non recepito nel giusto verso e la frittata è fatta, non si torna indietro. Ebbene nulla di tutto ciò si percepisce ascoltando l’album: viceversa vengono in primo piano la passione, la dedizione, la spontaneità, l’onestà intellettuale di questi quattro artisti che non a caso sono oramai considerati tra i migliori improvvisatori non solo a livello nazionale. Di qui una musica certo di non facile ascolto ma sempre innervata da un perfetto controllo della dinamica (ben resa dalla registrazione) e da una sorta di lirismo che non sfugge ad un orecchio allenato anche quando non si appalesa immediatamente ma scorre come sotto traccia.

Kit Downes – “Obsidian” – ECM 2559

Ancora un disco insolito nel catalogo di Manfred Eicher. Protagonista il pianista inglese Kit Downes il quale, dopo aver imparato a suonare l’organo nella cattedrale di Norwich, si è fatto conoscere dal pubblico del jazz sia per le esibizioni del suo abituale trio sia per le numerose collaborazioni con artisti di grosso calibro soprattutto nel campo dell’avanguardia. Per questo debutto in casa ECM come leader – aveva già inciso per l’etichetta tedesca accanto a Thomas Strønen nell’album “Time Is A Blind Guide” del 2014 – si presenta nella veste di organista alle prese con tre diverse tastiere appartenenti agli antichi organi a canne di altrettante chiese: St. John di Snape, nella contea di Suffolk, St. Edmund di Bromeswell ancora nel Suffolk e Union Chapel a Londra. Il repertorio, affrontato in solitudine (eccezion fatta per la presenza del sassofonista Tom Challenger in “Modern Gods”) si basa per otto decimi su composizioni originali dello stesso Downes cui si aggiungono il brano conclusivo scritto a quattro mani con il padre Paul e la tradizionale ballad scozzese “Black Is The Color”. Risultato? Ovviamente anche in questo caso parlare di jazz è inopportuno; parlare di buona musica invece è del tutto pertinente. In effetti Downes, avendo scelto tre strumenti dalle diverse caratteristiche – uno grande (quello londinese, del 1877), uno medio e uno piccolo (in origine un harmonium, quindi senza pedale) – ha modo di estrinsecare appieno le sue potenzialità come strumentista e come fervido compositore-improvvisatore. Le atmosfere disegnate sono prevalentemente pensose, plumbee coinvolgenti nella loro bellezza con Downes, gran sacerdote delle dinamiche, pronto a evidenziare ogni pur minima possibilità espressiva dello strumento tanto da far addirittura ascoltare in “The Bone Gambler” i rumori meccanici dello strumento grazie alla posizione ravvicinata dei microfoni. E per avere un’idea della grande varietà contenuta nell’album basta ascoltare in rapida sequenza il primo e l’ultimo brano: all’ampia regalità di “Kings” registrato a Londra con l’organo grande si contrappone “The Gift” registrato con il piccolo organo della St. Edmund Church, sicuramente il brano più solare dell’intero album.

Michael Mantler – “Comment C’est” – ECM 2537

Avete presente il concetto di musica ‘consolatoria’? Bene, con questo album siamo nel territorio completamente opposto, vale a dire una musica che non solo nulla ha di consolatorio ma anzi si prefigge di illustrare «l’ambiente omnipervadente di odio, avidità e corruzione», facendoci riflettere su alcuni dei mali che affliggono la società odierna, come intolleranza, guerra, commercio, follia… termini, che guarda caso, sono anche i titoli di alcuni dei dieci brani contenuti nel CD. A comporli (musica e testi in francese) è il trombettista Michael Mantler che rende esplicito il suo intento affermando di non essere «più in grado di ignorare eventi mondiali travolgenti ed oltraggiosi». A coadiuvarlo in questa difficile impresa il Max Brand Ensemble diretto da Christoph Cech, il pianoforte di David Helbock e soprattutto la voce della vocalist francese Himiko Paganotti, alla quale è ovviamente affidato il compito più gravoso di rendere al meglio la musica di Mantler. E occorre dire che per il vostro cronista è stata una bella scoperta: figlia d’arte (il padre è il contrabbassista Bernard Paganotti, e la madre la pittrice giapponese Naoko Paganotti) Himiko se la cava egregiamente dando corpo e spessore alle non facili composizioni del leader. Le atmosfere sono gravi – e non potrebbe essere diversamente dati i temi trattati – e richiamano un sound cameristico che solo grazie agli interventi sempre ben calibrati e melodicamente pertinenti di Mantler ci riportano in territori non lontanissimi dal jazz. In quest’ambito il gioco delle dinamiche è essenziale con un alternarsi di vuoti e pieni che rende assai interessante l’ascolto anche perché il Max Brand Ensemble assolve la funzione di fondale su cui si stagliano la voce della Paganotti e gli strumenti di Helbock e di Mantler. A quest’ultimo, al di là della valenza musicale, bisogna riconoscere il coraggio di aver concepito e realizzato un’opera che tende alla riflessione indipendentemente da un qualsivoglia riscontro di pubblico e/o di critica.

Björn Meyer – “Provenance” – ECM 2566

Album di grande suggestione ed interesse questo inciso dal chitarrista Björn Meyer nell’agosto del 2016. In effetti se i dischi per solo contrabbasso non sono infrequenti, non altrettanto si può dire per la chitarra basso, strumento già poco utilizzato anche in contesti diversi dal solo. Non è quindi esagerato affermare che questo CD rappresenta il punto più luminoso di una carriera che ha visto Meyer impegnato su diversi fronti ma sempre alla ricerca, come egli stesso afferma, del proprio ‘suono acustico’ ad onta del fatto che il suo strumento è elettrico. Stabilitosi in Svizzera dalla natia Svezia, Meyer lavora con l’arpista e vocalist persiana Asita Hamidi, con lo svedese Johan Hedin specialista di nyckelharpa, con Anouar Brahem, e per ben dieci anni con il gruppo Ronin di Nik Bärtsch in veste di solista. Adesso, dopo anni di attenta preparazione, eccolo compiere il salto di qualità: prepara un repertorio di dodici brani da lui scritti (ad eccezione di “Garden Of Silence” della già citata Asita Hamidi) e si presenta al giudizio degli ascoltatori per illustrare i risultati di un lungo studio sul rapporto tra sperimentazione sonora e l’acustica dei luoghi. In effetti, anche se il suo strumento non è tecnicamente parlando acustico, tuttavia Meyer afferma esplicitamente che il modo in cui l’acustica del luogo impatta non solo sul suono ma anche sulla stessa maniera di improvvisare è stato per lui sempre motivo di sorpresa e di ispirazione per cui in questo progetto solitario oltre a lui e al suo strumento c’è un altro protagonista ed è il luogo in cui si è svolta l’incisione. Ed il luogo è il celebre Stello Molo RSI de Lugano. Ovviamente non abbiamo la controprova, non sappiamo cioè se la stessa musica registrata in un luogo diverso sarebbe risultata egualmente valida, comunque limitandoci a ciò che si ascolta nell’album, bisogna dire che la presa di suono è semplicemente perfetta: la musica di Meyer, raffinata, si basa molto su dettagli, financo minimi, che nell’album sono resi benissimo. Così la musica si dipana di brano in brano sempre caratterizzata da uno spiccato senso melodico che si evidenzia soprattutto in “Trails Crossing” e “Pendulum”.

Maciej Obara Quartet – “Unloved” – ECM 2573

Di sicuro spessore questo quartetto polacco-norvegese guidato dal sassofonista polacco Maciej Obara, al cui fianco troviamo il connazionale Dominik Wania al pianoforte e due norvegesi, Ole Morten Vågan al contrabbasso e Gard Nilssen alla batteria. Per questo suo album d’esordio in casa ECM Obara ha scritto ben sei dei sette brani eseguiti con l’aggiunta di “Unloved” del grande Krzysztof Komeda, autore preferito del regista Roman Polański. E proprio il regista, assieme al trombettista Tomasz Stańko, rappresenta la principale fonte di ispirazione per questo sassofonista che al suo attivo può vantare una collaborazione proprio con Stańko nell’ambito del “New Balladyna Quartet”. Venendo ai contenuti dell’album, ci sono diversi aspetti da evidenziare. Innanzitutto la felice vena compositiva del leader che, pur privilegiando la ricerca melodica, è comunque riuscito a comporre un quadro a tinte variegate in cui ballad, brani più sperimentali (“Sleepwalker”), ritmi veloci si susseguono senza che l’insieme perda un minimo di omogeneità e coerenza. Particolarmente convincenti, in questo quadro, “One for” splendida ballad impreziosita da un assolo di Wania, “Unloved” porto con rara delicatezza con ancora Wania in bella evidenza, ed “Echoes” in cui, dopo una introduzione di Wania, la scena è conquistata dal sassofonista che si lancia in un lungo e spericolato assolo con alle spalle uno strepitoso dialogo tra batteria e contrabbasso; a chiudere ancora un intervento di Wania. Da quanto già detto, risulta evidente il ruolo di primissimo piano del pianista Dominik Wania sempre sorretto da un’eccellente sezione ritmica elegante, precisa, mai invadente, capace di creare un ricco tappeto musicale su cui innestare gli assolo di pianoforte e sassofono. Ed è proprio il sassofonista Maciej Obara il principale artefice della riuscita dell’album. Obara ha un suono caldo, avvolgente con una punta di malinconia che richiama il jazz nordico, un fraseggio essenziale scevro da qualsivoglia esibizionismo e una spiccata propensione ad ascoltare i compagni di viaggio dando loro adeguato spazio per esprimersi compiutamente. Insomma un bel quartetto di cui sentiremo ancora parlare.

Luca Zennaro – “Javaskara” – Caligola 2237

Album interessante questo inciso dal quartetto guidato dal chitarrista Luca Zennaro e completato da Nicola Caminiti – alto sax, Nicolò Masetto – double bass e Marco Soldà – batteria cui si aggiunge in due brani il bolognese Federico Pierantoni al trombone. In repertorio sette brani scritti tutti da Luca Zennaro eccezion fatta per “Giochi di luce” dovuto alla penna di Marco Tamburini. Il progetto nasce nell’estate del 2016 presso i corsi di alto perfezionamento musicale di Siena Jazz e vede impegnati musicisti giovani, talentuosi e promettenti. In effetti, Luca Zennaro, di Chioggia, ha da poco compiuto 21 anni e sta ancora frequentando il Dipartimento Jazz del Conservatorio di Rovigo, dove ha avuto modo di farsi apprezzare nel suo ultimo anno di insegnamento da Marco Tamburini. Questo è quindi il suo primo album da leader ed anche se si nota qualche ingenuità, qualche momento di stanca, nel complesso questa prova d’esordio è più che positiva tanto da poter affermare, senza tema di smentita, che di questi jazzisti sentiremo ancora parlare. Il gruppo funziona bene e riesce a catturare l’attenzione dell’ascoltatore. Ciò per merito sia della bravura dei singoli, sia degli arrangiamenti in grado di far emergere le potenzialità dei singoli, sia della felice vena compositiva del leader. Così i vari pezzi sfuggono a qualsivoglia sensazione di ripetitività con qualche punta di eccellenza come, ad esempio, in “Ritorno a Baker Street” brano che apre l’album e che viene ripreso in chiusura. Un’ultima notazione concernente il titolo dell’album che ha incuriosito anche il vostro cronista; ebbene il termine “Javaskara” nulla ha a che vedere con una qualche lingua dell’Europa orientale trattandosi, invece, di una versione di ‘giavascara’, parola che nel dialetto dei nonni polesani di Luca significa scapigliato.

L’Indo Jazz nella visione di Giuliana Soscia

All’Auditorium Parco della Musica di Roma, ancora una superlativa dimostrazione di quali straordinari traguardi abbia raggiunto nel nostro Paese il jazz al femminile: ci stiamo riferendo al “GIULIANA SOSCIA INDO JAZZ PROJECT” eseguito nella Capitale il 19 marzo scorso.

Già in sede di presentazione avevamo sottolineato la difficoltà prima di immaginare e poi di comporre una musica in cui siano presenti elementi tratti dalla tradizione indiana classica e dal jazz eseguiti da un gruppo di musicisti provenienti da questi due mondi musicali. Allo stesso tempo avevamo però detto che se ad occuparsene era un’artista di grandi qualità compositive e interpretative come Giuliana Soscia allora tutto diventava possibile. E avevamo ragione ché il concerto del 19 è stato un successone salutato dal pubblico con grandi e convinti applausi.

Per i lettori di “A proposito di jazz”, Giuliana Soscia è nome familiare dal momento che tante volte è stata oggetto delle nostre recensioni in relazione a concerti e produzioni discografiche. Ciò non toglie che sia comunque il caso di ribadire come la Soscia sia una delle musiciste più preparate e titolate che affollano il nostro universo jazzistico. Nata a Latina, pianista, fisarmonicista, compositrice/arrangiatrice e direttrice d’orchestra jazz, nel 1988 si diploma in pianoforte con il massimo dei voti presso il Conservatorio di musica S. Cecilia di Roma.  Si perfeziona con il M° S. Cafaro allievo di Petrassi e la Prof.ssa A.M. Pernafelli in interpretazione barocca. È maestro pianista accompagnatore nella classe del tenore M° Gabriele De Julis. Vince numerosi concorsi pianistici e intraprende subito un’intensa attività concertistica. Contemporaneamente comincia a studiare fisarmonica jazz e successivamente composizione e arrangiamento per orchestra jazz, conseguendo il Diploma Accademico di II Livello in Composizione Jazz con il massimo dei voti e la lode. Proprio come fisarmonicista e compositrice jazz ottiene probanti risultati affermandosi non solo in Italia ma in tutto il Vecchio Continente. Così nel 2001 vince il trofeo “Sonerfisa” Premio Internazionale città di Castelfidardo come migliore fisarmonicista italiana e nel 2007 il Premio alla carriera.

Nel 2006 fonda il quartetto “Giuliana Soscia Tango Quartet” che dall’anno successivo si avvale anche di Pino Jodice (che diventerà suo marito). Con questa formazione svolge un’intensa attività concertistica presso prestigiosi festivals e teatri in Italia e all’Estero tra cui il San Carlo di Napoli, il Teatro dell’Opera di Ankara, il Brasile, Lima, Addis Abeba… Impegnata con il “Giuliana Soscia Trio” nella divulgazione della composizione jazz al femminile e soprattutto del ruolo della Donna nel jazz, si esibisce in un prestigioso Tour in India in occasione della Festa della Donna 2016.

L’esperienza indiana si ripete pochi anni dopo: è il febbraio di quest’anno quando l’artista è chiamata ad un altro tour promosso dall’ Ambasciata d’Italia in India, dal Consolato Generale d’Italia di Mumbai e di Calcutta, dagli Istituti Italiani di Cultura di New Delhi e Mumbai ad aprire le Celebrazioni dei 70 anni di Relazioni Diplomatiche tra Italia e India. In tutte queste località la Soscia presenta il suo “Indo Jazz Project” che, come già detto, approda finalmente all’Auditorium romano; accanto a Giuliana – composizione, direzione e pianoforte –  ci sono Mario Marzi importante sassofonista di area classica, Paolo Innarella flauto, bansuri e sax soprano, Rohan Dasgupta sitar, Marco de Tilla contrabbasso e Sanjay Kansa Banik tabla.

Ed è davvero stupefacente ascoltare come la Soscia sia riuscita a comporre un repertorio assolutamente omogeneo in cui il sound degli strumenti tipici del jazz e più in generale della musica occidentale si fondono con alcuni strumenti tipici dell’India. Così, nei vari brani, è possibile enucleare parti scritte e arrangiate in chiave jazzistica che, nella parte centrale, lasciano campo libero alle improvvisazioni dei vari strumenti ognuno con il proprio linguaggio pur rimanendo coerenti con la struttura data. Così sitar e tabla improvvisano con i raga intrecciandosi con l’accompagnamento del contrabbasso e del piano. E bisogna dare atto alla Soscia di aver saputo ‘scrivere’ in maniera tale da lasciare il dovuto spazio ai singoli improvvisatori senza tuttavia trascurare la forza e la compattezza dell’insieme. Il tutto impreziosito da alcuni assolo al pianoforte sempre centrati, senza mai eccedere, senza la pur minima voglia di stupire l’ascoltatore con espedienti in un contesto del genere assai facili da trovare… insomma con quella grande onestà intellettuale che nel corso degli anni abbiamo imparato ad apprezzare nell’artista di Latina.

Il concerto si apre con “Samsara” dedicato al ciclo della vita e in particolare – spiega la stessa Soscia “alla mia rinascita, quando ho deciso di mettere un po’ da parte la fisarmonica a causa di un problema di salute e di riprendere a suonare il pianoforte a pieno ritmo”. L’andamento musicale del brano è molto ciclico e ciclico è l’alternarsi delle parti improvvisate di flauto, pianoforte, sax e sitar.

A seguire “Indian Blues” una forma blues in 7/4 con una melodia molto semplice e solare che ricorda i colori dell’India; il pezzo si avvale di una lunga introduzione con parti scritte in uno stile classico contemporaneo e una improvvisazione di solo piano.

Particolarmente gustoso il terzo brano, “Arabeque” dedicato al mondo arabo, a sottolineare questa influenza araba nella cultura indiana. Di grande impatto l’introduzione stile free jazz con percussioni varie e il contrabbasso ‘percosso’ con l’archetto sugli armonici.

A rievocare la maestosità del fiume Gange l’omonimo brano mentre “Alpha Indi” la stella più luminosa del cielo indiano, è un brano dedicato espressamente dalla Soscia a quelle persone che per generosità e bontà d’animo, brillano come una stella nell’universo.

A chiudere “Bloodshed” una denuncia per le stragi, le miserie umane, un brano per esorcizzare il male nella speranza di un mondo migliore.

Gerlando Gatto

Latin Bossa Experience all’Elegance, il jazz dal sapore latino

Un gruppo di studio della musica latino americana nato tra le mura dell’iMusic School Rome il cui repertorio abbraccia brani noti del genere, scritti dal grande Antonio Carlos Jobim spingendosi alla ricerca di pezzi di musica meno frequentati fino ad esplorare quelle song scritte da grandi jazzisti quali Joe Henderson ed Horace Silver, in puro stile latin-jazz. La direzione e gli arrangiamenti sono di Angelo Schiavi. Dalla mezzanotte, festeggiamenti per l’International Jazz Day.
Sul palco Stefano Novello (flauto), Vittorio Gervasi (sax), Enrico Guarino (sax), Dario Filippi (trombone), Francesco Pandolfi (piano), Massimo Santacesaria (basso) e Fiorenzo Pompei (batteria), Stefania Patanè (voce), Fernando Brusco (tromba) e Attilio Costa (chitarra).

domenica 29 aprile
Ore 21.30
Elegance Cafè Jazz Club
Via Francesco Carletti, 5 – Roma
Euro 20 (concerto e prima consumazione)
Infoline + 390657284458